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AVANTI BALILLA
Cosa fece il fascismo per la motorizzazione in Italia? Fece molto, ammettiamolo. Nei
primi trent’anni del ventesimo secolo si erano accumulati oltre quaranta decreti in
materia di circolazione automobilistica: e non sempre per favorirla, anzi. La maggior
parte di questi decreti aveva ingarbugliato ancora di più la situazione, ostacolando
una diffusione del veicolo a motore che invece procedeva speditamente nel resto
d’Europa. Nell’ultimo sciopero generale in epoca giolittiana (1922), i prefetti delle
maggiori città italiane avevano proibito la circolazione agli autoveicoli, in quanto, e
questo è significativo, ogni cosa semovente era considerata di per sé pericolosa
socialmente e politicamente. Ancora nell’ottobre 1922, poco prima della marcia su
Roma, Giolitti aveva annunciato il raddoppio della tassa di circolazione, addossando
così ai proprietari di automobili, presunti ricchi, l’onere di risanare il deficit di
bilancio, quando già ogni automobile, all’atto dell’acquisto, era gravata della
cosiddetta “tassa di lusso”. Per concedere ad imprenditori privati il trasporto
automobilistico degli effetti postali, una regia legge del 1905 imponeva la
dimostrazione del perfetto funzionamento per sei mesi, in concorrenza con le locali
imprese postali a cavalli. Una volta dimostrata tale efficienza, veniva corrisposto al
trasportatore un sussidio annuo massimo di 500 lire al km, troppo esiguo per
sostenere l’onere d’acquisto ed usura dei mezzi, per di più su strade spesso in
condizioni deplorevoli. Qualche anno dopo fu approvata un’ulteriore legge, che
imponeva l’affidamento al concessionario del pubblico servizio automobilistico
anche dell’appalto della manutenzione stradale. Inutile rilevare quanto fossero pochi,
a queste condizioni, i trasportatori privati che riuscivano ad ottenere la concessione
del servizio. I servizi automobilistici erano dunque pochi, stentati, scarsamente
redditizi. Una svolta, rispondente al continuo cambiamento dei tempi, urgeva, ed
arrivò nel 1932 con una legge che (“con fascistica concisione”! commentò
l’ossequiosa “Auto Italiana”) diceva: “Il Ministro delle Comunicazioni è autorizzato
a sostituire parzialmente o totalmente i servizi ferroviari con servizi automobilistici”.
Si trattava effettivamente di una grande novità: era il riconoscimento ufficiale, anche
a livello governativo, della convenienza di istituire servizi di autotrasporti in luogo
dei servizi ferroviari. Fu vista dall’opinione pubblica, e ancor più dagli organi del
settore, come la rivincita dell’automobile sul treno, la vittoria definitiva del
novecento, il secolo dell’automobile e della mobilità individuale, sull’ottocento, il
secolo della “strada di ferro” e del trasporto collettivo. Finalmente ci si poteva
scrollare di dosso la supremazia del treno, il cui diffondersi era di per sé considerato
segno di progresso, ed affidare, stavolta seriamente, ad una preparata classe di
imprenditori privati l’onere delle comunicazioni e dei trasporti di merci e persone.
Le intenzioni erano buone, e scaturivano da una effettiva situazione geografica che
poco si conciliava con la ferrovia. Il treno è perfetto per nazioni piatte ed estese come
la Francia; ma, per un paese lungo e stretto, ingombro di montagne come il nostro, e
per di più costellato da oltre 6.000 piccoli comuni non facilmente raggiungibili, il
veicolo a motore non poteva non sembrare uno strumento di trasporto più agile ed
appropriato. Ormai da anni, invece, ci troviamo a rimpiangere un maggiore
sfruttamento delle linee ferroviarie o fluviali per il trasporto delle merci; a maledire i
Tir per avvelenarci le valli e affollare le autostrade…com’è difficile trovare una
soluzione che funzioni anche a distanza di cinquanta, settant’anni.
