Crisi dell`euro e Unione europea in crisi_Rossi

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Crisi dell`euro e Unione europea in crisi_Rossi
Politica fiscale
Crisi dell’euro e Unione europea in crisi
Come risolvere il peccato originale di Eurolandia
La cosiddetta “crisi dei debiti sovrani” scoppiata verso la
fine del 2009 in Eurolandia è scaturita da una malformazione strutturale della zona euro sul piano della politica
economica, più che dai falsi in bilancio dello Stato greco
e dalla diffusa sottrazione di imposte da parte dei suoi
contribuenti. In questo contributo analizzeremo dunque
inizialmente alcune cause strutturali della crisi in atto in
Eurolandia, per sviluppare poi delle considerazioni sulla
necessità di accentrare entro breve termine una parte
della sovranità fiscale dei Paesi nella zona euro, unitamente all’emissione di eurobbligazioni per finanziare
importanti investimenti produttivi e all’istituzione di un
meccanismo per attuare dei trasferimenti perequativi
allo scopo di contenere entro limiti sostenibili le disparità
che caratterizzano ancora oggi queste nazioni sul piano
socio-economico.
1.
Cause strutturali della crisi dei debiti sovrani in
Eurolandia
La crisi dei debiti sovrani che sta mettendo a dura prova
la zona euro da quando il governo greco annunciò, sul
finire del 2009, un disavanzo pubblico clamorosamente
superiore alle dichiarazioni del precedente governo, con
riferimento al prodotto interno lordo di quel Paese, è il
risultato di un “peccato originale” che Padoa-Schioppa
(2004, pagina 35) fu tra i primi nell’identificare, facendo
notare che l’euro è “una moneta senza Stato” (cfr. Rossi
2010). È infatti una particolarità propria di Eurolandia
che l’unificazione monetaria dei suoi Paesi membri – e
pertanto l’accentramento della politica monetaria presso
la Banca centrale europea (di seguito BCE) – coesistono
con delle politiche fiscali ancora saldamente in mano ai
governi nazionali, senza alcuna coordinazione tra loro
né d’altra parte con la BCE, nonostante il Patto di stabilità e crescita (di seguito PSC) firmato dall’insieme dei
Paesi membri dell’Unione europea (di seguito UE) nel 1997.
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Celebrando il decimo anniversario di Eurolandia, le
autorità dell’UE e molti politici attivi sul piano nazionale
nella zona euro fecero notare, con malcelato orgoglio,
come l’esistenza di questa zona fosse la dimostrazione
che è possibile avere una politica monetaria unica,
attuata da una banca centrale indipendente, lasciando
contemporaneamente ai governi nazionali le decisioni
di politica fiscale all’interno di Eurolandia, perché
“le politiche economiche devono considerare le specificità e il quadro istituzionale di ciascuna nazione e possono
perciò essere più efficacemente condotte a livello
nazionale” (Banca centrale europea 2008, pagina 21,
nostra traduzione). Per rinforzare questo argomento,
la BCE (ibidem) affermava che “lasciare le politiche
economiche ampiamente nelle competenze dei governi
nazionali consente pure un certo grado di concorrenza
orientata ad aumentare l’efficienza di queste politiche ed
emulare le pratiche migliori”.
In realtà, la crisi della zona euro avalla l’affermazione
di Friedman (1997), secondo cui Eurolandia non può
funzionare correttamente, perché i sistemi economici dei
suoi Paesi membri sono troppo diversi l’uno dall’altro per
formare un’unione monetaria omogenea sul piano
strutturale. È ormai riconosciuto da tutti, infatti, che
Eurolandia è priva di una “governance” economica in
grado di far funzionare quest’unione monetaria come
se fosse una nazione unica, cioè un’unione politica
all’interno della quale le politiche economiche e le
autorità democraticamente elette garantiscono il funzionamento della totalità del sistema economico in
modo responsabile e possibilmente con un insieme
condiviso di obiettivi tra loro coordinati in maniera
dinamica ai vari livelli di governo.
L’incoerenza dell’assetto politico-economico di Eurolandia
appare anche nella composizione del “policy mix” attuato
nella zona euro.
