- Accademia Apuana della Pace

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HANNAH ARENDT
A cura di Diego Fusaro
Tratto dal sito: www.filosofico.net/arendt105.htm
VITA E OPERE
Hannah Arendt nasce nel 1906 a Hannover, in una famiglia benestante appartenente alla borghesia
ebraica, ma non avevano legami particolari con il movimento e con le idee sioniste. A Königsberg,
dove nel frattempo la famiglia si è trasferita, consegue nel 1924 l' “Abitur”, titolo di studio che
equivale all’italiano diploma di maturità. Conseguito l' “Abitur” decide di iscriversi all'Università di
Marburg, dove si stava facendo strada la tendenza più interessante di quegli anni, la fenomenologia
di Husserl. Arendt incontra un giovane docente destinato a diventare uno dei pensatori più
importanti del XX secolo: Martin Heidegger. Con il filosofo tedesco Hannah intratterrà un rapporto
personale intenso, che la coinvolgerà sotto diversi aspetti (anche sentimentali) per l'intero arco della
vita. Nel 1925 si reca a Friburgo per un semestre di studio, al fine di seguire le lezioni del fondatore
della filosofia fenomenologica Edmund Husserl. Quindi, seguendo le indicazioni di Heidegger, si
sposta all'Università di Heidelberg, dove sotto la guida di Karl Jaspers prepara e porta a termine nel
1929 la ricerca di dottorato “Der Liebensbegriff bei Augustin” (“Il concetto di amore in Agostino.
Saggio di interpretazione filosofica”). Nel 1929, trasferitasi a Berlino, ottenne una borsa di studio
per una ricerca sul romanticismo dedicata alla figura di Rahel Varnhagen (“Rahel Varnahagen.
Storia di un'ebrea”). Nello stesso anno sposa Günther Stern, un filosofo conosciuto anni prima a
Marburg. Dopo l'avvento al potere del nazionalsocialismo e l'inizio delle persecuzioni nei confronti
delle comunità ebraiche, Hannah abbandona la Germania nel 1933 attraversando il cosiddetto
"confine verde" delle foreste della Erz. Passando per Praga, Genova e Ginevra giunge a Parigi, dove
conosce e frequenta, tra gli altri, lo scrittore Walter Benjamin e il filosofo e storico della scienza
Alexander Koiré. Fino al 1951, anno in cui le verrà concessa la cittadinanza statunitense, rimane
priva di diritti politici. Nella capitale francese collabora presso istituzioni finalizzate alla
preparazione di giovani ad una vita come operai o agricoltori in Palestina (l'Agricolture et Artisan e
la Yugend- Aliyah) e diventa, per alcuni mesi, segretaria personale della baronessa Germaine de
Rothschild. Nel 1940 si sposa per la seconda volta, con Heinrich Blücher. Ma gli sviluppi storici del
secondo conflitto mondiale portano Hannah Arendt a doversi allontanare anche dal suolo francese:
internata nel campo di Gurs dal governo Vichy in quanto "straniera sospetta" e poi rilasciata, dopo
varie peripezie, riesce a salpare dal porto di Lisbona alla volta di New York, che raggiunge insieme
al coniuge nel maggio 1941. Il periodo americano inizia in maniera non certo facile: alle iniziali
difficoltà economiche si aggiunge l'impegno, faticoso quanto necessario, dell'apprendimento di una
nuova lingua. Nonostante tutto è proprio nel nuovo mondo che Hannah ha modo di creare nuove
amicizie e di scrivere opere importanti, che le permettono di acquisire autorevolezza e notorietà
come intellettuale e pensatrice politica. Nella sua intensa attività, Hannah Arendt è costantemente
supportata da una particolare famigliarità con la scrittura: possiede infatti il talento non comune di
unire, con fluidità, il pensiero alla penna. In modo più o meno marcato ma sempre indelebile, tale
capacità può essere vista come un segno distintivo, presente in tutti i suoi scritti. Le riflessioni
vengono proposte attraverso uno stile personale, rigoroso e discorsivo al tempo stesso: in quanto
scrittrice avversa al dogmatismo culturale, Hannah Arendt non vuole la passività del lettore, ma al
contrario ricerca e richiede un suo coinvolgimento attivo, attento, dialogico. La figura e l'opera di
questa pensatrice possono costituire una esempio eloquente della possibilità di un felice connubio
fra pensiero e parola, contemplazione e azione, tradizione e innovazione. Nel 1951 pubblica il
fondamentale “The Origins of Totalitarianism” (“Le origini del totalitarismo”), frutto di un’
accurata indagine storica e filosofica. In tale contesto, particolarmente interessante risulta essere
l'analisi della cosiddetta "ideologia", intesa come uso indebito della facoltà razionale umana e
perciò crogiolo potenziale di ogni dinamica totalitaria. La mente gioca con se stessa:
l'atteggiamento ideologico, privo di un vero ideale, assolutizza la facoltà logica facendola esorbitare
dai suoi limiti costitutivi, in modo tale da costruire una pseudo-realtà, impermeabile all'esperienza
della realtà autentica, al cui interno vige la pretesa di spiegazione totale che nega, di fatto, la
vocazione della natura umana alla libertà di iniziativa. Dal 1957 comincia la carriera accademica
vera e propria: ottiene insegnamenti presso le Università di Berkeley, Columbia, Princeton e, dal
1967 fino alla morte, anche alla New School for Social Research di New York Nel 1961, in qualità
di inviata del settimanale "New Yorker", assiste al processo contro il gerarca nazista Eichmann. Il
resoconto di questa esperienza viene inizialmente pubblicato a puntate sulla rivista newyorkese e
successivamente proposto in forma unitaria nel 1963, con il libro “Eichmann in Jerusalem: A
Report on the Banality of Evil” (“La banalità del male. Eichmann in Gerusalemme”).
Sempre nel 1963 pubblica “On Revolution” (“Sulla rivoluzione”), saggio politologico dalle cui
pagine emergono giudizi negativi sia sulla Rivoluzione francese sia su quella russa. L'assunto
principale dell'opera, il punto fisso su cui fa leva il discorso dell'autrice, è l'intelligenza della
correlazione presente fra libertà e politica: la politica infatti è vista, essenzialmente, come l'attività
che preserva, cura e garantisce lo spazio all'esercizio concreto della libertà in tutte le sue forme di
attuazione. Nel 1972 viene invitata a tenere le Gifford Lectures all'Università scozzese di Aberdeen,
che già in passato aveva ospitato pensatori di prestigio come Bergson, Gilson e Marcel. Due anni
più tardi, durante il secondo ciclo delle "Gifford", subisce il primo infarto. Altre opere significative
sono “The Human Condition” del 1958 (“Vita activa. La condizione umana”) e il volume teoretico
“The Life of the Mind” (“La vita della mente”), uscito postumo nel 1978, attraverso cui Hannah,
sulla scia originaria della migliore filosofia greca, riporta al centro dell'esistenza umana la
"meraviglia" (il qaumazein ). Tale "stupore" metafisico non è uno stato psicologico, bensì un
elemento costitutivo della capacità dell'essere umano di conoscere, pensare e vivere in modo
costruttivo, come persona in comunione con altre persone. Il 4 dicembre 1975 muore a causa di un
secondo arresto cardiaco, nel suo appartamento di Riverside Drive a New York: questo il capolinea
storico di un'esistenza "pensante", pervasa da un senso di gratitudine sempre fedele alla realtà delle
cose. Una vita densa non solo di studi e letture ma anche di incontri, luoghi, eventi.