Negli anni precedenti, ossia nel 1923, era uscito il nuovo Codice della Strada, poi
modificato ed integrato nel 1928. Nel salutare il nuovo codice, a ventidue anni dal
primo emanato in Italia, i toni si fanno aulici. Viene definita “aurea conquista della
legislazione circolatoria fascista” l’eliminazione dei limiti fissi di velocità. Come si
vede, i problemi in Italia non cambiano mai: si limitano a ritornare, identici a prima,
ciclicamente. L’insofferenza ai limiti di velocità è poi un tratto assolutamente
distintivo della nostra razza: soltanto qualche governante incurante del consenso, e
preoccupato del bene collettivo, può permettersi di sfidarlo. Chi ha bisogno del vasto
consenso popolare si affretta in genere ad eliminare ogni restrizione e si ingrazia con
facili concessioni un popolo che non chiede di meglio. La velocità massima, fissata a
venticinque km/h nel 1901, sale a 40 nelle successive elaborazioni del codice stradale
(1905 e 1912), e arriva quindi a cinquanta, finché nel 1928 non giunge il “liberi tutti”,
su tutte le strade, comprese quelle all’interno dei centri abitati. Dunque “l’utile
missione civile del fattore velocità è stato compreso dal Regime, che ne ha tollerato
indulgentemente gli eccessi per non comprometterne i pregi”, scriveva Auto Italiana.
Il codice del 1928 introduceva anche l’istituto della conciliazione (per cui tutte le
contravvenzioni meno gravi potevano essere conciliate direttamente, versando
all’agente accertante la somma di venticinque lire); l’estensione della mano destra
dovunque; la creazione del Pubblico Registro Automobilistico, per dare un privilegio
legale a coloro che acquistavano un’auto utilizzando il sistema rateale.
Non sono provvedimenti di poco conto, per creare un habitus mentale più favorevole
al diffondersi dell’automobile di quanto fosse stato fino a quel momento. Mussolini si
trova nella necessità di dare un segno molto chiaro: vuole che l’automobile si
diffonda in Italia, e che l’Italia recuperi il ritardo accumulato rispetto agli altri grandi
paesi europei, sia perché ne guadagna l’immagine del regime stesso e crea ulteriore
consenso; sia per dare respiro ad una l’industria nazionale, di cui quella
metalmeccanica era sicuramente il traino, in grande difficoltà per le ripercussioni
della crisi americana del 1929.
C’è molto lavoro da fare, per portare l’Italia a livello europeo. Nel mondo, nel 1932,
circolano 36 milioni di autoveicoli, dei quali ventotto sono concentrati negli Stati
Uniti. La sola Los Angeles conta 550 mila autoveicoli per un milione ed
ottocentomila abitanti. Tutte queste auto non sono un gran problema, perché
l’America è solcata da 4 milioni e mezzo di chilometri di strade larghe e comode,
simili alle nostre autostrade. La gamma di automobili in commercio è molto ampia, e
la crisi ne ha abbattuto i prezzi. Una Plymouth 6 cilindri modello 1933 si poteva
portare a casa con 575 dollari, equivalenti ad undicimila duecento lire di allora; le
Ford, a otto e quattro cilindri, non costavano molto di più (tra i 540 e i 590 dollari,
ossia 10.500 e 11.500 lire); la più cara era la Dodge 6 cilindri (670 dollari, ossia
13.000 lire). Chiaro risultato di una produzione contrattasi del 30% tra il 1931 e il
1930, ed di una altrettanto decisa diminuzione delle esportazioni (la metà, nel
confronto tra il 1929 e il 1931). La crisi d’altronde colpiva tutti i paesi. La produzione
automobilistica mondiale, tra il 1929 e il 1931, si ridusse esattamente della metà: da
sei milioni a tre milioni di auto prodotte. Agnelli, in una intervista rilasciata nel
giugno 1932 alla United Press americana, disse: “Mi si domanda cosa penso della
crisi. Penso innanzitutto che nessuna crisi fu mai tanto vasta e profonda. Questa
colpisce tutto il mondo. Non è una delle solite crisi periodiche, cosiddette cicliche,
ma è una crisi che tocca tutta la struttura dell’economia mondiale, e se la soluzione
dovesse essere lasciata al naturale gioco delle forze economiche, dovremmo
aspettare molto tempo…”Agnelli, con coraggio, aveva indicato la via rooseveltiana al
risanamento: riduzione delle ore di lavoro (per aumentare l’occupazione) e aumento
dei salari (per rialzare i consumi). L’intervista non fu mai pubblicata su un giornale
italiano. Troppo grande la distanza dalle strategie governative, che tendevano sì a
sostenere l’industria, ma senza dare troppo respiro alle masse lavoratrici,
notoriamente infide. Gli alti salari avrebbero “reso irrisorio il benessere degli operai
che si vedono quegli stessi alti salari ritolti da un assetto industriale che con le
tentazioni infinite della vendita a rate induce l’operaio ad uno spendere quotidiano
non corrispondente alle sue possibilità”.
