La proposta della Media education per la nuova scuola in Italia
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La proposta della Media education per la nuova scuola in Italia
La proposta della Media education per la nuova scuola in Italia di Roberto Giannatelli, Professore di Media education presso l’Università Pontificia Salesiana e Presidente del MED, Associazione italiana per l’educazione ai media e alla comunicazione Gli inizi Nel maggio scorso sono ritornato in Canada dove è iniziata la mia “avventura” nel campo della Media education. Insieme al Prof. Pier Cesare Rivoltella dell’Università Cattolica di Milano, ho partecipato al Summit 2000 on Media education che ha visto radunati oltre 1400 media educators d’ogni parte del mondo per fare un bilancio della Media education negli ultimi venti anni e guardare oltre il millennio (cf InterMed 2000, n.2). Ho già raccontato in altre occasioni come sono giunto nei territori della Media education (Giannatelli-Rivoltella 1994 e 1995; Postfazione a Masterman 1997) e come sono stato indotto “ad aprire la strada della Media education in Italia” (Rivoltella 1998). Vorrei qui di ripercorrere il cammino che mi ha portatao dalle prime esperienze dei Laboratori di Media education (settembre 1991) organizzati in continuazione dei corsi di “Educazione ai media” che tenevo nell’incipiente Istituto di scienze della comunicazione sociale (ISCOS), fondato presso l’Università Pontificia Salesiana di Roma nel 1988 in occasione del centenario della morte di Don Bosco, grande educatore e comunicatore, e di cui ero stato il primo Preside, fino alla Summer School di Corvara (Bolzano), ora alla sua nona edizione e alla fondazione del MED-Media education, Associazione italiana per l’educazione ai media e alla comunicazione (28 febbraio 1996). In Canada ero arrivato nel maggio 1992 per la Second Conference on Media education che l’Association for Media Literacy aveva organizzato presso l’Università di Guelph (Toronto). Avevo conosciuti personaggi come Len Masterman, Barry Duncan, John Pungente, ecc., che sono state le mie prime guide nel campo, per me ancora inesplorato, della Media education. Nell’estate precedente avevo visitato il Center for Media Literacy a Los Angeles e incontrato la direttrice Elisabeth Thoman. A lei avevo mostrato il rapporto di John Pungente “Getting started on Media education” del 1985, che mi aveva fornito utilissime informazioni sullo scenario internazionale della Media education. Padre Pungente era stato incaricato nel 1983 dal Generale dei Gesuiti di condurre una ricerca circa l’insegnamento della Media education (=ME) presso le 400 scuole secondarie dei Gesuiti presenti in ogni parte del mondo. La ricerca doveva svolgersi nell’ambito delle attività del Centre for the Study of Communication and Culture fondato a Londra dagli stessi Padri Gesuiti nel 1977, centro interessato a promuovere ricerche nel campo della Media education. L’indagine di J. Pungente doveva rispondere a tre domande: 1) Qual è lo stato della ME nelle scuole dei Gesuiti; 2) Qual è lo stato della ME nelle altre scuole del mondo; 3) Che cosa poteva essere fatto per incoraggiare la ME nelle scuole dei Gesuiti. J.Pungente visitava dunque le scuole dei Gesuiti dal febbraio al novembre 1984: un lungo viaggio che lo portava in 29 Paesi, 62 città, a contatto con le più diverse esperienze di ME. Il rapporto pubblicato nel 1985 offriva un’interessantissima documentazione su cinque punti: 1) che cosa si intende oggi per ME; 2) perché la ME è importante; 3) come si può rispondere alle obiezioni che vengono sollevate contro la ME; 4) secondo quali modelli si potrebbero organizzare corsi di ME; 5) bibliografia di base per chi opera nella ME. Stavo dunque riflettendo sul rapporto di J.Pungente, quando Elisabeth Thoman prese da uno scaffale un libro e me lo mostrò dicendo: “Questa sarà la tua bibbia!”. Si trattava del libro di Len Masterman: Teaching the Media pubblicato nello stesso anno del rapporto di J.Pungente. Devo ora riconoscere che Elisabeth Thoman è stata “profeta” nei miei riguardi (le ho confidato questa mia avventura durante il Summit di Toronto). Il libro di Masterman mi ha aperto gli occhi su un mondo nuovo e che in modo originale e approfondito forniva una risposta alle stesse domande che si era 1 posto J.Pungente: che cos’è la ME? perché è importante? come si posso motivare gli insegnanti a realizzare percorsi di ME nella scuola d’oggi. Sul libro di J. Pungente, Elisabeth Thoman mi aveva scritto un indirizzo: Jesuit Communication Project di Toronto con relativo telefono e fax. Quel giorno stesso inviai un fax a J.Pungente, che mi rispose immediatamente: “Sto partendo per l’Europa; ma lei ritorni il prossimo anno per la Second Conference on Media education”. Così sono ritornato. Mi fermerò ora a illustrare quello che è stato il punto di partenza che mi ha condotto a introdurre la ME in Italia: perché ho sostenuto l’idea di ME, quali contenuti hanno caratterizzato la proposta, che cosa fatto per sensibilizzare e formare gli insegnanti alla ME. La mia esposizione avrà il tono di una grande “narrazione”, sarà come la voce di un testimone di un’esperienza, lasciando ad altri il compito di affrontare gli aspetti più critici e fondativi ( cf P.C.Rivoltella con cui ho condiviso l’esperienza fin dal 1991). L’educazione ai media nell’Italia degli anni ’90 Quando abbiamo iniziato a promuovere le prime esperienze di ME in Italia, che cosa stava facendo la scuola nel campo dell’educazione ai media? Innanzi tutto