IL PENSIERO
Poco incline alle posizioni conservatrici e più vicina alle forme di spontaneismo dell'esperienza
rivoluzionaria dei Consigli, teorizzata da Rosa Luxemburg , non legata da simpatia a Strauss, ma
neppure ai francofortesi, estranea al problema del potere e attiva nella difesa dei diritti civili e delle
minoranze, fu Hannah Arendt (1906-1975), ebrea, nata nei pressi di Hannover, studentessa tra il
1924 e il 1929 nell'università di Marburgo, dove fu allieva di Heidegger, con il quale ebbe anche
una relazione sentimentale. Arrestata nel 1933, fuggì a Praga, poi a Ginevra e a Parigi e
successivamente, nel 1941, a New York. Dopo la guerra potè riallacciare i suoi rapporti con Jaspers,
mentre incontrò difficoltà con Heidegger anche per il persistente silenzio di quest'ultimo sulla pro
pria adesione al nazismo. Nel 1960 seguì a Gerusalemme, come corrispondente di un giornale, il
processo al nazista Eichmann, che le apparve un uomo mediocre, incapace di distinguere tra bene e
male: da ciò trasse la conclusione della "banalità" del male, che non ha di per sé profondità, e
attribuì una parte di responsabilità del genocidio alle stesse vittime del nazismo, ma questo sollevò
nei suoi confronti accuse di antisionismo. Intanto, a partire dal 1956 aveva cominciato a insegnare
all'università di Berkeley, per passare poi a quella di Chicago, tra il 1963 e il 1967, e infine alla
"New School for Social Research" di New York, dal 1967 sino alla morte. La prima opera
significativa della Arendt, pubblicata negli Stati Uniti, è " Le origini del totalitarismo " (1951).
Caratteristica saliente del totalitarismo è non tanto una concezione filosofica, quanto l'esistenza di
campi di concentramento: nessun governo totalitario, infatti, può sussistere senza terrore e il terrore
non può essere edificato e mantenuto senza tali campi, nei quali gli individui sono ridotti a entità
superflue. Per questo aspetto, esistono, secondo la Arendt, profonde analogie tra nazismo e
stalinismo, entrambi diversi dalla democrazia proprio per l'assenza di ogni salvaguardia delle libertà
civili. L'esperienza della rivoluzione in Ungheria, nel 1956, rafforza la sua convinzione che l'unica
alternativa al totalitarismo nell'età moderna è nel sistema dei Consigli, che nascono spontanei, senza
organizzazione, in nome della libertà, nel corso dei moti rivoluzionari. Intanto, lo studio di Marx e
del problema del lavoro la conduce ad interrogarsi sul tema dell'equilibrio delle attività umane:
nasce di qui il volume " La condizione umana " (1959), noto anche col titolo " Vita activa ".
Ispirandosi all'etica aristotelica, Arendt individua tre componenti nella vita attiva degli uomini: sono
tre attività, il lavoro, la fabbricazione, o produzione di oggetti, e l'azione (in greco, "praxis"), le
quali si connettono alle condizioni generali dell'esistenza umana, ossia al nascere e al morire, al
rapporto con gli altri e alla permanenza sulla terra. Il lavoro assicura la sopravvivenza non solo
individuale, ma della specie umana, mentre la fabbricazione produce un mondo sulla terra. Mentre è
possibile lavorare e produrre anche in solitudine, non è possibile agire se non in relazione almeno
ad un'altra persona, ossia, in generale, ad una pluralità di individui. Questo vuol dire che lavoro e
fabbricazione non realizzano qualità specificamente umane, dal momento che anche un animale può
lavorare e una divinità artefice potrebbe produrre. Specificamente umano è, invece, l'agire insieme,
che costituisce l'ambito della politica e presuppone il linguaggio come mezzo essenziale per il
rapporto tra una pluralità di individui. Ciò stabilisce una distinzione tra la sfera pubblica,
corrispondente alla polis dei greci, e la sfera privata, corrispondente a ll'oikos dei greci: quest'ultima
è il regno della necessità, caratterizzato dalle attività economiche del lavoro e della produzione
necessarie per sopravvivere, mentre la politica è il regno della libertà, dell'emergenza del nuovo.
Tutte queste attività, infatti, sono radicate nella natalità, in quanto hanno il compito di preparare e
conservare il mondo per i nuovi venuti, ma più di tutte lo è l'agire come capacità di dar luogo a
qualcosa di integralmente nuovo. I rapporti tra queste attività, che sono le costanti dell'esperienza
umana, variano storicamente. Nel mondo moderno, il lavoro ha assunto una posizione di primato
rispetto all'agire, prioritario presso i greci, e al fabbricare, dominante nell'immagine cristiana di un
Dio creatore. Questo mutamento ha indebolito la distinzione tra pubblico e privato e ha generato
una nuova sfera, quella del sociale, che viene ad assumere le funzioni prima pertinenti all'oikos e
alla polis. I risultati sono, da un lato, una nazione amministrata burocraticamente come se si
trattasse di un'unica famiglia e un generale conformismo e, dall'altro, una riduzione della
partecipazione politica attiva e la trasformazione della sfera privata in intimità puramente
individuale. L'integrazione armonica delle varie attività, con l'attribuzione del primato all'agire e,
quindi, alla politica, si è invece realizzata, ad avviso di Arendt, nella polis, ma già i filosofi greci
avevano minato questo modello, nel momento in cui, a parti re da Platone, avevano spezzato la
connessione tra la prassi e il discorso, che caratterizza la politica, e subordinato la politica alla loro
attività, intesa come teoria, ossia attività contemplativa. In questa situazione, la politica veniva
concepita come un ambito che deve essere disciplinato da regole che nascono nella sfera superiore
della teoria e sono accessibili soltanto ad una saggezza superiore. Da questa impostazione sono
nate, in età moderna, le filosofie della storia e le teorie, come quella hegeliana, che trasformano le
nozioni di mezzo e di fine in categorie politiche e interpretano la storia come un processo
necessario, finendo in tal modo per giustificare le pratiche totalitarie del XX secolo e sollevando
dalla responsabilità di giudicare gli eventi storici. In opposizione a ciò occorre, secondo Arendt, una
nuova scienza politica, che torni a porre al centro l'azione, interpretata come inizio di qualcosa di
nuovo e di imprevedibile, non fabbricabile ne dall'uomo ne da Dio. Infatti, quando un'azione si
perverte in una specie di fabbricazione, si può generare il male e la distruzione degli uomini,
proprio come per fare una frittata occorre rompere le uova. In questa prospettiva, nello scritto "
Sulla rivoluzione " (1963), la Arendt individua il conflitto essenziale dell'epoca moderna non tra
diversi sistemi economici o tra classi, ma tra libertà e autoritarismo; da parte sua, ella si schiera dal
lato delle associazioni che nascono spontaneamente, soprattutto nelle situazioni rivoluzionarie, ma
rifiuta la definizione della politica come lotta per il potere e le giustificazioni della violenza, fornite
da Marx, Sorel e Sartre, in quanto confondono tra loro azione, fabbricazione e processi naturali: ai
suoi occhi, la non violenza è essenziale al movimento per la pace e la disobbedienza civile è lo
strumento per la difesa dei diritti civili. L'ultima opera, rimasta incompiuta, " La vita della mente ",
pubblicata postuma nel 1978, è presentata da Arendt come " un trattato del buon governo mentale ":
essa descrive le attività dello spirito, ossia il pensare, il volere e il giudicare, cercando di mostrare la
necessità di un controllo e di un equilibrio reciproco fra esse. Il pensare è diverso dal conoscere, che
ha un oggetto e un fine: esso, invece, non ha un oggetto, ma si riferisce solo a sé e produce
significati, non la verità, che è piuttosto prodotta dal consenso. Il pensare consente di affrontare i
fenomeni direttamente, senza alcun sistema preconcetto, e quindi prepara il terreno al giudizio, che
rappresenta la vera attività politica della mente. Anche il volere è costitutivo della sfera politica, in
quanto mira a produrre un riconoscimento reciproco tra gli individui. In questo senso, la Arendt
critica Heidegger per aver rifiutato il volere a favore del pensiero, concepito come forma di azione:
ciò equivale, infatti, a rifiutare la politica. Condizione dell'armonia fra le tre attività è la libertà
interna di ciascuna. Anche in Germania, nel dopoguerra, ridiventa essenziale il problema del tipo di
sapere e di razionalità che deve sovrintendere all'agire individuale e collettivo. Presupposto diffuso
è che il modello non possa essere offerto dalle scienze naturali, ne dalle scienze sociali che si
costruiscono in conformità ad esse. In questo orizzonte ha luogo, dall'inizio degli anni Sessanta,
quella che è stata denominata riabilitazione della filosofia pratica, ossia del diritto, dell'etica e della
politica, alla quale hanno contribuito vari autori, tra i quali Gadamer e Joachim Ritter (1903-1974),
allievo di Heidegger e di Cassirer.
