la strada - Amos edizioni

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LA STRADA
In letteratura, ma anche nel cinema, nel teatro, la metafora ha tanta più forza
quando diviene universo significante compiuto in se stesso. Che cosa è successo
prima del silenzio, gelo, cenere, de La strada di Cormac McCarthy (traduzione di
Martina Testa, Einaudi, Torino 2007, pp. 220)? Che cosa ha cancellato la natura e
la società, ha trasformato la vita in relitto? McCarthy non lo dice, la forza della
metafora è qui. Narratore geniale, McCarthy costruisce l’universo nella sottrazione:
non c’è più nulla, regole, convivenza, paesaggio, solo una botanica di scheletri
d’alberi anneriti, spettri di tronchi e rami, tracce d’incendi, erbe morte, rari e vecchi
residui di cibo, farina e semi smarriti su pavimenti marci (solo in una specie di
bunker i protagonisti del romanzo trovano vasetti e scatole, accatastati come in un
rifugio antiatomico). Le uniche tracce di cibo “fresco” sono pelli umane, denti,
frammenti
di
ossa
bollite,
gli
umani
sono
l’ultima
riserva
alimentare
di
sopravvissuti selvaggi e cannibali. Nei passi più duri del libro lo scrittore americano
elimina lo sguardo diretto e ricorre alla tecnica dello straniamento: le urla
agghiaccianti di donne e uomini macellati nei sotterranei di una villa-rudere l’uomo
e il bambino li odono da lontano, nascosti nel bosco (p. 88); la botola in una casa
rivela prigionieri di Auschwitz (p. 85); sulla strada padre e figlio vedono resti
anatomici di orridi pasti.
I rinvii letterari e cinematografici ad altri universi chiusi sono numerosi: da
Dissipatio H.G. di Guido Morselli (Adelphi, Milano 1977)1 ai colori – e il non-tempo
non-luogo _ del cinema di Tarkovskij (Stalker, 1979).
L’ultimo romanzo di Guido Morselli (1912-1973), scritto l’anno del suicidio, pubblicato postumo –
come a partire dal 1974 tutta l’opera dello scrittore – da Adelphi nel 1977, racconta di un altro
scenario vuoto. Il protagonista entra in una caverna nei dintorni di Crisopoli (Zurigo) portando con sé
la sua Browning 7.65 per uccidersi. Nella caverna c’è un lago sotterraneo. Ode un tuono, decide di non
rinunciare alla vita. Ma quando esce l’umanità non c’è più: Dissipatio Humani Generis: gli altri sono
evaporati, nebulizzati. Continuano a funzionare le macchine, a lampeggiare i semafori; gli animali e le
piante, come in una nemesi della natura, sono padroni del mondo. Il protagonista vaga nella città
vuota, i telefoni hanno solo la voce delle segreterie, sull’asfalto delle strade, coperto di terriccio,
germoglia la cicoria selvatica. Metafora raggelante della solitudine, dove gli altri sono scomparsi o
invisibili, o è forse l’io narrante ad essere invisibile agli altri. Negli anni ’70 la pubblicazione dei
romanzi e racconti di Morselli scatenò un caso: in vita lo scrittore si vide sempre rifiutare i suoi testi
dalle case editrici. Oggi è di nuovo dimenticato.
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La strada è romanzo politico, psicanalitico, allucinato diario antropologico,
teologico: dov’è Dio? Dov’era? C’è mai stato? Forse sì: il bambino del romanzo ha
occhi puri e impulsi di solidarietà con gli altri; il padre ha un forte istinto di
protezione verso il figlio. Portano il fuoco, come dice uno dei passaggi più belli del
libro (p. 64; p. 99).