il termine Media education non era conosciuto, o almeno non era usato negli ambienti educativi e neppure nelle sfere della pedagogia ufficiale. Si preferivano espressioni come: educazione agli audiovisivi, all’immagine, ecc. Noi abbiamo voluto riferirci alla recente tradizione anglofona. Il termine inglese di Media education, come quella tedesco di Medienerziehung, si presta meglio di altri usati nelle lingue latine (come: educazione ai media, éducation à l’actualité, educación para los medios, lectura critica, ecc.) per esprimere in modo immediato e sintetico, la relazione che deve intercorrere tra il mondo dell’educazione e il mondo dei media. Il termine Media education viene a indicare, infatti, sia l’“educazione con i media”, considerati come strumenti da utilizzare nei processi didattici e come parte dell’esperienza che gli alunni devono fare con i media (hands on…), sia l’“educazione ai media”, che si riferisce piuttosto alla comprensione critica dei testi e del sistema dei media, intesi non solo come strumento ma linguaggio e cultura. Essendo la ME di carattere olistico (Masterman, 1985), essa coinvolge i diversi ambiti dell’educazione: famiglia, scuola, comunità religiosa, territorio. L’espressione ME ha acquisito ormai il diritto di cittadinanza anche in Italia. E’ venuta ad indicare un’attività educativa e didattica della scuola ( ma non solo della scuola) finalizzata a sviluppare negli alunni un’informazione e una comprensione critica circa la natura, il linguaggio, le categorie e i generi dei media, le tecniche da loro impiegate per costruire i messaggi e produrre senso. Vengono inoltre analizzati i condizionamenti che i media subiscono da parte di fattori economici, politici e ideologici, e l’impatto che essi hanno sul pubblico. La ME propone una strategia non puramente difensiva, limitata a “proteggere” i minori dagli effetti negativi dei media; sostiene piuttosto una “strategia di attacco”, finalizzata a fornire ai minori una competenza mediale (Medienkompetenz, Baacke 1997) o empowerment (Tyner 1998) perché i giovani acquisiscano la capacità di comprendere e confrontarsi con l’universo dei media, e di saper creare, a loro volta, nuove forme di espressione e di comunicazione. La ME assume anche una connotazione sociale e politica: si rivolge al “cittadino” perché non sia un semplice fruitore acritico dei media. Il termine Media education non era conosciuto, o almeno non era usuale, in Italia agli inizi degli anni ’90. Ma esisteva almeno una prassi di ME? 2 Il secolo XX è stato, infatti, il secolo dei media. Si è aperto con l’affermazione della “settima arte”, il cinema, dapprima muto (1895), poi sonoro (anni ‘20), quindi a colori e su grande schermo (anni ’50), ecc.. Fin dai suoi inizi il cinema aveva interessato gli studiosi italiani. Tra il 1900 e il 1918 fanno la comparsa una ventina di riviste sul cinematografo (sovente di breve durata); nel 1908 La rivista del cinematografo italiano di Gualterio Ildebrando Fabbri pubblica i primi interventi sul cinema educativo. Ma occorre attendere gli anni del secondo dopoguerra per avere sviluppi più significativi sull’educazione al cinema. Un ruolo pedagogico di educazione popolare e largamente diffuso (la sola Chiesa cattolica gestiva negli anni ’60 circa 4000 sale cinematografiche) i cineforum . Nel 1946 viene fondato a Roma il “Movimento del cineforum”. A Milano la rivista “Letture” pubblicata dai Gesuiti offre un sussidio di notevole spessore culturale per la lettura critica dei film. Agli inizi degli anni ’70, ancora un Gesuita, P.Nazareno Taddei fonda il Centro internazionale dello spettacolo e della comunicazione sociale e dal 1972 inizia a pubblicare la rivista EDAV (educazione audiovisiva) proponendo un metodo semiotico-strutturale di lettura dell’immagine (fissa, cinematografica, televisiva). Anche i Salesiani intervengono attraverso l’opera di un loro confratello, don Marco Bongioanni, e fondano il movimento dei Cinecircoli giovanili. A partire dagli anni ’70 anche la scuola italiana incomincia a interessarsi in modo esplicito dell’educazione all’audiovisivo e ai media. Nel 1979 i nuovi programmi della scuola media assegnano lo studio dei media alle discipline Educazione tecnica ed Educazione artistica. I programmi fanno riferimento, ma non in modo sistematico, al cinema e ai mezzi di comunicazione di massa e di informazione (il giornale e la televisione). I programmi della scuola elementare del 1985 rivolgono un’attenzione più globale ai media: essi vengono considerati per il loro contributo alla formazione di competenze specifiche nel bambino, e nella loro realtà di sistemi simbolici attraverso i quali l’alunno apprende a comunicare, come già era stato riconosciuto per le attività educative attraverso il corpo e il disegno. Viene proposta una nuova area d’intervento chiamata “educazione all’immagine” che si caratterizza per due tipi di attività: quelle espressivo-creative e quelle fruitivo-critiche. Finalmente gli Orientamenti dell’attività educativa nella scuola materna del 1991, riconoscono nei media moderni un “campo di esperienza del bambino” in cui trovano collocazio le attività di comunicazione e di espressione manipolativo-visiva, sonoro-musicale, drammatico-teatrale, audiovisuale e massmediale. Quale valutazione (di tipo globale, senza scendere ad altre specificazioni) si potrebbe dare sull’impegno della scuola italiana nel campo dell’educazione ai media? Condividiamo il giudizio di Gianna Cappello. Nella nostra scuola la possibile Media education