file - Museo dell`automobile
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LA FIAT 509 Al Salone dell’automobile di Milano del 1925, svoltosi alla Fiera Campionaria in aprile, era presente in forze l’intera industria automobilistica italiana. Il che equivale a dire: l’Alfa Romeo (Milano), l’Ansaldo (Torino), l’Aurea (Torino), la Barison (Livorno), la Bianchi (Milano), la B.N. (Torino), la Ceirano (Torino), la Chiribiri (Torino), la Diatto (Torino), la Edit (Torino), la Fadin (Milano), la Fast (Torino), la Fiam (Torino), la Fiat (Torino), la Fod (Torino), l’Isotta Fraschini (Milano), l’Itala (Torino), la Lancia (Torino), la O.M. (Brescia), la Pavesi (Milano), la Ribetti (Torino), la Saba (Milano), la SAM (Legnano), la San Giusto (Milano), la Scirea (Monza), la S.I.C.(Chiavari), la Spa (Torino), la Tau (Torino). Begli anni, quelli, quando l’Italia poteva vantare una compagine di ventotto marche diverse, con prodotti di assoluta eccellenza noti in tutto il mondo, quali la Itala 61, la Ceirano S 150, la Isotta Fraschini 8A, o più modestamente le Chiribiri Monza e Milano, o il tipo Unico Fod. Questa varietà di marche e qualità di costruzione non deve però trarre in inganno, rispetto al reale andamento del comparto industriale. In quell’anno circolano in Italia 84.826 autovetture, per un totale di 117.555 veicoli. Poche, pochissime: la densità media equivale ad un’auto ogni quattrocentocinquanta abitanti (nel 1924, negli Stati Uniti la densità è 7 abitanti per auto, in Gran Bretagna 71 abitanti ogni auto, in Francia 90 abitanti per auto). Le automobili prodotte sono 45.800, quelle esportate quasi trentamila, circa il 60%, un’altra riprova del debole ed anemico mercato interno. Alla fine dell’anno la benzina costa 2,74 lire al litro, di cui 86 centesimi per oneri fiscali (il 31%), più che in tutto il resto d’Europa. I problemi del settore automobilistico sono tanti, e non si intravede per il momento alcuno spiraglio. Si lamenta da ogni parte l’assenza di una vetturetta utilitaria italiana, la mancanza di un adeguato indirizzo tecnico-costruttivo atto a mettere sul mercato un prodotto di media gamma, una tassazione esagerata, una eccessiva fiscalità, un elevato costo di esercizio, un pessimo stato della rete stradale, una carenza di attenzione da parte delle autorità governative. Il costo della benzina è altissimo: 24 lire oro* al quintale, da marzo a settembre aumenta di ben novanta lire, e poco aiuta la riduzione del 50% - da sessanta lire a trenta –, decisa nell’autunno, della tassa di vendita. Si chiede l’abolizione delle dogane sui veicoli a quattro ruote di prezzo inferiore alle ventimila lire, in modo da incentivare l’acquisto dei cyclecars (veicoli assai leggeri, poco robusti, a metà strada tra la motocicletta e l’automobile) che stanno cominciando ad attrarre tutti quei potenziali automobilisti ai quali mancano i (tanti) quattrini necessari per acquistare una automobile “seria”. All’estero, dal dopoguerra in poi, la moda dei cyclecars attecchisce molto più che da noi: ne producono la Salmson, l’Amilcar, la Citroen, e quest’ultima promette agli italiani una torpedo pratica e veloce a 17.000 lire (il discrimine tra vettura elitaria e vettura utilitaria si attesta 1 intorno alle ventimila lire: al di sopra è un sogno, al di sotto…può essere una realtà raggiungibile). In Italia una vettura media, ossia di cilindrata compresa tra i 1600 cc e i 2500 cc, costa tra le 30 e le 50.000 lire. Nell’estate del 1929 la rivista “Tutti in automobile” scrive: “Dando un’occhiata ai listini delle dieci fabbriche italiane troviamo che il prezzo più basso è di 15.700 lire per uno spider di serie di 990 cc di cilindrata; abbiamo poi un altro chassis di 1290 cc di cilindrata al prezzo di 17.000 lire e infine una 1530 cc che, carrozzata torpedo, tocca le 19.800 lire. Tutto il resto della produzione è superiore alle 20.000 lire, per toccare le 140.000 con lo chassis Isotta