a muntagna - CLEAN edizioni

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’a muntagna
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Vittorio Paliotti
È, prima di ogni altra cosa, una notizia di cronaca, di quelle che richiamano
gli inviati speciali, e bisogna, perciò, darla subito: a Napoli c’è un
personaggio il quale ogni giorno, da dieci anni a questa parte, prima e non
dopo le sei del mattino, cioè all’alba, dalla sua casa di Posillipo si mette a
fotografare il Vesuvio.
Una foto, due foto, un’intera pellicola. È l’ora quella in cui la notte
lentamente si trasforma in giorno. Il gioco delle luci fa sì che lo scenario
cambi di minuto in minuto, anzi di attimo in attimo ed è dunque possibile,
solo che alla costanza e alla pazienza si accoppi un talento da artista,
ottenere un numero elevato, talvolta elevatissimo, di immagini diverse
l’una dall’altra; una diversità che si accentua in ragione dell’evolversi delle
stagioni.
Colui che fa tutto ciò, si chiama Andrea Jappelli, è un non più
giovanissimo architetto e ha sempre coltivato la fotografia intesa come
arte e resa tanto più autentica in quanto eseguita senza il soccorso di filtri
e senza sbavature tecniche, bensì semplicemente tramite una sapiente
scelta dell’inquadratura e un aggiustato posizionamento dell’obiettivo. Il
suo interesse per il Vesuvio, quindi, il suo amore per il Vesuvio, non è di
antichissima data; fiorì quando, dopo aver a lungo abitato in una casa
tutt’altro che panoramica, si trasferì a Posillipo, la Posillipo dei poeti e delle
canzoni. Si affacciò per caso all’alba, un giorno dell’anno 2000, appunto,
Andrea Jappelli, vide davanti a sé, in primo piano, il Vesuvio dibattersi fra
cielo e mare ed ebbe un colpo di fulmine. Aveva, per fortuna, la macchina
fotografica a portata di mano, incominciò a fare degli scatti; si accorse che
il volto del Vesuvio si trasformava in continuazione e continuò a scattare
foto. Lì per lì non se ne rese conto Andrea Jappelli e forse ancora non ne
ha preso coscienza, ma ognuno di quei clic era una dichiarazione d’amore
al Vesuvio.
A esse, come provarono e provano, con la loro eccezionalità, le fotografie
una volta stampate, il Vesuvio rispose, anzi corrispose. Sicché il reciproco
amore continuò e poté concretizzarsi, col trascorrere degli anni, una
fototeca di cui questo libro dà solo parzialmente conto; che è unica nel suo
genere e che ha tutto il diritto di esser collocata accanto alle più grandi fra
le tante raccolte pittoriche riguardanti il Vesuvio.
Peraltro il Vesuvio, finora poco fortunato come soggetto di fotografie in
quanto solitamente fissato su stereotipate cartoline,
ha, invece, avuto una importanza pittorica notevolissima anche se non
sempre coerente. Parlarne è tutt’altro che superfluo, precisando però che il
vulcano è assurto a simbolo iconografico di Napoli in epoca alquanto
recente. Se è infatti vero che la più antica fra le immagini del Vesuvio
giunte fino a noi è un affresco pompeiano che, conservato ora al Museo
Nazionale, lo raffigura con una sola cima, come appunto esso era in
origine, è altrettanto vero che il vulcano tardò moltissimo a essere
accettato come simbolo di Napoli.
Nella celebre Tavola Strozzi risalente al Quattrocento e che costituisce il
più antico documento vedutistico di Napoli, il Vesuvio non è affatto
effigiato. Nel Cinquecento e nel Seicento i pittori, per l’immediata
identificazione di Napoli, si avvalevano di raffigurazioni del Castel
dell’Ovo, o del Castel Nuovo, o della Certosa di San Martino. Solo come
fondale, ma confuso fra altre montagne, nei primi decenni del Seicento in
dipinti dedicati a Napoli si incominciò a inserire un quasi irriconoscibile
Vesuvio. Perché il Vesuvio diventi protagonista di qualche raro dipinto,
bisognerà attendere l’eruzione del 1631;
fu infatti allora che, col nascere degli studi vulcanologici, qualche pittore
ebbe l’idea di raffigurare in primissimo piano il vulcano in fiamme.
