Aprile 2015 def.indd - Partito Comunista dei Lavoratori

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Aprile 2015 def.indd - Partito Comunista dei Lavoratori
Editoriale
di Marco Ferrando
Maurizio Landini ha varato la
cosiddetta “coalizione sociale”
contro il governo Renzi. Naturalmente l'opposizione al governo
Renzi è cosa buona. Anzi ottima.
Siamo in presenza di un governo
reazionario di enorme pericolosità. Un governo che assale i diritti
del lavoro per conto di Confindustria. Che promuove una riforma
elettorale ed istituzionale mirata a concentrare nelle mani del
Premier tutti i poteri. Che per di
più ricerca e coltiva un metodo
di governo “bonapartista”, basato
sulla relazione diretta fra Capo e
masse, fuori e contro la tradizionale dialettica istituzionale della
democrazia borghese. Un anno
fa denunciammo controcorrente
i caratteri particolarmente reazionari del renzismo, quando tanti
a sinistra lo presentavano come
pura continuità del governo Letta.
O quando addirittura Landini corteggiava Renzi offrendosi come
suo interlocutore privilegiato nel
nome della “svolta”. Ora che la
svolta s'è manifestata in direzione opposta, contro il movimento
operaio, tutti i corteggiatori di
ieri si presentano come oppositori
della prima ora, Landini in testa.
E' il caso di dire: meglio tardi che
mai. Se poi rivendicano la coalizione sociale più ampia contro
il governo, ancora meglio. Sono
anni che rivendichiamo l'esigenza
del fronte unico del lavoro contro il fronte unico borghese. Se si
vuole chiamare coalizione sociale, non c'è problema. Non poniamo certo questione di termini.
Tuttavia il problema c'è, ed è di
sostanza. Cosa intenda Landini
per coalizione sociale non l'ha affatto chiarito. Ed anzi la proposta
viaggia nella nebbia fitta dell'ambiguità. L'unica cosa chiara è
ciò che la proposta non è. Non è
una proposta di mobilitazione e
di lotta: tanto è vero che non si
combina con alcuna scadenza o
qualsivoglia prospettiva di azione di massa. Non è una proposta
politica di partito: ciò che Landini si affanna ad escludere. Ma
allora cos'è? La semplice rivendicazione di un concetto retorico
di unità del lavoro? Una generica
“associazione delle associazioni”
come si è detto? Nè l'una né l'altra rispondono ai due problemi
concreti che stanno di fronte al
movimento operaio: come costruire un'opposizione vera, capace di
arrestare la valanga avversaria e
strappare risultati; e come legare
l'opposizione alla prospettiva di
una vera alternativa. Qualunque
Una lotta
un partito
proposta aggiri questi due nodi è
un inganno per i lavoratori. Può
forse servire a Landini per guadagnare tempo per decidere se puntare sulla conquista della segreteria CGIL o buttarsi in politica.
Ma il movimento operaio non ha
tempo da perdere nel seguire calcoli o attese dei suoi dirigenti. Ha
bisogno di una proposta chiara, e
di una prospettiva chiara. E ne ha
bisogno ora.
Innanzitutto una proposta di lotta. L'autunno CGIL contro il Job
act di Renzi si è risolto in un fallimento per responsabilità dell'intero gruppo dirigente del sindacato. Nessuna piattaforma chiara
di mobilitazione. Nessuna svolta
reale delle forme di lotta. Uno
sciopero generale di facciata il 12
dicembre convocato per chiudere
la lotta. Nessuna continuità e prospettiva d'azione dopo di allora.
Ci si può meravigliare se il governo ha proseguito indisturbato
la propria offensiva umiliando lo
stesso sindacato ed estendendo la
libertà di licenziamento arbitrario
ai licenziamenti collettivi?
segue a pag.2
Un expo stretto tra
cemento e speculazione
di Luca Prini
Tra poco Expo aprirà le porte. I lavori di sistemazione dell’area e per le
infrastrutture sono in ritardo, accelerazioni dell’ultimo momento metteranno il sito in condizioni di aprire
ma non al riparo da un prevedibile
insuccesso.
Ripercorrere la storia di Expo serve a
capire in che modo è stata gestita questa vicenda, che ha inizio il 31 marzo
2008 quando il Bie ha assegnato l’or-
ganizzazione della manifestazione a
Milano. Il 1° dicembre dello stesso
anno viene fondata Expo 2015 Spa,
il cui amministratore delegato è Giuseppe Sala. La Spa è composta da
Governo (40%), Comune di Milano
(20%), Regione Lombardia (20%),
Provincia di Milano (10%) e Camera
di Commercio (10%). Scopo sociale
la realizzazione, gestione ed organizzazione dell’Expo; è assegnataria
dei finanziamenti pubblici degli Enti
finanziatori.
segue a pag.3
SINDACATO
CONTRO LO SCIOPERO SOCIALE:
per non disperdere il punto di vista di classe nella nuova
composizione del lavoro
a pag 9
Da Mafia Capitale alle
grandi opere inutili:
La COOP non
sei (più) tu
di Michele Terra
Le vicende di Roma Mafia Capitale, così come altri piccoli-medi-grandi scandali locali, hanno
portato alla ribalta il ruolo non
proprio limpido di quello che fu
il mondo delle cosiddette cooperative rosse, che nel corso degli
ultimi decenni ha conosciuto una
radicale modifica di senso, prospettive e valori. segue a pag.4
INTERNAZIONALE
LA CONTRATTAZIONE IN FINCANTIERI
DOPO IL JOBS ACT
Intervista a Stefano Fontana, del Direttivo FIOM di
Venezia e RSU a Marghera a pag. 8
Speciale: Settant’anni fa la liberazione dal nazifascismo
Ad un anno
da Maidan
a pag 10
DALLA RIVOLUZIONE MANCATA ALLA RESISTENZA TRADITA
a pag 6-7
UNITA’ DI CLASSE - GIORNALE COMUNISTA DEI LAVORATORI - N.3 APRILE 2015
POLITICA INTERNA
segue dalla prima pagina
Il fronte unico è prezioso, ma se
si concreta nell'azione di massa.
E l'azione di massa è utile se si
pone sullo stesso terreno di radicalità dell'avversario. Si promuova un' assemblea nazionale di delegati eletti nei luoghi di lavoro,
in ogni categoria del pubblico e
del privato, a partire dalle fabbriche. Si definisca in quella sede
una piattaforma di lotta generale
capace di unificare il lavoro salariato, i precari, i disoccupati. E
su quella piattaforma si organizzi
una mobilitazione vera, continuativa, radicale, che ricomponga il
movimento dei lavoratori e getti
sul piatto della bilancia la forza
sociale della classe. E' l'unica via
per riaprire la partita e strappare
risultati. E' l'unica via per sbarrare la strada allo stesso progetto
bonapartista del governo. Perché senza l'irruzione sul campo
dell'azione di massa, ci si avvia
al plebiscito confermativo sulla riforma istituzionale del 2016
nelle condizioni peggiori. A tutto
vantaggio di una stabilizzazione
reazionaria.
In secondo luogo c'è bisogno di
una proposta politica chiara. Landini afferma che i lavoratori non
hanno oggi una propria rappresentanza politica? Non saremo
certo noi a negare questa realtà.
Ma allora si tratta di costruirla senza infingimenti e su basi
chiare. A latere dell'operazione
“coalizione sociale” fioriscono i
riferimenti a Syriza e Podemos
assunti a faro luminoso nel buio
della sinistra italiana. E' il caso
di dire: non bastano le illusioni
riformiste del passato, ogni volta
salutate come “svolta” e ogni volta smentite dai fatti? Fu salutato
Jospin, fu salutato Zapatero, fu
salutato Hollande, ogni volta cercando in qualche socialdemocrazia “progressista” la propria stella
cometa. Oggi, in forme diverse,
lo spartito si ripete con Syriza.
Eppure sono bastati due mesi a
confermare la cruda realtà: non
esiste uno spazio di riforma sociale progressiva al tavolo negoziale coi capitalisti e con l'Unione
capitalistica europea. La pretesa
di Tsipras di soddisfare ad un
tempo i lavoratori greci e gli stati
strozzini d'Europa si è rivelata un
inganno. Le promesse elettorali
sono rimaste lettera morta. Un
governo di coalizione con la destra di Anel amministra di fatto la
continuità del commissariamento
della Grecia sotto la sorveglianza
dei suoi creditori. Sarebbe questa
la svolta?
La verità è che non c'è alternativa reale alla lotta anticapitalista
per un governo dei lavoratori,
in Grecia come in Italia come in
Europa. Ma per questa prospettiva è centrale costruire un partito
di classe su basi anticapitaliste
e rivoluzionarie. Un partito che
si batta per la più ampia unità di
lotta di tutti gli sfruttati ma organizzi al tempo stesso la loro
avanguardia attorno a un progetto
coerente. Un partito che non illuda le coscienze ma combatta ogni
illusione. Un partito che in ogni
lotta immediata coltivi la necessità della rivoluzione sociale quale
unica vera alternativa.
Il Partito Comunista dei Lavoratori costruisce ogni giorno questo
partito.
