La Media education nella scuola: perché, come, che cosa

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La Media education nella scuola: perché, come, che cosa
La Media education nella scuola: perché, come, che cosa insegnare dei media
Roberto Giannatelli
(articolo pubblicato in “Orientamenti pedagogici” 2001, pp.282-296)
E’ stato un “profeta” della comunicazione a parlare di globalizzazione già negli anni ’60. E’ di
Marshall McLuhan la metafora, tanto discussa, del “villaggio globale” (M.McLuhan, 1964). Il
“villaggio globale” che abbiamo visto crescere a vista d’occhio in questi ultimi quarant’anni, è
indubbiamente collegato con lo sviluppo dei media. Sono essi che hanno creato la rete che ha
avvolto il pianeta come un’immensa ragnatela, hanno forgiato un linguaggio, quello audiovisivo,
che è la nuova lingua franca del nostro mondo; sono i media che hanno contribuito a creare nuovi
bisogni e una nuova cultura; sono ancora i media che hanno veicolato la pubblicità che a sua volta
ha favorito lo sviluppo del mercato mondiale dei beni di cui usufruisce la società d’oggi.
Nel nostro villaggio globale i media hanno assunto un potere enorme; al loro “potere” è stato
contrapposto un “contropotere”, quello dell’educazione. Patrocinata dall’Unesco fin dagli anni ’70,
l’educazione ai media o Media education (=ME) è divenuta presto un movimento mondiale che si è
diffuso in quasi tutti i paesi del mondo e ha avuto i suoi punti di influenza nelle Università, nelle
associazioni dei media educators, nei Congressi internazionali che sono stati organizzati a
Lausanne nel 1988, Toulouse nel 1990, Guelh (Toronto) nel 1992, La Coruña nel 1995, Parigi nel
1997, São Paulo nel 1998, Toronto ove si è tenuto il Summit 2000 on Media education (BazalgetteBevort- Savino,1992; Giannatelli, 2000).
1. I media nel villaggio globale
1.1.
Il secolo dei media
Il nostro secolo a ragione può essere chiamato “secolo dei media”. E’ iniziato con le prime
proiezioni cinematografiche dei fratelli Lumière e di pochi altri pionieri. Sembrava un “fenomeno
da baraccone”. E’ diventato presto una grande industria, un fenomeno culturale che ha segnato il
nostro tempo e la sua cultura. Negli anni ’20 è venuta la radio, “presenza amica” soprattutto nelle
case della gente, ancora oggi molto ascoltata, vivace, capace di rinnovarsi. Negli anni ’50 si è
diffusa la televisione che è divenuta presto un fenomeno di massa, veicolo potente di informazione,
intrattenimento e cultura. Negli ultimi anni ’90 si è imposto Internet, con altri fenomeni connessi
con l’elettronica: i videogiochi, i CD-rom, il DVD, ecc.
I media sono diventati un elemento costitutivo della nostra vita e della nostra cultura. Come
potrebbe vivere l’uomo d’oggi senza giornali, radio, televisione, cinema, computer, Internet? Alla
televisione il ragazzo d’oggi dedica una parte rilevante del suo tempo: 2 - 4 ore al giorno con picchi
di 6-8 ore nel week-end; oltre mille ore in un anno dedicate alla sola televisione, un autentico
curricolo di apprendimento!
Le recenti ricerche condotte dal Prof. Mario Morcellini, Direttore del Dipartimento di Sociologia
presso l’Università “La Sapienza” di Roma, hanno però messo in luce l’evoluzione del consumo
mediale: la supremazia della televisione è in netto calo presso i ragazzi d’oggi e questi mostrano
una nuova “competenza mediale” per cui va ridimensionata l’immagine della “cattiva maestra
televisione” (Popper-Condry, 1996) come se questa avesse alla sua scuola solo alunni ingenui e
inerti (Morcellini, 1999). La stanza dove essi vivono, è diventata una piccola centrale multimediale
in cui è presente una ricca gamma di media (dalla televisione, al videoregistratore, alla radio, al
computer multimediale) e dove il ragazzo si comporta da abile regista che sa gestire in modo
articolato il suo rapporto con i media in relazione a bisogni diversificati (Angelucci-Bentivegna,
2000).
1.2.