Però Agnelli e Mussolini, pur nell’antipatia reciproca (“quei coglioni di Roma” era
l’appellativo con cui Agnelli definiva i governanti fascisti; “la Fiat deve smetterla di
considerarsi una istituzione intangibile e sacra, al pari della Dinastia, della Chiesa e
del Regime”, tuonava il duce) una convergenza la trovarono. Agnelli lanciò sul
mercato, dopo decenni di attesa, una vetturetta economica e brillante, dal costo
accessibile; Mussolini congelò la tassa di circolazione, provvedimento già reso molto
popolare da Hitler in Germania. La vetturetta economica, ossia la Fiat 508 Balilla
presentata al Salone di Milano del 1932, non era più rimandabile, a fronte di un crollo
delle esportazioni che occorreva a tutti i costi compensare almeno in parte con
l’estendersi del mercato interno. L’Italia infatti, ancora all’inizio degli anni venti
esportava circa il 60% della sua produzione; il 51% nel 1927, il 44% nel 1930, contro
appena il 13% dell’Inghilterra e il 17% della Francia nello stesso anno. Quello stesso
anno, in virtù della recessione mondiale, furono presi dappertutto dei provvedimenti
doganali a protezione della rispettive produzioni nazionali che diedero il colpo di
grazia al flusso di importazioni/esportazioni. In Italia, dalle 20.735 vetture esportate
nel 1930, si passò alle 11.942 unità l’anno successivo: un crollo del 50%, ancora più
accentuato in termini di valore (da 289 milioni di lire nel 1930 ai 153,8 milioni di lire
nel 1931) per la continua discesa del costo unitario delle macchine. Le industrie
automobilistiche sopravvivevano soltanto in presenza di un forte mercato interno.
Finora, la capacità di assorbimento del mercato interno italiano era stata trascurabile:
nel 1932 circolavano circa 400.000 autoveicoli, comprese le macchine stradali, le
trattrici agricole, i camion e gli autobus. Essendo la popolazione italiana di circa 40
milioni, vi era un veicolo (non un’automobile!) ogni cento persone. Se parliamo
invece di autovetture, al 31 dicembre 1932 ne circolavano 227.445, grosso modo una
ogni 200 abitanti. Cifre risibili, in confronto al milione e 700.000 vetture circolanti in
Francia, al milione e mezzo della Gran Bretagna, alle 700.000 unità della Germania.
In Europa, perciò eravamo quarti in graduatoria, e ottavi nel mondo; ma con distacchi
profondi. Pare davvero un po’ arzigogolato l’editoriale di “Auto Italiana” del 10
aprile 1932, in cui si rileva che è vero che negli Stati Uniti circolano 28 milioni di
autovetture, però nel 1931 la circolazione era diminuita di mezzo milione di unità,
mentre da noi era aumentata di qualche migliaio…
Anche i numeri della produzione non si discostavano da questo trend. In Italia il
volume produttivo del comparto automobilistico sale tra il 1926 e il 1927 (da 50.000
a 65.000 unità), ridiscende l’anno successivo (55.000), risale (60.000), ridiscende
drasticamente (48.000 vetture prodotte nel 1930). In Inghilterra e in Francia, invece,
sale costantemente, sia pure di poco. In cinque anni, tra il 1926 e il 1930, la
produzione britannica sale da 180.000 autovetture a 238.000; in Francia, da 190.000 a
