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Un profilo
del Novecento
La libertà
e il male
Il Novecento ha guardato da più lati nel buio
profondo dell’individuo; ha messo in discussione
la razionalità come scienza positiva riesaminando
l’Illuminismo; ha affrontato la questione del male
come fenomeno culturale o legato alle istituzioni
sociali totalizzanti e alla bio-politica; ha guardato
al suo esito storico attraverso la critica delle
utopie. Nel Novecento, nel cuore dell’Europa
civilizzatrice si è prodotto il più grande «buco
nero» della storia, quella manifestazione radicale
di male che chiamiamo da qualche anno Shoah.
E non ci si è fermati lì. Il problema del male
non è solo un problema speculativo. Esso esige
la convergenza tra pensiero, azione (quale
esercizio della responsabilità morale e politica)
e trasformazione spirituale del sentimento
per l’altro che ho di fronte. Qui l’esercizio
della coscienza, cioè di una vigilanza critica
volta alla costruzione di valori condivisi centrati
sul primato della dignità della persona,
è prioritario in ogni discorso sul potere.
Barbara Spinelli affronta la questione attraverso
le deformazioni del nostro linguaggio:
il linguaggio come spia di un’etica, di una politica
e di una teologia insufficienti.
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In apertura: F. FERRAZZI, Orizia agli specchi, 1925, Collezione privata.
Nella pagina a fianco: G. DE LA TOUR, Giobbe deriso dalla moglie (part.), 1625-1650, Musée départemental d'art ancien et contemporain, Epinal.
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uardando il dipinto Orizia, di Ferruccio Ferrazzi, che è stato proposto
come Leitmotiv del nostro ciclo di
conferenze* mi sono chiesta: cosa
vede il Male, se come Narciso o come la fanciulla del quadro si china,
e sullo specchio o su un lago vede se
stesso? Capisce quello che è? Vede se stesso come
Male, o vede una figura contraffatta, di cui si compiace come fosse un bene o una bellezza? Ne è attratto? Ne ha orrore? Ha una buona vista, o come
dice Gombrowicz a proposito del Male dantesco non
è capace di far bene il male, essendo l’Inferno il luogo
dove tutto è abissalmente abborracciato, dove ogni
azione diabolica è per definizione mal-fatta?
Nella letteratura ricorre spesso, l’invenzione del
Male e del suo doppio rispecchiato. Abbiamo Dorian
Gray, che inorridito nasconde il sé stesso che è diventato, ritratto sul dipinto nascosto in un ripostiglio: in
questo caso il Male smuove le acque su cui si china,
per non vedere. Oscura lo specchio. Anche la fanciulla ritratta da Ferrazzi ha qualcosa di inquietante:
ci guarda quasi ci convocasse a una complicità, il sorriso appena accennato: ma nello specchio, a me pare,
il volto è deforme, gli occhi spaventati, non vedo più
alcun sorriso. In altre parole: è come se il male esistesse nell’uomo sotto forma di suo doppio, sullo specchio o sul dipinto.
La letteratura è prodiga di doppi maligni dell’uomo: a cominciare dalle Private confessioni di un
peccatore giustificato, in James Hogg, fino a Lo Strano
caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di Robert L. Stevenson. Conoscere sé stessi è venire a contatto e ammettere l’esistenza di questo segreto compagno, di
questo Doppelgänger.
Ma qui è il male nel Novecento che vogliamo penetrare, e in particolare il male che ha incrudelito
nella prima metà del Novecento. Perché di lì veniamo,
e tutto quello che abbiamo fatto e scoperto dopo, è figlio di quei pochi decenni e di quel secolo che non
sono affatto brevi, perché i tempi dei grandi dolori
non sono mai misurabili con gli anni di pace, e per
chi ebbe a soffrirli accadde qualcosa di contraddittorio, di impensabile per chi non li ha traversati: il
tempo si contrasse con furia ma si dilatò, nell’anima,
fino a incorporare più vite, più sconvolgimenti – la
perdita della patria e della casa, della fede nei libri e
nelle amicizie, e la perdita di senso anche, come vedremo: «Il nostro mondo – così Stefan Zweig ne Il
mondo di ieri – regrediva moralmente di un millennio», e chi si trovò ad abitarlo «ha vissuto più storia di
qualunque dei suoi avi».