Il linguaggio dei media
I media hanno introdotto nel secolo XX un linguaggio universale, il linguaggio audiovisivo,
autentica lingua franca del nostro mondo, dalle megalopoli del primo mondo ai più remoti villaggi
del Terzo mondo. Il linguaggio audiovisivo è divenuto il linguaggio popolare per eccellenza, un
linguaggio che piace soprattutto ai giovani.
Per linguaggio audiovisivo intendiamo l’integrazione di immagini (a colori) in movimento con testi
scritti, suoni e musica; integrazione resa possibile e comandata dall’elettronica. Per usare
un’espressione di Pierre Babin, parole e immagini si sono “unite in matrimonio sotto la presidenza
dell’elettronica”; e da questo connubio sono nate realtà nuove, messaggi e significati nuovi per
l’uomo d’oggi, sovente ricchi di bellezza e fascino, ma anche di aspetti problematici, sempre dotati
di una grande capacità comunicativa.
Caratteristica propria del linguaggio audiovisivo (cinema, televisione, video) è quella di narrare
storie, drammatizzare eventi, suscitare partecipazione affettiva ed emotiva. Ancora Pierre Babin ha
coniato l’espressione: “Seguire i media, è vivere nel dramma”.
Il linguaggio audiovisivo è portatore di significati esistenziali. Henk Hoekstra (Presidente
dell’OCIC deceduto il 12 settembre 2000) è uno dei grandi sostenitori della “spiritualità” dei media
(e del cinema in particolare). Il loro linguaggio è in grado di formulare in modo impressionante i
conflitti della vita, le esperienze liminali, i momenti di trascendenza, il richiamo al mysterium
tremendum et fascinosum (Hoekstra, 1995).
Una delle tesi della Media education è che il linguaggio dei media esige una nuova
alfabetizzazione; non si apprende per caso. La scuola deve farsi carico che gli alunni sappiano
“leggere e scrivere con i media” (Castellani, 1986).
Oggi l’audiovisivo si dilata nelle nuove tecnologie della comunicazione ed anche nella rete di
Internet mettendo a disposizione del giovane un repertorio pressoché infinito di informazioni, e
nuove opportunità per la collaborazione in rete e l’interattività (Calvani, 1999; Calvani-Rotta.
1999; Rivoltella, 1999).
1.3.
L’educazione ai media nella scuola italiana
Quando abbiamo iniziato a promuovere le prime esperienze di ME, la scuola italiana si era posto
questo problema? e che cosa stava realizzando nel campo dell’educazione ai media?
Innanzi tutto il termine Media education non era conosciuto, o almeno non era usato negli ambienti
educativi e neppure nelle sfere della pedagogia ufficiale. Si preferivano espressioni come:
educazione agli audiovisivi, all’immagine, ecc. Noi abbiamo voluto riferirci alla consolidata
tradizione anglofona per vari motivi.
Il termine inglese di Media education, come quella tedesco di Medienerziehung, si presta meglio di
altri usati nelle lingue latine (come: educazione ai media, éducation à l’actualité, educación para
los medios, lectura critica, ecc.) per esprimere in modo immediato e sintetico, la relazione che deve
intercorrere tra il mondo dell’educazione e quello dei media. Il termine Media education viene a
indicare, infatti, sia l’“educazione con i media”, considerati come strumenti da utilizzare nei
processi didattici e momento significativo dell’esperienza degli alunni (questi devono esercitarsi,
“mettere le mani” sui media, hands on…); sia l’“educazione ai media”, che si riferisce piuttosto
alla comprensione critica dei testi e del sistema dei media, intesi non solo come “mezzi” ma
linguaggio e cultura. Essendo la ME di carattere olistico (Masterman,1985), essa coinvolge i diversi
ambiti dell’educazione: famiglia, scuola, comunità religiosa, territorio.
L’espressione ME ha acquisito ormai il diritto di cittadinanza anche in Italia. Si sono promossi
Master in Media education presso le Università (Rivoltella, 2000a). La ME è venuta ad indicare
un’attività educativa e didattica della scuola (ma non solo della scuola; anche sul territorio e presso
le associazioni) finalizzata a sviluppare negli alunni un’informazione e una comprensione critica
circa la natura, il linguaggio, le categorie e i generi dei media, le tecniche da loro impiegate per
costruire i messaggi e produrre senso. Vengono inoltre analizzati i condizionamenti che i media
subiscono da parte di fattori economici, politici e ideologici e l’impatto che essi hanno sul pubblico.