PAGINA 2
Renzi e il futuro:
IL RISCHIO DI UNA
STABILIZZAZIONE REAZIONARIA
di Marco Ferrando
Contrariamente alle previsioni
frettolose di diversi commentatori
superficiali, la crisi del cosiddetto patto del Nazareno tra Renzi e
Berlusconi non ha affatto destabilizzato il governo. Siamo in
presenza semmai di un processo
di assestamento e consolidamento
del renzismo. Un processo non lineare, né irreversibile, ma chiaro
nelle sua linea di marcia.
Fuori dall’area di governo non
emergono, nell’immediato, insidie particolari per l’esecutivo. La
crescita della tendenza lepenista
del salvinismo avviene a scapito
del centrodestra e ne favorisce
un processo di disgregazione
che percorre sia Forza Italia che
NCD. Il grillismo, che pure preserva il grosso del proprio consenso sul piano politico generale,
registra da tempo un arresto della
propria dinamica espansiva, dentro la morsa tra Renzi e Salvini.
Le elezioni regionali dovrebbero assicurare al PD di Renzi un
successo politico relativamente
agevole, a tutto beneficio del consolidamento del governo. Dopo le
regionali non è affatto esclusa né
la possibilità di una nuova svolta di Berlusconi in direzione di
una riapertura a Renzi sul terreno
della riforma istituzionale ed elettorale, né in caso contrario una
scissione pro Renzi di una parte
di senatori di Forza Italia guidata da Verdini. Nell’un caso come
nell’altro lo spazio di manovra
del capo del governo potrebbe
nuovamente allargarsi.
lamentare delle minoranze interne
sui terreni decisivi della riforma
elettorale e istituzionale. Ma il
campo delle minoranze appare
quanto mai composito e disarticolato, privo di progetto e di sbocco,
sia complessivamente che distintamente. E Renzi ha già avviato
nei loro confronti un’operazione
a tenaglia. Da un lato una nuova
corrente interna renziana aperta
alla confluenza di tutti i transfughi disorientati delle minoranze
all’insegna di una spregiudicata
campagna acquisti. Dall’altro lato
la proposta ufficiale di una camera di compensazione per le minoranze all’interno del PD attraverso l’abolizione delle primarie per
la elezione dei segretari regionali
e la definizione di un partito meno
all’americana e più strutturato. In
altri termini Renzi offre in cambio dell’obbedienza istituzionale
e parlamentare un po’ di posti garantiti nella burocrazia di partito
e nelle liste elettorali future. Tutto
lascia credere che il dispositivo
d’approccio sarà efficace.
Cosa significa tutto questo? Che
Renzi ha buone possibilità di incamminarsi verso l’approvazione
della riforma elettorale ed istituzionale, e verso il referendum
confermativo sulla riforma. Attenzione: è un passaggio chiave.
Renzi vede nel referendum del
2016 l’occasione di un plebiscito. L’investitura del Bonaparte da
parte del popolo plaudente. Dopo
di che potrà decidere se precipitare in elezioni anticipate per incas-
merito avendo incassato la distruzione dell’articolo 18 per i nuovi
assunti, combinandola per di più
con l’offerta di denaro fresco ai
padroni attraverso l’azzeramento
dei contributi previdenziali. Ma
anche vincente sul piano politico. Renzi ha dimostrato al padronato che sa vincere in campo
aperto contro il movimento operaio, sottraendosi al rituale della
concertazione. Ha dimostrato ai
governi borghesi d’Europa che è
in grado di portar loro lo scalpo
delle conquiste operaie senza arrischiare la tenuta del governo ed
anzi consolidandolo. Su entrambi
i lati rafforza le proprie posizioni.
L’affidamento di Confindustria,
un anno fa assai dubbio, è ormai
acquisito. E in sede europea il
consolidamento politico del governo e i risultati riportati nello
scontro con il lavoro, accrescono
obiettivamente la forza negoziale
del capitalismo italiano nella definizione degli accordi di bilancio
e più in generale negli equilibri
continentali. A beneficio ulteriore dell’immagine del governo sul
piano interno. Il cambio di fase è
netto. In autunno lo scontro sociale sul Job act aveva provocato
un danno elettorale consistente
al PD, come si è visto nella clamorosa astensione del voto di
sinistra nelle elezioni regionali
emiliane. La conclusione di quel
ciclo di lotta ha obiettivamente
rafforzato l’esecutivo, uscitone
vincente. Non significa necessariamente recupero di consenso.
IL RAFFORZAMENTO
POLITICO DEL RENZISMO
sare finalmente un parlamento a
propria immagine e somiglianza.
Oppure prendersi tutta la legislatura con l’attuale parlamento
sotto schiaffo. Nell’un caso come
nell’altro il 2016 si prefigura
come passaggio decisivo di una
possibile stabilizzazione reazionaria.
Significa arginamento della sua
crisi. Anche questo un fattore di
stabilizzazione.
Dentro l’area del governo, si
approfondisce la crisi dell’area
“centrista” (NCD, Area Popolare). Ma senza ricadute destabilizzanti. La parte di NCD che sogna
lo sganciamento dall’abbraccio
soffocante del PD in funzione
della ricomposizione con Forza
Italia è frenata dalla crisi di Forza Italia e dall’incertezza del suo
rapporto con Renzi. Un’altra parte ormai considera apertamente la
prospettiva di una propria assimilazione progressiva al renzismo.
Il nodo più delicato per Renzi si
concentra all’interno del PD. La
crisi del patto del Nazareno ha sicuramente rafforzato il peso par-
LA STABILIZZAZIONE
DEL GOVERNO SUL
FRONTE SOCIALE
Gli elementi di possibile rafforzamento del renzismo sono rintracciabili anche su altri versanti. Per responsabilità dei gruppi
dirigenti sindacali, il governo è
uscito vincente dallo scontro sociale di autunno. Vincente nel
A questo si aggiunge una congiuntura economica migliorata.
E’ presto per parlare di ripresa
capitalista sul terreno decisivo
della produzione. Ma l’operazione “quantitative easing” della
BCE ha abbattuto gli interessi sul
debito pubblico. La svalutazione
dell’euro sul dollaro e il calo del
prezzo del petrolio, fra loro combinati, agiscono direttamente e
indirettamente nella medesima
direzione. La risultante è un possibile allargamento delle capacità di spesa del governo. Si parla
di un possibile “tesoretto” di 10
miliardi. La verifica sarà nel Def
prossimo. Il governo lo investirà
come in passato in qualche operazione populista sul terreno sociale, come fu un anno fa con gli
80 euro? E’ presto per dirlo. Ma
non si può affatto escluderlo. Un
Capo di governo non convenzionale, proiettato in un progetto
bonapartista e alla ricerca di investitura popolare sarà attento a
sfruttare ogni occasione di facile
consenso. A vantaggio innanzitutto proprio e a beneficio della
stabilità politica borghese.
IL RIEQUILIBRIO FRA
I POTERI
Il governo non limita l’azione di
consolidamento alla sfera parlamentare ed economica. La sfera
istituzionale è un terreno essenziale del suo operato. Non solo in
termini di riforma. Ma in termini
di riequilibrio fra i poteri dello
Stato. La riforma giudiziaria con
l’approvazione della “responsabilità civile dei giudici” è parte di
un riequilibrio complessivo dei
rapporti di forza tra esecutivo e
potere giudiziario. Nessun governo precedente aveva osato sfidare
la magistratura. Berlusconi che ci
aveva provato ne è uscito, come
si è visto, con le ossa rotte. Se vi è
riuscito il governo Renzi in modo
relativamente indolore, per di più
col viatico niente affatto scontato di parte della stampa borghese
giustizialista (La Repubblica), lo
si deve a un solo fatto: la forza
politica superiore del renzismo
rispetto ai governi del passato. E
lo stesso vale per la prospettata
riforma della RAI, incentrata su
un progetto di più forte e diretto
controllo governativo sull’informazione pubblica. Nessun altro
esecutivo si era avventurato su
questo terreno. Renzi può farlo.
Anche questo è parte del progetto
bonapartista del Capo.
Intanto lo stesso Capo fortifica le
proprie posizioni e relazioni con
gli interessi vitali del grande capitale. Operazione Expo; riforma
delle banche popolari con la loro
apertura al mercato finanziario;
varo dell’operazione banda larga
e del relativo grande mercato di
investimento; riorganizzazione
dei rapporti col gruppo Berlusconi nel campo della televisione e
dell’editoria (Mondadori/RCS),
sono tutti tasselli di un’azione di
progressivo allargamento e sfondamento del renzismo nel cuore
della classe dominante. Che è
parte del suo rafforzamento complessivo.
La risultante d’insieme è una sola.
Senza una svolta di lotta di massa, unitaria e radicale, il progetto
reazionario avviato continuerà a
marciare e a rafforzarsi. Solo un
esplosione sociale può squadernare dal basso lo scenario politico
e rovinare i sogni di Renzi. L’ingovernabilità di un vero conflitto
di classe è l’unico antidoto alla
governabilità del capitale. L’unica barriera contro la valanga. L’unica via di una vera alternativa.