Nero e grigio sono i colori del paesaggio: il nero degli alberi morti e dei rami
secchi, il buio della notte; il grigio della cenere, velo che copre tutto, batuffolo
leggero, polvere impalpabile o poltiglia che si mescola alla neve e alla pioggia; la
notte senza luci; il freddo. Non ci sono colori, la luce del giorno è una soffocante
caligine cinerea, piove sempre, non c’è mai tepore. Il mondo sembra immerso in un
inverno perenne. Ciò che resta della civiltà sono rifiuti e macerie. Del mondo
“prima” restano solo ricordi e sogni. Come il sogno della caverna (p. 3, l’inizio del
romanzo): il sipario si alza sullo scenario di un’Ade. L’uomo e il bambino sono in
una caverna “come viandanti di una favola inghiottiti e persi nelle viscere di una
bestia di granito. […] Poi si ritrovavano in una grande sala di pietra dove si apriva
un lago nero e antico. E sulla sponda opposta una creatura che alzava le fauci
grondanti da quel pozzo carsico e fissava la luce della torcia con occhi bianchissimi
e ciechi come le uova dei ragni”. La strada è un viaggio nell’Ade? E’ la prima
cantica, che si chiude con l’incontro del bambino con un uomo, la sua donna, altri
bambini, come Dante sulla soglia del Purgatorio? Anche gli unici colori sono nei
sogni: “Sognò di passeggiare in un bosco fiorito con gli uccelli che volavano davanti
a loro, a lui e al bambino, e il cielo era di un azzurro doloroso” (p. 14); “Adesso di
notte capitava che l’uomo si svegliasse in quella desolazione nera e gelida di ritorno
da mondi dai colori delicati: amore umano, canto degli uccelli, sole” (p. 207).
Il teatro del nulla
Il paesaggio dove l’uomo e il bambino si avviano è “arido, muto, senza dio” (p. 4).
Il terreno è “incendiato nero e spoglio. Tronchi carbonizzati senza rami che si
susseguivano a perdita d’occhio. Cenere che aleggiava sopra la strada e grappoli di
cavi ciechi che penzolavano dai pali della luce anneriti gemendo piano nel vento.
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[…] i contorni di una città emergevano nel grigiore come i tratti di un disegno a
carboncino su un paesaggio desolato. […] Si sedettero al riparo della sporgenza e
guardarono gli scrosci di pioggia grigia abbattersi sulla valle” (pp. 6-7). Nelle prime
pagine c’è già lo scenario che i due viandanti percorreranno per tutto il libro: grigio,
nero, nebbia, pioggia, alberi morti. Non è rimasto altro del paesaggio: “Rimase ad
ascoltare lo sgocciolio dell’acqua nei boschi. Era roccia fresca, quella. Freddo e
silenzio. Le ceneri del mondo defunto trasportate qua e là nel nulla da lugubri venti
terreni. Trascinate, sparpagliate e trascinate di nuovo. Ogni cosa sganciata dal
proprio ancoraggio. Sospesa nell’aria cinerea. Sostenuta da un respiro, breve e
tremante. Se solo il mio cuore fosse pietra” (p. 9). La natura è cancellata, è un
cimitero di alberi, steli, foglie. E la città? “La città era quasi completamente
bruciata. Nessun segno di vita. Per le strade automobili incrostate di cenere, ogni
cosa coperta di cenere e polvere. Impronte fossili nel fango secco. In un androne un
cadavere ridotto a cuoio” (p. 10).2 Più avanti: “L’aria granulosa. Quel sapore in
bocca che non se ne andava mai. Erano fermi sotto la pioggia come animali da
fattoria. […] Sui fianchi delle colline, vecchie messi secche e appiattite. Lungo l’arido
crinale, alberi scorticati e neri sotto la pioggia” (p. 16); “Nei canaloni il fumo saliva
dal suolo come nebbia e sui pendii gli esili alberi neri bruciavano come selve di
candele pagane” (p. 38).
Il teatro del nulla di McCarthy è scenario di resti: “Terra desolata. Una pelle di
cinghiale inchiodata alla porta di un granaio. Logora. Un codino striminzito. Nel
granaio tre corpi appesi alle travi del tetto, rinsecchiti e polverosi fra pallide lame di
luce” (p. 13). Anche la luna, simbolo romantico e della letteratura mondiale d’ogni
tempo (Saffo, Leopardi, Novalis, fino al “sole nero” di Nerval), è “oscura”, in tre righe
stupende che derogano dallo stile narrativo secco, dal montaggio cinematografico di
McCarthy, per essere poesia: “Oscurità della luna invisibile. Le notti ora solo
leggermente meno nere. Di giorno il sole esiliato gira intorno alla terra come una
madre in lutto con una lanterna in mano” (p. 26); pennellate secche, periodi senza
verbo, accento del miglior espressionismo tedesco.
Al contrario di Dissipatio H.G. di Morselli, dove è nebulizzato il solo genere umano, La strada di
McCarthy è più radicale: qui qualcosa (catastrofe naturale, terremoto o incendio pare di capire, o
disastro nucleare) ha cancellato tutto, natura e civiltà.