ha sofferto di tre grandi limitazioni: non sistematicità: l’educazione ai media nella scuola è finora avvenuta più per l’entusiasmo e la buona volontà di qualche insegnante, piuttosto che essere frutto di una programmazione ragionata e condivisa; non organicità degli interventi: si è trattato prevalentemente di interventi occasionali e a sé stanti, piuttosto che di tasselli di un piano complessivo e organico; scarsa interdisciplinarità: gli interventi, essendo opera isolata di volontari, non hanno coinvolto il collegio dei docenti e i consigli di classe (Cappello 2000). E’ mancata l’idea di curricolo scolastico applicata allo studio e alla pratica dei media. Ha invece ottenuto un pregevole successo il piano triennale (1997-2000) per l’introduzione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Cf S.Rolando 1999; e anche sito: www.istruzione.it). Altro discorso è quello che riguarda la Media education promossa dalle Associazioni che in Italia rappresentano una realtà vivace e diffusa. Sono qui da menzionare associazioni come l’AIART (Associazione italiana degli spettatori) e il Centro Studi Cinematografici, che pubblicano rispettivamente Il telespettatore e Il ragazzo selvaggio. Vorremmo infine ricordare la nostra Associazione del MED-Media education, Associazione italiana per l’educazione ai media e alla comunicazione, fondata a Roma nel 1996 da 12 docenti universitari, professionisti dei media ed educatori. Il MED raggiunge oltre mille tra educatori, docenti universitari, professionisti dei media; 3 organizza corsi di aggiornamento e di qualificazione per insegnanti delle scuole italiane, in particolare la Summer School di Corvara (Bz), pubblica il bollettino InterMed (lo si può leggere anche nel sito: www.Medmediaeducation.it); promuove studi sulla Media education e cura una propria collana (“Vivere con i media”) presso l’editrice Elledici di Torino-Leumann. Il MED è presente nel territorio italiano attraverso le sedi regionali di Milano, Padova, Roma, Napoli, Bari; ed è collegato con i principali centri di Media education nei diversi paesi, come il CLEMI di Parigi, il BFI di Londra, l’AML dello stato dell’Ontario. I paradigmi della Media education Nell’impostare un’attività di Media education, è necessario chiarire la motivazione, il fondamento, quale tipo di approccio si decida di instaurare con i media. Noi ci siamo ispirati, come si è già ricordato, all’esperienza mondiale dei media educators, e in particolare a quella anglofona. Il nostro punto di partenza è stato caratterizzato dalla presenza dell’opera di Len Masterman (innanzi tutto il suo Teaching the Media del 1985 e successivamente: Media education in 1990s’ Europe pubblicato a cura del Consiglio d’Europa nel 1994 e tradotto in italiano nel 1997 con il titolo A scuola di media, Brescia 1997). Abbiamo cercato di dare una risposta alla raccomandazione di Masterman: “la vostra ME non si limiti ad essere un insieme di entusiasmi, ma sappia costituire un corpo organico di teorie e pratiche pedagogiche”. Abbiamo tenute presenti due questioni previe ad ogni progettazione didattica in ME: a quale “paradigma” teorico obbedisce la nostra ME e secondo quale struttura didattica viene offerta alla scuola (Hart, 1998). Per paradigma si intende qui un modello che ispira la progettazione didattica, un atteggiamento, una precompresione con cui si accosta il mondo dei media. Come ricorda J.Jacquinot, Professore all’ottava Università di Parigi, il dialogo tra scuola e media non è stato facile, considerata la diversità delle due tradizioni. La prima, quella dell’educazione, e della scuola in particolare, ha, secondo una consolidata esperienza, una prevalente attenzione al passato, esalta il ruolo della ragione, si basa sull’oggettività, si costruisce nella durata, mira alla formazione del cittadino e dell’uomo integrale. La seconda, quella dei media, si presenta come una conoscenza rivolta all’attualità, si rivolge al cosumatore, fa leva sull’emozione e il piacere, si costruisce sull’effimero, esalta la soggettività, è condizionata da pesanti fattori economici, politici e ideologici (Jacquinot, 2000). Nonostante questa iniziale lontananza, tra le due tradizioni si sta verificando un avvicinamento, sotto l’incalzare della pervasività dei media e dell’interesse che suscitano nella vita dei giovani. Tuttavia i “paradigmi” che la scuola ha adottato nel considerare i media non sono tutti ugualmente corretti e utili per la maturazione dei giovani alunni. Il primo paradigma, che Masterman analizza, è quello “inoculatorio” largamente presente ancora oggi in Italia. Alla domanda “Perché insegnare i media nella scuola?”, viene data una risposta come questa: “I media sono una malattia, un virus dal qualche i minori devono essere protetti attraverso l’antivirus che è l’educazione”. Gli interventi della scuola a proposito di media, vengono considerati come un vaccino che deve preservare dalla cattiva influenza della tv, cinema, stampa, fumetti, ecc. Più che un’azione educativa rivolta a fornire competenza e autonomia, la ME dovrebbe insegnare in questo caso a fuggire e difendersi. La cultura, veicolata dai media, è ritenuta come una minaccia per la cultura “autentica” dei libri, delle biblioteche, dei programmi scolastici. Non è ritenuto possibile un dialogo tra le due culture, ma una chiara opposizione. Il secondo paradigma è stato chiamato nell’area anglofona “paradigma delle arti popolari”. Il cinema, almeno nella prima metà del secolo XX, aveva rappresentato una forma privilegiata