Direi che in quegli anni il male appare come testimonianza, se ancora ce n’è bisogno, della fine della
teodicea: di quella dottrina del diritto e della giustizia di Dio che ha come scopo, a fronte di un male che
sussiste indisturbato (e del libero arbitrio che lo compie), quello di giustificare Dio, la sua onnipotenza e
quindi la sua esistenza. Inutile cercare nella sofferenza
dell’ingiusto un qualche disegno divino, che attesti o
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non attesti il divino. Sarebbe come cercare un’utilità
del male, quando Emmanuel Lévinas ci ricorda che
esiste un male irrimediabilmente inutile: la sterminata
discussione sul silenzio di Dio (perché tacque, lui che
è onnipotenza e bontà?) fantastica un Dio antropomorfico – così Lévinas –, continuamente chiamato ad
assumersi la responsabilità di scelte che hanno radici
nell’uomo e nel suo libero arbitrio.
Quel che viene immaginato è un Dio non incarnato ma a misura d’uomo, succedaneo dell’uomo e
della sua libertà: un nostro doppio insomma, anche
qui. Un Dio cui si vuol strappare il mistero, che vorremmo sempre di nuovo crocifiggere perché non solo
prenda su di sé i peccati (perché non trovi mai fine il
rito del capro espiatorio) ma – in prima linea – li occulti alla nostra vista.
Nel volumetto di G. Zagrebelsky su La leggenda
del Grande Inquisitore di Dostoevskij, il teologo Piero
Stefani dice, giustamente, che l’apparizione del divino, la teofania, è concepibile solo a patto di «delegittimare la teodicea». La grandiosità di Giobbe, a me
pare, è qui. Ascoltato il racconto che Dio gli fa della
Creazione (questo conta per JHWH, non una qualche auto-giustificazione), Giobbe si ricrede e «si pente
sopra polvere e cenere», è scritto nella versione autorizzata della Bibbia. È vero per il male di oggi, e per
il culmine che ha toccato nel secolo scorso.
Giobbe resta il nostro fondamento, ma la traduzione ebraica del passo in questione chiarisce meglio
le cose: l’apparizione del divino, che lui ha sfidato nonostante i consigli di prudenza degli amici esperti in
teodicea, alla fine lo fa cadere in ginocchio: non pentito ma (dice il verbo ebraico) «consolato». La prodigiosa enumerazione dei mondi creati non spiega le
sofferenze subite, non le imbellisce. Non toglie valore
nemmeno al grido di collera, di abbandono, del giusto sofferente. Si limita a inserire Giobbe in un mondo
vasto, in gran parte ignoto; misterioso, sempre incuriosente, che l’uomo appena intravede e che pure è il
suo mondo, non angusto come la prigione di sofferenza che lo stringe.
Ogni parola ci tradisce
Resta che alla teodicea siamo ancora aggrappati,
altrimenti non continueremmo a parlare dello sterminio di razze o di categorie di persone (ebrei e zingari, omosessuali e malati mentali) come di olo causto: di sacrificio che si offre agli dei per ingraziarseli. Ogni parola che usiamo per dire il male ci
tradisce – forse dovrebbe cominciare da qui ogni
strategia di resistenza: dalla revisione dei vocabolari
– ed è quello che avviene quando usiamo il termine
olocausto: non siamo liberi come Giobbe, che reclama un giudizio divino per negare ogni qualità religiosa alle pene che soffre, ma siamo prigionieri di
dogmi che al male danno un’aura sacrale, e nel perpetratore dell’infamia vediamo una sorta di ministro
del culto, che ha la potestà spirituale di amministrare
sacramenti.
Tali sono i falsi amici di Giobbe, intrappolati an-
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ch’essi nella mistificazione sacralizzante, impauriti anch’essi dall’idea che possa esistere un male inutile. Per
questo – per non guardare in faccia l’ingiustificabile –
si sforzano di colpevolizzare il giusto sofferente in
nome di Dio. Non dimentichiamo mai che sono loro,
alla fine – gli amici Elifaz, Bildad, Zofar – a essere
condannati. Dio li chiama «stolti», e li colpisce con la
propria ira per non aver «detto di me cose rette come
il mio servo Giobbe». La figura del sacerdote – e del
sacrificio che egli officia (animali o uomini sono immolati per devozione o per accattivarsi la benevolenza
divina) è negata nel libro di Giobbe prima ancora
d’essere abolita nel Vangelo attraverso l’ultimo e definitivo Sacerdote.