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Anche il paesaggio umano è relitto: “Girarono per le strade come sminatori. […]
Nell’aria un leggero odore di legna bruciata. […] Vagarono in mezzo all’immondizia e
alle macerie. Cassonetti rovesciati a terra, carta, scatoloni fradici. […] Puzzava tutto
di umido e di marcio. Nella prima camera da letto un cadavere secco con le coperte
tirate su fino al collo. Resti di capelli decomposti sul cuscino” (pp. 61-62). La strada
racconta una mineralizzazione del senso: la natura – il bosco, il frutteto, l’erba sui
cigli di viottoli e sentieri, orti, giardini, recinti, gabbie, stalle – e l’uomo – edifici,
ville, macchine, vivande, stoffe, velieri – sono strappati con violenza alla loro visione
quotidiana e vissuta per assumere il ruolo di resti, rovine, frammenti,
tra
decomposizione e pietrificazione: diventano mummie o polvere, non scorrono più
sotto lo sguardo abituato a decodificarli e collocarli in un contesto urbano o
naturale; tutto è sospeso, è stato scosso, sgusciato, macinato, e i resti sono buttati
lì, involucri svuotati del loro senso come noci senza gheriglio. L’uomo e il bambino
devono ricostruire per sopravvivere, riutilizzare gli oggetti, riadattarli. La strada
racconta l’apocalisse – anzi, il mondo dopo l’apocalisse – non come cancellazione
(sopravvivono l’io, lo sguardo, la fame, il freddo e la paura) ma come eliminazione
del senso. Non è la stanza chiusa di Huis clos (l’inferno?) di Sartre; è più vicino al
non-luogo non-tempo di Beckett, con la differenza che in McCarthy la vita c’era (o la
narrazione suppone un passato): “Sul prato fra la casa e la stalla non c’erano tracce
di passaggio. Lo attraversò fino alla veranda. La zanzariera marcia e cascante. Una
bicicletta da bambini. La porta della cucina era aperta. Attraversò la veranda e si
fermò sulla soglia. Pannelli di compensato da quattro soldi curvati dall’umidità e
penzolanti. Un tavolo di formica rosso” (p. 91).
Anche i rari incontri - quando non sono tribù di cannibali – sono con uomini
ridotti a resti; gli stessi protagonisti, l’uomo e il bambino, “si rimisero faticosamente
in cammino, magri e lerci come drogati randagi” (p. 135); “Poi si rimisero in
cammino lungo la strada, curvi, incappucciati e tremanti nei loro stracci come due
frati mendicanti mandati a cercare elemosine” (p. 97). Nella stessa pagina un’altra
efficace pennellata sul paesaggio: “Stavano attraversando la vasta pianura costiera
dove i venti di terra li investivano con nubi di cenere mugghianti costringendoli a
trovare riparo dove potevano. Case o granai o fossi lungo la strada, con le coperte
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tirate sopra la testa e il cielo di mezzogiorno nero come le cantine dell’inferno. […]
La terra era sterile, erosa, sventrata. Acquitrini disseminati di ossa di creature
morte. Mucchi di rifiuti indistinti. Fattorie scalcinate in mezzo ai campi come le assi
delle pareti ricurve e schiodate. Tutto senza ombra né contorni precisi. La strada
scendeva in una giungla di rampicanti avvizziti. Una palude ricoperta da uno strato
di canne morte. All’orizzonte una foschia cupa che permeava terra e cielo”. La
scrittura di McCarthy ha un’eccezionale forza pittorica, il suo occhio in presa
diretta, con frequenti ricorsi alla paratassi, ha una tecnica cinematografica: frasi
strette da punti, spesso senza verbo, oggetti e colori racchiusi in un’inquadratura,
la densità di una fotografia, l’attenzione precisa perfino al clima: “Nel tardo
pomeriggio cominciò a piovere e proseguirono tenendosi il telo sopra la testa, con la
neve bagnata che sibilava contro la plastica” (p. 135); una scrittura cinematografica
nella visione e, verrebbe da dire, negli effetti sonori.3
Un’altra pagina sul paesaggio è una profezia e una delle chiavi di lettura del libro
(e anche qui i rinvii possono essere tanti: dalle narrazioni sulla peste ai dipinti di