230.000. Tutta un’altra musica.
Questa è la situazione che sgomenta gli industriali, in prima fila Agnelli, e rende
impaziente Mussolini, che scalpita per avere la “sua” “auto del popolo”. Due linee di
progetto totalmente nuove rispetto alla precedente produzione erano state avviate in
Fiat, da qualche mese. La prima sviluppava un’ipotesi d’avanguardia: un modello con
motore bicilindrico, raffreddato ad aria, a trazione anteriore, il cui progetto era
seguito dall’ing. Lardone. La seconda proponeva invece un’automobile moderna, con
motore anteriore a quattro cilindri a trasmissione posteriore, ma sostanzialmente
legata alla filosofia progettuale tradizionale. Era seguita dall’ingegner Fessia. Il caso,
o meglio un incendio che distrusse completamente il prototipo della vetturetta di
Lardone, decise a favore del progetto di Fessia, che nel giro di pochi mesi fu portato a
termine in tempo per la presentazione della vettura al V Salone dell’Automobile di
Milano, inaugurato l’11 aprile. “Oggi tutti i profeti, i critici e i consiglieri del patrio
automobilismo canteranno vittoria. Chi non ha auspicato, o non s’è battuto, in Italia,
da un lustro a questa parte, per l’automobile popolare, sotto le varie denominazioni
di macchina economica, di vetturetta, di vettura ultra-utilitaria, di automobile
tascabile, e via discorrendo? E’ logico dunque che, vedendosi finalmente coronato il
lungo fervido sogno di tutti, ognuno sente un poco l’orgoglio della paternità morale
della nuova creazione Fiat, che affronta oggi il battesimo del pubblico al Salone di
Milano. Infatti la principale caratteristica della nuova Balilla è proprio quella di
soddisfare tutti i gusti, le tendenze, i desiderati dei vari zelatori nostrani della
vetturetta, senza prendere netto partito per una data categoria a scapito delle altre. E
non per virtù di approssimati compromessi tra le esigenze delle varie classi della
clientela, ma proprio per aver risolto al cento per cento ogni peculiare problema di
ciascuna classe. L’eccezionalità dell’evento industriale, la sua portata di
avvenimento nazionale, il coro di entusiasmo ch’esso ha destato in tutta la Penisola,
sono in funzione di questo suo straordinario carattere di aderenza tipica ai gusti e
alle attese più svariate; ed è perciò che la comparsa della Balilla va salutata anche
su queste pagine come il più importante fatto dell’automobilismo italiano nel
dopoguerra”. Cosa rendeva tanto eccezionale la piccola Fiat? Il prezzo, innanzitutto.
Costava 10.800 lire, e lo spider 9.900. Per la prima volta dunque veniva offerta una
vettura italiana per una cifra intorno alle diecimila lire, il che, nell’immaginario
collettivo, costituiva un po’ il discrimine tra la macchina di tutti e la macchina di
pochi. A questo si aggiunse l’intervento di Mussolini, che introdusse la franchigia
dalla tassa di circolazione a tutto il 30 giugno 1933 per le vetture utilitarie nazionali
nuove di fabbrica, intendendosi per utilitarie le macchine con potenza fino a 12
cavalli e prezzo fino a dodicimila lire (il che era un altro modo per dire Fiat 508
Balilla, perché non esisteva altro con queste caratteristiche sul mercato italiano). Era
un provvedimento in realtà meno rivoluzionario di quanto può parere a prima vista,
perché le vetture di nuova immatricolazione e nuove di fabbrica godevano già di
franchigia per i primi sei mesi. Tradotto in cifre, il dono del regime agli acquirenti
della Balilla corrispondeva a circa 250 lire. Analogo dono veniva fatto, grazie a un
disegno di legge presentato dal Ministro della Guerra Gazzera, agli acquirenti di
autocarri nuovi per merci, fabbricati in Italia, come di trattori agricoli e di
autoinnaffiatrici, purché di fabbricazione italiana.
Per tornare alla Balilla, non era soltanto il basso costo di acquisto la prerogativa
principale, bensì anche il modico costo di esercizio. Se ne vantava un costo per le
riparazioni decisamene minore rispetto, per esempio, alla Fiat 509, cosa sicuramente
vera: basta pensare che per sostituire la frizione in una 509 occorreva estrarre il
ponte, le ruote posteriori e le balestre, nonché staccare la fune dei freni posteriori ed il
cambio, mentre per la Balilla bastava estrarre il solo cambio di velocità. I freni
idraulici, applicati per la prima volta su una vettura popolare, oltre a permettere una
condizione di sicurezza innegabilmente migliore, richiedevano un minor numero di
registrazioni. Anche il telaio (controventato da una robusta crociera) e la verniciatura
della carrozzeria (alla nitro-cellulosa) erano vantati come due caratteristiche in grado
di garantire alla vettura maggiore solidità, durata e robustezza. Tra la 509 e la 508 vi
erano 170 chilogrammi in meno in favore della Balilla, il che poteva corrispondere a
circa due litri in meno di consumo carburante ogni cento chilometri. Insomma, a conti
fatti, il complessivo costo chilometrico, incluso l’ammortamento del capitale, gli
interessi, i rifornimenti e la manutenzione, era stato calcolato tra i 30 e i 40 centesimi,
un record.