In realtà la grande fortuna iconografica del Vesuvio ebbe principio nella
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seconda metà del Settecento quando, più o meno in coincidenza con lo
svilupparsi del Gran Tour, si diffuse la moda, fra i viaggiatori stranieri in
visita a Napoli, di scalare l’allora rosseggiante vulcano. Fu appunto allora
che il Vesuvio incominciò a qualificarsi come simbolo di Napoli. E anzi la
richiesta di dipinti col Vesuvio fu tale che, per accontentare i viaggiatori si
andarono diffondendo quelle gouaches che ebbero il loro illustre
capostipite in Philipp Hackert, ma anche ottimi esecutori in Saverio della
Gatta e Alessandi D’Anna, e poi da cento e cento anonimi artigiani. Sul
finire del Settecento, ormai simbolo unico e incontrastato di Napoli, veniva
effigiato perfino su piatti, piattini, tazze, vasi, ventagli; veniva addirittura
inserito sui fondali dei presepi, come se mai a Betlemme ma a Napoli fosse
nato il Bambinello. Un presepe col Vesuvio sul fondale è tuttora conservato
nel museo di Monaco di Baviera. Ancora un secolo e siamo nell’Ottocento:
trionferà un pastello del francese Edgar Degas. E se dalla famosa Scuola di
Posillipo nasceranno splendide immagini del Vesuvio, come quelle firmate
da Giacinto Gigante o da Anton Pitloo, da altre mani verranno fuori dipinti
vesuviani così scontati, così retorici e così folcloristici, da giustificare
pienamente quell’odierna polemica interpretazione del vulcano costituita
dall’inatteso, multicolore e quasi incredibile acrilico dell’americano Andy
Warhol che ormai fa bella mostra di sé nelle Gallerie di Capodimonte. E le
allusioni, suggestivamente caricaturali, del napoletano Ernesto Tatafiore.
È questo l’universo iconografico col quale si è trovato a dover fare i conti
Andrea Jappelli. Attraverso dieci lunghissimi anni, Jappelli ha
instancabilmente ritratto il Vesuvio avvalendosi degli strumenti più attuali
che offrono i nostri tempi. E durante questi dieci anni è lentamente
maturato un miracolo, qual è ogni opera d’arte. Perché opere d’arte a tutto
tondo sono le immagini che Jappelli ha saputo rubare alla luce, e che
inoltre ci offrono una sicura testimonianza circa le condizioni in cui hanno
dovuto operare, col pennello e con la tavolozza, i maestri che l’hanno
preceduto. Il miracolo sta anche nel fatto che con un soggetto così
scontato quale è appunto il Vesuvio, da sempre sotto gli occhi di tutti noi,
Jappelli sia riuscito a sfuggire, sempre, proprio sempre, alla
convenzionalità. La pioggia, il vento e la neve, non soltanto il sole hanno
contribuito, di stagione in stagione, di attimo in attimo, a cambiare, a
trasformare, a moltiplicare il volto di quella che gli antichi napoletani, come
i poeti, chiamavano ’a muntagna; ma per accorgersene e farcene prendere
atto occorrevano gli occhi di un artista.
Il rosso, il marrone, il violetto, il nero, il giallo, il verde, l’azzurro, l’arancione,
il grigio, il rosa, il celeste sono i colori che, in queste immagini, sembrano
inventati dall’autore, così come dallo stesso sembrano tracciate le curve, le
linee, gli angoli, i cerchi. E invece no: questa sconfinata tavolozza e questa
sterminata geometria stanno, per scelta della natura, nella luce di Napoli,
sempre pronte, però, ad andare, venire, ritornare oppure scomparire per
sempre. Ringraziamo Jappelli che ci ha aiutato a comprenderlo.
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Comm’è bella ’a muntagna stanotte...
bella accussí, nun ll’aggio vista maje!
N’ánema pare, ignata e stanca,
sott’’a cuperta ’e chesta luna janca...
Tu ca nun chiagne e chiagnere mme faje,
tu, stanotte, addó staje?
Voglio a te!
Voglio a te!
Chist’uocchie te vonno,
n’ata vota, vedé!
Comm’è calma ’a muntagna stanotte...
cchiù calma ’e mo, nun ll’aggio vista maje!
E tutto dorme, tutto dorme o more,
e i’ sulo veglio, pecché veglia Ammore...
Tu ca nun chiagne e chiagnere mme faje,
tu, stanotte, addó staje?
Voglio a te!
Voglio a te!
Chist’uocchie te vonno,
n’ata vota, vedé!...
Bovio: Tu ca nun chiagne