OPERE
Il concetto d'amore in Agostino (1929): Hannah Arendt mette qui in campo tutta la ricchezza e la
complessità dell'opera di Agostino, pensatore in bilico tra due mondi, quello greco e quello
cristiano, pensatore sommo e originale, impegnato in uno "sforzo tremendo", di cui sono segno le
linee interrotte del suo pensiero, credente per il quale non si trattò di " abbandonare le incertezze
della filosofia a favore di una verità rivelata, ma di scoprire le implicazioni filosofiche della sua
nuova fede .
Le origini del totalitarismo : Per quattro anni di intensa fatica, nel libro scritto tra il 1946 e il
1950, vibra un trasalimento, un Ach! di dolore profondo davanti all'infamia che l'autrice analizza.
Arendt si considerava una scopritrice di problemi attuali, ma i tre elementi (antisemitismo,
imperialismo e razzismo) in cui condensava la sua analisi, erano ciascuno espressione di un
problema, o di un insieme di problemi, per i quali era stato il nazismo ad offrire, quando essi si
erano "cristallizzati", una "soluzione" tremenda.
Il futuro alle spalle : L'obiettivo di Arendt è di sottrarre l'opera dei poeti al mestiere degli
specialisti per restituirla al libero gioco della comprensione. Poesia e letteratura, infatti, riguardano
tutti, aiutano a vivere, sono cose troppo serie per essere lasciate ai soli critici di professione. La
maliziosa ironia di Heinrich Heine, la lotta esistenziale di Franz Kafka contro le idee della vecchia
Europa si ricompongono lungo la corrente della "tradizione nascosta", quella della coscienza
ebraica, della esclusione che non rinnega la propria storia, in cui il futuro è precluso al passato.
Vita Activa. La condizione umana (1958): Le tre condizioni dell'esistenza, fondamentali per
capire la "antropologia" di Arendt, corrispondono all'ambiente naturale degli individui, la Terra, e
quindi l'attività del lavoro, rappresentata dall' "animal laborans"; la seconda condizione è l'insieme
di artefatti di cui l'uomo si circonda per vivere e operare nel mondo, cui corrisponde l' "homo
faber"; la terza condizione è lo spazio pubblico in cui gli individui interagiscono mediante il
discorso, l'attività corrispondente è l'agire. Le tre attività compongono la "vita activa".
Rahel Varnaghen (1959): Scrivendo la biografia di Rahel Varnhagen (1771 - 1833), intellettuale
ebrea protagonista dei salotti romantici, Madame de Stael berlinese, Arendt osserva: " la realtà non
può portare niente di nuovo, la riflessione ha già anticipato tutto ". In Arendt l'indomabile istinto
intellettuale si univa ad una segreta, a volte ironica malinconia che non si rivelava. E a proposito di
Rahel: " Essere Schlemihl, sfortunata, quale Rahel si riteneva, non è mai schlimm mazzel, solo
passiva malasorte ". Il sole non c'è solo per coloro che al sole voltano costantemente le spalle. E
così nella signorina Rahel la battaglia contro i fatti, soprattutto contro il fatto di essere nata ebrea,
diventa una battaglia contro se stessa.
Tra passato e futuro (1961): Arendt sottolinea che il tesoro della libertà dell'agire è impossibile da
trasmettere in un mondo che non attribuisce senso all'agire in pubblico. E ciò è tanto più
sconcertante quanti più individui si disposero alla lotta e all'agire per riappropriarsi di uno spazio
pubblico che il nazismo e l'occupazione, e prima ancora la pseudo-democrazia repubblicana,
avevano cancellato nella società francese. I saggi qui raccolti sono variazioni sul tema della frattura
che si apre nell'esistenza e nella cultura quando l'essere umano non può aprirsi al mondo e quindi al
presente. I vari tipi di crisi, dell'autorità, della libertà, dell'istruzione, persino del pensiero, sono
riportati alla fondamentale lacuna dell'agire. Questa assume l'aspetto decisivo di una interruzione
della tradizione.
La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963): L'opera più discussa e controversa
dell'autrice pone interrogativi profondi sulla natura umana, sugli ideali di giustizia e sulla memoria
del passato. Eichmann non era un mostro, era soltanto un uomo mediocre, banale, cui erano stati
preposti idoli mediocri in cui credere e per cui battersi. Il male di cui si è macchiato non era
radicale, quindi impunibile, incomprensibile, imperdonabile, ma banale, non il male, ma la persona
che lo commise era incapace di giudicare, di discernere il bene dal male, di comprendere quello che
stava facendo.
Sulla rivoluzione (1963): In questa opera la Arendt, attraverso il confronto tra le due suddette
rivoluzioni, mette in luce come esse rappresentino due diversi modelli di fenomeni rivoluzionari,
manifestando al contempo la sua concezione della politica, con la chiara adesione ai princìpi che
hanno ispirato la rivoluzione americana. " In una situazione internazionale che contrappone la
minaccia di totale distruzione attraverso la guerra alla speranza di emancipazione di tutta l'umanità
attraverso la rivoluzione, non resta altra causa se non la più antica di tutte, la causa della libertà
contro la tirannide ".