Hieronymus Bosch): “In breve tempo il mondo sarebbe stato popolato da gente
pronta a mangiarti i figli sotto gli occhi, e le città dominate da manipoli di predoni
anneriti che scavavano gallerie in mezzo alle rovine e strisciavano fuori dalle
macerie in un biancheggiare di occhi e denti, reggendo reti di nylon piene di
scatolame bruciacchiato, come avventori negli spacci dell’inferno” (pp. 137-138). Il
paesaggio è disegnato dalla scrittura su lemmi ossessivi: rovine, macerie, denti,
occhi. E’ la città dell’Ade, e torniamo all’ipotesi di lettura che rinvia all’Inferno
dantesco e ad altri inferni della letteratura. E’ la pagina migliore – l’affresco - sul
mondo del libro: “Il soffice talco nero si spandeva a sbuffi per le strade come
inchiostro di seppia sul fondo del mare, il freddo scendeva lento e faceva buio
sempre più presto, e i disperati che frugavano alla luce delle torce sul fondo dei
dirupi lasciavano nello strato di cenere ombre morbide che si richiudevano dietro di
Lo ha notato il poeta Franco Romanò nel saggio “Techne – Immagine e verità in Cormac McCarthy”,
sulla gradevole rivista Il Cavallo di Cavalcanti (Azimut, autunno 2010, anno 4 numero 3, pp. 81-89),
dove Romanò annota: “Uno degli elementi costitutivi della cifra stilistica di Cormac McCarthy: il suo
particolare rapporto con l’immagine e con il cinema” (p. 82), dimostrando poi come la tecnica del
cinema si riveli anche nel dialogo: “Mancano le virgolette che solitamente delimitano un dialogo
dall’altro […] Movimento e parola non posso essere scissi l’uno dall’altra” (p. 83).
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loro silenziose come occhi. Per le strade i pellegrini sprofondavano, cadevano e
morivano e la terra avvolta nel suo lugubre velo continuava ad arrancare intorno al
sole, ignota e smarrita come qualsiasi altro pianeta sconosciuto nella remota
oscurità circostante” (p. 138). Nella sua allucinata potenza visionaria, McCarthy
procede per rovesciamenti: il talco è nero (torniamo al sole nero di Nerval e alla
lumière noire di Baudelaire) come inchiostro di seppia; le ombre sono silenziose come
occhi; la stessa terra è ignota e smarrita come qualsiasi altro pianeta di un universo
incomprensibile. La metafora alla base di La strada, cioè il non-detto, il cataclisma
che c’era prima della storia raccontata, è cosmica.
La scrittura dell’orrore
La potenza allucinata dell’orrore in La strada di McCarthy raggiunge il culmine
nei passi del libro dove affiorano, dal buio della notte o da una botola, cadaveri
umani, spesso il resto di pasti cannibali, corpi tenuti vivi come riserva alimentare
(p. 97). Ma qui lo scrittore americano capovolge anche la penna (la macchina da
presa): la visione diretta – quasi di reliquie pompeiane, egizie o azteche – si affianca
a sequenze viste o udite “da lontano”, con quell’indefinito che lascia ancora più
spazio all’immaginario e spalanca quindi le caverne dell’orrore. Una delle prime
immagini che lascia intuire sviluppi successivi della trama è a p. 19, righe di
eccezionale forza plastica: “Ovunque cadaveri mummificati. La carne spaccata
lungo le ossa, i legamenti secchi come funi e tesi come fili d’acciaio. Raggrinziti e
contratti come i corpi dei primitivi conservati nelle torbiere, il volto di tela bollita, i
paletti ingialliti dei denti”. La memoria dell’occhio innamorato del cinema va alle
creature disegnate dallo svizzero Hans Ruedi Giger, primo fra tutti Alien, il primo
(Ridley Scott 1979) della saga (è di Carlo Rambaldi la testa meccanica dell’alieno nei
primi piani). O un’altra sequenza da iconografia “archeologica”: “Poco più avanti
c’era un muro con un fregio di teste umane; i volti si somigliavano tutti, secchi e
scavati, la bocca contratta in un ghigno e gli occhi infossati. Le orecchie
incartapecorite erano ornate da cerchietti d’oro, e il vento strapazzava i capelli radi
e sciupati che avevano attaccati al cranio. I denti nei loro alveoli come calchi da