UNITA’ DI CLASSE - GIORNALE COMUNISTA DEI LAVORATORI - N.3 APRILE 2015
POLITICA INTERNA
U N E X P O ST R E T TO T R A
C E M E N TO E S P EC U L A Z I O N E
di Luca Prini
Tra poco Expo aprirà le porte. I
lavori di sistemazione dell’area
e per le infrastrutture sono in ritardo, accelerazioni dell’ultimo
momento metteranno il sito in
condizioni di aprire ma non al
riparo da un prevedibile insuccesso.
Ripercorrere la storia di Expo
serve a capire in che modo è stata gestita questa vicenda, che ha
inizio il 31 marzo 2008 quando
il Bie ha assegnato l’organizzazione della manifestazione a Milano. Il 1° dicembre dello stesso
anno viene fondata Expo 2015
Spa, il cui amministratore delegato è Giuseppe Sala. La Spa
è composta da Governo (40%),
Comune di Milano (20%), Regione Lombardia (20%), Provincia di Milano (10%) e Camera
di Commercio (10%). Scopo
sociale la realizzazione, gestione ed organizzazione dell’Expo;
è assegnataria dei finanziamenti
pubblici degli Enti finanziatori.
La scelta su dove tenere l’Expo
ricade sull’area di Rho-Fiera,
una delle aree più trafficate, congestionate ed inquinate d’Italia,
stretta tra la ferrovia, l’autostrada, la tangenziale e collocata
proprio di fianco al polo fieristico. Questa scelta è un grosso regalo a Fiera Milano, proprietaria
di gran parte dei terreni, nel comitato promotore di Expo 2015
e socia di Arexpo. La richiesta
di tenere Expo nei padiglioni
della Fiera, una struttura inaugurata nell’autunno del 2005
che dispone di 345mila metri
quadri di spazi espositivi coperti
e 60mila all’aperto, è stata ignorata in quanto la valorizzazione
fondiaria dell’area ed il finanziamento di risorse pubbliche sono
i veri obiettivi di Expo (tra costi
dell’area, costi di realizzazione
e per le infrastrutture superano i
10 miliardi).
Il 1° giugno 2011, dopo la vittoria di Pisapia a Milano, viene
costituita la società Arexpo, che
ha acquisito il milione di metri
quadri su cui sorgerà il sito. Al
momento della sua costituzione
le partecipazioni erano: Regione Lombardia col 34,67% del
capitale, Comune di Milano col
34,67%, Fondazione Fiera Milano col 27,66%, Comune di Rho
col 1% e Provincia di Milano
con il 2%. L’ingresso di Fiera
Milano in Arexpo, sostenuto
dall’ex presidente della regione
Formigoni, oltre a garantire forti
legami con la Compagnia delle
Opere, ha fatto si che quando si è
proceduto all’acquisto delle aree
i proprietari di una parte di quei
terreni erano anche tra i compratori. Tra i compiti istituzionali
affidati Arexpo si occuperà “della valorizzazione e la riqualificazione del sito espositivo….anche
attraverso la possibile alienazione del compendio immobiliare
di proprietà della
Società nella fase
post-Expo”. Già,
perché comunque
vadano le cose,
dopo il 31 ottobre
quell’area sarà alla
mercé di forti appetiti speculativi.
All’avvio dei lavori, il 24 ottobre
2011
l’impresa
CMC di Ravenna (un colosso del
mondo delle cooperative, fa parte
di LegaCoop politicamente vicina
al PD) ha vinto
l’appalto per la
rimozione
delle
interferenze (ovvero la pulizia
del terreno prima della fase di
costruzione), con un appalto al
massimo ribasso di oltre il 42%;
58 milioni su una base d’asta di
90 (fonte: Sole 24 Ore). Un anno
dopo l’aggiudicazione ha chiesto
ed ottenuto a Expo Spa 30 milioni di extra-costi per “lavori non
previsti”: la cifra esatta per tornare alla base d’asta iniziale. La
CMC lavora anche alla costruzione del Tav in Val di Susa, alla
base Usa Dal Molin, al nuovo
porto commerciale di Molfetta,
tutte oggetto di inchieste della magistratura. Alla rimozione
delle interferenze lavorava anche la Ventura Spa, esclusa dal
cantiere a gennaio 2013 per infiltrazioni mafiose. Il 14 settembre
2012, l’impresa ATI Mantovani
si aggiudica l’appalto per la costruzione della piastra (ovvero
la base su cui viene costruito il
sito Expo), sempre col sistema
al massimo ribasso scendendo al
41,8% dai 272 milioni iniziali ai
165 milioni. Azienda veneta politicamente vicina a Forza Italia
ed all’ex presidente della regione Veneto Galan, la Mantovani
ha lavorato alla costruzione della tangenziale di Padova, della
terza corsia della tangenziale di
Mestre e del Mose a Venezia; il
presidente Piergiorgio Baita sarà
arrestato il febbraio successivo
nell’ambito di un inchiesta sul
Mose.
Expo Spa si avvale per la gestione di molti appalti (gestione dei
bandi, direzione lavori…) di due
aziende pubbliche che operano
nel campo: MM (Metropolitana
Milanese) e Infrastrutture Lombarde (controllata dalla Regione
Lombardia). MM, Spa controllata dal Comune di Milano, è nata
nel 1955 per progettare la metropolitana di Milano, si occupa di
trasporti, ingegneria e servizio
idrico. Ha il compito di gestire gli appalti dei lavori sul sito,
coordinare i lavori di bonifica e
dirigere i lavori del canale della
Via d’acqua, uno dei più assurdi, dispendiosi ed inutili lavori
previsti nell’area e fortemente
contrastato da Comitati locali.
Nel 2013 le imprese Maltauro
e Tagliabue si aggiudicano l’appalto per i lavori “Via d’acqua”
con un offerta di 42 milioni,
appalto pilotato e per il quale
l’ex sub-commissario di Expo
Antonio Acerbo (già direttore
generale di palazzo Marino con
la giunta Moratti), il costruttore
Giandomenico Maltauro e Andrea Castellotti (già direttore
generale della società Tagliabue
poi promosso a facility manager
del Padiglione Italia) hanno raggiunto un accordo con la Procura
per il patteggiamento delle loro
condanne.
Infrastrutture Lombarde è invece la società creata dalla Regione
Lombardia nel 2004; gestisce i
maggiori appalti pubblici regionali per un giro di affari di 11
miliardi. Il direttore generale è
sempre stato Antonio Rognoni
fino a poco prima del suo arresto per falso, truffa e turbativa
d’asta. Uno degli appalti contestati riguarda proprio Expo: 1,2
milioni di euro sugli incarichi
di consulenza legale. Infrastrutture Lombarde possiede anche
il 50% di CAL la società concessioni autostradali lombarde
che è ente concedente di alcune
autostrade di nuova costruzione come la BRE.BE.MI., TEM
(tangenziale est esterna di Milano) e Pedemontana. La gran
parte di queste opere stradali ed
altre minori saranno attrattive
di ulteriore traffico su gomma
ed inquinamento e traggono da
Expo velocizzazione negli iter
autorizzativi e nei finanziamenti.
Tutto quanto detto conferma che
Expo ha mosso enormi interessi
in un sistema di spartizione bipartisan tra Centrodestra e Cen-
trosinistra, ben sintetizzato dalla
presenza dei ministri Maurizio
Lupi (area Cl) alle infrastrutture
e Giuliano Poletti (Pd, uomo di
Legacoop) nel governo. Sistema
che non ha niente a che vedere
con i bisogni del territorio e della
città.
Sul versante del lavoro le cose
non vanno meglio: è ormai chiaro che la promessa dei 70mila
posti di lavoro garantiti da Expo
è una bugia, mentre affiorano
lavoro precario, lavoro nero,
mancanza di diritti e sicurezza,
ciò anche grazie agli accordi
approvati dai sindacati confederali. E’ previsto un massiccio
impiego di volontari inducendo
migliaia di giovani a prestare il
proprio lavoro gratis in cambio
di una menzione da citare nel
curriculum. Escludendo così la
possibilità di assumere i lavoratori precari del comune, che già
lo scorso luglio hanno protestato
per l’impiego di volontari presso
gli info-point, il Museo del ‘900,
Palazzo Reale, la GAM ed il Castello. Era del resto del tutto evidente che lo sviluppo dell’occupazione combinato con i previsti
lavori di infrastrutture fossero
scuse utilizzate per argomentare
una presunta “utilità” di Expo.
Che senza dubbio si è rivelato
utile, ed abbiamo visto a chi.
Oggi è chiaro che Expo verrà pagato socialmente dai tagli
alla spesa pubblica (vedi Legge
133/2009), dalle privatizzazioni,
dalla devastazione dei territori
agricoli e a parco. E che rappresenta una spesa insostenibile,
tanto più dentro la crisi degli
Enti locali. La Giunta Pisapia,
insediata nel maggio 2011, non
ha fatto nulla per allontanare
questa iattura, anzi. Il 12 luglio
dello stesso anno la Giunta approva l’Accordo di Programma
sulle aree Expo ed a settembre,
fatto un taglio di 54 milioni di
euro al bilancio comunale (con
tagli ai servizi sociali) addirittura chiede al capo dello Stato di
potere sforare il patto di stabilità,
non per poter garantire i servizi
ai cittadini più bisognosi ma…
per potere fare l’Expo! Ormai è
deciso e si deve fare, questa la
logica che abbraccia la Giunta.
Con buona pace di chi si era illuso sulla svolta della “primavera
arancione”.