La lingua materna (1964): In questo saggio di Hannah Arendt, che è corredato da un'intervista
concessa dall'autrice alla televisione tedesca nel 1964, vengono esaminate le questioni dell'esilio,
dell'identità di un popolo e delle trasformazioni che nel corso dell'età contemporanea hanno
sconvolto l'assetto dell'Europa e del mondo intero. La condizione umana è soggetta a continui
mutamenti, spesso tragici, e l'unica possibilità inventiva, per l'autrice, consiste nella capacità di
provare stupore, porre domande in un atto di solidarietà tra esseri umani.
Ebraismo e Modernità (1978): Radicalità e solitudine è il binomio della meditazione cui Hannah
Arendt ritorna costantemente in questi scritti che coprono l'arco di più di vent'anni fino al suo
scambio epistolare con il grande storico della mistica ebraica Gershom Scholem che, a proposito del
suo libro su Eichmann, la accusa di non amare il popolo ebraico. " Io non amo gli ebrei " gli
risponde Arendt, " sono semplicemente una di loro ".
La vita della mente (1978): E' l'ultimo libro di Arendt, rimasto incompiuto, l'ultima sua opera, il
coronamento della sua "vita activa". Divisa in tre parti (Pensare, Volere, Giudicare), Arendt si
chiede nella prima parte dove si trovi l'io che pensa, quali siano il suo spazio e il suo tempo. Alla
libertà è dedicata la seconda parte del volume, e cioè il problema del cristianesimo di come poter
conciliare la fede in un Dio onnipotente con le esigenze del libero arbitrio.
Il pescatore di perle. Walter Benjamin (1993): Arendt ci offre un ritratto tra i più intensi e
significativi di Walter Benjamin, un intellettuale sui generis che secondo l'autrice riesce a
rischiarare, a illuminare anche i periodi più oscuri che viviamo. Ciò che fin dall'inizio affascinò
Benjamin non fu mai un'idea ma sempre un fenomeno, " ciò che appare paradossale di ogni cosa
che viene semplicemente definita bella è il fatto che appaia ".
Verità e politica. La conquista dello spazio e la statura dell'uomo (1995): La menzogna va
combattuta, oltre che per la sua immoralità, per il suo potenziale impatto distruttivo sullo spazio
della politica. Dietro le imprese spaziali che proiettano l'uomo fuori della terra e dietro le ricerche
scientifiche volte a creare la vita in provetta e a prolungare l'esistenza umana, l'autrice vede appunto
profilarsi il desiderio di sfuggire alla mortalità e più in generale ai limiti inerenti alla condizione
umana.
Che cos'è la politica? (1995): E' una raccolta di frammenti scritti da Arendt intorno al tema della
politica e all'idea di scrivere un' "Introduzione alla politica", cioè a quello che realmente è politica e
ai presupposti fondamentali dell'esistenza umana con i quali il politico ha a che fare. I brani
pubblicati forniscono indicazioni fondamentali sulla filosofia politica, sulla visione del mondo,
sull'autonomia e originalità di Hannah Arendt. In un'epoca di miseria politica, Arendt ha ricercato le
origini di una politica intesa come vita appagata e libera insieme agli altri dei quali si riconosce la
diversità.
Ritorno in Germania (1996): Un saggio intenso e profondo raccoglie le impressioni, le esperienze
e le conoscenze di un viaggio di ritorno nella Germania nazista del 1949-1950. Questo testo
commosso e puntuale è il tentativo di una donna sensibile di superare con la forza dell'intelligenza il
dolore, l'amarezza personale e il risentimento nei confronti del proprio Paese dopo la tragica
esperienza del nazionalsocialismo, della seconda guerra mondiale e della Shoah.
L'immagine dell'inferno (2001): I tre saggi compresi in questo libro costituiscono passaggi
cruciali di quella riflessione sull'Olocausto che porterà Arendt alla stesura di "Le origini del
totalitarismo". Di fronte ad un evento che sfidava le capacità di comprensione, Arendt seppe
formulare, per la prima volta, con un rigore ineguagliato, le domande che ancora oggi ci inquietano:
come è potuto succedere? Quali meccanismi di disumanizzazione sono stati messi in atto per poter
rendere "normale" lo stermino di massa? I campi di concentramento appaiono a Arendt come l'esito
più estremo, ma anche più conseguente, del totalitarismo come forma inedita di governo, intesa a
sperimentare la cancellazione della spontaneità e della pluralità umane e capace di creare nei suoi
sudditi un'obbedienza e una mentalità conformistica disposte ad accettare qualsiasi orrore.
La disobbedienza civile e altri saggi (1985): I temi a cui il saggio rimanda sono quelli dell'obbligo
politico e della partecipazione, visti nella loro connessione col problema della libertà. Sulla scia di
un nuovo kantismo delineato dalla "Critica del Giudizio", Arendt formula un'analisi dell'azione
innovativa e sempre rivoluzionaria, nei termini del principio della libertà pubblica, dello spirito
pubblico e della pubblica felicità.
EBRAISMO E MODERNITA'
Una serie di articoli dal luglio 1942 al gennaio 1950 mettono in luce la dinamica del pensiero
arendtiano sulla questione arabo-israeliana e sulla condizione dell'ebreo senza patria. Il punto
distintivo consiste nel riconoscimento dell'eccezionalità del conflitto, e di conseguenza
dell'impossibilità di porvi termine con una pacificazione di tipo tradizionale. La guerra tra Israele e
il mondo arabo si propone anche oggi, ed è vista non come conflitto tra stati, ma come una
rivendicazione di una patria contesa tra due popoli con una diversa identità. Ecco perché l'analisi
arendtiana va vista nel quadro della sua filosofia politica, in cui assume un valore fondamentale il
concetto di isonomia . E' l'uguaglianza dinanzi la legge, la parità della propria presenza nello spazio
pubblico, e il riconoscere la reciprocità dei diritti che diventa il fulcro per una possibile soluzione
del conflitto. Arendt credeva che la sopravvivenza dello Stato di Israele fosse possibile solo in una
confederazione palestinese. Pur essendosi sempre sentita sensibile alle vicende di Israele, Arendt
era cittadina statunitense, e poté seguire, con quel distacco che lei riteneva indispensabile per
l'analisi teorica, il processo Eichmann, sottolineando in una lettera a Gershom Scholem la sua
indipendenza politica da ogni vincolo privato o di comunità: " hai perfettamente ragione - non sono
animata da alcun amore di questo genere, e ciò per due ragioni: nella mia vita non ho mai amato
nessun popolo o collettività - né il popolo tedesco, né quello francese, né quello americano, né la
classe operaia, né nulla di questo genere. Io amo solo i miei amici, e la sola specie d'amore che
conosco e in cui credo è l'amore per le persone. In secondo luogo, questo amore per gli ebrei mi
sembrerebbe, essendo io stessa ebrea, qualcosa di piuttosto sospetto. Non posso amare me stessa o
qualcosa che so essere una parte essenziale della mia stessa persona. [...] Ebbene, è in questo senso
che io non amo gli ebrei, né credo in loro; sono semplicemente una di loro. Questo è un dato di fatto
fuori discussione ". La posizione di Arendt segue le orme di Bernard Lazare, la cui voce era rimasta
inascoltata quando l'intero movimento sionista si era schierato attorno a Theodor Herzl. Lazare,
contrariamente a Herzl, non considerava l'antisemitismo come un fenomeno naturale e inevitabile,
bensì era convinto che solo attraverso il recupero di un'idea universale di umanità, e quindi di una
dimensione politica che superasse gli angusti confini di una nazione, gli ebrei potessero accedere a
quello spazio pubblico dove può realizzarsi l'aspirazione ad un'autonomia radicale. Questa raccolta
si affianca all'interpretazione arendtiana dell'opera di Kafka, che descrive situazioni in cui uomini
venuti dal nulla, senza biografia e senza patria, cercano ostinatamente un'esistenza normale e dei
diritti che altri godono naturalmente, che rappresenta la condizione tipica degli ebrei o di
un'umanità a cui, nell'epoca del totalitarismo, può capitare di essere trattata alla stregua degli ebrei.