di arte popolare. La “teoria degli autori”, proposta dalla critica cinematografica francese negli anni ’50 e che aveva la sua maggiore espressione nella rivista Cahiers du cinéma, aveva attirato l’attenzione 4 anche dei media educators del tempo. Le opere cinematografiche dei grandi autori (da Bergman, a Trouffaut, a Fellini…) venivano a costituire un nuovo interesse per la ME; venivano proposte all’analisi critica degli alunni alla pari delle opere letterarie. L’approccio era valido, ma il nuovo paradigma, secondo il giudizio di Masterman, non veniva a riscuotere il successo sperato; anzi veniva giudicato dai giovani come un modello protezionistico e discriminatorio. Si criticava il compito dell’insegnante, unico arbitro nello scegliere i film da visionare e nello stabilire i criteri di valutazione. Infine sembrava che si operasse una sorta di discriminazione tra media e media, preferendo il cinema su tutti altri media che nella pratica erano più frequentati dai giovani (pop music, televisione, fumetti, ecc.). Successivamente, e siamo negli anni ’70, faceva irruzione nel mondo dei media educators il libro di Roland Barthes Mythologies (prima edizione: 1957). Arriviamo così al terzo paradigma della ME. R. Barthes aveva messo in discussione la distinzione “tra cultura alta” e “cultura bassa” (anche un fumetto è “cultura”), e introdotto il concetto di “non trasparenza” dei media. Questi pretendono di rappresentare, ma “non sono la realtà”. Sono, appunto, una “rappresentazione” del reale; una sua “costruzionie che obbedisce a determinate regole linguistiche e interessi ideologici. Il concetto di rappresentazione diviene centrale nella ME: dà un fondamento teorico e un ruolo pratico a ciò che farà la scuola. Il compito principale del media educator sarà quello di fornire agli alunni strumenti adeguati per “decostruire” i testi dei media. L’attività di encoding-decoding principale nella ME. Gli studi di semiotica e quelli culturali (Cultural Studies), offrono i criteri e gli strumenti per le attività scolastiche di analisi dei testi (Cappello, 1995). Questo ultimo paradigma si è dimostrato vincente. La struttura didattica della Media education Chiarito il tipo di approccio da assumere nei confronti dei media, diviene necessario individuare una “struttura didattica” per la ME da proporre agli insegnanti. A. Hart, dell’Università di Londra, chiede ai media educators, di dare risposte a queste tre domande (Hart 1998): 1. Perché insegnare i media? 2. Che cosa insegnare dei media? 3. Come (con quali metodi) si dovranno insegnare i media? Perché insegnare i media Le ragioni che inducono a introdurre la ME nel curricolo scolastico, sono state ampiamente esplorate negli anni ’80 da Len Masterman (Masterman 1985). Un primo motivo è quello della saturazione o pervasività dei media. Presentando la loro Risources Guide, una guida originale che aiuta a programmare la Media Literacy nelle scuole secondarie nel Canada-Stato dell’Ontario (Toronto, 1989), i media educators canadesi avevano ricordato il grande spazio che i media occupano nella vita dei giovani canadesi: 11.000 ore venivano passate nelle aule scolastiche, nei 12 anni della scuola preuniversitaria, a fronte di 15.000 trascorse guardando la tv e di altre 10.500 spese nell’ascolto della popular music (queste ultime si riferiscono alle pratiche degli adolescenti e giovani). Le statistiche italiane non sono molto dissimili (anche se le recenti ricerche di Morellini segnalano un calo verso l’interesse televisivo; Morcellini, 1999): dalle tre alle quattro ore spese giornalmente dai ragazzi davanti al televisore. A queste vanno aggiunte quelle passate con i videogiochi e internet. Oltre mille ore con i media in un anno: un vero e proprio curricolo di apprendimento! In secondo luogo, i media sono un’autentica ”industria delle coscienze”. Non sono neutrali.Sono vincolati alla pubblicità. “Comprano audience per venderla ai pubblicitari” (Masterman, 1985). Impongono stili di vita e pratiche di consumo. Molto di quello che i nostri giovani sono e pensano, e come si comportano, è dovuto alla cultura dei mass media. Essi controllano e a loro volta sono 5 controllati da economia e politica. Masterman paragona il possesso di una radio o di una televisione alla funzione che aveva il castello medioevale posto lungo un fiume o in una vallata. Si tratta del “controllo” di un territorio, nel nostro caso quello della cultura, delle coscienze, della società. I media sono, inoltre, una potente “fabbrica delle notizie” secondo le rigide regole dell’agenda setting e del gate keeper. Chi e per quali interessi i media acquisiscono, selezionano, diffondono le informazioni? La scuola deve saper rispondere a queste domande che sono inquietanti. Non finiranno forse per condizionare gli stessi processi democratici? Il “colloquio” promosso dall’Unesco a Toulouse nel luglio 1990, concludeva i propri lavori con la seguente affermazione dell’allora ministro dell’educazione francese L.Jospin: “Non c’è democrazia senza partecipazione, non c’è cittadinanza attiva senza formazione, non c’è formazione senza informazione, cultura, consapevolezza critica. Se vogliamo che i media servano la vita democratica di un paese, dobbiamo partire da un approccio democratico ed educativo ai media. La scuola è necessaria” (Bazalgette, Bévort, Savino, 1992). A queste motivazioni che si ponevano chiaramente già negli anni ‘80, se ne aggiungono oggi altre che provengono dalla globalizzazione, dal mercato mondiale dei media, dagli sviluppi