In tutti i modi cerchiamo di giustificare la ferita inferta all’innocenza, d’inquadrare l’empietà, di contestualizzarla, di darle un senso. Non si parla mai tanto
di senso, non lo si brama mai tanto, come quando
semplicemente non è rintracciabile. Altro sarebbe importante fare: prendere atto dell’assenza, e innanzitutto riconoscere che il non-senso c’è, che esso ha una
sua consistenza, un suo tempo e un suo spazio ineliminabili. L’assurdo del male inutile esiste, e la Creazione è fatta con la materia del caos da cui fuoriesce,
con i suoi Leviatani, i suoi Behemot.
Ecco perché insisto sui vocabolari, da rivedere e
meditare. Diceva Albert Camus, pochi anni dopo l’ultima guerra, nel 1948: «Ho orrore di coloro le cui parole vanno più lontano degli atti». Procedono in tal
modo le argomentazioni che pretendono di razionalizzare il non-senso, e di escogitare spiegazioni univoche, non discordanti, in fondo consolatorie, che
intorbidano lo specchio: dunque la conoscenza e coscienza di sé. Spiegazioni e parole che, come nei versi
di Montale, risplendano come un croco perduto in
mezzo a un polveroso prato, che squadrino da ogni
lato l’animo nostro informe. Parole che baldanzose e
perentorie sono senza rapporto con gli atti cui vorrebbero riferirsi. Meglio, anche sul male, qualche
storta sillaba e secca come un ramo – è ancora Montale che cito – e limitarsi a cercare quel che vogliamo
non dire, quando ne parliamo.
Proviamo ad esaminarle dunque, le parole che
hanno tentato di individuare il nesso fra male e libertà. Proviamo a capire il peso che esse hanno ancor
oggi, sulla storia che si sta facendo. Abbiamo esaminato le parole della teodicea – naufragata molto prima
del Novecento, quando un terremoto sventrò Lisbona
nel 1755 e costrinse la filosofia europea (grazie a Voltaire, a Kant) a congedarsi dall’ottimistico mondo,
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sempre più perfettibile, di Leibniz. Ma altre parole o
espressioni verbali vorremmo qui convocare, che son
diventate i nostri punti fermi – Montaigne le chiamava «parole bastanti» – e che hanno però acquisito
l’automatismo passivo degli slogan, quando facciamo
memoria del male. Penso a locuzioni come «silenzio di
Dio» (è la teodicea cui ho già fatto accenno) o «Mai
più Auschwitz». A definizioni come «banalità del
male», o alle categorie molto scabrose del «male minore», o del «male assoluto».
Il poeta Robert Desnos diceva che bisogna «cuocere il linguaggio inizialmente crudo», rovesciandolo
e sconvolgendolo per penetrarne la verità celata (per
esempio, quando scrive in una poesia: «un giorno che
faceva notte», o «le stelle del Mezzogiorno splendevano», o «la pioggia ci disseccò»). Sono pietre miliari,
le locuzioni cui accennavo, ma bastanti non possono
esserlo se non le scandagliamo di continuo. Altrimenti
diventano mitologie statuarie, come la Gioconda al
Louvre: l’occhio ci scivola ormai sopra senza più penetrarne la bellezza, il turista si accalca davanti all’opera per dire: «Io c’ero, ci sono andato, dico che
l’ho visto».
Nulla ha visto, invece, e proprio questo è il rischio
che corrono le frasi che macchinalmente recitiamo:
sono sintagmi cristallizzati, modi di dire che si fissano:
ripetuti da chi parla e scrive con la forza dell’inerzia.
Anche il male, così difficile da guardare, ha i suoi sintagmi cristallizzati, i suoi dipinti troppo museali. Siamo turisti dell’orrore, da quando s’è accampato
davanti ai nostri occhi nel suo accumulo quantitativo
e nella sua novità qualitativa.