laboratorio, i tatuaggi grossolani realizzati con qualche tintura casalinga, scoloriti
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da un sole esangue. Ragni, spade, scudi. Un drago. Iscrizioni runiche […] Le teste
che non erano state deformate dai colpi di mazza erano state scuoiate, i teschi
dipinti e firmati con uno scarabocchio sulla fronte, e uno di questi, bianchissimo,
aveva le suture fra le placche ripassate accuratamente con l’inchiostro, come in uno
schema di montaggio. (p. 69). Così la scoperta, alla luce spettrale di una torcia di
carta gettata nel rimorchio-cisterna di un camion: “Corpi umani. Accasciati alla
rinfusa. Rinsecchiti e accartocciati dentro abiti decomposti” (p. 37). Rinvia ai
sopravvissuti di tanto cinema post-apocalittico il primo incontro con i “cattivi”,
come a più riprese li chiama il bambino (pp. 47-48; pp. 70-71), figure nere con delle
mazze in mano, pezzi di tubo, armi, scena ripresa dal film tratto dal romanzo, come
quella del vecchio: “Occhi cerchiati di sporcizia e profondamente incavati. Come un
animale nascosto dentro un cranio che guarda fuori attraverso le orbite” (p. 49),
uno dei passi dove la scrittura visiva di McCarthy raggiunge l’apice (l’episodio
continua alle pagine 50-51). La prima traccia di cannibalismo, quindi la visione
indiretta dell’azione, è a p. 53: “Non c’era altro. Sangue secco e scuro sulle foglie.
[…] Sulla via del ritorno trovò le ossa e la pelle del morto ammucchiate sotto dei
sassi. Una pozza di viscere. Toccò le ossa con la punta della scarpa. Sembrava che
fossero state bollite”; “Quello [il vecchio] era stato il primo essere umano a parte il
bambino con cui aveva parlato nell’arco di oltre un anno. Un fratello, finalmente. I
calcoli del rettile dietro quegli occhi freddi e sfuggenti. I denti grigi e marci.
Impastati di carne umana. Uno che ha fatto del mondo una menzogna fino
all’ultima parola” (p. 58). L’anatomia della decomposizione e della mineralizzazione –
parallela e intarsiata con quella del mondo vegetale e dell’architettura – porta i
protagonisti del romanzo a tante altre visioni.
Ma uno dei punti massimi dell’orrore, ai limiti dell’insostenibile anche in una
scrittura raggelata come quella di McCarthy, è a p. 151. L’uomo e il bambino
vedono del fumo alzarsi da un villaggio, raggiungono la radura ma i viandanti sono
già fuggiti. “Si erano portati via tutto tranne quella cosa nera infilzata su uno spiedo
sopra le braci. L’uomo stava scorrendo con lo sguardo il perimetro dello spiazzo
quando il bambino si voltò e nascose il viso contro di lui. Si girò di scatto per vedere
cosa fosse successo. Che c’è?, disse. Che c’è? Il bambino scosse la testa. Oh papà,
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disse. L’uomo si voltò e guardò meglio. Quello che il bambino aveva visto era un
neonato decapitato e sventrato che si anneriva sullo spiedo”. A volte le secche
cronache giornalistiche delle guerre nel mondo (Africa, soprattutto, le poche volte
che gli organi d’informazione ne parlano) lasciano intuire orrori, ma il consumo
mediatico delle famiglie obbliga a sorvolare, consegnando memoriali approfonditi ai
libri di storia. In queste righe tremende, ancora una volta, è da sottolineare lo stile
di McCarthy: la velocità degli sguardi, il particolare tagliente come una coltellata.
Segue l’immediata virata d’immagine: “Si chinò e prese in braccio il bambino e si
avviò verso la strada stringendolo a sé. Mi dispiace, sussurrava. Mi dispiace” (p.
151), con quella doppia “e” che dà velocità al movimento.
Il bambino
“…il bambino era l’unica cosa che lo separava dalla morte” (p. 23). “L’uomo si
voltò a guardarlo. Era completamente assorto. Gli sembrò un orfanello triste e
solitario che annuncia l’arrivo di uno spettacolo itinerante in una contea o in un
villaggio senza sapere che dietro di lui gli attori sono stati portati via dai lupi” (p.