Da un lato, le scelte di politica monetaria della BCE
frenano la crescita economica di Eurolandia in quanto
ignorano il requisito sancito nell’articolo 127, capoverso 1,
del Trattato sull’Unione europea (di seguito TUE), che, fatta
salva la stabilità dei prezzi, impone alla BCE di sostenere “le
politiche economiche generali nell’Unione al fine di contribuire
alla realizzazione degli obiettivi dell’Unione definiti nell’articolo
3 del trattato sull’Unione europea” (cfr. Rossi 2004). Tali
obiettivi convergono nella ricerca di uno sviluppo
sostenibile nell’insieme dell’UE, “basato su una crescita
economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia
sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena
occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di
tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente” (articolo
3, capoverso 3, TUE). Ciò che però importa maggiormente
per la soluzione della crisi di Eurolandia è l’esigenza
posta all’UE di “promuove[re] la coesione economica, sociale e
territoriale, e la solidarietà tra gli Stati membri”, giusta l’articolo 3, capoverso 3, del TUE, sebbene ciò sia in apparente
contrasto con l’articolo 123, capoverso 1, del medesimo
trattato, nel quale si dispone l’ormai famosa clausola di
“no bail-out” che proibisce qualsiasi forma di solidarietà
finanziaria tra gli Stati membri. In realtà, l’intervento
della cosiddetta “troika” formata dall’UE, dalla BCE e dal
Fondo monetario internazionale a sostegno della Grecia
(maggio 2010), dell’Irlanda (dicembre 2010) e del
Portogallo (maggio 2011) ha de facto sospeso la clausola
suindicata, esigendo però in contropartita che i governi
di questi Paesi attuino diversi programmi di austerità
allo scopo di rispettare i criteri che riguardano le finanze
pubbliche iscritti nel PSC. Per quanto tale condizione
sia giustificata per il settore pubblico ellenico (alla luce
della sua contabilità creativa nel decennio che ha seguito
l’adesione della Grecia alla zona euro come pure dell’importanza dell’economia sommersa rispetto al prodotto
interno lordo di questo Paese), è molto sorprendente
che anche l’Irlanda (a lungo considerata come il modello
ideale di sviluppo economico grazie ai suoi vigorosi tassi
di crescita del prodotto interno lordo e ai suoi disavanzi
pubblici contenuti rispetto ai criteri di Maastricht) debba
attuare delle misure di austerità in tempi brevi, a maggior
ragione quando si considera che il governo irlandese non
avrà alcun obbligo di aumentare l’aliquota di imposta
sugli utili delle imprese – che si situa al livello più basso
(12.5%) fra tutti i Paesi membri di Eurolandia, la cui
media a questo riguardo supera il 30% (una percentuale
che corrisponde all’aliquota prelevata in Germania). A tale
riguardo, si noti che le nazioni nelle quali l’imposizione
fiscale è la più “leggera” de jure (Irlanda) o de facto (Grecia,
a seguito dell’abbondante sottrazione di imposte) sono
state le prime a doversi rivolgere ai loro pari in Eurolandia
per ottenere un sostegno finanziario multilaterale, con
dei costi sociali che saranno molto elevati considerando
le drastiche misure di austerità che entrambi questi
governi hanno già dovuto imporre alla popolazione nel
loro Paese.
Dall’altro lato, nessuna coordinazione delle politiche
fiscali nazionali è mai avvenuta all’interno di Eurolandia,
dato che il paradigma dominante in questo ambito è
orientato alla concorrenza fiscale tra gli Stati membri e
all’emulazione delle cosiddette “pratiche migliori” in questo
contesto (cfr. Banca centrale europea 2008). L’incoerenza
appare tanto più grande in quanto si osserva che la
maggior parte degli Stati membri di Eurolandia praticano diverse forme di concorrenza fiscale, allo scopo di
trattenere o attrarre delle attività economiche entro
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i loro confini nazionali, considerando ciò una “pratica
migliore”, mentre l’UE nel suo insieme rimprovera ad
alcuni Paesi terzi, fra cui la Svizzera, di essere dei “paradisi
fiscali” dannosi e non cooperativi nel senso del modello
adottato dall’Organizzazione per la cooperazione e lo
sviluppo economico. Non sorprende in realtà che gli Stati
membri di Eurolandia vogliano evitare di abbandonare
le loro prerogative di spesa pubblica e di imposizione
fiscale, dopo che già hanno sacrificato la loro sovranità
monetaria trasferendo alla BCE la competenza per le
decisioni sui tassi di interesse nell’intera zona euro. Tanto