«Mai più Auschwitz»
Cominciamo con il syntagme figé che proclama:
«Mai più Auschwitz!». Viene declamato nelle commemorazioni che si susseguono sempre più uguali a sé
stesse, e col passare del tempo ha perso parecchio del
suo significato. Ricordo di averlo sentito pomposamente annunciare mentre era in corso il genocidio in
Ruanda, e prima ancora in Cambogia, e ascoltandolo
provai vergogna. Mai più è avverbio che intorbida lo
specchio – spegne la coscienza di sé proprio nel momento in cui presume di affermarla – ed è inappropriato, una volta che hai abbattuto un tabù civilizzatore (il tabù vieta l’incesto o l’omicidio perché l’incesto e l’omicidio sono sempre possibili per l’uomo,
ma alla possibilità non vien posto più freno se il tabù
cade).
Completamente diverso dovrebbe essere il linguaggio che rievoca il male. Farne memoria dovrebbe
cominciare non con roboanti buone intenzioni, ma
con una negazione che nasca dall’esame critico di sé:
«Lo sappiamo, che essendo stati capaci del massimo
orrore, della massima trasgressione, non ci è data la
possibilità di dire: mai più». È una risposta da Kindergarten, la nostra, precipitosa e accaldata come
quella d’un bambino che ha messo tutte le dita nella
marmellata o ha già guardato dal buco della serratura quel che non avrebbe dovuto vedere.
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Siccome però siamo adulti, il sapere ci appartiene:
quel che è stato commesso – il fatto che siamo stati capaci di aprirci quel varco – ha come conseguenza che
da ora in poi siamo consapevoli che il varco è aperto e
che potremo ripetere l’azione, ora e sempre. Non lottiamo più contro uno spettro interiore (il male come
tabù), ma contro una possibilità che ci abita, cui abbiamo permesso di materializzarsi, che è parte indelebile di noi. Abbiamo imparato a compierlo ricorrendo
a mezzi che ne assicurassero la massima efficacia.
Infliggere lo specifico male che ha fatto comparsa
nel Novecento – sistematico, scientificamente organizzato, capace di coinvolgere il lavoro congiunto di architetti-costruttori di Lager, di chimici chiamati a confezionare il gas più adatto a uccidere presto, di filosofi
e giuristi incaricati non di una teodicea, una giustizia di
Dio, ma di una satanodicea, una giustizia (se possiamo
così dire) del diabolico – mettere insieme tutto questo
sistema è come aver inventato la ruota, o appreso il pedalare. Superate le due tappe, non potrai mai più usare
una carriola che scivoli su ruote quadrate, e quanto alla
bicicletta non la disimparerai mai, fino a quando le
ossa reggono.
Bisognerebbe dunque dire – visto che l’uomo ha
questo che lo contraddistingue: la coscienza del proprio libero arbitrio: «Siccome abbiamo dato prova di
quel che possiamo quando siamo liberi, mai più disimpareremo Auschwitz». Quel che è stato una volta
fatto, sperimentato, potrà ogni minuto essere rifatto e
in qualche parte del mondo è in questo stesso attimo rifatto. L’avverbio mai, inteso come «in nessun altro
tempo», è da bandire perché menzognero. Sembra
ovvio. Non lo è.
Dire questo è a mio parere aver coscienza del secolo non breve ma feroce (12 anni di ferocia in Germania sono un tempo lunghissimo) e tentare un parlare
nuovo con lo spirito libero che ci ha fatto cadere, sì, ma
resta il solo che ci possa rialzare. Carl Clausewitz il suo
secolo l’aveva scrutato con l’acume di un chirurgo,
quando scrisse il trattato sulla guerra all’indomani delle
avventure militari di Napoleone. Mostrò una chiaroveggenza che i suoi contemporanei non ebbero – monarchi, politici, diplomatici, giornalisti che fossero –
quando pensarono di poter chiudere la parentesi napoleonica o affogando nella malinconia nostalgica di
Alfred de Musset, o decretando chiusa la storia delle
rivoluzioni grazie alla Santa Alleanza che immobilizzò
ogni sommovimento al Congresso di Vienna.