delle tecnologie (Hart, 1998). Una prima motivazione sta nella crescente digitalizzazione nella raccolta, conservazione e trasmissione delle informazioni e nella convergenza di tutti i media nel computer. L’Internet e le nuove tecnologie della comunicazione si impongono ormai alla scuola tradizionale (Calvani-Rotta, 1999). La scuola deve assumere quella che è stata chiamata la “quarta dimensione dell’apprendimento”: dopo il “leggere, scrivere e far di conto”, si impone oggi il possesso del computer e delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Un altro fenomeno che si presenta sullo scenario mondiale della comunicazione, è quello della globalizzazione. Il mercato mondiale dei mezzi di comunicazione finisce per compromettere le identità e le tradizioni locali, mette in gioco i valori che sono alla base della convivenza tra i popoli, minaccia il diritto alla “differenza” e all’accesso ai mezzi della comunicazione, discrimina tra nord e sud del mondo. Il discorso sui media, porta la scuola nel mare aperto del modello di uomo e società, del futuro del mondo. Che cosa insegnare dei media L’insegnamento di singoli media era stato attuato nel recente passato nei sistemi scolastici più avanzati, anche se non in modo sistematico. Si era fatta educazione all’immagine e al cinema, alla lettura dei giornali, ecc. Ogni medium veniva considerato piuttosto isolatamente. Lo stesso Masterman aveva pubblicato nel 1980: Teaching about television, un corso di ME sulla televisione. L’apporto nuovo e decisivo del suo Teaching the media (1985), è stato quello di aver identificato un’area di studio che precede l’approccio ai singoli media, una sorta di koiné, una lingua comune, che è necessario apprendere per giungere alla comprensione dei singoli media, una “cultura generale” che sta alla base del corso di Media education. Si tratta, innanzi tutto, di approfondire il concetto-chiave di “rappresentazione”. I media non sono la realtà: non sono trasparenti ma opachi; non sono “una finestra sul mondo” ma una sua “costruzione” secondo un complesso processo di selezione e montaggio. I media sono influenzati da fattori estetici, economici, ideologici, culturali e dalla stessa “routine” dei professionisti. Il loro linguaggio enfatizza il ruolo dell’immagine e dell’emozione. I media comunicano secondo forme e generi propri. Il feed-back dell’audience influenza le scelte prese dai produttori e dai professionisti. Infine la scuola dovrà studiare anche il ruolo dell’audience, non semplice recettore ma “negoziatore” dei messaggi e produttore di senso.(Bechelloni, 1995). Le considerazioni sopra riportate indicano i capitoli della cultura generale sui media, che deve fare da premessa ad ogni successivo intervento di ME. Masterman propone quattro di questi capitoli 6 fondamentali che la scuola deve sviluppare: i determinants o le istituzioni dei media (chi comunica e per quali interessi); l’analisi della retorica dei media (il loro linguaggio, le tecniche impiegate, i generi e le categorie dei media); lo studio dell’ideologia dei media (le idee, i valori e gli interessi in gioco) e infine lo studio del pubblico o audience dei media (chi riceve il messaggio e attraverso quale processo di “negoziazione” fa proprio il significato dei messaggi e ne elabora uno proprio). Per concludere, ecco le fondamentali domande che l’insegnante dei media dovrà proporre ai propri alunni a scuola di media: chi comunica e perché? di che tipo di testo si tratta? come è stato prodotto? come ne conosciamo il significato? quali interessi sono in gioco? chi riceve il messaggio e quale significato gli attribuisce? come viene “rappresentata” la realtà? che cosa è stato omesso e che cosa enfatizzato, e perché? (Bazalgette, 1989). Come insegnare i media: i metodi della ME Individuata la materia di studio, i contenuti della ME, sarà necessario conoscere il metodo con cui si dovranno “insegnare i media”, perché la ME possa avere una sua dignità disciplinare al pari delle altre materie scolastiche. I metodi con cui ci siamo confrontati in questi nostri “dieci anni di ME”, attingevano principalmente alla semiotica, ai Cultural Studies, agli studi sulla ricezione (Masterman, 1985; Hart, 1998; Martinez-de-Toda, 1998; Bertolini, 1988 ss.; Branduardi-Moro, 1997; Rivoltella, 1998). Interagendo con gli insegnanti che hanno partecipato al nostro Laboratorio di ME fin dal 1991, abbiamo formulato “costanti” che potremmo definire principi di metodo per la Media education italiana: 1. la ME deve essere affidata agli stessi educatori presenti nella scuola, possibilmente a un team di docenti. Raramente si farà ricorso a un esperto esterno. Non pare necessario configurare per il momento una nuova materia scolastica. Sembra più utile predisposrre un insegnamento interdisciplinare il cui regista (mi riferisco alla scuola media italiana) sarà l’insegnante di lettere, coadiuvato da quello di educazione tecnica ed artistica. La ME sarà pertanto, come suggerisce Masterman, un “curriculum across the curriculum”. 2. L’educazione ai media sarà progettata secondo un percorso progressivo e a spirale, che si svolge a partire dai singoli media secondo una progressione in difficoltà e complessità (dalla fotografia, alla televisione, al giornale, al cinema…). 