la leva fiscale quanto la spesa pubblica influenzano
l’evoluzione congiunturale dell’economia nazionale,
che in molti casi i politici con responsabilità di governo
cercano di manovrare anche nell’intento di soddisfare
degli interessi privati – tra cui la possibilità di restare al
governo o di essere rieletti alla fine della legislatura. Non
è quindi un caso che le decisioni del Consiglio europeo
riguardanti la politica fiscale nell’UE debbano essere
prese all’unanimità, contrariamente alla regola generale
in base alla quale le scelte di questo Consiglio sono prese
a maggioranza qualificata (si vedano gli articoli 114, 192 e
194 del TUE): tale vincolo impedisce qualsiasi armonizzazione fiscale all’interno di Eurolandia, agevolando di
conseguenza quelle pratiche di ottimizzazione fiscale che
le persone giuridiche sfruttano per eludere l’imposizione
degli utili e/o dei capitali nel Paese in cui hanno il loro
centro di interesse. Questo arbitraggio fiscale è, spesso e
volentieri, sfruttato pure dalle persone fisiche i cui redditi
e/o patrimoni sono elevati, allo scopo di ridurre ai minimi
termini il loro carico fiscale, soprattutto quando queste
persone sono al beneficio della pensione e non svolgono
perciò alcuna attività professionale, avendo quindi
un’elevata mobilità internazionale. La concorrenza tra le
autorità fiscali nazionali all’interno di Eurolandia (e, più
in generale, nell’UE) ha esercitato nel primo decennio
del ventunesimo secolo una pressione al ribasso sulle
aliquote di imposizione delle persone giuridiche, come
pure sulle imposte delle persone fisiche benestanti,
facendo di conseguenza sopportare ai contribuenti nel
cosiddetto “ceto medio” (e che sono poco mobili in quanto
i loro redditi dipendono dalla possibilità di impiego di
queste persone) un pesante carico fiscale per finanziare
il bilancio del settore pubblico nazionale (cfr. Rogers/
Philippe 2011). Questa situazione è particolarmente
rilevante per i lavoratori dipendenti che soffrono a causa
della riduzione della qualità e/o quantità dei servizi
pubblici erogati dallo Stato alle prese con l’esigenza di
rispettare i vincoli di bilancio imposti dal PSC.
peculiarità di un vecchio modello di concorrenza strategica
tra Stati indipendenti” (Padoa-Schioppa 2004, pagina 50,
nostra traduzione). Tra le relazioni conflittuali (anziché
competitive) fra gli Stati membri della zona euro emergono i forti contrasti fra le politiche fiscali nazionali, dato
che Eurolandia non implica né un’unione di bilancio né
dei trasferimenti finanziari di carattere perequativo tra
i suoi Stati membri, in contrasto con quanto esiste nelle
nazioni che hanno un sistema federalista come la Svizzera,
la Germania e gli Stati Uniti d’America.
2.
L’idea di creare gli Stati Uniti d’Europa, già ventilata dai
padri fondatori della Comunità economica europea nei
primi anni Cinquanta del ventesimo secolo, è da rilanciare
in quanto pietra angolare della costruzione europea che
integrerà le politiche economiche e i sistemi politici nazionali al fine di realizzare gli obiettivi iscritti nel TUE (si
veda il suo articolo 3, capoverso 3, richiamato supra). In
particolare, sarà attraverso un parziale accentramento
delle politiche fiscali nel quadro di una federazione politica che la zona euro potrà formare un insieme di Stati tale da riconciliare “moneta” e “politica” nell’interesse
dell’insieme di Eurolandia. Il primo passo da compiere in
questa direzione potrebbe essere l’introduzione di un’imposta paneuropea sulle transazioni finanziarie, nel solco di quanto proposto dal presidente francese Nicolas
Sarkozy per ridurre l’instabilità delle economie nazionali,
come pure una tassa sull’uso delle fonti energetiche non
rinnovabili o nocive per l’umanità: le risorse fiscali così
ottenute dovranno allora essere suddivise tra la federazione, cioè Eurolandia, e i suoi Stati membri, affinché (i)
la zona euro in quanto tale possa disporre del proprio
bilancio pubblico consistentemente con la dimensione
geo-economica dell’unione monetaria, e (ii) ciascuno
Stato membro possa contribuire a (o beneficiare di) un
meccanismo di trasferimenti dal carattere perequativo
allo scopo di evitare delle disparità eccessive tra i vari Paesi
che formano la zona euro (misurate con riferimento al
reddito pro-capite in termini reali e ai tassi di disoccupazione totale e per le categorie di lavoratori maggiormente
a rischio, come i giovani, le donne e i lavoratori “senior”).