60). “Ce la caveremo, vero, papà? / Sì. Ce la caveremo. / E non ci succederà niente
di male. / Esatto. / Perché noi portiamo il fuoco. / Sì. Perché noi portiamo il fuoco”
(p. 64)4. Alle pp. 65-66, in uno dei villaggi attraversati, il figlio intravvede un
bambino infagottato. Prima aveva sentito abbaiare un cane. Lo chiama, lo cerca, il
padre lo frena. Forse quel ragazzino non esiste, vive solo nell’immaginazione del
bambino, come il cane. Ma tanto basta perché il figlio inviti il padre a cercarlo: “Ho
paura per quel bambino. / Lo so. Ma vedrai che se la caverà. / Papà, dovremmo
tornare a prenderlo. Potremmo prenderlo e portarlo con noi. Potremmo portarci
dietro lui e anche il cane. Il cane potrebbe catturare qualcosa da mangiare. / Non
possiamo. / E io dividerei con quel bambino tutte le mie provviste. / Smettila. Non
possiamo. / Stava di nuovo piangendo. Ma quel bambino?, singhiozzava. Ma quel
bambino?”. Nel desolato romanzo di McCarthy c’è la speranza e ha il volto magro e
Abbiamo inserito le barrette dove, come in una poesia, le frasi vanno a capo. Nella tecnica narrativa
(e cinematografica, come si è detto) di McCarthy non ci sono le virgolette, i dialoghi si muovono nel
medesimo tessuto del racconto in terza persona.
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la voce, flebile di stanchezza e fame, di un bambino. Fa da contrappunto la
disillusione del padre: “Si voltò a guardare il bambino. Forse per la prima volta, capì
che ai suoi occhi lui era un alieno. Un essere venuto da un pianeta che non esisteva
più. […] Non poteva ricostruire il mondo perduto per compiacerlo senza
trasmettergli anche il dolore della perdita, e pensò che forse il bambino lo sapeva
meglio di lui. […] non poteva riaccendere nel cuore del bambino ciò che era ormai
cenere nel suo” (p. 117).
L’orrore metafisico
In una pagina stupenda del libro (p. 100) la metafora da cui germina La strada si
rafforza in un brivido metafisico: “Rovistarono fra le rovine carbonizzate di case in
cui un tempo non avrebbero messo piede. Un cadavere che galleggiava nell’acqua
nera di una cantina in mezzo ai rifiuti e alle tubature arrugginite. L’uomo si fermò
dentro un salotto parzialmente incenerito e aperto al cielo. Le assi deformate
dall’acqua inclinate verso il giardino. Volumi fradici sugli scaffali di una libreria. Ne
prese uno, lo aprì e lo rimise a posto. Tutto era umido. Marcescente. In un cassetto
trovò una candela. Non c’era modo di accenderla. Se la mise in tasca. Uscì fuori
nella luce livida, rimase lì in piedi e per un attimo vide l’assoluta verità del mondo.
Il moto gelido e spietato della terra morta senza testamento. L’oscurità implacabile.
I cani del sole nella loro corsa cieca. Il vuoto nero e schiacciante dell’universo. E da
qualche parte due animali braccati che tremavano come volpacchiotti nella tana.
Un tempo e un mondo presi in prestito e occhi presi in prestito con cui piangerli”.
Non è possibile non pensare ai temi leopardiani, non ravvisare nella metafora de La
strada di Cormac McCarthy la raffigurazione di un vuoto metafisico al di là della
storia stessa. Il mondo dei colori, accennato solo dai sogni, è mai esistito? O
accostare a una pagina come questa, in una formidabile diacronia storica e
geografica, il celebre frammento delle Pensées di Pascal tradotto da Foscolo nelle
Ultime lettere di Jacopo Ortis, dove è inserito dal 1816.5
PASCAL, Œuvres complètes, texte établi et annoté par J. Chevalier, Gallimard, Paris 1954, p. 1175:
“Io non so né perché venni al mondo; né come; né cosa sia il mondo; né cosa io stesso mi sia. E s’io
corro ad investigarlo, mi ritorno confuso d’una ignoranza sempre più spaventosa. Non so cosa sia il
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Ma ci sono altre due visioni che si distaccano dall’annotazione di paesaggio – già di
per sé metafora – per alludere ad altri brividi. La prima è un ricordo: “Fermo sul
bordo di un campo, d’inverno, circondato da uomini duri. Aveva l’età del bambino.
O poco di più. Li aveva guardati aprire il terreno roccioso della collina a colpi di
zappa e piccozza e portare alla luce un grosso bolo di serpenti, forse un centinaio.