3. Le attività di analisi e di produzione (lavoro pratico) procederanno di pari passo. Il Prof. P.C.Rivoltella ci ha dato un contributo determinante nel tradurre i principi della semiotica in modelli di analisi (Rivoltella 1998). La sperimentazione ha mostrato che gli alunni della scuola media sanno applicare le griglie di analisi semiotica; e sono capaci pure, dopo un breve periodo di addestramento, di far uso degli strumenti della comunicazione mediale, come può essere la telecamera e l’unità di montaggio. Il lavoro pratico con i media conserverà le caratteristiche di un esercizio didattico senza voler “scimmiottare” i professionisti. Tuttavia la collaborazione di un professionista (come può essere un genitore di un alunno) conferisce un tono di serietà e professionalità alle esercitazioni scolastiche. La figura dell’insegnante, con il ruolo del “facilitatore” dell’apprendimento e dell’animatore della classe e dei colleghi, rimane centrale ed è la garanzia del sucesso della ME nella scuola. 4. La ME dovrà conservare uno stile educativo, democratico e non impositivo, fatto di partecipazione e di “scambio generazionale” (Scurati, InterMed 1999/1). Nel campo dei media, gli insegnanti (e in genere gli adulti) hanno molto da imparare dai loro alunni, ma anche molto da dare loro in fatto di cultura, valori, esperienza e saggezza di vita. 5. La ME darà origine a un processo a lungo termine, che deve contiunare “lungo la vita” nell’educazione degli adulti. Se scopo della ME è il conseguimento dell’autonomia critica (Masterman 1985) e la competenza del fruitore (Baacke 1997), è chiaro che tali obiettivi 7 possono essere raggiunti solo sul lungo periodo e ripensati in situazioni diverse. La scuola potrebbe divenire il luogo adatto per continuare il “dialogo sui media”. 6. Un problema nuovo per la ME è il suo rapporto con la multimedialià. Noi siamo convinti che l’apprendimento delle nuove tecnologie non possa sostituire la tradizionale ME. Ci sembra più utile ritenere che all’interno di un approccio generale e critico ai media (la ME appunto), possano trovare posto CD-rom, ipertesti e Internet (Baacke 1997; Rivoltella 1999). I Proff. R.Maragliano e A.Calvani, che hanno più volte partecipato alla Summer School di Corvara e ai corsi di aggiornamento organizzati dal MED, hanno indicato nuove e interessanti prospettive per il nostro lavoro (Calvani 1999). Una nuova figura professionale: il media educator Abbiamo fin qui mostrato il quadro teorico della nostra poposta di ME, quel “corpo organico di teorie e pratiche pedagogiche” voluto da Masterman per non esaurire l’impegno in un entusiasmo passeggero. Ci poniamo ora il problema della figura professionale, competente e responsabile, che dovrà farsi carico del nuovo compito. Nella nostra esperienza decennale, abbiamo sempre fatto leva sul team degli educatori, possibilmente del consiglio di classe, anche se di fatto il gruppo trainante si concentra sovente su due o tre insegnanti creativi e di buona volontà. Ma è forse giunto il momento di identificare una nuova figura professionale nella scuola italiana, quella del media educator come è stato proposto da P.C.Rivoltella (Cf InterMed, 1997/2)? ll media educator potrà trovare spazio nel sistema scolastico italiano? La scuola dell’autonomia potrà richiedere nuovi ruoli e nuove competenze soprattutto nel campo finora inedito della Media education? Quale preparazione professionale sarà richiesta al media educator e chi potrà darla? Ci sembra significativo il fatto che le Università italiane si stanno aprendo non solo alla comunicazione e ai media in generale, ma anche a curricoli e specializzazioni a livello di master proprio nel campo della Media education. A seguito della formazione data in sede accademica, sarà più facile chiedere collaborazioni ai futuri media educators e identificare per loro uno spazio sia nella scuola che nell’extrascolastico. A nostro parere il media educator dovrà essere sostenuto da strutture intermedie. L’esperienza che si è sviluppata in Canada e Francia, ha dimostrato l’utilità e l’efficacia che rivestono le associazioni degli stessi media educators. Così è avvenuto con l’ Association for Media Literacy dell’Ontario, e con quell’organizzazione che affianca in Francia l’azione del Ministero dell’educazione per l’educazione ai media ed èil CLEMI di Parigi. Si tratta in definitiva di organismi e figure intermedie che operano in strutture più agili di quelle governative e sono più vicine ai bisogni del territorio. Possono assolvere a questo compito le cooperative, i centri di ricerca, di documentazione e di training per gli educatori, le associazioni dei media educators come è appunto il MED. Ricerca-azione nella Media education: un’esperienza italiana Vorrei ora ricordare come è nata la nostra proposta di un curricolo di ME per la scuola media italiana. Dopo aver approfondito il quadro teorico della ME e aver studiato alcuni modelli di ME che avevo conosciuto in Canada (ricordo in particolare: Media Literacy. Resources Guide, Toronto 1989) e in Inghilterra, ho iniziato a proporre e sperimentare alcuni percorsi di ME presso quattro scuole medie (11-14 anni) a Roma e una Milano. Siamo nel settembre 1991. A me era familiare, per gli anni che avevo trascorso nella Facoltà di scienze dell’educazione dell’Università salesiana, il seguente principio pedagogico: una teoria non è credibile fino a quando non viene verificata sul campo; e – aggiungerei – fino a quando non dà origine a un’innovazione. 