Così da anni la città si prepara al
grande evento: riduzione dei servizi, chiusura di spazi sociali ed
aggregativi, aumenti tariffari e
peggioramento delle condizioni
generali di salute e di vita nell’area metropolitana. Profonde ferite segnano il territorio e ne condizioneranno negativamente – in
combinazione con il Pgt adottato – lo sviluppo nei prossimi 50
anni. Tutto a vantaggio di cementificatori e cordate speculative. A dimostrazione del fatto che
il capitale, nel momento della
crisi, sposta i propri investimenti
dove sono più garantiti (dai soldi pubblici). Il 31 ottobre Expo
finirà, ma non i disastri da esso
procurati. Per parte nostra non
verrà meno la battaglia contro
questa e altre grandi opere.
PAGINA 3
UNITA’ DI CLASSE - GIORNALE COMUNISTA DEI LAVORATORI - N.3 APRILE 2015
POLITICA INTERNA
DA MAFIA CAPITALE ALLE GRANDI OPERE INUTILI:
LA COOP NON SEI (PIÙ) TU
di Michele Terra
Le vicende di Roma Mafia Capitale, così come altri piccoli-medi-grandi scandali locali, hanno
portato alla ribalta il ruolo non
proprio limpido di quello che fu
il mondo delle cosiddette cooperative rosse, che nel corso degli
ultimi decenni ha conosciuto una
radicale modifica di senso, prospettive e valori.
Il mondo antico
C’era una volta, come in una
bella favola per bambini, il movimento cooperativo che nasceva
da una costola del movimento
dei lavoratori, della terra così
come delle fabbriche, per porsi sul terreno del miglioramento
immediato delle condizioni di
vita del proletariato. E’ una storia lunga quella del movimento
cooperativo in Italia, che affonda
le sue radici nella fine dell’800
– ma alcune forme più primitive
sono addirittura antecedenti – per
aumentare la propria consistenza nei decenni del ‘900, di pari
passo all’avanzare delle forme
politiche e sindacali organizzate
delle classi subalterne. Sono due
le grandi categorie della cooperazione: le coop di consumo, che si
pongono il problema di fornire ai
soci beni di prima necessità – in
primo luogo cibo - a prezzi calmierati rispetto il c.d. libero mercato; le coop di produzione-lavoro che associando lavoratori,
spesso con varie specializzazioni,
servono beni e servizi. Accanto a
questi due tipi di coop si sviluppa
il mutuo soccorso, con l’obiettivo, dietro il pagamento di basse
quote associative, di garantire le
prime forme di assistenza e previdenza sociale per i lavoratori e
le loro famiglie. Ma il movimento cooperativo non rimarrà un
fenomeno del mondo proletario
e socialista; intuendone l’importanza in termini di aggregazione
e consenso sociale, anche i cattolici, su iniziativa diretta della
chiesa, si porrà sullo stesso terreno: arrivano così le cooperative
bianche, che in più di un’occasione si porranno in contrapposizione ai “rossi”, a volte diventando
strumenti operativi di crumiraggio contro gli scioperanti.
L’immagine del nuovo
potere cooperativo
Il Novecento – con la maiuscola
– delle lotte di classe, della battaglia del proletariato organizzato
per il socialismo, per il mondo
delle cooperative rosse è davvero
finito e si è trasformato nel suo
contrario esatto. Peraltro buona parte di questa mutazione
delle coop verso il mondo del
profitto anticipa la fine politica
del PCI, in qualche misura ne è
probabilmente anche agente attivo. E’ passato tanto tempo da
quando nell’ultimo dopoguerra
le coop erano ancora strumento ed elemento propulsore del
movimento operaio e dei lavoratori. Vogliamo ricordare che
nei primi anni ‘60 a presiedere
la Lega delle Cooperativa fu un
certo Silvio Paolicchi, dirigente nazionale del PCI e membro
del Comitato Centrale, che, da
comunista e rivoluzionario coerente, poco tempo dopo aderirà al trotskismo conseguente,
rimanendone militante per il
resto della vita.
Oggi il potere economico del
mondo cooperativo che fu rosso
svetta alto nel cielo di Bologna
e si specchia simbolicamente nel
suo omologo potere politico. Nel
moderno – addirittura avveniristico quando fu progettato - quartiere fieristico della città, la torre
bianca della Legacoop si riflette
a poche decine di metri nella sua
IL GIORNALE COMUNISTA DEI LAVORATORI
Registrazione del tribunale di Milano n.87 del 06/02/2008
Direttore responsabile: Francesco Moisio
Proprietario: Partito Comunista dei Lavoratori
Redazione: Via V.Marini, 1/B - 40127 Bologna
tel. 3886184060 - fax 02700441899
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Stampa: Tipografia Irnerio, via Irnerio 22/c - Bologna
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copia ospitante la giunta e la presidenza della Regione Emilia-Romagna.
La stessa morfologia
della città è stata in parte modificata dalla megalomania edilizia
dell’élite cooperativa. Appena
fuori dal centro storico troviamo
Porta Europa, vero mostro archi-
milanese, e così via.
Gli affari sono affari e non si guarda in faccia a niente e a nessuno.
Qualche mese fa è stato fondato il
nuovo giornale, cartaceo e online,
La Croce Quotidiano, di chiara
matrice integralista cattolica, diretto dall’ex deputato Pd Mario
zioni assenti in altre catene, ma
questo avviene anche grazie ancora ad una certa partecipazione e
sorveglianza dei soci consumatori
che comunque rimangono il marchio distintivo di questo mondo.
Ma tristemente basta entrare in un
supermercato o ipermercato coop
tettonico, di proprietà
Unipol (assicurazione da sempre legata
al PCI e al mondo
cooperativo, ora anche banca, che si è
sviluppata e sostituita ai vecchi mutui
soccorso) che, oltre a
contenere parte della
direzione del gruppo,
ospita al suo interno
uno dei ristoranti più
esclusivi della città:
a coperto sono circa 150 euro bevande
escluse. Poco distante
si lancia verso l’infinito la torre Unipol,
il grattacielo più alto
della regione, ben
visibile da chi attraversi
l’autostrada.
Nella periferia opposta si trova
il palazzone di vetro del famigerato CCC: Consorzio della Cooperative Costruttrici, i signori
del mattone rosso, l’equivalente
cooperativo dei volgarmente noti
palazzinari.
Adinolfi. La nuova testata dichiaratamente omofoba e reazionaria
nel momento del lancio ha trovato tra i suoi inserzionisti di punta
l’assicurazione on line Dialogo,
del gruppo Unipol.
Le condizioni dei lavoratori delle coop sono andate via via peggiorando allineandosi a quelle
di mercato. Cosi per anni ai soci
lavoratori veniva trattenuta una
quota di stipendio per pagare la
propria quota sociale e solo in
anni recenti sono stati riconosciuti loro i diritti sindacali, che
inizialmente venivano loro negati
in quanto – astrattamente e teoricamente – cooperatori e quindi
padroni di sé stessi. Mentre negli
ultimi tempi è emerso con forza, grazie all’intervento del sindacalismo di base – in primis il
SI.Cobas – presso i lavoratori in
gran parte migranti lo scandalo
delle coop di facchinaggio della
logistica. Una situazione di supersfruttamento tale da mettere
in imbarazzo ad un certo punto la
stessa Legacoop che ha cominciato parlare di cooperative spurie.
Ad osservatori attenti nulla di ciò
meraviglia. Il ministro del Lavoro
Poletti, uomo dell’ex PCI e proveniente dai vertici del mondo
cooperativo, è il padre del nuovo
Jobs act e le sue nuove proposte
di lavoro non retribuito per gli
studenti nel periodo estivo dimostrano più di tutto la logica lavorista e iper sfruttatrice che muove
il personaggio, sicuro retaggio
dell’ambiente di provenienza.
e poi andare in un discount per
vedere ad occhio nudo quale sia
la differenza di classe o di ceto fra
i clienti.
Intanto rispetto ai soci consumatori o lavoratori i dirigenti sono
veri e propri manager, come tali
vengono pagati, come tali agiscono nei confronti dei loro sottoposti e come tali trattano alla pari
con i loro omologhi dell’imprenditoria e del padronato.
All’omologazione politica totale degli esponenti dell’ex PCI è
corrisposta un’analoga operazione della dirigenza cooperativa.
Finalmente la tanta normalità
ambita dai dirigenti della sinistra
storica italiana è avvenuta, in una
sorta di mutazione neodemocristiana, si può dire che ce l’abbiano fatta, per dirla con Nenni sono
entrati nella stanza dei bottoni,
ma sono riusciti ad andare oltre:
anche loro rubano e sfruttano,
sono corrotti e corruttori. La foto
della cena di Poletti e Buzzi insieme ad Alemanno e ad altri personaggi di dubbia moralità è paradigmatica, dovrebbero stamparla
sulle tessere del Pd di quei signori
che vanno a cena – per mille euro
a coperto – con Renzi per finanziare il partito.
Le stesse facce e storie che stanno
al governo mostrano le alleanze
e i blocchi del potere economico: Poletti per le Coop al lavoro,
Federica Guidi per Confindustria
allo sviluppo economico, Lupi
(seppur recentemente trombato) alle infrastrutture, quindi alle
grandi opere, per conto dell’imprenditoria cattolica, in primis
Compagnia delle Opere.