Avviluppati così per tenersi caldo a vicenda. Tubi opachi che cominciavano
pigramente a muoversi nella luce fredda e aspra. Come le interiora di un’enorme
bestia esposte alla luce del giorno. Gli uomini ci avevano versato sopra della
benzina e li avevano bruciati vivi, non avendo alcun rimedio per il male ma solo per
ciò che identificavano come l’immagine del male. I serpenti in fiamme si
contorcevano in maniera raccapricciante e alcuni strisciarono divampando dentro
la grotta, illuminandone i recessi più oscuri. Poiché erano muti non si sentivano
grida di dolore, e gli uomini li avevano guardati bruciare e torcersi e affumicarsi
ugualmente in silenzio, e in silenzio si erano dispersi nel crepuscolo invernale,
ciascuno coi propri pensieri, diretti a casa per cena” (pp. 143-144).
La seconda, ambientata sulla spiaggia, rinvia a un universo della visione che da
Friedrich arriva al surrealismo: “Piccole masse vetrose che galleggiavano sulla
superficie dell’acqua, ricoperte di una crosta grigia. Ossa di uccelli marini. Lungo la
linea di marea un fitto tappeto di alghe e milioni di lische di pesce a perdita d’occhio
come
un’isoclina
di
morte.
Un’unica
immensa
sepoltura
salata.
Assurdo.
Completamente assurdo” (p. 169). Tra i romanzi contemporanei, La strada di
Cormac McCarthy è uno dei rari che abbiano valore universale, potenza di visione,
dove la metafora è genesi della scrittura e costruzione del mondo.
mio corpo, i miei sensi, l’anima mia; e questa stessa parte di me che pensa ciò ch’io scrivo, e che
medita sopra di tutto e sopra se stessa, non può conoscersi mai. Invano io tento di misurare con la
mente questi immensi spazj dell’universo che mi circondano. Mi trovo come attaccato a un piccolo
angolo di uno spazio incomprensibile, senza sapere perché sono collocato piuttosto qui che altrove; o
perché questo breve tempo della mia esistenza sia assegnato piuttosto a questo momento dell’eternità
che a tutti quelli che precedevano, e che seguiranno. Io non vedo da tutte le parti altro che infinità le
quali mi assorbono come un atomo”. Cit. da UGO FOSCOLO, Opere, II, Prose e saggi, edizione diretta
da Franco Gavazzeni con la collaborazione di Gianfranca Lavezzi, Elena Lombardi e Maria Antonietta
Terzoli, Einaudi-Gallimard, Biblioteca della Pléiade, Torino 1995, pp. 126-127.
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cinema
Dal romanzo La strada di Cormac McCarthy nel 2009 il regista John Hillcoat ha
tratto il film con Viggo Mortensen, Charlize Theron, Guy Pearce, Robert Duvall,
mentre il bambino è Kodi Smit-McPhee, The Road (titolo originale del libro),
musiche di Nick Cave, film che ha rischiato di non essere distribuito perché “troppo
triste”. McCarthy è già noto al pubblico cinematografico per la versione di Non è un
paese per vecchi di Joel ed Ethan Coen. Il film inizia con un giardino di fiori e la
Theron e una catastrofe rossastra (incendio? terremoto?). Intuendo la catastrofe, la
donna se ne è andata e si è uccisa; il suo obiettivo era uccidere anche il bambino.
Ore 1.17, orologi fermi, luce abbagliante in cielo, scosse profonde: siamo nel
racconto. Il film deve diluire la metafora, ma è l’unica concessione – e inevitabile
rovesciamento della trama del libro – alle leggi del cinema. Il film rende bene
l’atmosfera del libro nella fotografia, nelle luci, nei colori: fotografia scura, grigia
come la luce del romanzo, seppia come in Stalker di Andrej Tarkovskij (1979), altro
film sul non-luogo (la Zona) in un non-tempo.
Stalker è un film-allegoria dove, come in La strada i protagonisti si chiamano
l’uomo e il bambino, qui si chiamano stalker, cioè guida, scrittore e professore (lo
scienziato). La spoliazione del mondo avviene anche con la cancellazione dei nomi.