Gli alunni vengono esercitati a “scrivere con i media”, in particolare nella produzione audiovisiva.
La ME propone una strategia non puramente difensiva, limitata a “proteggere” i minori dagli effetti
negativi dei media; sostiene piuttosto una “strategia di attacco”, finalizzata a fornire ai minori una
competenza mediale (Baacke, 1997) o empowerment (Tyner, 1998) perché i giovani acquisiscano la
capacità di comprendere e confrontarsi con l’universo dei media e di saper creare, a loro volta,
nuove forme di espressione e di comunicazione. La ME assume anche una connotazione sociale e
politica: si rivolge al “cittadino” perché non sia un semplice fruitore acritico dei media, ma un
soggetto “adulto” e responsabile (Gonnet, 1999).
Il termine Media education non era conosciuto in Italia, o almeno non era di uso corrente, agli inizi
degli anni ’90. Ma esisteva almeno una prassi di ME nella scuola italiana?
A partire dagli anni ’70 la scuola italiana incomincia a interessarsi in modo esplicito
dell’educazione all’audiovisivo e ai media. Nel 1979 i nuovi programmi della scuola media
assegnano lo studio dei media alle discipline Educazione tecnica ed Educazione artistica. I
programmi fanno riferimento, ma non in modo sistematico, al cinema e ai mezzi di comunicazione
di massa e di informazione (il giornale e la televisione). I programmi della scuola elementare del
1985 rivolgono un’attenzione più attenta e globale ai media: essi vengono considerati per il loro
contributo alla formazione di competenze specifiche nel bambino e nella loro realtà di sistemi
simbolici attraverso i quali l’alunno apprende a comunicare, come già era stato riconosciuto per le
attività educative attraverso il corpo e il disegno. Viene proposta una nuova area d’intervento
chiamata “educazione all’immagine” che si caratterizza per due tipi di attività: quelle espressivocreative e quelle fruitivo-critiche. Finalmente gli Orientamenti dell’attività educativa nella scuola
materna del 1991, riconoscono nei media moderni un “campo di esperienza del bambino” in cui
trovano posto le attività di comunicazione e di espressione manipolativo-visiva, sonoro-musicale,
drammatico-teatrale, audiovisuale e massmediale.
Quale valutazione si può dare a questo iniziale impegno della scuola italiana per l’educazione ai
media? Condividiamo il giudizio di Gianna Cappello. Nella nostra scuola l’educazione ai media ha
sofferto di tre non trascurabili limitazioni: la non sistematicità: l’educazione ai media nella scuola è
finora avvenuta più per l’entusiasmo e la buona volontà di qualche insegnante, piuttosto che essere
frutto di una programmazione motivata e condivisa; la non organicità degli interventi: si è trattato
prevalentemente di interventi occasionali e a sé stanti, piuttosto che di parti di un piano complessivo
e organico; la scarsa interdisciplinarità: gli interventi, essendo opera isolata di volontari, non hanno
coinvolto la scuola come istituzione educativa e i suoi organismi collegiali, il collegio dei docenti e
i consigli di classe (Cappello, 2000). E’ mancata l’idea di curricolo scolastico applicata alla
conoscenza e alla pratica dei media.
Ha invece ottenuto un promettente successo il piano triennale (1997-2000) promosso dal Ministero
della Pubblica Istruzione per l’introduzione delle nuove tecnologie dell’informazione e della
comunicazione (Rolando, 1999; e anche sito web: www.istruzione.it).
Ora siamo in attesa dell’introduzione nella scuola di quanto è stabilito dalla “Legge-quadro in
materia di riordino dei cicli dell’istruzione” del 10 febbraio 2000 e dal “Programma quinquennale di
progressiva attuazione della L.30/2000” del 5 novembre scorso. Si tratta di una grande scommessa
per la scuola del futuro, che trova attenti e interessati i sostenitori della Media education.