Fraschini”. Certo, i cyclecars costano notevolmente meno, ma offrono anche poco, in fatto di affidabilità, comfort, prestazioni, durata. In Italia per esempio si costruisce la Temperino, che gode di una discreta fortuna tra il 1921 e il 1923; un paio d’anni dopo arriva la FOD, Fonderie Officine De Benedetti, che tra il 1925 e il 1927 mette sul mercato una vetturetta da mezzo litro di cilindrata con soluzioni modernissime, particolarmente interessanti per l’ampio sviluppo delle parti di telaio e motore in fusione. Tra l’una e l’altra azienda si colloca una serie di altre marche “artigianali”, che si pongono il medesimo obbiettivo: produrre una vetturetta di poco prezzo. Si arriva così al nodo della questione: il basso prezzo obbliga a rinunce impraticabili, per esempio all’impianto elettrico, al gruppo differenziale o alla quarta ruota, dando vita a veicoli a tre ruote dalla stabilità incerta. Inoltre a tutte queste iniziative, anche quelle più valide, fa difetto un valido appoggio commerciale, e una organizzazione in grado di propagandarle convenientemente. Il mondo é profondamente mutato, rispetto agli anni precedenti il primo conflitto mondiale: anche in Italia si fa strada, è il caso di dirlo, la convinzione che l’automobile dovrebbe diventare, fordianamente, un prodotto per tutti, senza contare che costruire un’automobile in grande serie garantisce livelli di occupazione crescenti (e questo per ristabilire la tranquillità sociale non è da trascurarsi) e profitti maggiori. Per raggiungere questi obbiettivi non basta avere il prodotto giusto, bisogna saperlo comunicare. La comunicazione assume un peso crescente e cruciale, tanto più che si accompagna al diffondersi nella società di un diffuso senso di speranza. “In 50 minuti sarà possibile, con questa fulminea ferrovia elettrica, raggiungere Milano da Torino; e – più tardi – non si dispera di allacciare il triangolo Torino – Milano – Genova con Roma in sole 4 ore”, titola “Auto Italiana del 31 gennaio 1925, riferendo di un’iniziativa di Gualino ed Agnelli. Sorvoliamo sul fatto che allora non “si disperasse”, ed oggi, a distanza di esattamente settant’anni, sarebbe il caso di cominciare a disperare davvero, visto che questi mirabolanti collegamenti ferroviari sono ancora di la’ da venire; resta il fatto che in quel momento ci si crede davvero, con un residuo di slancio futurista e positivista. Si crede nel progresso, anche se non lo si vede. La Fiat prova ad attrezzarsi convenientemente, dando vita all’imponente stabilimento del Lingotto, un mastodonte su cinque piani di 796.000 metri cubi, per costruire il quale erano servite 23.000 tonnellate di cemento e 4100 2 tonnellate di ferro, per il solo cemento armato. All’interno linee di montaggio d’avanguardia, progettate per una produzione di grandi numeri. Questi grandi numeri però, per lo meno nei primissimi anni del dopoguerra, ancora mancano. E’ al Salon di Parigi dell’ottobre del 1924 che si prepara la svolta. La Fiat presenta la 509, definita subito “la macchina di grande successo per la piccola borghesia italiana”. Ne espone il telaio, ne descrive le caratteristiche tecniche (motore a quattro cilindri 55 x 95 di 900 cc di cilindrata, freni sulle quattro ruote), non ne dice il prezzo, tanto per accrescere l’aspettativa. E’ evidente però che si tratta di una “vera e propria vettura con tutti gli organi in miniatura”, e che potrebbe essere finalmente la sospiratissima “utilitaria” italiana. Nei mesi successivi, però,…cala il silenzio: della 509, che anche nel nome sembra richiamare una sorella minore della 519, non si parla più. Scrive la stampa specializzata nel gennaio 1925, a quattro mesi dal Salon di Parigi: “Non è che in Italia siano mancati i generosi propositi e le geniali iniziative anche in questo campo: ricorderemo – a coronamento di una lunga serie di nobili prove – la vetturetta FIAM…Ma è mancato il sussidio di una grande organizzazione, il finanziamento