Ben altra la conclusione di Clausewitz, e il verdetto
che pronunciò sul feroce Ottocento è, ogni giorno
anche per noi, scoperta di verità. Ecco cosa disse: «Una
volta abbattute le barriere del possibile, che prima esistevano per così dire solo nell’inconscio, è assai difficile rialzarle. E ogni volta che entreranno in gioco
grandi interessi, l’ostilità reciproca finirà col trovare la
stessa soluzione che è stata trovata nei nostri giorni».
Anche il genocidio, emblema del Novecento, ha infranto barriere che è impossibile rialzare, e al momento
opportuno è lì come soluzione già collaudata. Anche
le future vette del male che toccheremo diventeranno
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un «già fatto», oltre che un déjà vu: un sempre possibile, di cui i posteri non potranno dire: «Mai più». È il
motivo per cui Auschwitz e la Kolyma non sono un
male assoluto, perché quest’ultimo ha come presupposto che qualsiasi altro male sia stato, sia, sarà, relativo.
Il sintagma del male assoluto è un’ipostasi, immobile
nella sua unicità; non è poi così lontano, filosoficamente, dall’idealizzazione. Auschwitz e la Kolyma sono
un male radicale ed eternamente plausibile, una sbalordente pulsione di morte che si è rivelata e che incombe su noi incessantemente, sotto forma di rimorso
e di mera possibilità tecnica.
La banalità del male
La «banalità del male» è l’altro sintagma che si è
cristallizzato, nei nostri tempi, fino a divenire esso
stesso banale. Lo coniò Hannah Arendt, nello studiare Eichmann e le giustificazioni che egli diede dei
propri crimini, durante il processo a Gerusalemme
iniziato nel 1961. Grazie al suo resoconto processuale,
abbiamo capito che non esiste solo la faccia palesemente demoniaca del male. Esiste anche la faccia burocratica, presunta irresponsabile, di chi si vede rotella di una macchina, di un ingranaggio (così si difese
Eichmann davanti ai giudici): ingranaggio e macchina
su cui il perpetratore non avrebbe controllo e di cui
non si sente colpevole («Le sue azioni erano mostruose – così la Arendt – ma chi le fece era pressoché
normale: né demoniaco, né mostruoso»).
La scrittrice fu criticata aspramente per quello che
aveva scritto (tra le voci più critiche, quella del grande
Gershom Sholem): l’idea d’un male banale lo rendeva
in fin dei conti innocuo, la responsabilità e la colpa si
scioglievano nella volgarizzazione.
Ma Hannah Arendt non intendeva affatto questo,
ricorrendo a un concetto volutamente scivoloso, ambiguamente scialbo, come banalità. Quel che voleva
dire, e che tornò a spiegare negli anni successivi agli
articoli scritti nel 1963 sul processo, è che la banalità
stessa è massima colpa, consistendo nella paura ordinaria, normale, che ciascuno ha di giudicare con indipendenza, e di valutare come colpa personale atti
compiuti con la convinzione che siano elementi di un
macchinario impersonale.
Le domande che affollano la mente di chi è assalito da questa paura le conosciamo. Chi sono io per
giudicare? Non sono la rotella, appunto, di un ingranaggio che mi sovrasta e mi ingloba: ingranaggio che
prende la forma del potere o delle norme dominanti
nel momento in cui ho agito? Ricordiamo come nasce
l’aggettivo banale: ban è il «proclama del signore feudale», e in origine banale significava «appartenente
al signore feudale», al potere supremo, per poi estendersi e divenire «comune agli abitanti del villaggio».
In altre parole, è banale chi è conformista, chi
s’adagia per comodità e ossequiosità al cosiddetto
«comune sentire», che poi è il comune sentire del potere dominante (sono i suoi valori supremi, sempre
non negoziabili). Così il cerchio si richiude e torniamo
al proclama del signore feudale e alla «paura di giu-
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Da sinistra a destra e dall’alto in basso: Fëdor Dostoevskij (ritratto di V. Perov, 1872), Hannah Arendt, Albert Camus, Michel Foucault.
dicare», che secondo la Arendt è costitutiva della banalità del male e del conformismo che la innerva.