2. Media education: la struttura didattica
Andrew Hart, Direttore del Media Education Centre dell’Università di Southampton (England)
ritiene che la ME possa entrare con pieno diritto nella scuola a condizione che sappia rispondere a
queste tre domande (Hart, 1998):
1. Perché insegnare i media?
2. Che cosa insegnare dei media?
3. Come (con quale metodo) insegnare i media?
Il problema era già stato posto da un leader della Media education mondiale, Len Masterman: “Che
cosa sarà la ME nella scuola? Sarà solo un insieme di entusiasmi, in teoria uniti, ma di fatto divisi; o
si presenterà (come sarebbe necessario) come un corpo di teorie e di pratiche”? (Masterman, 1997).
Vediamo ora come i media educators della tradizione anglofona hanno dato una risposta alle
domande poste da A.Hart.
2.1. Perché insegnare i media
Len Masterman aveva indicato nel già menzionato Teaching the Media (1985) 7 ragioni per
introdurre la Media education nella scuola.
1. La pervasività dei media. Introducendo il loro manuale di ME per le scuole secondarie (Media
Literacy. Resources Guide, Toronto 1989), i media educators canadesi avevano sottolineato il
grande spazio che i media occupavano nella vita dei giovani. Nei 12 anni della scuola primaria e
secondaria: 11.000 ore erano trascorse nelle aule scolastiche a fronte di 15.000 passate davanti
alla tv, oltre alle 10.500 date alla popular music. Un tempo più che sufficiente per ottenere un
vero e proprio curricolo di apprendimento, come si è già osservato.
2. Il fatto che i media costituiscono un’industria delle coscienze. Non sono neutrali. Comprano
audience per venderla ai pubblicitari. Impongono modi e stili di vita. Controllano economia e
politica. Masterman paragona il controllo di una radio o televisione locale al possesso di un
castello lungo un fiume o nella vallata durante il medioevo. Si tratta del controllo di un
territorio; nel caso dei media del controllo delle “coscienze”, cioè dei potenziali consumatori
(dei prodotti pubblicizzati dai media) e dei cittadini (da cui ci si aspetta il consenso elettorale).
3. I media sono una formidabile fabbrica delle notizie secondo le rigide regole dell’agenda setting
(sono loro che stabiliscono ciò che è rilevante per la comunicazione nella società) o del gate
keeper (sono loro i guardiani che filtrano le informazioni che diverranno di dominio comune).
La multinazionale delle agenzie di stampa fornisce e “media” la stragrande maggioranza delle
notizie che troviamo sui giornali, alla radio e in televisione. Per quali interessi? A favore di chi?
E a danno di quali gruppi? Che cosa viene “lasciato passare” e che cosa non verrà diffuso? La
scuola dovrà aiutare gli alunni a leggere criticamente i giornali.
4. Esiste uno stretto rapporto tra ME e democrazia. L.Jospin, ministro dell’educazione nazionale
del governo francese agli inizi degli anni ‘90, a conclusione del Colloquio dell’Unesco a
Toulouse (1990) sulle nuove tendenze della Media education a livello mondiale, affermava:
“Non c’è democrazia senza partecipazione, non c’è cittadinanza attiva senza formazione, non
c’è formazione senza informazione, cultura, consapevolezza critica. Se vogliamo che i media
servano la vita democratica di un paese, dobbiamo partire da un approccio democratico ed
educativo ai media nella scuola. La scuola è necessaria” (Bazalgette-Bevort- Savino, 1992).
5. L’importanza dell’audiovisivo nella vita moderna. La nostra società è in qualche modo una
società dell’immagine; viviamo avvolti in un flusso continuo di suoni e immagini. I giovani in
particolare avvertono il fascino della comunicazione audiovisiva. Si tratta di un linguaggio che
deve essere decodificato ed anche usato nelle esercitazioni scolastiche.
6. La privatizzazione dei media: self media, new media, Internet. La stanza del giovane è diventata
in molti casi una piccola centrale di comunicazione in collegamento con tutto il mondo. Il
“villaggio globale”, la “piazza del mercato”, l’“areopago” sono ormai di casa e il ragazzo d’oggi
è un abile regista che sa scegliere, dosare, integrare i vari media che ha a disposizione per i suoi
interessi personali (Così viene rilevato nell’ultima ricerca del prof. M. Morcellini, 2000a).
7. Dobbiamo educare i giovani per il futuro e il futuro appartenere al mondo della comunicazione
e in particolare alla comunicazione mediata (Thompson, 1998; Mattelart, 1998).
