La Siesta e le palle.
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La Siesta e le palle.
La Siesta e le palle. La “compagnia degli esaminatori” si riunisce quasi ogni sabato, e comunque tutte le volte che c'è da studiare. Che cosa studiamo? Tutto ciò che ha a che fare con i piaceri del palato. Sabato scorso, per improvvisa decisione, siamo tornati alla Posada Patagonia dopo qualche mese. Ovviamente abbiamo cenato argentino accompagnando con una bottiglia di Malbec. La conversazione è caduta sul porcino fresco, il noto boletus edulis, e sulla possibilità di impiantare una cena che lo vedesse, fresco, presente dal principio alla fine. Il mio scetticismo sulla presenza di luoghi nei quali verificare la questione ha fatto scattare la molla della competition nell'amico Sergio. Scommessa la cena, una settimana dopo l'appuntamento è fissato sulla Selva di Fasano, La Siesta il cui patròn è il sig. Giacomo. Lo studio riguarda due vini delle Tenute Rubino: Jaddico e Punta Aquila, il terzo di raffronto è stato il negroamaro di Càntele. Piove che dio la manda, le strade sono strette e scivolose e il fascino del panorama che si gode dalla selva tende a distrarre autista e passeggeri. Finalmente si giunge al luogo deputato. Presentazioni di rito, il locale è ampio e luminoso, semplice e arredato con gusto. Giacomo ci tiene a dirmi che lui ha una trattoria e non un ristorante, che preferisce avere a tavola amici piuttosto che clienti e in queste brevi parole è lo stile della serata che ci apprestiamo a vivere. In sei, due per lato e due a capotavola, nella formazione classica dello studio, lasciamo aprire la bottiglia di Jaddico che, a mio parere, al naso si presenta in modo gradevolissimo (non userò mai, in questo luogo, gli aggettivi che usano quellichenecapiscono), al palato tiene abbastanza la promessa ma il finale mi lascia la bocca amara e un retrogusto che non apprezzo. Il giudizio non è unanimemente condiviso e qualcuno attribuisce la colpa al mio dentifricio. Mah. Per ragioni extra non ho umore eccellente e la critica leggermente sarcastica incattivisce il mio ego, che è spesso ipertrofico, stimolandomi ad una pessima predisposizione. Finalmente giunge il cestino del pane con alcune bustine di tarallini. Il pane lo sento un po' crudo e i tarallini in bustina non li assaggio nemmeno, li trovo di cattivo gusto. Lo Jaddico, nonostante il pane, continua a lasciarmi la bocca amara e a darmi una sensazione di vino senza carattere, di vino con disciplinare Brindisi DOC ma che di Brindisi non ricorda assolutamente nulla. S'avanza un piatto con una specie di piadina condita con pomodorini e origano e due grandi vassoi in creta nei quali giacciono delle fette sottili, precise ed uniformi di funghi porcini frammiste con delle scaglie di grana e contornate da rucola coltivata. Un filo d'olio, sale e pepe. Accompagnati con la piadina di cui sopra risultano semplicemente deliziosi. Riprovo lo Jaddico, forse sono maldisposto ma la sensazione di amaro finale permane. Mi complimento con Giacomo e, de relato, con Piero che non ho conosciuto ma sembra sia lo chef. Noto due cose su tutto: la precisione delle fette e la bontà dell'olio. Olfattivamente il porcino si rivela al secondo naso. Tutto molto armonioso. Il mio umore cambia, ascolto la storia di Giacomo, scopro che mi è quasi coetaneo e con infanzia simile, riesco ad apprezzare anche Nico e Mimmo, giovani camerieri efficienti e disponibili. Solleticato lo scalco che è in Giacomo, dalla cucina si fanno strada delle verdure fritte con una pastella divina e delle olive nere e invaiate anch'esse fritte, e, ad abundantiam, dei funghi lardari sotto'olio che mi ricordano tanto quando andavo a raccoglierli io e la mia mamma ne faceva vasetti per tutti. Il racconto di Giacomo, l'armonia degli stimoli gastronomici, la compagnia mi fanno pensare che