L’ineluttabile accentramento parziale della politica
fiscale nella zona euro
La crisi dei debiti sovrani che sta attanagliando la zona
euro rappresenta il primo “crash test” per l’unificazione
monetaria europea, che la BCE non è equipaggiata per
superare indenne senza un sostanziale progresso verso
una forma di integrazione politica ancora da studiare tra
i suoi Stati membri. Padoa-Schioppa (2004, pagina 36,
nostra traduzione) lo fece notare chiaramente: “fino a
quando non saranno compiuti altri passi verso una vera unione
politica, l’Eurosistema [soprattutto la BCE] sarà la banca centrale di una moneta senza Stato, e sarà così confrontata con
una sfida che nessuna altra banca centrale deve affrontare”.
Nonostante la sua enorme indipendenza, la BCE è infatti
stata (ed è tuttora) costretta a fornire assistenza finanziaria – sebbene attraverso i mercati secondari – a quei
governi nazionali nella periferia di Eurolandia che non
sono in grado di ripagare le loro obbligazioni alla scadenza.
Mettendo in gioco la sua credibilità e aumentando nel
lungo termine i rischi di instabilità finanziaria attraverso Eurolandia, la BCE deve confrontarsi con un triangolo
di incompatibilità strutturale ai cui vertici si trovano: (i)
una moneta e una politica monetaria unica, (ii) la libera
circolazione dei capitali tra le economie nazionali che
formano la zona euro, e (iii) delle politiche fiscali e di
bilancio autonome in ciascuno dei suoi Paesi membri.
In effetti, “l’Unione europea è soltanto un sistema politico in
divenire, dato che mancano funzioni importanti e caratteristiche costituzionali di una unione politica e rimangono alcune
La proposta di creare una base fiscale imponibile sul piano
sovranazionale europeo non è nuova: già nel 1977, il
cosiddetto “Rapporto MacDougall” indicava questa direzione
al fine di completare la costruzione europea in atto a
quell’epoca (cfr. Commissione delle Comunità europee
1977). Se nessun progresso è stato fatto su questo fronte,
la responsabilità dello statu quo ricade sugli Stati membri
dell’UE, i quali sono sempre stati contrari a trasferire
(anche soltanto parzialmente) ad un’autorità sovranazionale
le loro competenze fiscali (cfr. Holland 2010). In realtà,
affrontare la crisi dei debiti sovrani in Eurolandia infliggendo dei programmi di austerità alla popolazione nei
Paesi periferici e continuando a imporre loro dei tassi di
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interesse esorbitanti indurrà delle forti pressioni deflazionistiche nell’insieme di Eurolandia (compresa dunque
la Germania), giacché entrambe queste misure avranno
delle conseguenze negative per le transazioni commerciali o finanziarie nella zona euro, riducendo sia i redditi
sia i consumi in una spirale che si autoalimenterà creando
un vortice dirompente per la coesione nazionale e
tra i Paesi membri. Una soluzione migliore per la crisi dei debiti sovrani consiste nel prelevare un’imposta su ciascuna transazione attraverso il settore
finanziario di Eurolandia, il cui gettito fiscale dovrà finanziare un Piano europeo di
ripresa economica (di seguito
PERE) avente lo scopo di promuovere durevolmente gli
investimenti pubblici e privati
nei settori della sanità, dell’istruzione, del rinnovamento
urbano, della protezione
dell’ambiente e del paesaggio,
delle tecnologie pulite, dei
servizi finanziari alle piccole e
medie imprese, delle reti di
trasporto e di comunicazione transeuropee, raggiungendo in tal modo gli obiettivi dell’UE come esatto dal
TUE (cfr. Commissione delle Comunità europee 2008).
Se il bilancio pubblico di Eurolandia corrisponderà al
10-15% del prodotto interno lordo dell’intera zona euro
(mediante l’accentramento di una parte delle sovranità
fiscali dei suoi Stati membri e/o il prelievo di un’imposta
paneuropea come indicato sopra), sarà possibile chiedere all’UE o alla BCE di emettere delle eurobbligazioni per
finanziare una ripresa economica trainata dagli investimenti attraverso Eurolandia, sostituendo così l’austerità
con la solidarietà tra gli Stati membri della zona euro.