Oggi la crescente digitalizzazione e globalizzazione dei media, la più grande diversificazione
dell’offerta, i problemi valoriali ed etici che essa pone, ripresentano e confermano le ragioni che
fanno della Media education un compito imprescindibile della scuola e dell’educazione, oggi (cf
Pontificio Consiglio delle Comunicazioni sociali, Etica della comunicazione, Roma, 4 giugno
2000).
2.2. Che cosa insegnare dei media
Un insegnamento attorno ai singoli media era già stato attuato negli anni ‘80. In Francia
l’istituzione governativa del CLEMI aveva organizzato fin dal 1983 la “semaine de la presse” in cui
le scuole “aprivano le porte” ai giornali e ai professionisti della stampa per una lettura critica dei
quotidiani e un confronto delle informazioni da loro fornite (Gonnet, 1995).
Lo stesso Masterman aveva proposto nel 1980 per l’Inghilterra il suo Teaching about television.
L’apporto nuovo e decisivo di Teaching the media (1985), è che viene identificata un’area di
indagine che precede lo studio dei singoli media, una sorta di koiné che è necessario apprendere per
capire il linguaggio dei media. E’ questa innanzi tutto l’area della Media education: i media non
sono la realtà, ma la rappresentano; non sono “finestre sul mondo”, ma “costruzioni” dettate da
interessi economici, politici, ideologici. La scuola deve fornire gli strumenti perché gli alunni siano
messi in grado di “decostruire” le rappresentazioni dei media. Le domande iniziali della ME di
fronte a un “testo” fornito dai media (spot pubblicitario, telegiornale, talk show, ecc.) sono le
seguenti: Chi ha prodotto questo messaggio? Per quali scopi? Quali interessi economici, politici,
ideologici sono in gioco? Con quali tecniche e quale retorica è stato costruito il messaggio?
Possediamo un metodo per tentare di decodificarlo? Quali conoscenze scientifiche (ad es. quelle
attinte alla semiotica, all’etnologia del consumo, agli studi culturali) ci aiutereanno in questo
compito? In che modo la nostra “scuola di media” potrà diventare un “laboratorio di democrazia”?
Il volume di L.Masterman Teaching the media propone quattro aree di esplorazione per aiutare
l'alunno a capire la “logica” dei media:
1. Determinants. E’ più di “condizionamenti”. Si vuole rispondere a queste domande: chi
comunica, chi produce e perché? Si prendono in esame le istituzioni dei media. In concreto: di
chi è la proprietà? Quali sono gli intrecci tra media e pubblicità? Quali sono le leggi e i codici di
autoregolamentazione? Come influisce la routine dei professionisti nella produzione giornaliera
dei messaggi mediati?
2. Rhetoric. I media possiedono un linguaggio proprio, con categorie e generi propri; un loro modo
di codificare i messaggi, una loro retorica. In concreto gli alunni dovranno interrogarsi: come
avviene la selezione delle informazioni e delle immagini? Come avviene il montaggio, l’editing
dei materiali disponibili? E secondo quali scopi? Ad es., l’analisi dei diversi Tg (RAI, Mediaset,
TMC) potrebbe condurre alla scoperta delle strategie di comunicazione impiegate in casi
specifici.
3. Ideology. I media sono i grandi forgiatori dell’ambiente culturale in cui viviamo. George
Gerbner, per molti anni decano dell’ Annenberg School of Communication di Filadelfia (USA) e
fondatore del Cultural Environment Movement (St.Louis 1996), ha analizzato per almeno
trent’anni questo fenomeno: “I media costituiscono un sistema di storie e immagini che
modellano molto di ciò che siamo, pensiamo, facciamo; e di come gestiamo la nostra vita. Sono
i cantastorie, gli stories tellers del tempo moderno”. Gerbner ha messo in guardia: i nuovi miti
non provengono dalla saggezza e dall’esperienza secolare di un popolo, ma sono costruiti
artificialmente secondo interessi commerciali, ideologici e politici. Il consumismo è diventato la
nuova religione universale (Purayidathil, 1998).