8 Per la messa in opera della sperimentazione, mi ero servito del modello di ricerca-azione di Kurt Lewin (USA) e riproposto in Italia da Michele Pellerey e Cesare Scurati (Pellerey 1980, Scurati 1993). Il modello che ho adottato nel Laboratorio di Media education (Roma, 1991-1995) prevedeva tre fasi di intervento: · Fase della preparazione: formazione del gruppo degli insegnanti; approfondimento delle motivazioni, acquisizione delle competenze di base; promozione di un’interdisciplinarità e affiatamento del gruppo; studio del disegno di ricerca (contenuti da sperimentare, obiettivi delle unità didattiche, scelta delle attività degli alunni, definizione dei criteri per la valutazione); · Fase della ricerca: si trattava di assegnare compiti differenziati agli insegnanti che partecipavano alla ricerca (l’analisi semiotica dei testi al docente di lettere, gli aspetti tecnici all’insegnamte di educazione tecnica…), di organizzare la raccolta della documentazione (si è data importanza al “quaderno di classe” e alla produzione degli alunni), concordare come si sarebbero attuati il monitoraggio e la valutazione del processo di apprendimento e delle produzioni, ecc.; · Fase dell’azione: si trattava di coinvolgere i genitori e gli altri insegnanti della scuola, partecipare a eventuali concorsi indetti localmente e riguardanti le produzioni degli alunni, interessare le autorità locali, preparare relazioni e articoli per i giornali locali e le riviste specializzate, organizzare la presentazione dei lavori degli alunni in occasione del Communications day (o Forum .della Media education). La nostra esperienza, soprattutto nei suoi inizi, è stata particolarmente felice. Ciò era dovuto alla collaborazione cordiale di Professori di comunicazione sociale delle Università romane e dell’Università cattolica di Milano (collaborazione necessaria per dare fondamento scientifico al nostro progetto) e di professionisti dei media, che avevano un ruolo ugualmente importante nel Laboratorio: essi svelavano ai nostri insegnanti i “segreti” della loro pratica professionale e delle istituzioni dei media, davano sicurezza nelle esercitazioni con i media, portavano le produzioni a un livello di qualità accettabile. Gli stessi insegnanti, che avevano aderito alla nostra proposta, erano particolarmente qualificati, entusiasti e affiatati. Vorrei qui la testimonianza di una insegnante della prima ora: “Il dato fondamentale è il grande entusiasmo con cui siamo partiti, un entusiasmo però bilanciato dalle poche risorse che avevamo in mano e dalla consapevolezza delle difficoltà che avremmo incontrato… Procedendo nel lavoro ci siamo resi conto che i programmi individuali non venivano ridotti a causa del tempo dedicato alla Media education, ma risultavano arricchiti nei contenuti, anche per la partecipazione entusiasta dei ragazzi. Le unità didattiche sono state svolte in un clima disteso ed estremamente diversificato nelle attività, che hanno permesso di sviluppare attività manuali e capacità organizzative in aula e nei vari laboratori di cui la scuola dispone… Premesso che siamo consapevoli che quanto operato darà i suoi frutti tangibili quando i ragazzi, raggiunto un livello più avanzato di maturazione, si orienteranno a fare le loro scelte di vita, possiamo però fin da questo momento esprimere un giudizio positivo sulle dinamiche innestate, che si esprimono nello sviluppo della capacità di indagine e interpretazione autonoma della realtà che li circonda, in una maggiore capacità di cogliere le strategie e le tecniche usate dai media, e infine nella presa di coscienza di una sinergia culturale presente nell’operare degli insegnanti. Alla luce di questo, il nostro esperimento ci pare pienamente riuscito e meritevole di essere portato avanti per il futuro (Angela Castelli, in R.Giannatelli-P.C.Rivoltella 1994, p.328-329). Il percorso didattico per la scuola media che era maturato nei primi tre anni del Laboratorio era così articolato: 9 · · · Nel primo anno della scuola media avevamo proposto i seguenti temi (fornendo nello stesso tempo , informazioni, stimoli e materiali utili per l’insegnamento): l’homo communicator: come “funziona” la comunicazione umana; la comunicazione attraverso l’immagine (fissa); teoria e tecnica della fotografia; semiotica dell’immagine; costruzione di un racconto fotografico con colonna sonora; Nel secondo anno venivano affrontati alcuni aspetti della comunicazione di massa: agenti e condizionamenti; il caso della televisone: storia della televisione, linguaggio e generi; analisi del racconto televisivo (narratologia), della fiction televisiva e dello spot pubblicitario; esercitazioni con la telecamera e l’unità di montaggio; produzione di un video scolastico. Nel terzo anno il tema centrale era quello dell’informazione: come vengono raccolte e scritte le “notizie”; come è organizzato un giornale; analisi del contenuto relativo ad articoli di giornale; simulazione del lavoro della redazione di un giornale; produzione di un giornale scolastico. Nella progettazione delle “unità didattiche” sono intervenuti più docenti, in particolare quello di lettere, educazione artistica, educazione tecnica, lingua straniera. Quando è stato possibile, è stato invitato in classe un professionista dei media, si sono organizzate visite guidate alla redazione di un giornale, radio e televisione locale. I genitori sono stati informati del progetto di ME in atto; alle volte si sono organizzate per loro conferenze e dibattiti sugli stessi temi affrontati a scuola con i loro figli. In qualche caso i genitori hanno voluto sostenere economicamente le nostre iniziative. Nel delicato lavoro di programmazione e coordinamento, la figura del Preside della scuola con la sua autorevole partecipazione, è stata determinante per assicurare il successo