" La storia ebraica moderna, che ha avuto inizio con gli ebrei di corte ed è continuata con gli ebrei
milionari e filantropi, è pronta a dimenticare un'altra tendenza della tradizione ebraica: quella di
Heine, Rahel Varnhagen, Scholem Aleichem, Bernard Lazare, Franz Kafka, o persino Charlie
Chaplin. Si tratta della tradizione di una minoranza di ebrei che non hanno voluto diventare dei
nuovi ricchi, che hanno preferito la condizione di 'pariah consapevoli'. Tutte le vantate qualità
ebraiche - il 'cuore ebraico', l'umanità, lo humor, l'intelligenza disinteressata - sono qualità del
pariah ".
Così scriveva Hannah Arendt, in un articolo degli anni di guerra, ora parte di un libro che raccoglie
saggi e interventi militanti scritti su riviste americane dal 1942 al 1950, gli anni della nascita dello
Stato di Israele. Si tratta di articoli che formano un tessuto, anche contraddittorio, di riflessioni sulla
condizione ebraica dopo lo sterminio, la "vittoria" sionista e il processo occidentale di integrazione.
Al sionismo l'autrice rimprovera anzitutto di avere " un bagaglio teorico ormai obsoleto ", di aver
bisogno dell'ostilità antisemita per fondare l'identità nazionale. D'altra parte non le sfuggono, per
quanto riguarda la Palestina, i rischi di uno " sciovinismo di tipo balcanico ". Sui tragici
avvenimenti in Germania la Arendt afferma, anticipando analisi posteriori, che lo sterminio non è
l'espressione dello "spirito tedesco", ma se mai un fenomeno moderno e internazionale: l' " enorme
macchina amministrativa dell'assassinio di massa ". In tal modo, già nel gennaio del 1945 Hannah
Arendt individua gli elementi di quella 'banalità del male', messi poi pienamente in luce durante il
processo Eichmann, e sollecita a scorgere, al di là della ideologia nazista, storie quotidiane come la
vita di un padre di famiglia che, per difendere la pensione o per garantirsi un minimo di agiatezza, si
trasforma in burocrate del crimine. Piuttosto che ricorrere alla propaganda antitedesca di stampo
francese - consiglia la filosofa - è meglio sapere che in ogni società nella quale la disoccupazione
offende " il comune rispetto di sé dell'uomo comune ", quell'uomo, allenato alla degradazione, può
accettare " qualunque mansione, perfino quella del boia ". Il libro raccoglie in appendice le lettere
che Hannah Arendt scambiò con Gershom Scholem. In questo carteggio lo studioso della mistica
ebraica, sulle tracce della gnosi, sembra credere al "male radicale" e, in una serrata polemica, accusa
la studiosa " di non amare il popolo ebraico ". " Io non 'amo' gli ebrei " - è la risposta - " sono
semplicemente una di loro ".
LE ORIGINI DEL TOTALITARISMO
Come molte altre opere di grandi autori, anche " Le origini del totalitarismo " della Arendt è
comparsa in un momento politicoculturale (1951), data centrale della guerra fredda che ne ha reso
quasi obbligatoriamente unilaterali la lettura e l'interpretazione.
L'assimilazione di nazismo e stalinismo, infatti, impedì allora una lettura serena dell'opera da parte
dell'intellettualità di sinistra, per la quale la Arendt per molti anni sarebbe rimasta l'esponente di un
pensiero politico liberale e neo-conservatore. In realtà le preferenze politiche della Arendt andavano
ad un tipo di società socialista vicina alle idee della Luxemburg e alle tematiche consiliari, come
sarebbe stato evidente qualche anno dopo. L'opera, grande anche nel senso della voluminosità (circa
700 pagine), individua i caratteri specifici del totalitarismo dopo averne riscontrato le premesse
nell'antisemitismo (studiato nel periodo fra Otto e Novecento, specialmente in Francia con l' "affaire
Dreyfus") e nell'imperialismo, temi ai quali sono dedicati i due terzi dell'opera. Dal confluire delle
conseguenze dell'antisemitismo e dell'imperialismo in un preciso momento storico (la crisi
successiva alla prima guerra mondiale) è nato il totalitarismo, con caratteri comuni sia nella
Germania nazista sia nell'Unione sovietica stalinista (del tutto marginale è l'attenzione rivolta al
fascismo italiano). Il totalitarismo é un fatto nuovo del nostro secolo, non assimilabile o riducibile,
secondo la Arendt, ai tradizionali regimi tirannici o dittatoriali. Esso nasce dal tramonto della
società classista, nel senso che l'organizzazione delle singole classi lascia il posto ad un
indifferenziato raggrupparsi nelle masse, verso le quali operano ristretti gruppi di élites, portatori
delle tendenze totalitarie. Tali tendenze, dopo la vittoria politica sulle vecchie rappresentanze di
classe, realizzano il regime totalitario, che ha i suoi pilastri e nell'apparato statale, nella polizia
segreta e nei campi di concentramento nei quali si rinchiudono e si annientano gli oppositori
trasformati in nemici. Attraverso l'imposizione di una ideologia (razzismo, nazionalsocialismo,
comunismo) e il terrore, il totalitarismo, identifica se stesso con la natura, con la storia, e tende ad
affermarsi all'esterno con la guerra. Nulla di simile era apparso prima: il totalitarismo é un
fenomeno " essenzialmente diverso da altre forme conosciute di oppressione politica come il
dispotismo, la tirannide e la dittatura. Dovunque é giunto al potere, esso ha creato istituzioni
assolutamente nuove e distrutto tutte le tradizioni sociali, giuridiche e politiche del paese. A
prescindere dalla specifica matrice nazionale e dalla particolare fonte ideologica, ha trasformato le
classi in masse, sostituito il sistema dei partiti non con la dittatura del partito unico ma con un
movimento di massa, trasferito il centro del potere dall'esercito alla polizia e perseguito una politica
estera apertamente diretta al dominio del mondo ". La Arendt accentua, nelle pagine di
considerazione teorica che concludono l'opera, il ruolo nuovo svolto dalle ideologie, unite al terrore,
nei regimi totalitari. Le ideologie, con logica stringente, impongono una visione del mondo in cui le
idee incarnate nel regime totalitario vengono imposte come direttrici di un cammino fatale,
inevitabile, naturale e storico insieme. In un regime totalitario l'ideologia " é la logica di un'idea. La
sua materia é la storia a cui l' idea é applicata, il risultato di tale applicazione non é un complesso di
affermazioni su qualcosa che é, bensì lo svolgimento di un processo che muta di continuo.