4. Audience. Quale impatto hanno i media sull’audience, in particolare sui ragazzi e giovani?
Attraverso quale processo di “negoziazione” il giovane coglie il significato dei testi mediali o
ne crea un altro alternativo? Si tratta di studi che possono appassionare l’educatore (BianchiBourgeois, 1995). Una delle conclusioni più importanti circa la “globalizzazione dei media “ è
la seguente: la produzione e diffusione dei media è “globale”, ma l’appropriazione o ricezione è
“locale” (si è coniata l’espressione: glocal). La negoziazione del soggetto è importante. Che sia
un recettore competente e critico, è compito della Media education (Thompson, 1998).
2.3. Come insegnare i media
Su questo aspetto della ME abbiamo accumulato dieci anni di esperienza fatta con le scuole e gli
insegnanti che hanno aderito alla nostra proposta di ME. Il volume Teleduchiamo, curato con il
prof.P.C.Rivoltella, rende ragione delle esperienze realizzate agli inizi degli anni ’90 nelle scuole
medie di Roma e Milano (Giannatelli-Rivoltella, 1994). In questi anni di ricerca-azione abbiamo
maturato e verificato nella prassi alcune indicazioni di metodo che possono essere estese a
situazioni scolastiche simili a quelle che abbiamo incontrato:
1. La realizzazione di unità didattiche di ME è stata affidata a un team di docenti appartenenti al
consiglio di classe. Non abbiamo previsto né una nuova materia scolastica né un insegnante
specializzato. Abbiamo invece proposto un gioco di squadra il cui regista è l’insegnante di
lettere, in collaborazione con quello di educazione tecnica ed artistica.
2. Il percorso di ME è stato progressivo e a spirale, mettendo successivamente allo studio i diversi
media (dalla fotografia, alla tv, ai giornali…). Si è attuato un curriculum across the curriculum
(Masterman, 1997) con un approccio multidisciplinare.
3. Le attività di analisi e di produzione (lavoro pratico) hanno proceduto di pari passo. I ragazzi si
sono mostrati capaci di impiegare entrambi i metodi: sia l’analisi semiotica dell’audiovisivo (ad
es.dell’immagine pubblicitaria) e creativi nell’uso della telecamera e nelle tecniche di
montaggio quando si è trattato di produrre un video. Il lavoro pratico ha conservato le
caratteristiche essenziali di un esercizio didattico, senza voler imitare i professionisti. La
collaborazione di un professionista dei media (in qualche caso si trattava di un genitore degli
alunni) ha tuttavia dato un contributo importante al lavoro con i media, offrendo alle produzioni
scolastiche la garanzia per una correttezza e qualità della realizzazione.
4. La ME ha espresso un suo proprio stile: democratico (non di imposizione autoritaria), attivo,
cooperativo, laboratoriale, di gioiosa scoperta e confronto, di “scambio generazionale” come ha
notato il prof.C.Scurati (Scurati, 1998). In questo campo, infatti, gli insegnanti hanno molto da
imparare dai loro alunni (più esperti di loro quanto a conoscenza dei media e all’uso delle
tecnologie); ma hanno anche molto da dare in termini di saggezza, quadri culturali, aspetti
valoriali, principi etici.
5. Abbiamo programmato la ME come un processo a lungo termine e olistico. Gli obiettivi della
competenza mediale e dell’autonomia (maturità) critica perseguiti dalla ME non possono essere
raggiunti che sul lungo periodo. La ME coinvolge inoltre la responsabilità delle famiglie e
rimanda all’educazione permanente degli adulti. La scuola può farsi promotrice di “scuole per
adulti” anche nel settore della ME. Nella nostra esperienza sono stati gli stessi genitori a
chiederci di essere “alfabetizzati” e “coscientizzati” in parallelo con i progetti di ME portati
avanti con i loro figli.
2. 4.Una definizione di Media education
A conclusione di questo approccio alla ME riportiamo la definizione di media literate data dallo
stesso Hart: l’alunno “media literate” è alfabetizzato e competente in materia di media, ha capito
come vengono costruiti i messaggi mediati e sa decodificarli; è informato sucome funziona
l’industria dei media. Sa distinguere i diversi generi dei media e, soprattutto, distingue la realtà dei
fatti e della vita umana, dalla rappresentazione mediata. Sa usare il linguaggio dei media e
organizzare semplici esperienze di produzione.
