clonazione, l`identita` triste

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clonazione, l`identita` triste
CLONAZIONE, L’IDENTITA’ TRISTE
Martedì 28 Aprile 2009 01:05
di Rosa Ana De Santis
La notizia di embrioni clonati arriva dall’università del Kentucky, l’ennesimo annuncio shock del
contestatissimo dottor Zavos. Una cartolina dal futuro che ha il colore del petrolio, ma che
riscuote l’attenzione di una morbosa curiosità intellettuale. La sensazione è di voler misurare la
distanza con questo confine che intimorisce e, nello stesso tempo, di volerne sapere di più. La
clonazione evoca nell’immaginario collettivo scene da cinema: una terra lunare sotto un cielo a
tinte argentate, una popolazione di supereroi immortali, pelle ambrata e occhi celesti, maschi e
femmine androgine, capacità fisiche sublimate in perfezione, intangibili talloni di Achille di una
popolazione olimpica che può morire solo in planetarie apocalissi. Non c’è stato nulla di tutto
questo nel laboratorio dove 11 dei 14 ovociti clonati sarebbero stati impiantati in quattro donne.
C’è solo, e basta per ricavarne un momento di sana sospensione del giudizio, l’avvento di una
generazione gemmata come una protuberanza vegetale, nata in assenza e deliberata
rimozione di differenza, nel culto di una genesi semplificata e ridotta ad un’operazione di
abilissima copia.
Un salto concettuale che travalica limiti logici e morali. Se l’uomo del Novecento divideva se
stesso in uno, centomila e nessuno, come scriveva Pirandello, entrando dentro il labirinto
incoerente dell’animo e della mente umana, assistiamo ora all’operazione inversa con il rischio
insidioso di tornare indietro mentre ci pensiamo oltre la linea di luce del futuro. L’ipotesi di un
genere umano moltiplicato secondo un codice uno e unitario, monolitico e adifferenziato.
A filmare l’impianto dei cloni ci ha pensato questa volta Peter Williams, per Discovery Channel.
Ha replicato subito, immancabile censore, il nostro genetista, Bruno Dalla Piccola, il quale ha
invocato prove di laboratorio a dimostrazione della veridicità e utilità di questo esperimento. Il
dubbio viene a causa di analoghi annunci, mai dimostrati, fatti in passato da Zavos. Questa
volta dovrebbe essere vero. Si sono sottoposte alla tecnica tre coppie sposate ed una donna
single. Nessuna gravidanza è stata portata a termine, ma siamo alle fasi iniziali di un processo
che ci consentirà di produrre cloni di esseri umani dalle cellule di uno dei due genitori.
In passato sono stati clonati embrioni umani per la ricerca scientifica e per la produzione di
cellule staminali a scopo terapeutico. Qui siamo di fronte a un caso molto diverso. Non è la
cura, non è il progresso della scienza medica, è la produzione di figli clonati dalla pelle dei
genitori. Non è poi così fondamentale stabilire quanto ci sia di vero nell’esperimento di Zavos o
quale arco temporale sarà necessario per realizzare questo progetto, ma interrogarsi su quale
ne sia il fine e l’utile e quindi l’intenzione. Nel 1996 il caso della pecora Dolly aveva suscitato
interesse e qualche sorriso di consenso e benevolenza che sembra spegnersi quando il clone
sarà un uomo e una donna, una coscienza e un’esistenza.
Un approccio speculativo sano e non condizionato da sovrastrutture religiose dovrebbe, come
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primo passo, portarci a sgombrare il campo dalla paura e forse anche a rivedere la censura
culturale che incombe su questo tema in modo incondizionato. Certo è che chiunque nella
comunità scientifica, a partire dalla clonazione per cellule staminali, abbia alzato il tiro
annunciando la clonazione di esseri umani è stato allontanato e costretto a un silenzio di
prudenza, per usare un eufemismo, sul tema. E se questa tecnica fosse l’unica chance per
alcune coppie di avere un figlio? E se servisse per curare la malattia di un fratello o sorella già
nata? Non è alla fine una tecnica come altre che consentono di disporre dell’origine della vita
come altre tecniche di diagnosi o di fecondazione assistita? Cosa cambia? Non è un modo per
rendere disponibile alla scelta umana ciò che la natura, senza scienza, un tempo rendeva
indisponibile?