di un poderoso gruppo capitalistico, il complesso di mezzi che consente la produzione di serie a bassissimo costo. Ricordiamo il grido di gioia, l’unanime consenso che parve espressione di sogno realizzato, quando annunciammo da Parigi che sotto i nostri occhi era finalmente apparsa la 5 HP italiana: la Fiat 509. Grandi speranze furono subito concepite; apparve a molti, seducente coi suoi bagliori di una nuova vita, il miraggio di possedere un’automobile. Ma oggi non si spera più: si parla di consegne molto lontane, troppo lontane; si afferma che la Fiat non ha ancora predisposta l’organizzazione indispensabile per costruire il tipo 509. Questo sarà preceduto dalla “2 litri” 515 che, con l’incomparabile 501 e con la lussuosa 519, costituirà il formidabile “terzetto” della grande Marca torinese per il 1925”. Probabilmente questo silenzio è strategico, perché le nere previsioni dell’articolista vengono smentite con la presentazione in grande stile della 509 alla Fiera Campionaria di Milano, nell’aprile, in un padiglione esterno al Salone dell’Automobile e alla Fiera appositamente allestito per lei. Il battage commerciale che si scatena subito è notevole, segna una svolta nella storia della comunicazione pubblicitaria automobilistica, perché per la prima volta viene attuata con forme e metodi dichiaratamente americaneggianti. Finito il Salone di Milano, quelle stesse vetture che sono state esposte sono organizzate in carovana e attraversano tutta l’Italia, da Milano a Genova, da Firenze a Siena, da Perugia a Roma, da Napoli a Campobasso, da Ancona a Ravenna a Padova. Un modo semplice, ma ancora mai attuato, per permettere all’intera popolazione, ancora lontana dall’immaginare l’invenzione della televisione, di vedere da vicino una di queste vetture. Sono allertate tutte le filiali e concessionarie Fiat per accogliere il corteo nei migliori dei modi, per creare un’aspettativa gioiosa, un’accoglienza vivace. Vengono mobilitate personalità dello spettacolo e del mondo culturale, come il commediografo 3 Sam Benelli che saluta le vetture “quale branco di colombe augurali lanciato sulle strade d’Italia”, le moltitudini si assiepano lungo le strade, un po’ come avrebbero fatto per la Mille Miglia che vedrà la sua prima edizione di lì a due anni. La seconda mossa è l’inaugurazione di un nuovo sistema di vendita a rate, mediante una società costituita ad hoc, la SAVA, “per la vendita in commissione di autoveicoli e macchine in genere con pagamento rateale”. E’ una novità assoluta, nel panorama italiano, una svolta importante nella storia del costume nazionale. Per la prima volta è creato un ente attrezzato per la vendita a rate delle automobili che, contrariamente ad altre organizzazioni similari, non persegue un fine commerciale. La SAVA vende infatti le macchine Fiat al prezzo di listino, non gravandole che delle pure spese per l’ottenimento del credito bancario, fruendo degli organi commerciali della Fiat stessa, assicurando la serietà, la prontezza, l’efficienza della casa madre. Con un acconto di 5.000 lire alla consegna e lo scaglionamento in 24 rate mensili, la Sava, per circa 19.000 lire complessive, contro il prezzo d’acquisto di 18.500, trasforma la 509 berlina da sogno a realtà per migliaia di commercianti, viaggiatori, professionisti e donne. Già, donne: perché la terza mossa di questa campagna pubblicitaria inedita e di grandissimo successo è proprio rivolgersi in particolare al pubblico femminile, impostando una comunicazione insistentemente rivolta all’altra metà del cielo, e comunque sempre giocata sulla praticità, economicità, maneggevolezza, eleganza, che sono ancora oggi i punti cardine delle pubblicità “al femminile”. Capolavoro ultimo, al proposito, è il tocco che a tutto questo da’ l’istrionico e astuto Gabriele d’Annunzio, “vate” della scena letteraria italiana, e spesso alla ricerca di eleganti espedienti per non pagare i conti. Nel dicembre del 