I vecchi e storici insegnamenti
sono stati appresi senza fatica e
senza remore dalla dirigenza cooperativa e dai suoi grandi manager che, forse, in gioventù furono
rossi e progressisti. Pecunia non
olet potrebbe essere il titolo di
un convegno della Legacoop o il
motto di una campagna pubblicitaria del CCC.
Non c’è schifezza o vergogna
italiana degli ultimi anni in cui
le grandi e medie coop non siano
coinvolte: dalla Tav in Val di Susa
all’ampliamento dell’aeroporto
militare Nato di Vicenza; dallo
sventramento delle vie del centro storico bolognese per le opere
stradali e murarie dell’originale
tram su gomma di produzione
Fiat (una grande opera “casualmente” bipartisan: agli Agnelli
e Marchionne i mezzi, alle coop
i cantieri), per arrivare all’Expo
Finalmente come tutti
Del vecchio spirito cooperativo resta ormai poco. Certo nelle
Coop legate alla grande distribuzione le condizioni di lavoro e
contrattuali sono ancora migliori
(o forse meno peggio) degli omologhi delle catene di discount;
certo anche lo smercio dei prodotti alimentari – e non solo – a marchio Coop mantiene certe atten-
Alla tavola imbandita dei nemici
di classe si è aggiunto un posto:
quello dei grandi manager cooperativi.
I comunisti rivoluzionari sapranno come porsi il problema di sbaragliare la cricca di Poletti e soci.
Oggi la coop sono loro, ma non è
detto che sia per sempre.
UNITA’ DI CLASSE - GIORNALE COMUNISTA DEI LAVORATORI - N.3 APRILE 2015
QUESTIONE GIOVANILE E MOVIMENTO STUDENTESCO
La conferenza degli studenti del PCL
UN PROGETTO RIVOLUZIONARIO
PER LE LOTTE STUDENTESCHE
di Ottaviano Lalli
Portare all’interno del movimento
studentesco un punto di vista coerentemente e conseguentemente
rivoluzionario, affrontare anche
fra gli studenti la lotta per la trasformazione socialista di questa
società.
È questo, a volerlo sintetizzare in
poche parole, il senso del progetto di costruzione di una tendenza
studentesca rivoluzionaria che
il PCL pone al centro della propria azione nelle scuole e nelle
università e affida ai suoi giovani
militanti, con l’obiettivo di dare
impulso ad un percorso non solo
di intervento (già peraltro avviato
e in alcuni casi consolidato), ma
di vera e propria impostazione di
un discorso e di una battaglia politica generali.
I due giorni di ricco dibattito su
questi temi (28 febbraio e 1 marzo, a Genova), giunti al termine
di un confronto durato oltre un
anno e mezzo, hanno permesso
di determinare con più precisione
il contenuto di un lavoro politico che assume centralità proprio
in ragione dei compiti strategici generali che si impongono ai
marxisti rivoluzionari, e che sono
resi ancor più chiari ed urgenti dall’odierno contesto politico
e sociale. Ciò che infatti fa da
sfondo allo scenario attuale, e che
oramai nessuno può più negare, è
una crisi capitalista permanente,
che in Italia come altrove impatta le vite di milioni e milioni di
esseri umani, soprattutto giovani.
Ed è appunto nell’incidenza di
questa vera e propria crisi di civiltà sull’esistenza delle giovani
generazioni che si determina un
cambiamento del fattore soggettivo, che si riflette su una consapevolezza e talvolta una volontà
di agire, dettate più da elementi
materiali che da un’effettiva pre-
dalla fine dell’Unione Sovietica e dalla caduta del
muro di Berlino matura la
possibilità storica concreta
di rimettere apertamente
in discussione questo ordine politico ed economico,
quindi di lavorare in quella
direzione.
La definizione di un’area
di classe ed anticapitalista
all’interno del movimento
studentesco non riveste,
per noi, carattere di mera
propaganda e di presenza organizzata all’interno
di un settore ben preciso,
come lo è stato in passato e lo è tuttora per molte
formazioni politiche. Quasi tutte queste formazioni,
fra esse anche alcune che
pure si definiscono comuniste, caratterizzano il
proprio intervento in chiave di
una proiezione della propria organizzazione fra gli studenti, in
una logica in fin dei conti sterile
e autoconservativa, che molto
spesso finisce per coincidere con
impostazioni “sindacaliste”. Per
noi, viceversa, il progetto di una
tendenza studentesca, cioè di una
linea di identificazione politica
all’interno del movimento, si inserisce all’interno di una strategia
che ruota intorno a due assi.
Il primo è quello dell’azione volta
ad immettere all’interno di un terreno di massa (quale è quello di
milioni di studenti) una posizione e dei contenuti di classe, cioè
legati ad una analisi particolare e
portatori di interessi determinati.
Partendo dalla comprensione che
“[…] scuola e università sono gli
ambiti privilegiati all’interno dei
quali la borghesia ha sempre e
ovunque esercitato e conservato
il suo comando, a partire dalle
forme ideologiche e culturali in
cui esso si manifesta e si ripro-
battaglia per l’orientamento del
movimento studentesco su quelle
posizioni e di quei contenuti, che
va combattuta non solo all’interno delle lotte e delle mobilitazioni, ma anche attraverso una
demarcazione pratica e teorica da
posizioni magari rivoluzionarie a
parole, ma conservatrici nei fatti
(si pensi ad esempio alle tematiche e alle parole d’ordine proprie
dei movimenti di ascendenza
strutturalista, autonoma o post-operaista).
Se questi sono gli obiettivi, quindi, una tendenza studentesca anticapitalista non potrà certo essere
il semplice trasferimento del capo
d’azione di un partito all’interno
del corpo studentesco, o la formazione di un’area più o meno
ristretta che a quel partito fa riferimento. Al contrario, essa non
potrà che configurarsi come uno
spazio politico largo ma ben definito, che sia capace cioè di far
avanzare posizioni anticapitaliste
in maniera tale che da rivendica-
sa di coscienza. Lo abbiamo visto
in questi ultimi anni nelle Primavere arabe; lo abbiamo visto nelle
rivolte in paesi come la Spagna,
la Turchia, il Brasile; lo vediamo
nella Grecia soffocata dai tentacoli del disfacimento dell’UE; lo
vediamo nelle incalzanti fibrillazioni sociali dell’America Latina.
È sulla base di questa primaria
consapevolezza, che sempre più
si fa largo in ampi strati di giovani e di studenti ai quattro angoli
del pianeta, che per la prima volta
duce.” (dal documento approvato
alla conferenza nazionale di Genova). Questa posizione di classe
trova per noi una valenza prima di
tutto come chiara e concreta proposta politica, che sia immediatamente percepibile dagli studenti
come tale. È chiaro che dire ciò
equivale a far sì che questa proposta politica si definisca in un vero
e proprio programma, che costituisce il fondamento della costruzione della tendenza.
Il secondo asse è la conseguente
tive diventino egemoni.
È evidente quanto i due assi strategici abbiano la potenzialità di
sottolineare e di far valere nella
realtà il nesso fra lotta studentesca e lotta di classe, contro tutte
le tendenze che, apertamente o
meno, mirano a negare o a rompere il legame che le unisce. Legare lotta degli studenti e lotta
di classe significa innanzitutto
riconoscere la connessione che
c’è fra mondo del lavoro e mondo
del lavoro “in formazione”, e le
relazioni che fra questi due ambiti si stabiliscono all’interno del
modo di produzione e di scambio
capitalistico. Come abbiamo detto a Genova, “[…] per i giovani
proletari, e non solo per loro, la
scuola, nel sistema capitalistico,
assume il compito di formarli
teoricamente, ideologicamente e
nella pratica come forza-lavoro
egemonizzata, allineata e assuefatta alle necessità del mercato
del lavoro e della massimizzazione del profitto (precarietà, flessibilità, meritocrazia, competizione
estrema, individualismo) [...]”.
A chi pensasse che si tratta di fumose petizioni ideologiche, basta
dare un’occhiata a tutta la legislazione da vent’anni a questa parte
riguardante scuola e università, di
qualsiasi colore e segno politico.
O più semplicemente, agli ultimi
temi all’ordine del giorno in materia di istruzione: l’alternanza
scuola-lavoro (ormai largamente
applicata e diffusa) e il sempre
più insistente disegno dell’introduzione di un ciclo scolastico separato per la formazione professionale, in cui una parte notevole
della didattica sarebbe costituita
dalla pura e semplice prestazione
lavorativa ai privati (ovviamente gratuita e regolarizzatissima).
L’intenzione di questa iniziativa
è fin troppo evidente: regalare
generosamente forza-lavoro ai
padroni allo scopo di sorreggere
le loro attività, che la crisi di valorizzazione del capitale ha reso
tanto improduttive quanto incapaci di creare domanda.
La ripresa della lotta di classe,
quindi, dovrebbe trascinare con
sé l’avvio di un nuovo ciclo di
mobilitazioni studentesche proprio nel verso di una unificazione delle istanze di lotta e
di legame su un programma
politico che le esprima e le
faccia oggetto di un’unica
vertenza generale. È sotto
questo aspetto che ha senso
il nesso lotta studentesca-lotta di classe, al di fuori di ogni
retorica e stereotipo vuoti di
significato politico.