Secondo John Harris, noto studioso di bioetica che più di altri ha spinto l’indagine filosofica su
queste frontiere della bioetica, non ci sono, almeno non tutti, i rischi propagandati da una
scenografia semidivina attrezzata ad arte, allo scopo di paralizzare ogni azione e ogni tentativo
di analisi da parte degli studiosi, originando nella cultura del duemila delle nuove Colonne
d’Ercole. Secondo Harris due esseri umani clonati non necessariamente avranno due esistenze
identiche. Un clone inoltre non avrà mai lo stesso intero patrimonio genetico del soggetto da cui
si origina, dato che non erediterà il DNA mitocondriale, differenziandosi in questo modo più di
un gemello monozigote.
La clonazione aprirà le porte ad una serie di interventi di ingegneria genetica che
consentiranno di proteggere l’embrione da virus e altre malattie. Si può scegliere di obiettare
alle ragioni di Harris, alla sfrontatezza del suo ragionamento che si spinge spavaldo a un’idea
transgenica della vita, che ha rimosso ogni valore del limite, che è forse fin troppo semplice.
Quello però che non si può fare è far calare un silenzio condito di tabù religiosi su qualcosa che
accade e sta accadendo in tanti laboratori. Era il 2004 e in Corea la clonazione terapeutica era
già cronaca grazie al lavoro dell’università' di Seul guidato da Woo Suk Hwang, e a quello
dell'universita' del Michigan diretto da Jose Cibelli.
Per una volta la riflessione sul limite e sulla ricerca di regole etico-morali non dovrebbe
arrivare a giochi conclusi, a mettere gli steccati e le proibizioni, a lavorare sull’errore del
legislatore e le sue inevitabili lacune. Per evitare questo sarebbe opportuno abolire i censori.
Dare libertà al pensiero e al giudizio gestendo l’inevitabile arcaica tentazione umana al timore.
Scriverne e parlarne subito e molto.
Forse la clonazione porta con sé il rischio e l’orrore grande di costruire identità sovrapponibili,
di veicolare messaggi di identitarismo che nuocciono agli sforzi di pensare la comunità umana
come una rete che sa pensare e gestire la differenza come categoria principale dell’esistenza.
Forse è vero tutto questo e, forse, tutto questo può bastare a stabilire un vincolo per il quale
ogni tecnica di clonazione sia subordinata a finalità terapeutiche. Ma forse il criterio della china
pericolosa e della possibile deriva di utilizzo mercantilistico e immorale degli embrioni clonati
non è un modo giusto di ragionare sull’argomento in sé. E’ un approccio carico di pregiudizi che
lasciamo volentieri agli uomini di fede.
E se è vero che la clonazione naturale di due gemelli monozigoti ci insegna che due DNA
identici possono avere percorsi esistenziali molto diversi, è vero anche che in gioco non è la
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nascita o la morte e i limiti primi e ultimi della vita biologica di un individuo, ma la vita intera
nell’atto di creazione-generazione che la fonda. Perché dovremmo in questo caso usare
argomenti diversi da quelli che portano a legittimare le tecniche di procreazione artificiale o la
dolce morte e tutto quello in cui l’uomo interviene alterando il corso della natura?
La preoccupazione, e non è poco, che il mondo si popolerà di uomini e donne duplicati e
s’impoverirà del valore intrinseco che esiste ogni qual volta incontriamo l’altro, colui che a noi
non assomiglia affatto e in niente. Un mondo autoreferenziale e identitario è un pianeta in
bianco e nero, morto mentre vive e disabitato anche se affollato. Dio caduto dal cielo. Ma
sapremo fermarci mille volte prima di arrivare a questo estremo solo se ogni ricerca, ogni
analisi, ogni tentativo di capire e approfondire, non sarà stato mortificato dalla liturgia della
paura.
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