all’iniziativa. La valutazione sommativa e in itinere del progetto, è stata assicurata da alcuni momenti di verifica, come il monitoraggio delle attività svolte nella classe (documentato dal “quaderno di classe”); la discussione in gruppo delle difficoltà incontrate; l’esame delle produzioni realizzate dagli alunni. Il Communications day celebrato nel mese di maggio, costituiva non solo un momento di festa per le scuole, ma anche l’occasione per presentare i propri lavori e ottenere una valutazione da parte degli esperti invitati alla manifestazione. I corsi di settembre (si trattava di una settimana in cui si portava avanti un programma di formazione degli insegnanti e, nello stesso tempo, si iniziava la progettazione delle unità didattiche da realizzare durante l’anno scolastico) e la Summer School di Corvara hanno costituito i momenti forti di aggregazione, di approfondimento delle motivazioni, di sostegno nelle difficoltà. Alla Summer School di Corvara hanno partecipato grandi esperti della Media education mondiale: Evelyne Bevort, vice direttrice del CLEMI di Parigi, Manuel Pinto dell’Università di Braga (Portogallo), David Buckingham dell’Università di Londra, Theo Hug di Innsbruk. Geneviève Jacquinot è intervenuta al Master di ME che il MED ha promosso con l’Università Cattolica di Milano. A conclusione di questa esperienza di Media education, ci sembra di poter affermare che un fattore centrale della riuscita è stata la possibilità di attuare un “va’ e vieni” tra università e scuola, tra studiosi e professionisti della comunicazione (e della pedagogia) e insegnanti. Fin dagli inizi avevamo tenuto presente la raccomandazione del pedagogista inglese, L Stenhouse: “lo sviluppo del curricolo deve corrispondere a quello dell’insegnante”; e ancora: “ogni classe diventi un laboratorio, e ogni insegnante un membro della comunità scientifica”. Tutto questo ha determinato negli insegnanti motivazione, competenza, professionalità, passione educativa. Negli anni degli inizi del Laboratorio di ME, l’Università salesiana di Roma ci ha offerto uno spazio ideale per realizzare la ricerca-azione e affiatare il gruppo dei media educators. 10 Networking Ad un certo momento del nostro cammino, è cresciuta in tutti noi che avevamo partecipato alle prime esperienze di ME nelle scuole italiane, la convinzione che la collaborazione che si era sviluppata tra tanti docenti, educatori e professionisti dei media dovesse diventare una struttura stabile, la “rete” tra i media educators dovesse assumere una sua visibilità, la frontiera della nostra azione portata più avanti. La formula che allora si è intravvista è stata quella di dar vita a un’Associazione culturale con un proprio statuto civilmente riconosciuto. Così il 28 febbraio 1996 dodici soci fondatori hanno sottoscritto davanti al notaio Tuccari di Roma l’atto di fondazione del MED-Media education, Associazione italiana per l’educazione ai media e alla comunicazione, e il suo statuto. Nello stesso tempo iniziava la pubblicazione il notiziario dell’Associazione InterMed con frequenza quadrimestrale (vengono diffuse in Italia 1500 copie; una sintesi in inglese viene inviata a un centinaio di media educators esteri). Successivamente si è aperto il sito: www.medmediaeducation.it con nuove possibilità di collaborazioni in rete. Le iniziative degli inizi continuano, come avviene per la Summer School di Corvara e i corsi di aggiornamento per gli insegnanti. Atre nuove vengono avviate come è stato il primo Master in Media education orgnaizzato con l’Università Cattolica di Milano. Concludendo ci chiediamo: c’è un “filo rosso” che unisce tutte le iniziative che abbiamo realizzato con lo scopo di introdurre la Media education in Italia? Cè un senso in tutto questo? Noi crediamo nella causa della Media education a favore dei giovani e per una nuova qualità dei media. Abbiamo scritto nell’editoriale del primo numero di InterMed quasi un “manifesto” per i media educators italiani: “MED rimanda al mondo dei media. Esprime non solo una presa di coscienza, ma anche un approccio positivo alla “nuova era della comunicazione”… MED rimanda anche a Media education: un movimento di idee e di interventi nel campo educativo e politico che è venuto crescendo soprattutto nei Paesi anglofoni e dell’America latina. Il problema, è stato detto, non è censurare, ma alfabetizzare; sfruttare le potenzialità dell’audiovisivo, creare momenti partecipativi nella formazione e comunicazione della cultura. Famiglia e scuola devono riappropriarsi del loro ruolo educativo. Nell’epoca della cultura e del potere dei media, la Media education è una voce libera e profetica; deve avere un ruolo guida nell’orientare le immense risorse umane e tecnologiche messe in gioco dalle comunicazioni di massa, perché cooperino all’edificazione di una società in cui le persone e le comunità intermedie possano esprimersi da protagonisti” (InterMed, 1996, n.1). In queste ragioni ideali, e in altre ancora, continuiamo a credere. Bibliografia Bazalgette Cary (ed.), Primary Media Education. A curriculum statement. BFI Education Department, London 1989 Baacke Dieter, Medienpädagogik, Niemeyer, Tübingen 1997 Bechelloni Giovanni, Televisione come cultura. I media italiani tra identità e mercato, Liguori, Napoli 1995 Bertolini Piero e Milena Manini (edd.), I figli della tv. Una ricerca su bambini e televisione, La Nuova Italia, Firenze 1993 Branduardi Katia-Walter Moro, Apprendere con la televisione. 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