Non il male è banale: banale è l’animo con cui viene
compiuto, e questo rende il misfatto ancora più criminoso e radicale.
Quel che rimane, per chi prende alla leggera il
concetto di banalità, è il potere che sovrasta l’individuo: che lo ingabbia dentro una cornice, legale o morale che sia. La cornice, il contesto, diventa punto di
riferimento obbligato di un’intera società, quando
l’arbitrio regna istituendo proprie leggi e norme.
Dal punto di vista dell’attore del misfatto, responsabile torna a essere il potere in sé, o il momento storico,
o il sistema legale che vige in quel dato momento: un
tutto, che esonera l’individualità inghiottendola nelle
spire meccaniche del dispositivo di morte. Un controsenso, sia dal punto di vista penale sia da quello
morale, perché abolisce il principio – meglio: il problema – della responsabilità personale.
All’origine della colpa c’è il non-pensiero (la Arendt
parla di thoughtlessness, assenza di pensiero) e al suo
centro c’è il rifiuto, accanito, di riconoscere una verità
che pure dovrebbe essere evidente: non è la macchina
ma il singolo uomo a scegliere di pensare o non pensare, di conformarsi passivamente all’idea dominante
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(al «signore del villaggio») o di non conformarvisi. Il
conformista non sa nulla del pensiero come passione:
per definizione la rotella non pensa. Gira e basta.
È qui che il concetto di banalità del male rischia di
farsi sintagma cristallizzato, di dire il contrario di quel
che vorrebbe intendere. Finisce col significare due
controverità solo in apparenza vestite di rimorso e
senso di colpa: se il comportamento banale è di tutto
il villaggio, questo significa che «c’è un Eichmann in
ciascuno di noi», oppure che «tutti siamo colpevoli».
È il modo per dichiarare che nessuno lo è: cosa non
vera, perché non siamo tutti colpevoli. Ma responsabili
sì, lo siamo tutti, di quel che è divenuto possibile fare,
e del conformismo con cui rischiamo di giudicarlo
ogni volta che torneranno a entrare in gioco grandi
interessi e che l’ «ostilità reciproca andrà cercando le
sue soluzioni».
Il male minore
C’è poi il cosiddetto «male minore». Quante volte
sentiamo dire, quante volte ciascuno di noi giunge alla
conclusione: meglio il male minore, visto che in questa
maniera evitiamo quello radicale, quello assoluto. È
una delle trappole più insidiose, perché apre la strada
all’accumulazione senza fine di mali minori, che ven-
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JOSÉ IGNACIO GONZÁLEZ FAUS
gono tollerati con la scusa che ciascuno di essi, e addirittura tutti assieme, sventeranno il male maggiore. Invece a forza di accumulare avviene un salto di qualità,
e tanti mali minori producono un male radicale, difficilissimo da correggere e ancor più da eliminare.
Classificare i mali e le colpe è attività millenaria, in
teologia e filosofia. Provò a graduarli anche il cristianesimo, nel IV secolo con Agostino, introducendo nella
valutazione il calcolo economico (Foucault parla di teologia economica). C’erano colpe più o meno nefaste, e
alcune erano talmente nefaste che in assenza di alternative la Chiesa tollerava mali minori. Nell’«economia
del male», sosteneva Agostino, meglio le prostitute che
l’adulterio; meglio uccidere l’aggressore prima che egli
uccida l’innocente. La guerra, se proporzionata e volta
al bene, divenne giusta: perfino quella che oggi è detta
preventiva. Quel che contava era il fine, e il fine era il
perfezionamento e la conversione dell’uomo.
Secolarizzandosi, tuttavia, il male minore non punta più alla perfezione-trasformazione, ma all’ottimizzazione dell’esistente – male compreso. Cessa d’essere
tappa d’un cammino accorto, e in politica si fonde col
principio della ragion di stato. Si fa consustanziale alla
democrazia e addirittura suo sinonimo. Anche questo
è descritto dalla Arendt, in un saggio scritto nel 1964
sulla «Responsabilità personale sotto la dittatura», con
ragionamenti che sono ripresi oggi da Eyal Weizman,
l’architetto che sul male minore ha scritto un saggio
prezioso, Il Male minore (Nottetempo, Roma 2009), basato sull’esame della politica sionista di conquista delle
terre e sull’architettura dell’occupazione nei territori
palestinesi conquistati e poi colonizzati a partire dalla
guerra del 1967.