1925 l’illustre poeta, mentre getta nella fornace del Vittoriale, sua estrosa e funebre magione, anche i soldi che non possiede, si rende conto di quanto gli manchi un’automobile nuova, o un automobile nuovo, visto che in Italia ancora si tentenna nell'attribuirle un sesso certo. Detto fatto: ne chiede una al Senatore Agnelli. Il quale intuisce i vantaggi di un dono, e non esita a spedire a Gardone una cabriolet 509, “gioiello della meccanica italiana”, di colore amaranto, come da desiderata del grande. Questi, sollecito nel ringraziare il donatore, infila a bella posta nei ringraziamenti una frase che neanche un esperto mediatico di oggi poteva studiare meglio: “La Sua macchina mi sembra risolvere la questione del sesso già dibattuta. L’Automobile è femminile. Questa ha la grazia, la snellezza, la vivacità di una seduttrice; ha inoltre una virtù ignota alle donne: la perfetta obbedienza”. Agnelli, a stretto giro di posta, risponde compiaciuto: “Mi permetta di manifestarle il mio apprezzamento, valendomi del Suo giudizio anche nei confronti del pubblico, che non saprei d’altronde defraudare della Sua decisione sovrana che consacra ed innalza in modo definitivo l’automobile nel regno della femminilità”. E così, mentre D’Annunzio si consacra come l’unico italiano capace di pagare un’auto con un apostrofo, Agnelli ha un’ulteriore carta 4 mediatica in mano per propagandare la sua auto, femminile a tutti gli effetti, destinata ad un pubblico di giovani ed intraprendenti guidatrici. Che però dovevano essere anche abbastanza danarose, perché nonostante tutti gli sforzi, la 509 rimane una vettura tutt’altro che realmente utilitaria. La versione berlina costa 18.500 lire, paga una tassa annuale di circolazione di 366 lire, e questo mal si addice agli stipendi di allora. Una cifra del genere significa cinque anni del salario di un operaio specializzato, o due anni di un piccolo artigiano, di un professionista alle prime armi, o di un archivista in un ministero. La Fiat si sforza negli anni di abbassare i prezzi di vendita all’osso: nel 1928 la spider è venduta a 14.500 lire, la torpedo a 15.900, la coupé due posti a 17.500, la berlina a 17.800, la berlina Weymann a 19.500. Ma è pur sempre molto. I costi di produzione, d’altronde, non permettono un abbassamento dei prezzi al pubblico tale da incentivarne davvero la diffusione: la carrozzeria è di costruzione prevalentemente manuale, con largo impiego di selleria interna ed esterna; la meccanica è tutt’altro che semplificata; lo chassis è composto di elementi imbullonati e chiodati che richiedono anch’essi un montaggio manuale. E’ una delle ultime vetture che impone un assemblaggio con largo utilizzo di manodopera specializzata: fra qualche anno questi sistemi saranno superati, sarà l’inizio di nuovi metodi con largo impiego di presse e stampaggio. Ma per ora… Pur con questo barcamenarsi tra vecchio e nuovo, la vettura nasce con una certa dose di spirito rivoluzionario nell’impostazione. Responsabile del progetto è l’avv. Carlo Cavalli, direttore tecnico che nel 1919 era stato promosso da Guido Fornaca, direttore generale della Fiat e poi dal 1920 Amministratore delegato, a responsabile della progettazione di vetture e di veicoli industriali Fiat. Cavalli si avvale, nella progettazione, anche di Emilio Martinotti, dell’Ufficio tecnico progettativo, e di Bartolomeo Nebbia, entrato alla Fiat nel 1911 e dal 1920 Capo dell’Ufficio Tecnico Motori. Entra nel progetto, anche se per poco, anche l’ing. Giulio Cesare Cappa, alle dipendenza Fiat dal 1914 come Capo Ufficio Tecnico e che aveva contribuito alla realizzazione della 519. Vi entra per poco, perché lascia la Fiat nel 1924. Pur essendo piccola (è la prima Fiat di serie con motore inferiore ai 1000 cc) la 509 è un prodotto automobilistico di rango: carrozzeria integralmente metallica, robusto chassis, motore con albero a camme e valvole in testa, con comando a catena silenziosa, una