L'ideologia tratta il corso degli avvenimenti come se seguisse la stessa legge dell'esposizione logica
della sua idea. Essa pretende di conoscere i misteri dell'intero processo storico - i segreti del
passato, l'intrico del presente, le incertezze del futuro - in virtù della logica inerente alla sua idea ".
La Arendt si pone, alla fine, una domanda: " quale esperienza di base nella convivenza umana
permea una forma di governo che ha la sua essenza nel terrore e il suo principio d'azione nella
logicità del pensiero ideologico? ". La risposta viene data individuando tale esperienza di base
nell'isolamento dei singoli nella sfera politica, corrispondente alla estraniazione nella sfera dei
rapporti sociali. Quest'ultima, in sostanza, sta alla base dell'isolamento sul piano politico, e quindi
costituisce la condizione generale dell'origine del totalitarismo. " Estraniazione, che é il terreno
comune del terrore, l'essenza del regime totalitario e, per l'ideologia, la preparazione degli esecutori
e delle vittime, é strettamente connessa allo sradicamento e alla superfluità che dopo essere stati la
maledizione delle masse moderne fin dall'inizio della rivoluzione industriale, si sono aggravati col
sorgere dell'imperialismo alla fine del secolo scorso e con lo sfascio delle istituzioni politiche e
delle tradizioni sociali nella nostra epoca. Essere sradicati significa non avere un posto riconosciuto
e garantito dagli altri; essere superflui significa non appartenere al mondo " . E ancora: " quel che
prepara così bene gli uomini moderni al dominio totalitario é estraniazione che da esperienza al
limite, usualmente subita in certe condizioni sociali marginali come la vecchiaia, é diventata
un'esperienza quotidiana delle masse crescenti nel nostro secolo. L'inesorabile processo in cui il
totalitarismo inserisce le masse da esso organizzate appare come un'evasione suicida da questa
realtà " . Risuonano in questi passi gli echi di un pessimismo ebraico che negli anni '30 e '40 trovava
manifestazione filosofica con tematiche non molto dissimili, in Benjamin, in Horkheimer e in
Adorno. Le tesi della Arendt, come quelle dei suoi amici appena citati, avranno ampia diffusione,
ma verranno anche ampiamente discusse nel dibattito teorico che ha impegnato nei successivi
decenni i pensatori politici europei e statunitensi. Arendt si considerava una scopritrice di problemi
attuali, ma i tre elementi (antisemitismo, imperialismo e razzismo) in cui condensava la sua analisi,
erano ciascuno espressione di un problema, o di un insieme di problemi, per i quali era stato il
nazismo ad offrire, quando essi si erano "cristallizzati", una "soluzione" tremenda. Così,
l'alternativa metodologica scelta da Arendt fu quella di individuare gli elementi principali del
nazismo, risalire alle loro origini, e scoprire i problemi politici reali alla loro base, " scopo del libro
non è dare delle risposte, bensì preparare il terreno ". Arendt presenta gli elementi del nazismo e i
problemi politici che ne stavano alla base. L'imperialismo, quello che ha raggiunto il suo pieno
sviluppo, cioè il totalitarismo, è visto come una "amalgama" di certi elementi presenti in tutte le
situazioni politiche del tempo. Questi elementi sono l'antisemitismo, il decadimento dello stato
nazionale, il razzismo, l'espansionismo fine a sé stesso e l'alleanza fra il capitale e le masse.
" Dietro ciascuno di questi elementi si nasconde un problema irreale e irrisolto: dietro
l'antisemitismo, la questione ebraica; dietro il decadimento dello Stato nazionale, il problema
irrisolto di una nuova organizzazione dei popoli; dietro il razzismo, il problema irrisolto di una
nuova concezione del genere umano; dietro l'espansionismo fine a sé stesso, il problema irrisolto di
riorganizzare un mondo che diventa sempre più piccolo, e che siamo costretti a dividere con popoli
la cui storia e le cui tradizioni sono estranee al mondo occidentale. La grande attrazione esercitata
dal totalitarismo si fondava sulla convinzione diffusa, e spesso consapevole, che esso fosse in grado
di dare una risposta a tali problemi, e potesse quindi adempiere ai compiti della nostra epoca ".
In una serie di lezioni tenute nel 1954 alla "New School for Social Research" di New York, Arendt
chiarisce l'immagine della "cristallizzazione", con una dichiarazione metodologica che è assente
nelle stesure delle Origini del totalitarismo: " gli elementi del totalitarismo costituiscono le sue
origini, purché per origini non si intenda cause. La causalità, cioè il fattore di determinazione di un
processo di eventi, in cui un evento sempre ne causa un altro e da esso può essere spiegato, è
probabilmente una categoria totalmente estranea e aberrante nel regno delle scienze storiche e
politiche. […] Gli elementi divengono l'origine di un evento se e quando si cristallizzano in forme
fisse e definite. Allora e solo allora, sarà possibile seguire all'indietro la loro storia. L'evento
illumina il suo stesso passato, ma non può mai essere dedotto da esso ".
Gli elementi del totalitarismo : secondo Arendt, quindi, il totalitarismo è composto da "elementi"
che si sono sviluppati precedentemente e si sono "cristallizzati" in un nuovo fenomeno dopo la
prima guerra mondiale. Questi elementi forniscono la struttura nascosta del totalitarismo. L'impulso
all'espansione senza limiti era nelle sue origini un fenomeno economico, qualcosa di inerente
all'avanzata del capitalismo. Il capitalismo era impegnato nella trasformazione della proprietà da
stabile, fissa, in una ricchezza mobile; la conseguenza fondamentale di questo processo fu quella di
generare sempre più ricchezza in un processo senza fine. Fino a che questo rimase un fenomeno
puramente economico esso era sì distruttivo, ma non catastrofico. Il pericolo diventò " la
trasformazione di pratiche economiche in un nuovo tipo di politica della competizione assassina e
dell'espansione senza limiti ". Il significato dell'era imperialista per Arendt è che l'imperativo di
espandersi uscì dalla logica economica e prese forza nelle istituzioni politiche. Lo stato-nazione fu
fortemente messo in crisi dall'imperialismo. Dove l'imperialismo dà spazio alle forze incontrollabili
dell'espansione e della conquista, lo stato-nazione è un'istituzione creata da individui, una struttura
civilizzata che fornisce un ordine legale e garantisce diritti, tramite i quali l'individuo può essere
legislatore e cittadino. C'è una profonda tensione tra la nozione di stato come garante di diritti, e
l'idea della nazione come una comunità esclusiva. Fin dalla nascita dello stato-nazione questo fatto
creò difficoltà per gli ebrei: infatti, l'ideale dei diritti umani non divenne fondamentale se non dopo
la prima guerra mondiale, e le conseguenze di essa sulle minoranze nazionali e le persone senza
patria ("displaced persons"). Il capitolo delle "Origini" sul declino dello stato nazione, spiega perché
ci furono così pochi ostacoli al massacro degli ebrei, e dimostra la necessità di costruire un nuovo
ordine politico che non possa abolire diritti civili e politici per un gruppo di persone. Quello che il
destino delle persone senza patria ha dimostrato, così sostiene Arendt, è che i diritti umani
universali che sembravano appartenere agli individui, potevano solo essere reclamati da cittadini di
uno stato. Pertanto, per chi era fuori da questa categoria, i diritti inalienabili della persona erano
senza significato. Ne sono un esempio gli ebrei che, non avendo uno stato in cui identificarsi come
popolo, ed un territorio definito in cui poter vivere, sono stati privati, come apolidi, del diritto di
cittadinanza, e con esso di una tutela giuridica come soggetti di personalità. Il problema non era
quello di godere di un'eguaglianza di fatto davanti alla legge come persone, ma la negazione del
fondamentale diritto umano e cioè il "diritto di avere diritti", che significa il diritto di appartenere