Accade a ciascuno di optare per il male minore,
nella vita individuale e pubblica. È l’ora in cui si sente
il bisogno, tattico, di scongiurare il precipizio nel peggio. In politica spingono in questo senso la prudenza,
l’astuzia, quando prendono la forma della ragion di
stato. E spinge in tal senso anche la malafede. Se dici
che ogni tua azione è compiuta perché siamo sull’orlo
dell’abisso (quante volte abbiamo sentito questa frase,
negli ultimi tempi!) instauri un potere d’emergenza che
cancella l’agorà, il libero confronto fra idee e linee politiche diverse.
La teoria del male minore prende il potere, diviene
concetto guida: non ambivalente paradosso ma via
aurea, addirittura scopo, con danni collaterali che possono esser devastanti nel lungo periodo e pure nel
breve. A forza di mitigare l’iniquità agendo dal suo interno, sorgono insidie che la Arendt spiega bene:
«Lungi dal proteggerci dai mali maggiori, i mali minori in politica ci hanno invariabilmente condotti ai
primi».
La mente stessa muta, quando il male minore si cristallizza in norma. Chi l’adotta tende a scordarsi, dopo,
che in fin dei conti ha optato per un male. Nella memoria del politico l’opzione si trasfigura, trasformando
l’eccezione in regola: «Una misura meno brutale –
scrive Weizman sulla falsariga di Clausewitz – è anche
una misura facilmente naturalizzabile, accettabile, tol-
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I poveri,
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lerabile. Quando misure eccezionali vengono normalizzate, possono venire applicate più frequentemente». E applicandole con crescente frequenza, «qualsiasi senso
dell’orrore verso il male si perde», non solo nei politici
ma nell’insieme della nazione. Una successione di piccoli mali conduce alla produzione di un male grande
ottenuto cumulativamente, non fosse altro perché è impossibile calcolare sin da principio l’estensione futura
di tantissimi piccoli mali banali.
Almeno dare un nome
Infine, la domanda essenziale: quella che ci poniamo quando ci chiniamo sullo specchio o le acque
per vedere se del male abbiamo i tratti. Si preannuncia,
il male? Ha davvero una genealogia, come si potrebbe
credere se non si pensa quel che significa il male minore? Non è detto. Alcuni spiriti veggenti intuiscono,
addirittura vedono. Ma sono rari. Lo scrittore e poeta
tedesco Kurt Tucholsky ebbe l’impressione di scorgerlo
nettamente nel «gran chiasso», che sentiva crescere intorno a sé, e vide giusto. L’abitudine a gridare invece
di parlare lo spaventò, lo mise in allarme. Parlando di
Hitler nel 1931, prima che il nazismo prendesse il potere, Tucholsky disse che quel che lo spaventava non
era «l’uomo Hitler in quanto tale, che non esiste. È il
chiasso, che egli provoca».
Ma per i più il male radicale che minaccia di venire
resta nelle nebbie, e ancor più si sottrae alla vista
quando la mente si fissa sull’idea di male assoluto (cosa
c’è di più grave, dopo il male assoluto che abbiamo alle
spalle? Come lo classificheremo?). Il male radicale è
difficile da discernere, inoltre, perché non è soltanto
deducibile dalla dottrina del male minore, non è solo la
conseguenza di tante devianze affastellate, di tante
colpe che d’un tratto, ma logicamente, sfociano nell’orrore. C’è un elemento in più – quando si manifesta in
tutta la sua evidenza – che non era ponderabile, né era
davvero pensabile fino a quel preciso momento.
È giusto, per esempio, che la Chiesa faccia il mea
culpa per il suo radicale antigiudaismo. Ma c’è un non
so che di torbido, in questo scrutare le tracce anticipatrici della Shoah nelle lettere di Paolo, o nei pogrom medievali, o nei romanzi o nei taccuini di Dostoevskij.