quando il settimo giorno Dio riposò, si sia fermato a cenare con quelle vivande ma abbia cambiato vino e quindi lo ho fatto anche io. Propendo per un Negroamaro in purezza di Cantele. Sarò fissato, trovo questo assai più gradevole e meravigliosamente concorde con le delizie che Giacomo fa giungere. E quella che sopravviene è davvero da primato: una pappardella fresca sempre con dei funghi porcini e un fondo d'aroma d'aglio e poco prezzemolo relegati come contorno al profumo del boleto che adesso è fiero e presente, ed anche i pezzi sono carnosi e spessi, irregolari e dall'intenso effluvio. Che spettacolo d'insieme. Il negroamaro vola via su questo piatto, vola come un albatro, alto e tranquillo. Una piccola pausa ad ascoltar le storie di Giacomo che le racconta con voce bassa e sorriso ammiccante, e intanto prende forma un filetto in salsa di funghi porcini cotto come si deve e saporito assai, ad arricchir l'aspetto tre fette di porcino da due millimetri, tagliate precise come vetri da incasso. È giunta l'ora del Punta Aquila, primitivo in purezza che, a bocca asciutta lascia alla fine un forte segno di aspri tannini. Ma sul filetto si stende come vacanzieri sulla sabbie di luglio, si crogiola e avvolge liberando profumi e sapori che rendono il peccato di Cacciaguida degno d'esser arrischiato, tanto è il divin piacere terreno. Eppure, chiedo di più e da Giacomo basta chiedere, che di tutto quello che c'è non manca nulla. Percepisce l'esperto uomo il desiderio d'avventura che il Punta Aquila suggerisce e fa preparare a Pietro un'altra piadina che condisce con delle fette di lardo “paesano” appena tagliate. Nel frattempo ho chiesto a Nico di far passare sulla brace qualche pezzo di ventresca. E la quadra è trovata. Provatelo un bicchiere di Punta Aquila con la ventresca “firrata”, provatelo e poi ditemi se non vale la pena dimenticare per un momento il colesterolo … A terminare, volendo onorare una bottiglia di Botrus, ho optato per una crostata ai frutti di bosco “semilocale”. Ahimé era solo ottima. Dopo aver salutato e pagato la mia parte di un conto non eccessivo, nel quale la quota di Sergio è andata a mio carico come da impegno assunto, abbiam preso la via del ritorno. Via che ho vissuto da passeggero almeno fino al recupero della mia auto. Tutto perfetto, il pessimo umore iniziale si è disciolto e la serenità ha invaso la mia mente stuzzicata da questa “mano affettatrice” perfetta e dal sentore, poche volte intenso e in generale tenue del porcino. Una persona straordinaria, il cui valore è stato e rimane talmente alto che non é il caso di citarla in scritti non certo alla sua altezza, soleva dire: le bugie non si dicono mai ma le palle si, le palle si possono e, a volte, si devono raccontare. E, invitato a spiegare meglio il concetto, usava questo esempio: “una sera fai tardi perché te ne stai a gozzovigliare con gli amici, tua moglie ti telefona e tu le dici che stai aspettando il soccorso stradale perché ti si è fermata la macchina.” Questa è una bugia. Se invece ti si è fermata la macchina e stai aspettando il soccorso stradale e tua moglie ti telefona e tu le dici: “mi son fermato un po' a chiacchierare con gli amici.” Questa è una palla. La differenza è evidente, le bugie danno ad altri delle preoccupazioni in cambio del nostro piacere, le palle danno ad altri serenità lasciandoci il peso della momentanea e non insuperabile difficoltà. Ho portato al mio amico Sergio dei porcini interi freschi, il profumo è intenso, di muschio e di sottobosco, difficile nasconderne l'aroma se si servono crudi. È quando si surgelano che il profumo s'attenua. A volte è giusto dire delle palle, a volte anche ascoltarle, chi le racconta si sente felice. E non essendo bugie non c'è nulla di male a far finta di crederci, anche se, facendolo, si perde una scommessa. pino de luca ([email protected])