Questa soluzione sarà ancora più virtuosa se la Banca
europea per gli investimenti (di seguito BEI) parteciperà
all’architettura per la “governance” economica della zona
euro, emettendo le proprie obbligazioni allo scopo di
raccogliere dei risparmi da investire nel PERE, permettendo di sgravare in tal modo la spesa pubblica altrimenti
a carico degli Stati nazionali (finora, infatti, il debito
della BEI grava sui conti pubblici dei Paesi membri
dell’UE). Questa partecipazione per conto proprio della
BEI al piano di investimenti pubblici in Eurolandia, per
la ripresa economica della zona euro nel suo insieme,
consentirà ai Paesi periferici in questa zona che hanno
oggi un reddito pro-capite inferiore alla media europea
di ridurre lo scarto per quanto riguarda gli investimenti,
il livello di occupazione e la sicurezza sociale nei confronti dei Paesi più avanzati in Eurolandia, senza dover
rinunciare completamente alla sovranità fiscale nazionale.
Sia la BEI sia le eurobbligazioni permetteranno in tal
modo di attuare degli investimenti produttivi, con il
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finanziamento ottenuto dai risparmi che, all’interno
come all’esterno di Eurolandia, sono alla ricerca di
un rendimento sicuro e durevole a lungo termine (si
pensi ai fondi delle casse pensioni). Questa soluzione
limiterà il problema dei debiti sovrani di molte nazioni
situate alla periferia della zona euro, proteggendole
dagli attacchi speculativi nei mercati finanziari “globalizzati”, giacché il regime della “finanziarizzazione” del
debito pubblico non sarà più in grado di imporre la
“dittatura” del mercato a danno dei contribuenti al fisco.
Si tratta senza dubbio di un argomento convincente per
i cittadini tedeschi (dunque interessante per le autorità politiche nazionali), a maggior ragione se sarà loro
spiegato che esiste una differenza essenziale fra i
trasferimenti fiscali necessari per finanziare un’istituzione sovranazionale (come il Fondo per la stabilità
finanziaria europea creato nel 2010 a seguito della crisi
della Grecia) e un’emissione di eurobbligazioni al fine di
indirizzare i risparmi verso gli investimenti produttivi di
benessere e occupazione nell’insieme di Eurolandia (cfr.
Holland 2010). In effetti, il Fondo per la stabilità finanziaria
europea, che nel 2013 dovrebbe trasformarsi in un
Meccanismo di stabilità europeo permanente, non
alleggerisce in alcun modo l’onere che i contribuenti al
fisco nei Paesi virtuosi della zona euro dovranno sopportare in caso di fallimento di uno Stato (come la Grecia, il
Portogallo, la Spagna o l’Italia), dato che le obbligazioni
emesse da questo Fondo (o dal Meccanismo che lo
sostituirà) sono garantite finanziariamente dagli Stati
membri di Eurolandia (dunque dalla Germania più che
dagli altri Paesi membri, meno virtuosi sul piano delle
finanze pubbliche). Se vi saranno delle emissioni di
eurobbligazioni, esse offriranno in sostanza un’interessante opportunità per gli investitori privati o istituzionali,
perché permetteranno ai creditori, in Asia come in
Europa, di diversificare i loro investimenti di portafoglio
diminuendo dunque la quota di dollari e buoni del Tesoro
degli Stati Uniti in loro possesso – la cui accumulazione
è sia la causa sia la conseguenza di ciò che è noto come
“l’equilibrio del terrore finanziario” (cfr. Summers 2004).
In conclusione, se i politici influenti sul piano europeo
avranno il coraggio personale e il sostegno popolare per
compiere un passo avanti verso la creazione degli Stati
Uniti d’Europa, la “crisi dei debiti sovrani” che ora minaccia
l’intera costruzione europea sarà ricordata per avere
indotto l’UE a rimediare al peccato originale di Eurolandia,
completando l’unificazione monetaria con un primo
embrione di unione politica attraverso cui gli Stati membri
avranno delegato alla loro federazione una parte della
sovranità fiscale. Le sofferenze attuali della popolazione
nei Paesi periferici della zona euro non saranno allora
state vane e potranno essere ricompensate con un maggiore livello di benessere e occupazione in tutta Eurolandia
nel corso dell’intero prossimo decennio.
Per maggiori informazioni:
Banca centrale europea; Monthly Bulletin: 10th
Anniversary of the ECB, Banca centrale europea, Francoforte sul Meno 2008
Commissione delle Comunità europee; Report of the
Study Group on the Role of Public Finance in European
Integration (“MacDougall Report”), Commissione delle
Comunità europee, Bruxelles 1977
Commissione delle Comunità europee; Un piano europeo
di ripresa economica, COM(2008) 800 definitivo, Bruxelles, 26 novembre 2008, disponibile in:
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Friedman Milton; “Why the euro is wrong for Europe”,
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Professore ordinario
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