All’interno di questo quadro,
la portata della sconfitta sto-
rica della politica delle sinistre
riformiste (che è andata di pari
passo con la rapida trasformazione liberale della sinistra derivante dal PCI) è enorme, e le
contrastanti conseguenze che ne
derivano trovano una loro tangibile espressione nello stato di arretratezza di tutte le lotte sociali
(anche delle lotte studentesche),
laddove pur in presenza di numerose spinte al cambiamento
non emerge il minimo spessore
di coscienza politica che possa
recepirle. Nel totale cedimento
delle sinistre riformiste, si è registrata all’interno del movimento
studentesco la scomparsa quasi
definitiva delle organizzazioni
giovanili ad esse legate, in primo
luogo dei Giovani Comunisti (legati al Partito della Rifondazione
Comunista). La triste parabola discendente di queste organizzazioni giovanili nell’arco dell’ultimo
decennio è stata causata proprio
dalle politiche compromissorie e
di collaborazione di classe di cui
si sono resi protagonisti i partiti
di riferimento, si è manifestata
dapprima con un crescente isolamento dalle (e nelle) lotte - come
conseguenza della perdita di credibilità - e poi con un loro sempre
maggiore logoramento e la perdita del loro ruolo.
L’assenza di una prospettiva politica che inserisca le lotte degli
studenti all’interno di un progetto
rivoluzionario è ciò che ha caratterizzato la storia delle mobilitazioni successive al Sessantotto, e
che ha maggiormente segnato in
negativo la possibilità di una radicalizzazione delle stesse lotte
studentesche. Sta a noi cominciare ad invertire la rotta.
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UNITA’ DI CLASSE - GIORNALE COMUNISTA DEI LAVORATORI - N.3 APRILE 2015
Settant’anni fa la liberazione dal nazifascismo
DALLA RIVOLUZIONE MANCATA
ALLA RESISTENZA TRADITA
di Piero Nobili
Quest’anno ricorre il settantesimo anniversario della liberazione
dal nazifascismo. Le celebrazioni
che ricordano la resistenza antifascista cadono in un momento
particolare. I morsi feroci della
crisi economica favoriscono la
crescita di partiti e movimenti
populistici di destra e di estrema
destra. Queste formazioni, approfittando del fallimento della sinistra, occupano una parte del proscenio politico presentandosi con
un profilo “antisistema” che gli
consente di catturare il consenso
di una parte dei ceti popolari colpiti dalla recessione. Nell’Europa
piegata dai sacerdoti dell’austerità, prendono così forma derive
nazionaliste e xenofobe, che si
nutrono della nostalgia di un passato oscuro che non è mai troppo
remoto. Anche il nostro paese è
attraversato da questi fenomeni
regressivi: l’alleanza nero-verde
tra la Lega di Matteo Salvini e
i neofascisti di Casa Pound alimenta le suggestioni lepeniste,
consolida un blocco sociale di
destra, favorisce lo sdoganamento dell’intero campionario delle
idee reazionarie.
dei suoi contrasti e delle sue contraddizioni, rendendola così un
evento che ad una parte delle giovani generazioni, appare lontano
e poco significativo. Per questo,
pur in maniera sintetica, è di una
qualche utilità riepilogare il contesto in cui si sviluppò il movimento resistenziale e i successivi
avvenimenti che determinarono il
tradimento delle sue aspirazioni.
PAGINA 6
al potere, il fascismo si rivela
come la più spietata forma di dominio del grande capitale, la cui
funzione essenziale risiede nella
distruzione sistematica di tutte
le organizzazioni del movimento
operaio. La cancellazione di ogni
spazio democratico, e la soppressione di ogni forma di organizzazione collettiva dei lavoratori,
sono gli elementi fondamentali
che lo distinguono da altri regimi
autoritari, repressivi e bonapartisti. Inizia così un ventennio segnato da una brutale repressione
antioperaia e anticomunista. Il
tribunale speciale istituito dal regime infligge 277 secoli di reclusione, 5000 condanne e 42 esecuzioni capitali. La repressione si
abbatte soprattutto sui militanti,
sui quadri e sui simpatizzanti
dei disciolti partiti della sinistra.
Il razzismo antisemita e lo sciovinismo antislavo sono l’odioso
corollario di un regime criminale
che vara le leggi razziali, e che
con le sue truppe porta lutti, morte e disperazione tra i popoli della
regione balcanica. In questo lasso
di tempo, mentre le condizioni
dei lavoratori precipitano verso il
basso, Mussolini onora le cambiali firmate con il grande capitale:
tutte le richieste degli imprenditori vengono soddisfatte, e con la
“carta del lavoro” i padroni si assicurano la totale autonomia nella
conduzione delle loro aziende.
Anche l’aristocrazia “nera” papalina dei grandi proprietari terrieri
e gli esponenti della finanza vaticana beneficiano largamente dei
favori accordati dal regime, e con
la firma dei Patti Lateranensi, il
trinomio “Dio, Patria, Famiglia”
viene iscritto sulle bandiere di un
fascismo, che nella sua prima fase
aveva coltivato una vena anticlericale. L’ultimo atto del regime
è quello di trascinare il paese in
una guerra mal preparata e mal
condotta dai suoi vertici politici e
militari; una guerra d’aggressione che porta a morire migliaia di
soldati nel fango dei Balcani, nel
deserto africano e nel gelo della
steppa sovietica.
La Caduta del Regime
Passato e Presente
La proposta reazionaria per camminare e prosperare ha bisogno
anche di operare sulla memoria
storica del paese: riaccreditare la
storia del fascismo e smantellare
ciò che resta della cultura e dei
valori che animarono la Resistenza. Un’operazione che guarda al
passato per influire sul presente:
legittimare le pagine più oscure della storia patria per rendere
senso comune le pulsioni reazionarie che si agitano nelle viscere della società. Di fronte a ciò,
appaiono del tutto impotenti le
rituali celebrazioni che ricordano la lotta contro il nazifascismo.
L’imbalsamazione della Resistenza favorisce la rimozione del
suo significato più autentico. La
sua presentazione come fenomeno unitario e tricolore, la svuota
do parole d’ordine demagogiche,
si appoggia sugli strati sociali intermedi, impoveriti dalla crisi del
periodo post bellico. Esso si pone
al servizio della grande borghesia,
ma la sua base d’appoggio proviene dalle fila della piccola borghesia urbana e rurale che teme di
venire risucchiata verso il fondo
della scala sociale. Le direzioni
dei partiti della sinistra italiana
proletariato, ma esclude l’adozione di efficaci forme di autodifesa operaia, rivendica invece la
consegna impartita ai socialisti:
“L’ordine è di restate nelle vostre
case, non rispondere alle provocazioni. Anche il silenzio, anche
la viltà sono talvolta eroici”. Invece, nel giovane Partito comunista d’Italia, prevale la concezione
settaria di Bordiga che lo porta
a rifiutare una politica di fronte
unico delle organizzazioni operaie per contrastare l’ascesa del
fascismo. Anche di fronte alla nascita degli Arditi del Popolo – un
raggruppamento che si propone
la difesa delle associazioni proletarie -, il gruppo dirigente raccolto intorno a Bordiga diffida i
propri militanti ad unire le forze
con chi, concretamente, combatte
la violenza degli squadristi. Pur
dichiarandosi favorevole all’organizzazione
dell’autodifesa
operaia, il Pcd’I considerando il
fascismo una semplice “variante”
del dominio borghese, sottovaluta
l’urgenza di organizzare una mobilitazione ampia e determinata
per stroncare il mostro in camicia
nera. L’arrendevolezza del Psi e
il settarismo del Pcd’i, indebolendo lo schieramento di forze in
difesa dei lavoratori, contribuiscono così a rendere più agevole
l’ascesa del fascismo in Italia.
L’Ascesa del Fascismo
Il fascismo nasce come reazione alle lotte operaie e popolari
del biennio rosso. Le sue radici
affondano nella crisi del primo
dopoguerra, quando in Italia si
susseguono governi deboli, impotenti, incapaci di mantenere
sotto controllo un paese costantemente in fermento. La sua ascesa
è favorita dall’occasione mancata
dal proletariato italiano, quando il
movimento di massa che occupa
le fabbriche non è in grado di dare
uno sbocco vincente alla dinamica rivoluzionaria che si era messa
in moto. Come dirà Trotsky pochi giorni prima della marcia su
Roma: “Il fascismo è la rivincita,
la vendetta attuata dalla borghesia
per il panico vissuto nel settembre del 1920”. Il fascismo agitan-
sottovalutano il pericolo rappresentato dallo squadrismo e, alla
sua violenza non sono in grado
di opporre un contrasto efficace
e risoluto. A parte Gramsci, esse
non colgono la natura specifica
del fenomeno fascista: quello di
essere un movimento reazionario
di massa, capace di attirare a sé il
malessere dei diseredati e del ceto
medio impaurito, e di scagliarlo contro il movimento operaio
organizzato, al quale addebita la
causa di ogni male. Il Psi si attesta
perciò su una linea di resistenza
passiva, cullando a lungo la speranza che il fenomeno fascista,
epurato dallo squadrismo, venga
normalizzato e inserito nell’alveo
della normale dialettica politica.