Nel coro entusiastico, nel plauso di un’intera nazione al prodigioso ritrovato della
fulgida produzione nazionale, ci fu chi si permise qualche critica. Qualcuno osò
richiamarsi alla Renault 6HP, stupendosi che una vettura così spaziosa, brillante e
ben congegnata potesse costare soltanto tremila lire in più della vettura italiana;
qualcun altro si permise di dubitare che tra la Fiat 509 e la Fiat 508 ci fosse un
effettivo progresso. E’ molto interessante soffermarsi su queste critiche, anche se vi
cadde l’anatema. “Una critica affrettata, partigiana ed ingiusta”, scrive Auto Italiana
(10 agosto 1932) – “paragonare la Balilla…ad altre vetturette straniere è enorme,
assurdo, delittuoso”. Il delitto consisteva nel notare un regresso (rispetto alla 509)
nella carreggiata e nell’interasse, e perciò nell’abitabilità, della carrozzeria
impavidamente definita “lillipuziana”, più piccola ancora della 750 Rosengart; una
minima differenza di prezzo rispetto alla “nove”, venduta a dodicimila lire soltanto
sette anni prima; la mancanza della quarta marcia, già avvertita pesantemente sulla
macchina precedente. Insomma una vettura più piccola, altrettanto costosa o quasi,
poco brillante, di un’automobile studiata e progettata dieci anni prima, mentre la
concorrenza internazionale poteva vantare vetturette di concezione assolutamente
nuova come la Rosengart, la Peugeot 201, la Donnet, Salmson, Amilcar, DKW, Opel,
Wanderer e Ford 8HP... Ve ne era abbastanza per entrare nella categoria dei
criminali.
In realtà le dimensioni interne delle Balilla erano più che rispettabili: la larghezza
interna netta e la luce libera tra pavimento e cielo coincidevano quasi con la Fiat 522,
vettura di classe ben superiore. Il prezzo però…era sicuramente alto, troppo alto per
l’assoluta maggioranza della popolazione italiana. Non a caso lo stesso senatore
Agnelli, nel corso di una relazione alla presenza degli azionisti Fiat, affermò: “La
Balilla, con il suo significativo successo, è caposaldo dell’incremento automobilistico
nazionale e anche nell’avvenire essa avrà parte importante nella gamma di
produzione Fiat. A essa si aggiungerà nel futuro una piccola due posti che sia atta a
dare maggiore diffusione all’automobilismo in Italia, rispondendo così alle necessità
preminenti del mercato ovunque caratterizzato dal sopravvento della vetturetta
economica”. Ecco, già si parla di una piccola due posti, la futura Topolino, e non è
neanche passato un anno da quando è stata presentata la Balilla. Alla fine del 1932 in
Italia circolavano circa diecimila Fiat 508 (su una produzione di circa 12.000). Dal 31
marzo 1932 al 31 dicembre dello stesso anno, la circolazione in Italia era passata
infatti da 213.001 a 227.445 autovetture. Un buon risultato, considerando che di 509
ne erano state costruite in un anno appena duemiladuecento. Un risultato quasi
ininfluente ai fini però di una effettiva diffusione dell’automobile in Italia. In
conclusione, i problemi erano stati affrontati ma non risolti. Per essere in Italia, era
già qualcosa.
Donatella Biffignandi
Centro di Documentazione Museo Nazionale dell’Automobile di Torino
2002
L’autrice, per la redazione del presente articolo, si è basata principalmente sulle
seguenti fonti: “Auto Italiana” del 1932, il volume “Fiat 508 Balilla” di Antonio
Amadelli, Giorgio Nada Editore, “L’automobile italiana 1918- 1943” di Alberto
Bellucci, editori Laterza; “La capitale dell’automobile. Imprenditori, cultura e società
a Torino”, di P. Rugafiori, Marsilio editore. I testi citati sono conservati presso il
Centro di Documentazione del Museo dell’Automobile e a disposizione di quanti ne
facciano richiesta di consultazione.