ad una comunità politica. Arendt sottolinea che il razzismo non è una forma di nazionalismo, ma, è
in diversi modi, il suo opposto. Il nazionalismo genuino è strettamente legato ad uno specifico
territorio e una cultura, e quindi alle azioni e traguardi raggiunti da particolari esseri umani. La
razza, al contrario, è un criterio biologico, determinato dal territorio e dalla cultura, e si riferisce a
caratteristiche naturali fisiche. Dove le persone sono identificate per i loro caratteri razziali innati, le
differenze individuali e la responsabilità individuale diventano irrilevanti: una persona
semplicemente agisce come un coro delle caratteristiche razziali di quella specie. Il determinismo
razzista, con la distinzione tra razze superiori e inferiori, fornisce una perfetta giustificazione per la
conquista imperialista e la sottomissione delle popolazioni native. La plebe è un precedente di
quello che sarà la massa per gli ebrei nel totalitarismo: i suoi rappresentanti sono "senza mondo"
perché hanno perso uno spazio stabile di riferimento, una identità, non hanno aspettative da
condividere con altri, non hanno prospettiva per guardare il mondo, sono esposti alla manipolazione
ideologica, vivono in una condizione di sradicamento. L'alleanza tra il capitale e la plebe dimostra
che il sottoproletariato può essere facilmente reclutato per commettere atrocità (Arendt prende come
riferimento la descrizione di Conrad in "Cuore di tenebra"): la plebe era costituita dagli " scarti di
tutte le classi e tutti gli strati ", erano avventurieri e cercatori d'oro asserviti dall'imperialismo, "
scaraventati fuori dalla società ", non credevano in nulla, potevano anzi indursi a credere a ogni
cosa, a qualsiasi cosa. L'irresponsabilità di questo nuovo strato e la corrispondente ritirata su tutte le
questioni morali, andava di pari passo con la possibilità della trasformazione della democrazia
borghese in un dispotismo: infatti la plebe era un prodotto diretto della società borghese e quindi
non separabile da essa. La spregiudicata politica di potenza poté essere attuata solo con l'aiuto di
una massa di persone prive di principi morali e perfettamente manipolabili. Nel mondo irreale
dell'Africa Nera non si assassinava un individuo se si uccideva un indigeno, ma un sub-umano, una
larva che suscitava solo il dubbio di appartenere alla stessa comunità umana.
Qui il riferimento alla Shoah è evidente: dove la plebe è servita all'imperialismo per la sua brama di
conquista, così la massa è servita al totalitarismo per i suoi obiettivi di distruzione degli ebrei.
Arendt sostiene che l'antisemitismo venne usato dal regime nazista come un "amalgamatore" per la
costruzione del totalitarismo, perché esso era legato ad ognuno degli elementi che aveva
identificato. La plebe, che odiava la società, alla quale non apparteneva più, poté essere facilmente
condotta a provare ostilità nei confronti di un gruppo come gli ebrei che era metà fuori e metà
dentro la società. L'ideologia razzista, in nome della quale i movimenti totalitari erano mobilitati,
aveva bisogno di un equivalente in Europa dei nativi d'Africa, e gli ebrei erano adatti a tale ruolo. I
movimenti totalitari avevano bisogno di demolire le mura vacillanti dello stato-nazione per edificare
nuovi imperi. Gli ebrei, che avevano consolidato una loro identità senza territorio e uno stato,
apparvero come le uniche persone che, apparentemente, erano già organizzate come un corpo
politico razziale. Gli ebrei si erano disinteressati alla politica e al potere politico, e questo
disinteresse per la politica li aveva portati a non capire il pericolo enorme che costituiva per loro
l'antisemitismo moderno, e la forza distruttiva che esso veicolava. Gli ebrei scambiarono a torto
questo antisemitismo, che aveva radici economiche, politiche, sociali, religiose e psicologiche, con
il vecchio odio che dall'antichità aveva generato i pogrom. Nessuno comprese che il problema a
questo punto era di tipo politico. Solo l'uguaglianza giuridica e politica protegge gli individui e le
nazionalità da discriminazioni e persecuzioni. Promulgando le leggi razziali di Norimberga, i nazisti
crearono una "razza" perché crearono un gruppo d'uomini privi di diritti e differenti sul piano
giuridico. L'antisemitismo del Novecento ha sostituito all'odio religioso di altri tempi il rifiuto della
differenza, il rifiuto di accordare il rispetto all'altro per le sue stesse caratteristiche. E tale rifiuto si
maschera dietro il rispetto della normalità, dietro il conformismo, ma può arrivare fino al caso
estremo della difesa biologica della razza.
LA BANALITA' DEL MALE
Nel 1961 Hannah Arendt seguì le 120 sedute del processo Eichmann (il famigerato criminale
nazista) come inviata del settimanale New Yorker a Gerusalemme. Otto Adolf Eichmann (nato nel
1906), era stato responsabile della sezione IV-B-4 (competente sugli affari concernenti gli ebrei)
dell'ufficio centrale per la sicurezza del Reich (RSHA), organo nato dalla fusione, voluta da
Himmler, del servizio di sicurezza delle SS con la polizia di sicurezza dello stato, inclusa la polizia
segreta o Gestapo. Eichmann non era mai andato oltre il grado di tenentecolonnello, ma, per
l'ufficio ricoperto, aveva svolto una funzione importante, su scala europea nella politica del regime
nazista: aveva coordinato l'organizzazione dei trasferimenti degli ebrei verso i vari campi di
concentramento e di sterminio. Nel maggio 1960 agenti israeliani lo catturarono in Argentina, dove
si era rifugiato, e lo portarono a Gerusalemme. Processato da un tribunale israeliano, nella sua
difesa tenne a precisare che, in fondo, si era occupato "soltanto di trasporti". Fu condannato a morte
mediante impiccagione e la sentenza fu eseguita il 31 maggio del 1962. Il resoconto di quel
processo e le considerazioni che lo concludevano furono pubblicate sulla rivista e poi riunite
nel1963 nel libro "La banalità del male" (Eichmann a Gerusalemme).In questo libro la Arendt
analizza i modi in cui la facoltà di pensare può evitare le azioni malvagie. La banalità del male ha
accentuato la relazione fra la facoltà di pensare, la capacità di distinguere tra giusto e sbagliato, la
facoltà di giudizio, e le loro implicazioni morali, compiti che sono stati estremamente significativi
nel lavoro della Arendt fin dai primi scritti nel tardo 1940 del fenomeno del Totalitarismo. La prima
reazione della Arendt alla vista di Eichmann è più che sinistra. Lei sostenne che "le azioni erano
mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, ne demoniaco ne mostruoso". La percezione
dell'autrice di Eichmann sembra essere quella di un uomo comune, caratterizzato dalla sua
superficialità e mediocrità che la lasciarono stupita nel considerare il male commesso da lui, che
consiste, nell'organizzare la deportazione di milioni di ebrei nei campi di concentramento. Ciò che
la Arendt scorgeva in Eichmann non era neppure stupidità ma qualcosa di completamente negativo:
l'incapacità di pensare. Eichmann ha sempre agito all'interno dei ristretti limiti permessi dalle leggi
e dagli ordini. Questi atteggiamenti sono la componente fondamentale di quella che può essere vista
come una cieca obbedienza. Egli non era l'unica persona che appariva normale mentre gli altri
burocrati apparivano come mostri, ma vi era una massa compatta di uomini perfettamente "normali"
i cui atti erano mostruosi. Dietro questa "terribile normalità" della massa burocratica, che era capace
di commettere le più grandi atrocità che il mondo avesse mai visto, la Arendt rintraccia la questione
della "banalità del male". Questa "normalità" fa sì che alcuni atteggiamenti comunemente ripudiati
dalla società - in questo caso i programmi della Germania nazista - trova luogo di manifestazione
nel cittadino comune, che non riflette sul contenuto delle regole ma le applica incondizionatamente .