Lo stesso Matteotti, parlando alla
Camera nel marzo del 1921, denuncia la ferocia delle bande nere
che seminano morte tra le fila del
Nascita di una Dittatura
Nei primi anni venti, il fascismo
si consolida legalmente ricevendo
importanti sostegni e incoraggiamenti. E’ benedetto da Pio XI che
arriva a indicare Mussolini come
“l’’uomo che la Provvidenza ci ha
fatto incontrare”. E’ incoraggiato
dai liberali, i quali guardano con
favore la chiamata al governo di
una forza politica capace di neutralizzare il movimento operaio.
E’ finanziato dagli agrari e dal
grande capitale che puntano ad
usare le camicie nere di Mussolini
per ripristinare l’ordine padronale che le lotte proletarie avevano
incrinato. Ed è infine tutelato in
ogni modo dagli apparati polizieschi dello stato sabaudo che non
muovono un dito per scoraggiare la violenza squadrista. Salito
È la guerra ad aprire larghe brecce nelle mura dell’edificio dittatoriale eretto da Mussolini. Nel
marzo del 1943 entra in sciopero
la Fiat: a Torino gli operai protestano contro il carovita e manifestano per la pace. Le agitazioni si
estendono rapidamente a Milano
e a Porto Marghera, diffondendosi poi in tutte le principali aziende
del nord Italia. Sono queste mobilitazioni operaie – rese possibili
dalla rete clandestina del Pci - ad
incrinare la stabilità del regime.
Le classi dominanti del paese, che
per convenienza o per convinzione hanno indossato la camicia
nera, temono di essere travolte da
una possibile esplosione di furore
popolare. I ceti possidenti temono
la crescita di una resistenza classista, temono che la lotta operaia s’indirizzi contro il capitale,
contro quei padroni che sono i
veri responsabili di un ventennio
di dittatura fascista. Mentre i gerarchi si dividono sulle misure da
prendere, gli industriali, la corona
e i vertici militari, iniziano a lavorare a una soluzione politica di
ricambio per rimuovere il fascismo nel modo più indolore possibile, sostituendolo con un regime
autoritario dal profilo più presentabile. Quattro mesi dopo, sotto
la regia del monarca sabaudo, il
gran consiglio sfiducia il capo supremo del fascismo e Mussolini
viene defenestrato. Al suo posto
viene insediato un governo presieduto da Badoglio, il maresciallo d’Italia che solo pochi anni
prima si era reso protagonista dei
peggiori crimini coloniali in Libia
ed Etiopia.
La svolta di Salerno
All’indomani del colpo di mano
monarchico, mentre l’intera struttura del partito fascista si sgretola
silenziosamente, senza che qualcuno azzardi un gesto di difesa,
riprendono fiato i partiti che per
vent’anni erano stati messi fuorigioco. Inizia ad operare il Consiglio nazionale delle opposizioni,
che si costituirà poi in Comitato
di Liberazione Nazionale: ne
fanno parte la Dc, i partiti della
sinistra, gli azionisti, e altre piccole forze di matrice liberale. Nei
45 giorni che precedono la firma
dell’armistizio, il Pci diventa la
forza politica più attiva e radicata
tra le masse. Il partito si rafforza
conducendo un’ampia e capillare
iniziativa politica all’interno delle
fabbriche. Le parole d’ordine agitate – porre fine alla guerra e migliorare le condizioni di vita dei
lavoratori – diventano popolari,
consentendo al Pci di acquistare
un peso rilevante all’interno della società italiana. Ma questa sua
rilevanza non viene fatta valere
all’interno del Cln (dove le decisioni vengono prese utilizzando
il metodo paritetico), perché la
direzione del partito in ossequio
alla linea staliniana dei fronti
popolari, ricerca l’alleanza interclassista con le forze borghese,
e quindi, adotta nei confronti di
De Gasperi e degli altri esponenti liberali una condotta attendista
e collaborativa. Con il ritorno di
Togliatti in Italia, la linea collaborazionista del Pci viene meglio
precisata. È la cosiddetta “svolta
di Salerno”: il Pci riconosce Badoglio, rinuncia alla pregiudiziale antimonarchica, si avvia sulla
direttrice della partecipazione
ai governi di unità nazionale. In
nome dell’unità antifascista, la
soluzione rivoluzionaria alla cri-
si di regime è esclusa in maniera
categorica, sull’Unità il segretario del Pci invita ad “impugnare
la bandiera degli interessi nazionali”, chiarendo che “non possiamo oggi ispirarci ad un sedicente
interesse ristretto di partito, o ad
un sedicente interesse ristretto di
classe”.
Questa strategia rinunciataria ha
il compito di tutelare gli interessi
della casta burocratica del Cremlino. Stalin, nelle conferenze internazionali, ha concordato con le
potenze imperialiste gli equilibri
mondiali del dopoguerra. In questo quadro, l’Italia è destinata a
rimanere sotto la sfera d’influenza occidentale, la sua classe lavoratrice non può dunque coltivare
l’ambizione di modificare radicalmente l’ordine sociale esistente. Per questo la direzione del Pci
lavora per imbrigliare la dinamica potenzialmente rivoluzionaria
che si è avviata con gli scioperi
operai e con l’inizio di un diffuso movimento
resistenziale.
UNITA’ DI CLASSE - GIORNALE COMUNISTA DEI LAVORATORI - N.3 APRILE 2015
articolato, al cui interno convi- giani affermano è prima sviato e di unità nazionale proseguirà fino
vono posizioni assai diverse. Lo poi negato. Le fabbriche che sono al 1947, quando i mutamenti del
storico Claudio Pavone nel suo state salvate dagli operai vengo- quadro internazionale con l’avvio
insuperato studio storiografico no riconsegnate a quei padroni della guerra fredda, ricacceranno
su quella fase (Una guerra civile, che avevano sostenuto Mussolini, il Pci all’opposizione. Prima di
Bollati, 1991) ha mostrato come mentre i gerarchi che hanno por- essere scaricato, il “partito nuol’esperienza resistenziale sia sta- tato alla rovina il paese sono am- vo” di Togliatti contribuirà con
ta l’intreccio di ben tre guerre: nistiati. E proprio sulla mancata la sua subalternità a ricostituire le
“patriottica” contro l’occupante epurazione dei caporioni fascisti istituzioni borghesi e riavviare il
tedesco, “civile” contro i fasci- si consuma il primo tradimento sistema produttivo uscito malconsti, di “classe” contro il capitale. degli ideali della resistenza. L’Al- cio dalla guerra.
Il segno politico e la provenienza to Commissariato, un organismo Il movimento operaio italiano,
sociale dei combattenti rivelano preposto per la rimozione dai loro privo di una direzione alternativa,
però l’orientamento largamente incarichi delle persone coinvolte non potrà cogliere tutto il potenprevalente tra i partigiani: sono con il passato regime, si rivela ziale sociale emerso nel periodo
in gran parte operai e braccianti, fin troppo indulgente e compren- 1943-1945 e utilizzarlo per una
e tra di loro i più sono militanti sivo nei confronti degli imputati. radicalizzazione classista capace
e simpatizzanti del Pci e delle al- La metà delle persone sottopo- di affermare uno sbocco rivolutre forze del movimento operaio ste a giudizio sono prosciolte in zionario vincente, sarà costretto
(Psi, ma anche Bandiera rossa istruttoria, mentre la stragrande ad arretrare. Per i lavoratori inied altri). La grande maggioranza maggioranza degli alti funzionari zierà un periodo durissimo in cui
delle truppe partigiane è costituta dello stato (magistrati, manager le loro condizioni di vita diventeda giovani che si ribellano a un pubblici e professionisti) non ranno sempre più difficili. Anche
ordine sociale ingiusto, che ado- vengono sfiorati dall’annunciato sul piano dei contenuti democraperando i mezzi che si ritrovano a repulisti. Anche gli imprenditori tici, il compromesso tra Togliatti
disposizione, passano dalla sem- che sono accusati di collaborazio- e De Gasperi, non produrrà un
Il Movimento
Partigiano
L’8 settembre
del 1943 segna
il momento di
massima disgregazione
dello
stato e della società italiana. La
fuga della casa
reale, di Badoglio e dello stato
maggiore dell’esercito lasciano
la popolazione
alla mercé delle
truppe tedesche.
Il paese è occupato da un lato
dagli ex alleati nazisti e dall’altro dagli ex nemici diventati ora
alleati di un popolo per il quale
auspicano la continuazione della
monarchia. Migliaia di antifascisti cominciano a prendere la via
delle montagne, nascono i primi
raggruppamenti armati e anche
nelle città si organizzano le cellule clandestine. Accanto ai militanti operai, che con la loro tenacia hanno saputo tenere, in tanti
anni di lotta sotterranea contro il
fascismo, si affianca una nuova
generazione che, armi alla mano,
inizia a combattere contro la ferocia nazista e repubblichina. La
gran parte di loro è convinta che
lotta antifascista sia solo il primo
passo verso l’apertura di una prospettiva di rivoluzione socialista.