Simili genealogie hanno qualcosa di fondamentalmente falso, e a ben vedere non servono a quel pensare e giudicare suggerito da Hannah Arendt, a quel
linguaggio capovolto – cotto – che Robert Desnos impiega per scovare la novità del male quando si disvela;
la barriera che d’un tratto cade per sempre e rende
possibile quel che finora era possibile solo nell’inconscio; il salto di qualità che cambia la natura dei mali
commessi fino a quel giorno. Il salto di qualità, il di più
che venne alla luce nel XX secolo, e che per forza è
destinato a ritornare, è senza precursori veri.
L’epifania del male è assurda e senza logica. Smentisce tutti i calcoli matematici, come la verità nella Lettera rubata di Edgar Allan Poe, semplice ma impossibile da scovare con la logica. Impossibile ragionare
sul male partendo da metodiche genealogie storiche o
culturali senza tentare, almeno, un’identificazione con
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IL REGNO -
AT T UA L I T À
2/2013
i modi non logici, non prevedibili, nemmeno necessariamente complicati, del male stesso. Con quella che è
la sua intelligenza, il suo ragionare.
Al pari del bene, esso ci visita di notte come un
ladro, e se ci trova impreparati, se ci trova lì a meditare quale potrebbe essere il male minore, davanti alle
mostruosità della bestia apocalittica – in particolare la
seconda grande bestia, la degenerazione della parola
in propaganda – alla fine ci vince. Ci vince proprio
quando ci accontentiamo del mondo com’è, perché apparentemente le cose non sono del tutto intranquille,
perché le nazioni commerciano tra loro e un altro syntagme figé ci ha detto che il commercio è dolce e si sostituisce alle armi. La belle époque era piena di promesse, anche se Thomas Mann la vedeva in preda alla nervosità. Non era liscia ma umanista, una prima mondializzazione era in pieno corso, e d’un colpo si sentì il
gran chiasso che Tucholsky avrebbe di nuovo udito nel
1931: fu lo sparo di pistola dello studente Gavrilo Princip a Sarajevo, nel 1914.
Il male ci sommerge completamente se cadiamo nel
crimine che Hermann Broch considerava il più gravido di conseguenze. Un delitto del quale i popoli di
lingua tedesca si macchiarono nei due decenni precedenti l’ascesa al potere di Hitler, un delitto cui Broch dà
il nome di crimine dell’indifferenza. Ancor più del peccato di omissione, il crimine di indifferenza non è perseguibile penalmente (nel primo caso, esiste almeno il
reato di omissione di soccorso). Non significa neppure,
secondo lo scrittore, che tutti i tedeschi o tutti gli austriaci fossero nazisti.
Significa che non si è stati svegli, quando si doveva
e poteva. Che si è guardato da un’altra parte. Significa
soprattutto – è la colpa parallela denunciata da Broch
– che si è vissuti nella Namenlosigkeit: nell’assenza di
nome, oltre che in quella di pensiero. Il protagonista
del romanzo Gli Innocenti, che ruota attorno al tema
dell’indifferenza, parla di «pericolosità del nome». Il
nome vero viene nascosto e stravolto, quando sulla soglia ci vengono incontro il male e la sofferenza. Il nome
vietato e bandito chiude la porta alla loro visione. Toglie soprattutto, ai sofferenti, l’autorità superiore cui
secondo Johann Baptist Metz essi hanno diritto. Hannah Arendt, abbiamo visto, mette in guardia contro la
paura di giudicare.
Non vedo altra via, per superare questa paura, che
cominciare fin da subito, fin da quando si intende magari con fugace fastidio il primo chiasso, a dare almeno
un nome, a quel che si vede e a quel che si ascolta.
Barbara Spinelli
* Questo testo costituisce la rielaborazione, a cura dell’autrice,
dell’intervento che Barbara Spinelli ha tenuto a Forlì (abbazia di
San Mercuriale) lo scorso 6 dicembre durante l’incontro «La libertà
e il male. Sul principio di responsabilità nella storia», insieme a Miguel Gotor e a Stefano Levi Della Torre. L’incontro si è svolto nell’ambito del ciclo «La coscienza e il potere. Profili del Novecento»,
promosso dalla Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì in collaborazione con Fondazione Il Mulino.