3. Una nuova figura professionale: il media educator
Abbiamo fin qui mostrato il paradigma didattico ed educativo in cui si inscrive la nostra poposta di
ME. Ci siamo posti anche il problema della figura professionale, competente e responsabile, che
dovrà farsi carico dell’attuazione del nuovo compito della scuola odierna. Finora abbiamo fatto
riferimento agli stessi insegnanti della scuola (almeno a qualcuno particolarmente creativo e di
buona volontà) e al consiglio di classe, oltre a coinvolgere i dirigenti scolastici.. Tuttavia lo
sviluppo che la Media education sta avendo nelle scuole, sembra ora consigliare una nuova figura
professionale, quella del media educator come è stato proposto da P.C.Rivoltella nell'editoriale di
“InterMed” del luglio 1997. Il media educator diverrà il punto di riferimento di tutti gli insegnanti
che promuovono percorsi di ME nelle loro classi, il coordinatore delle iniziative “mediali” della
scuola, la persona competente alla quale si potrà far ricorso nei dubbi e nelle difficoltà. Di fatto le
università italiane stanno muovendosi in questa direzione avviando corsi di laurea triennale e master
postlaurea che metteranno sul mercato queste nuove figure professionali (per quello che è in atto
alla Università Cattolica di Milano, si veda “InterMed”, luglio 2000).
Il media educator potrà essere presente nella scuola italiana secondo due tipologie possibili,
ciascuna con i suoi vantaggi e rischi (Rivoltella, 2000b):
•
•
Il media educator fa parte dell’organico della scuola secondo due possibilità: come “funzione
obiettivo” (FOB), cioè come insegnante che, in possesso di specifiche competenze e in aggiunta
alla sua normale attività didattica, si incarica di coordinare, sostenere e monitorare le attività
didattico-formative relative alla ME; oppure come insegnante disciplinare nel caso che la scuola
del futuro metta in curricolo la ME.
Il media educator è un esperto extrascolastico che interviene con gli alunni (possibilmente in
copresenza con uno o più insegnanti di classe), oppure come animatore delle attività
extracurricolari di ME (cicli di cinelettura, laboratori teatrali e di produzione audio e video,
ecc.) o come formatore e tutor delle attività di ME dei docenti.
Per i media educators si è rivelato funzionale un coordinamento extrascolastico di tipo associativo
che mette in comune le competenze, favorisce lo scambio delle esperienze, consente
l’approfondimento delle motivazioni. Così è avvenuto in Canada con l’Association for Media
Literacy, in Francia con il CLEMI, in Italia con il MED (il MED-Media education, Associazione
italiana per l’educazione ai media e alla comunicazione, ha sede in Roma, Via Cavriglia, 8. Sito
web: www.medmediaeducation.it ).
4. Ricerca-azione nella Media education
La nostra proposta di ME per la scuola media italiana è stata progettata e verificata attraverso il
procedimento della ricerca-azione, che avevamo trovato funzionale e produttivo in esperienze
analoghe condotte nelle scuole italiane (Giannatelli, 1979). Per la messa a punto della
sperimentazione ci siamo ispirati al modello di ricerca-azione di Kurt Lewin (USA), riproposto in
Italia da Michele Pellerey e Cesare Scurati (Pellerey, 1980, Scurati, 1993).
Il nostro modello prevedeva tre fasi:
• Fase della preparazione: formazione del gruppo degli insegnanti; approfondimento delle
motivazioni, acquisizione delle competenze di base tenendo conto dell’interdisciplinarità,
affiatamento del gruppo; definizione del piano di ricerca (contenuti da sperimentare, obiettivi
delle unità didattiche, scelta delle attività degli alunni, definizione dei criteri per la
valutazione);
• Fase della ricerca: si sono assegnati i diversi compiti secondo le competenze degli insegnanti
che partecipavano alla ricerca-azione (l’analisi semiotica dei testi è stata affidata al docente di
lettere, gli aspetti tecnologici all’insegnante di educazione tecnica, ecc.); si è organizzata la
raccolta della documentazione nel “quaderno di classe”, si sono programmate alcune produzioni
con i media;
• Fase dell’azione: si trattava di stabilire il calendario degli interventi, i momenti interdisciplinari,
il coinvolgimento dei genitori e degli altri insegnanti non direttamente interessati nella ricercaazione; di promuovere un’azione efficace di relazioni pubbliche (stampa, autorità locali,
partecipazione a concorsi, ecc.), organizzare la festa finale per la presentazione dei lavori degli
alunni e la premiazione. Questa giornata conclusiva ha preso il nome di Communications day.