Eichmann ha introdotto il pericolo estremo della irriflessività. Ma il guaio del caso Eichmann era
che di uomini come lui ce n'erano tanti e che quei tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano,
e sono tuttora, terribilmente normali. E questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe
insieme, poiché implica - come fu detto e ripetuto a Norimberga dagli imputati e dai loro patroni che questo nuovo tipo di criminale, realmente "hostis generis humani", "commette i suoi crimini in
circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male. " L'analisi delle
interrelazioni fra la facoltà di pensare, la capacità di distinguere tra giusto e sbagliato, la facoltà di
giudizio, e le loro implicazioni morali, come detto sopra rappresentano il nucleo tematico dell'opera
. A questo proposito la Arendt si è chiesta se la facoltà di pensare, nella sua natura e nei suoi
attributi intrinseci, coinvolge la possibilità di evitare di "fare il male". La banalità del male non è
sembrato incorniciare gli standard soliti di male, come patologia, interesse personale, di condanna
ideologica di chi lo fa: in questo senso la Arendt si domanda se la dimensione di male è una
condizione necessaria di "fare il male".In altre parole "Il fenomeno del male ha necessariamente una
radice desiderata?" Era innegabile che questo nuovo insieme di domande del fenomeno del male, di
cui le radici non sono state ancorate negli standard filosofici, morali, religiosi tradizionali, al meno
aprirà una prospettiva nuova sul comprensione del male. Tale nozione è stata menzionata da Arendt
nelle prime pagine dell'introduzione de "La Vita della Mente"Assistendo al processo Eichmann la
Arendt disse: ." mi sono sentita scioccata perché tutto questo contraddice le nostre teorie di male".
La perplessità davanti ad un fenomeno che ha contraddetto le teorie note di male, e la relazione
chiara tra il problema di male e la facoltà di pensare, era quello che la Arendt ha espresso con la
frase "la banalità del male". Un accenno alle sue tesi sulla banalità sono presenti ne "Le Origini di
Totalitarismo" (1951), il suo primo libro, nel quale sosteneva che l'aumento di totalitarismo era
dovuto all'esistenza di un nuovo genere di male, il male assoluto, che, "non poteva essere a lungo
spiegato e capito con malvagie ragioni di egoismo, avidità, bramosia, risentimento, sete per potere,
e codardia". Spesso ha detto che la tradizionale comprensione del male non era di nessun aiuto
riferita a questa variante moderna, e ha voluto seguire il processo probatorio ad Eichmann , del
quale ha riferito per il New Yorker, per confrontare chiarificare le sue idee. Come può dunque la
capacità di pensare muoversi in modo da evitare il male? Per prima cosa, secondo la Arendt, gli
standard etici e morali basati sulle abitudini e sulle usanze hanno dimostrato di poter essere
cambiati da un nuovo insieme di regole di comportamento dettate dall'attuale società. Lei domanda
come sia possibile che poche persone non aderiscano al regime malgrado ogni coercizione. A tale
domanda risponde in maniera semplice: i non partecipanti, chiamati irresponsabili dalla
maggioranza, sono gli unici che osano essere "giudicati da loro stessi"; e sono capaci di farlo non
perché posseggano un miglior sistema di valori o perché i vecchi standard di "giusto e sbagliato"
siano fermamente radicati nella loro mente e nella loro coscienza, ma perché essi si domandano fino
a che punto essi sarebbero capaci di vivere in pace con loro stessi dopo aver commesso certe azioni;
e loro decidono che è meglio non far nulla. La Arendt chiaramente presuppone alla facoltà del
pensare questo tipo di giudizio. Questa presupposizione non necessita di una elevata intelligenza ma
semplicemente l'abitudine di vivere insieme, e in particolare con se stessi, che significa, essere
occupato in un dialogo silenzioso tra io e io, che da Socrate è stato chiamato "pensare". L'incapacità
di pensare non è stupidità: può essere presente nella gente più intelligente e la malvagità non è la
sua causa, ma è necessaria per causare grande male. Dunque l'uso del pensiero previene il male.
Una delle questioni principali della Arendt è il fatto che un'intera società può sottostare ad un totale
cambiamento degli standard morali senza che i suoi cittadini emettano alcun giudizio circa ciò che
sta accadendo. La Arendt sceglie Socrate come suo modello di pensatore. Una maniera per
prevenire il male è come detto sopra rintracciabile nel processo del pensare. Questo pensare per
Socrate provoca essenzialmente la perplessità che ha il potere di dislocare gli individui dalle loro
regole di comportamento. La capacità di pensare ha dunque la potenzialità di mettere l'uomo di
fronte ad un quadro bianco senza bene o male, senza giusto o sbagliato, ma semplicemente
attivando in lui la condizione per stabilire un dialogo con se stesso e permettendogli dunque di
deliberare un giudizio circa tali eventi. La Arendt sta cercando di evitare l'aderire degli uomini a
ogni tipo di standard morale, sociale o legale senza esercitare la loro capacità di riflettere, basata sul
dialogo con se stessi circa il significato degli avvenimenti, in altre parole la manifestazione del
pensiero è capace di provocare perplessità e obbliga l'uomo a riflettere e a pronunziare un giudizio.
La banalità del male che appare attraverso Eichmann rende evidente come il fenomeno del male
può mostrare la sua faccia. In un trattato scritto per un dibattito su "Eichmann a Gerusalemme" nel
Collegio Hofstra nel 1964, la Arendt ha affermato che banalità significa 'senza radici', non radicato
nei 'motivi cattivi' o 'impulso' o forza di 'tentazione'. La Arendt afferma inoltre: "la mia opinione è
che il male non è mai 'radicale', ma soltanto estremo, e che non possegga né la profondità né una
dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare tutto il mondo perché cresce in superficie
come un fungo. Esso sfida come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la
profondità, andare a radici, ed nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla.
Questa è la sua "banalità"... solo il bene ha profondità e può essere integrale."