Ma nel film di Tarkovskij i personaggi tornano nel tempo e nel luogo della città; in
La strada il bambino, morto il padre, trova altri viandanti “buoni”, uomo, donna e
due bambini, e si unisce a loro in un finale aperto. Squisitamente tarkovskijano
nella simbologia fonico-cromatica, Stalker ci fa visitare un mondo di ruggine, rovine,
silenzio, sgocciolii (l’acqua è sempre presente nella cinematografia del regista
russo), ferrovie abbandonate, vento, nebbia, versi di uccelli (su tutti il cuculo), corpi
di pietra come in un incantesimo da fiaba od orribile esperimento scientifico, i fiori
sbocciano ma non odorano più. Anche all’origine di Stalker c’è una catastrofe
misteriosa, la leggenda di un meteorite che ha dato al luogo dove è precipitato –
l’allegoria è la Stanza – il potere della felicità, a cui i personaggi del film e del
racconto da cui è tratto, Picnic sul ciglio della strada (1971) dei fratelli Arkadij N. e
Boris N. Strugackij, rinunciano. La Zona, dai colori verde-acqua, è viva, “lascia
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passare solo gli infelici”. Diverso nello schema narrativo – i personaggi vanno
volontariamente nella Zona superando una flebile sorveglianza armata (il potere non
vuole che il popolo abbia felicità e conoscenza?) - La strada è una metafora chiusa.6
Postille a margine
Chissà se La strada sarebbe entrato nello studio – magnifico e unico – di
Francesco Orlando Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura – Rovine,
reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti (Einaudi, Torino 1993, pp.
562), immenso catalogo di raffinata, garbata, ironica erudizione nato dalla curiosità
enciclopedica dello studioso siciliano, il cui primo abbozzo è una serie di lezioni
all’Università Ca’ Foscari di Venezia negli anni ’70/’80. Dodici i romanzi del
Novecento indagati dall’innamorato antiquario e ricercatore di rovine: da Gončarov
a Hugo, Sartre, Bulgakov, i nostri Gadda e Moravia, Flaubert, Huysmans. Ma forse
tutta la letteratura è memoria, quindi il canto di una rovina.
Il filone del cinema apocalittico, o post-apocalittico, è infinito, uno dei più frequentati da horror,
fantascienza o apologo sociale. Tra i più recenti citiamo 28 giorni dopo (28 Days later, GB/Olanda
2002), di Danny Boyle, il regista di Trainspotting (1996), con Christopher Ecclestone, e il sequel 28
settimane dopo (28 Weeks later, GB/Spagna 2007), di Juan Carlos Fresnadillo, con Robert Carlyle,
entrambi modesti, dove un virus ha trasformato in zombies gli esseri umani. Di ben altro livello è Io
sono leggenda (I Am Legend, Usa 2007), di Francis Lawrence, con Will Smith, ambientato nella New
York del 2012 dove un virus ha trasformato tutti gli uomini in vampiri, l’unico sopravvissuto
all’epidemia è il dottor Robert Neville, che ha un siero e gira per la metropoli deserta con il suo cane
lupo. Io sono leggenda è di origine letteraria, l’omonimo romanzo di Richard Matheson (1954): date
interessanti, gli anni ’50 della guerra fredda e del boom della fantascienza e il cinema americano del
post 11 settembre. Ma il vero capolavoro è Tempo di leggere (1959), uno degli episodi giustamente più
famosi di The Twilight Zone, la serie televisiva ideata da Rod Serling per la CBS trasmessa negli Stati
Uniti tra il 1959 e il 1964 e in Italia con il titolo Ai confini della realtà. Diretto da John Brahm, teleplay
di Rod Serling dalla short story di Lynn Venable e interpretato da un magnifico Burgess Meredith,
racconta dell’occhialuto Henry Bemis, cassiere di banca che legge Dickens sul lavoro e la cui passione
per i libri è osteggiata anche dalla moglie. Henry chiude lo sportello e si rifugia nella camera blindata
per leggere quando sente una tremenda esplosione che sventra il caveau. Quando esce scopre che
tutto è distrutto da un’esplosione nucleare, pensa al suicidio ma si ritrova sulla scalinata della
biblioteca pubblica. Infila cataste di volumi e programma letture che lo terranno occupato anche negli
anni futuri. Ma proprio quando sta per prendere il primo volume, seduto sulla scalinata della
biblioteca semidistrutta davanti a un grande orologio, gli occhiali gli cadono, le grosse lenti di vetro si
rompono, si ritrova solo e cieco in un mare di libri.
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