La nostra esperienza, soprattutto nei suoi inizi, è stata particolarmente felice. Ciò era dovuto al
clima di collaborazione ed entusiasmo che si era creato tra il gruppo trainante e gli insegnanti; e per
la partecipazione cordiale di alcuni collaboratori esterni, professori universitari e professionisti dei
media. Queste presenze hanno immediatamente dato un tono di serietà e un carattere scientifico
all’iniziativa, oltre ad aver assicurato le competenze necessarie per la formazione degli insegnantisperimentatori.
Il percorso didattico di ME proposto per i tre anni della scuola media era così articolato:
•
•
•
Primo anno: l’homo communicator: come “funziona” la comunicazione umana; la
comunicazione attraverso l’immagine (fissa); teoria e tecnica della fotografia; semiotica
dell’immagine; costruzione del racconto fotografico con colonna sonora (diapomontaggio);
Secondo anno: la comunicazione di massa: agenti e condizionamenti; il caso della televisione:
storia, linguaggio e generi; analisi del racconto televisivo ( con elementi di narratologia), della
fiction televisiva e dello spot pubblicitario; esercitazioni con la telecamera e l’unità di
montaggio; produzione di un video scolastico;
Terzo anno: la società dell’informazione e l’informazione giornalistica: cos’è la “notizia”, come
vengono raccolte e scritte le notizie; come è organizzato un giornale; analisi comparata di
articoli di giornale; simulazione del lavoro di una redazione giornalistica; produzione di un
giornale scolastico.
Nell’attuazione delle unità didattiche di ME, che dovevano concretizzare il programma indicato
sopra, sono intervenuti gli insegnanti di lettere, educazione artistica, educazione tecnica, lingua
straniera. In alcune occasioni, è stato invitato in classe un professionista dei media e si sono
organizzate visite guidate alla redazione di un giornale, radio e televisione locale. I genitori sono
stati informati del progetto di ME in atto. Occasionalmente si sono organizzati per loro conferenze,
seguite da un dibattito, sugli stessi temi proposti ai loro figli. Si è dato anche il caso in cui i genitori
hanno voluto sostenere economicamente le nostre iniziative di ME e contribuire all’acquisto degli
strumenti di cui la scuola non era provvista. La figura del Preside, con l’autorevolezza che gli
proviene dal compito affidatogli, è risultata determinante per assicurare successo e continuità
all’iniziativa.
Momenti significativi per l’affiatamento del gruppo degli sperimentatori, la formazione degli
insegnanti e la programmazione del percorso di ME, sono stati i corsi di settembre (nel periodo
1991-1995 e la Summer School di Corvara in Val Badia (Bolzano) a partire dal 1992. I corsi di
settembre avevano la durata di una settimana in cui si svolgevano lezioni accademiche su temi di
scienze della comunicazione e attività di laboratorio per apprendere l’uso degli strumenti della
comunicazione e progettare le unità didattiche di ME. Alla Summer School di Corvara hanno
partecipato professori delle Università italiane come A.Calvani, R.Maragliano, A.Piromallo, P.C.
Rivoltella, C. Scurati; ed esperti mondiali della Media education come: Evelyne Bevort, vice
direttrice del CLEMI di Parigi, Manuel Pinto dell’Università di Braga (Portogallo), David
Buckingham dell’Università di Londra, Theo Hug dell’Università di Innsbruk, Geneviève Jacquinot
dell’ VIII Università di Parigi.
A conclusione del “racconto” della nostra esperienza di Media education, vorremmo ricordare che
un fattore centrale della riuscita è stata la collaborazione tra università e scuola, il “va’ e vieni” tra
i centri di studio e le istituzioni scolastiche, tra i ricercatori, gli insegnanti e i professionisti dei
media. Fin dagli inizi avevamo tenuto presente la raccomandazione del pedagogista inglese
L.Stenhouse: “lo sviluppo del curricolo deve corrispondere a quello dell’insegnante”; e ancora:
“ogni classe diventi un laboratorio, e ogni insegnante un membro della comunità scientifica”
(Stenhouse, 1977). Tutto questo ha determinato negli insegnanti competenza, professionalità,
passione educativa.
Roberto Giannatelli
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