soluzione davvero innovativa; ampia dotazione di accessori e strumenti di controllo , gamma completa di versioni (torpedo, berlina, spider, coupé-cabriolet). L’aspetto più interessante è forse il gruppo motore. Infatti, per quanto riguarda l’autotelaio, la nuova utilitaria Fiat non è molto innovativa rispetto agli altri modelli della casa già in produzione. In tutti, dalla 501 in poi, ossia la 505, 510, 503, 507, 512 ecc., vi è l’impronta chiara della filosofia (è il caso di dirlo, visto che è un avvocato e non un ingegnere) di Cavalli: chassis solidi, motori con blocco cilindri in ghisa su basamento d’alluminio, lunghezza della biella molto grande rispetto alla corsa, valvole laterali. La 509 si differenzia per le valvole in testa: dettaglio 5 che la accomuna soltanto alla 519 e alla Superfiat, oltre che con i tipi da corsa con i motori 401, 403, 405, ecc. La 509, con il suo motore 109, è perciò il primo esempio di vettura destinata alla grande serie che adotta contemporaneamente albero a camme e valvole a V in testa. Evidenti i vantaggi di questa soluzione, che non comporta neanche eccessive difficoltà costruttive: camera di combustione emisferica, elevato regime di rotazione, eliminazione delle forze d’inerzia, riduzione degli organi in movimento, per mancanza delle aste. Il motore 109 è innovativo anche per la disposizione del collettore di aspirazione nel monoblocco, per cui il carburatore risulta fissato direttamente alla parete di quest’ultimo. Anche la frizione, monodisco, si differenzia dal tipo a dischi multipli montato sugli altri modelli in produzione. Questi dettagli d’avanguardia rivelano l’attenzione della Fiat, all’epoca, al mondo delle corse, e il suo impegno a studiare vetture competitive e sperimentare soluzioni nuove, come per esempio la sovralimentazione (che la Fiat sarà la prima casa al mondo ad adottare sistematicamente sui suoi modelli da corsa a partire dal 1923). Questo spiega lo sforzo di innovazione e l’interesse a certe scelte tecniche applicate ad una vettura di serie destinata ad un vasto pubblico. Suona curiosa invece la scelta di un cambio a tre marce più retromarcia. Nessuna altra vettura Fiat opta per questa spartana soluzione, né prima né dopo la 509, se si fa eccezione per la prima Balilla, nota appunta come “tre marce”, del 1932. Ebbe successo? Da una parte, sicuramente sì: é la prima Fiat ad essere prodotta in oltre 90.000 esemplari, e alle versioni iniziali si aggiungono presto anche la giardiniera e la torpedo commerciale, antesignana della station-wagon odierna, il landau per i servizi a tassametro e lo spider siluro corsa. Aggiornata in alcuni dettagli meccanici e diventata, dal 1926, 509A, compie anche mirabolanti imprese sportive, come la partecipazione al Rally di Montecarlo del 1928 partendo da Bucarest, dove, pilotata dal francese Bignan, si impone coprendo i 3030 km del percorso in 85 ore e 46 minuti. Dall’altra, forse no. Viene tolta dalla produzione alle prime avvisaglie della crisi del 1929 e sostituita con una vettura meno geniale e più conformista, la 514, dopo appena quattro anni dalla messa sul mercato. Questo perché, con il tempo, emerge sempre più chiaramente la sua incapacità ad essere realmente “utilitaria”. Le resta il merito di aver inaugurato un nuovo sistema di vendita, abbinato ad un’inedita, scintillante e colorata comunicazione pubblicitaria, che soppianta facilmente i modi compassati ed “ingessati” della strategia comunicativa precedente, e di aver dato forma raffinata ed elegante all’impostazione dell’utilitaria propriamente detta, valida ancora oggi: un litro di cilindrata, quattro posti, carrozzeria compatta. Vuole essere per tutti e non ci riesce: è la sua unica pecca. il 21 dicembre 1927 la Banca d’Italia abolisce il corso forzoso, e stabilisce il rapporto di 3,66 lire carta per ogni lira oro 6 Donatella Biffignandi Centro di Documentazione Museo Nazionale dell’Automobile di Torino 7