La Resistenza all’occupante tedesco è un fenomeno complesso ed
plice disobbedienza a un regime
criminale e in via di disfacimento,
alla propaganda e al sabotaggio,
fino alla lotta armata combattuta
sui monti, nelle valli e nelle città.
Sono loro –non certo gli sparuti
esponenti dell’antifascismo cattolico e liberale - a rimuovere le
macerie di un paese svilito, distrutto e asservito da due decenni
di regime mussoliniano.
La Resistenza Tradita
Ma dopo l’insurrezione vittoriosa, che vede il movimento partigiano liberare le principali città
del centro nord, l’entusiasmo
popolare che accompagna la vittoria dura soltanto il tempo di una
breve e rossa primavera. La resistenza viene tradita. Il contenuto
di liberazione sociale che i parti-
nismo con i nazifascisti escono
indenni dall’epurazione: Agnelli,
Valletta, Pirelli e Donegani possono così tornare ad amministrare
le loro fortune. E poi, l’amnistia
varata da Togliatti, in qualità di
ministro di grazia e giustizia,
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internet, specificando il tipo di abbonamento desiderato e l’indirizzo di spedizione.
mette la pietra
tombale sulla richieste di giustizia avanzata con
forza dagli antifascisti. Con questa
misura, che contempla la capziosa
distinzione tra le
“sevizie normali”
e quelle “particolarmente efferate”
la
magistratura
manderà assolti
tantissimi fascisti che durante il
ventennio si sono
macchiati di crimini spaventosi.
La partecipazione
del Pci nei governi
avanzamento. La tanto sbandierata “costituzione più bella del
mondo”, presentata come la principale conquista strappata dalle
sinistre, si rivelerà ben presto uno
strumento, che dietro l’affermazione retorica di diritti democratici destinati a rimanere inattuati,
tutelerà anche formalmente i rapporti di produzione capitalistici.
E poi, in barba alle disposizioni
transitorie, verrà consentita la ricostruzione di un partito dichiaratamente neofascista come il Msi,
ennesimo sfregio a una resistenza che aveva pagato un altissimo
tributo di sangue per il riscatto
morale e civile dell’intero paese.
Anche sul terreno democratico,
soltanto lo sviluppo e l’organizzazione del movimento di classe basato sulla forza dell’avanguardia operaia e partigiana - avrebbe
potuto difendere i diritti democratici, respingere l’offensiva reazionaria, salvaguardare i valori di
quella resistenza che era riuscita a
sconfiggere il nazifascismo.
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UNITA’ DI CLASSE - GIORNALE COMUNISTA DEI LAVORATORI - N.3 APRILE 2015
SINDACATO
LA CONTRATTAZIONE IN FINCANTIERI DOPO IL JOBS ACT
Intervista a Stefano Fontana, del Direttivo FIOM di Venezia e RSU a Marghera
a cura di A. Marceca
Il 6 marzo sono stati pubblicati
sulla Gazzetta Ufficiale i primi
due decreti attuativi della legge delega in materia di lavoro,
il cosiddetto Jobs Act. Si tratta
del decreto legislativo 4 marzo
2015, n° 22, recante Disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori
sociali in caso di disoccupazione involontaria e di ricollocazione dei lavoratori disoccupati,
e del decreto legislativo 4 marzo 2015, n° 23, recante Disposizioni in materia di contratto di
lavoro a tempo indeterminato a
tutele crescenti: dal 7 marzo il
padronato ha la possibilità, tra
l’altro, di assumere con il nuovo contratto a tutele crescenti,
che ha messo in soffitta l’articolo 18, sostituendo il reintegro
con un misero indennizzo monetario nella quasi totalità dei
licenziamenti sia individuali sia
collettivi illegittimi. Il padronato esce rafforzato dal Jobs Act,
la Confindustria vuole il blocco o la moratoria dei contratti,
come nel pubblico impiego. Nel
comparto chimico, la Confindustria a fronte di una fase di riduzione dell’inflazione ha chiesto
ai sindacati il rientro degli aumenti retributivi non giustificati
dall’aumento dei prezzi. Le imprese vogliono sostituire il contratto aziendale al posto di quello nazionale, come avvenuto in
Fiat-Fca; il governo Renzi vuole ridurre il ruolo del sindacato
alla sola presenza aziendale per
occuparsi solo della prestazione
lavorativa (licenziamenti, demansionamenti, meritocrazia,
produttività, flessibilità).
Le burocrazie sindacali dirigenti che hanno promosso lo sciopero generale, ma senza dargli
continuità, non sono in grado o
non vogliono mettere in campo
una forte mobilitazione in grado
di respingere l’attacco padronale e governativo: il segretario
della UIL, Carmelo Barbagallo,
propone di legare gli aumenti salariali alla crescita del Pil,
senza tra l’altro considerare
la riduzione della produzione
industriale e gli squilibri tra i
diversi settori economici; la segretaria della CGIL, Susanna
Camusso, propone di riconquistare diritti e tutele con la contrattazione, un nuovo Statuto
dei lavoratori e l’unità sindacale con CISL e UIL; il segretario
della FIOM, Maurizio Landini,
aggiunge la rivendicazione del
contratto nazionale, la proposta
di referendum su Jobs Act e la
costruzione di una “coalizione
sociale”. Questa con tutta evidenza non si configura come un
fronte unico di classe, cosa di
cui ci sarebbe grande bisogno,
ma come premessa alla successiva riflessione sulla rappresentanza politica riformista. In
ogni caso un cambiamento nel
rapporto di forza tra le classi
è già avvenuto, si tratta di ra-
PAGINA 8
gionare su come fare sindacato
senza le tutele dello Statuto dei
lavoratori in una fase di profonda crisi capitalistica: un tema
su cui è iniziata la discussione
nella tendenza classista della
CGIL con la presentazione di un
contributo da parte dei compagni Grisolia e Scacchi. Intanto
Federmeccanica propone di applicare il contratto a tutele crescenti a tutti i lavoratori, anche
quelli assunti prima del 6 marzo
2015. Ma non tutti i lavoratori
già assunti a tempo indeterminato e che usufruiscono delle
tutele previste dallo Statuto dei
lavoratori avranno la possibilità di mantenerle: negli appalti
e sub appalti ad ogni cambio di
azienda e/o cooperativa i lavoratori potrebbero perdere le tutele
della cosiddetta clausola sociale
e le condizioni precedenti e si
troverebbero nella condizione
di neo assunti. Un sistema quello degli appalti molto diffuso,
dai servizi pubblici e privati alla
manifattura. E’ il caso del Gruppo Fincantieri.
Sul contratto integrativo attualmente in discussione nel Gruppo Fincantieri abbiamo discusso con Stefano Fontana, RSU
FIOM nello Stabilimento di
Marghera e membro del Direttivo FIOM di Venezia.
Puoi descrivere brevemente il
Gruppo Fincantieri?
La società, collocata in Borsa nel 2014, è attualmente detenuta al 72,5% da Fintecna,
posseduta dalla Cassa Depositi
e Prestiti del Ministero del Tesoro, cioè dallo Stato. Il Gruppo opera con un ruolo da leader
mondiale nella costruzione,
trasformazione e riparazione
di navi da crociera, mega-yact,
traghetti, piattaforme petrolifere
off shore, nel settore delle navi
militari e di sistemi e servizi. I
bilanci parlano di una struttura
in crescita sul fronte dei ricavi
con nuove consegne e una crescita del portafoglio ordini. Nel
complesso conta circa 21.700
dipendenti in 21 stabilimenti in
13 Paesi. Nel nostro Paese ha 8
stabilimenti dove occupa 7.700
dipendenti diretti e almeno altri
15-18 mila lavoratori in appalti e sub appalti, con rapporti di
lavoro, legati alla commessa,
caratterizzati da totale precarietà e ricattabilità, con salari
ulteriormente ridotti attraverso
il meccanismo della retribuzione globale. La Fincantieri punta
ad aumentare il lavoro in appalto, affidandolo a grandi agenzie interinali e dando vita alla
cosiddetta rete di imprese con
l’obbiettivo di scaricarsi delle
responsabilità. La Piattaforma
della FIOM si propone di ridurre e regolamentare questa grave
situazione attraverso la responsabilizzazione di Fincantieri, il
rispetto dei contratti e mediante
il controllo delle RSU.
A gennaio si è aperta la trattativa di secondo livello, all’incontro del 22 dicembre 2014 il
Gruppo Fincantieri ha avanzato le sue proposte, puoi illustrarle?
L’azienda afferma che per agganciare la ripresa e restare
competitiva ha bisogno di ristrutturarsi e il rinnovo dell’integrativo è, dal punto di vista
aziendale, funzionale a questo
obbiettivo. Un accordo quadro, da articolarsi quindi nei
vari stabilimenti, che garantisca all’azienda l’allargamento
della terziarizzazione, con la
prospettiva della cessione di
ramo di azienda di tutte quelle
attività e comparti, come quello
della meccanica, considerati di
scarso valore aggiunto (costruzione scafo, magazzini, manutenzioni); la totale discrezione
aziendale sulla flessibilità di
orario; la riduzione del salario,
utilizzando a questo scopo un
indice di redditività, definito
dall’azienda indice di utile netto
da applicarsi all’intero gruppo;
l’utilizzo per parte delle maestranze della misurazione della
prestazione individuale, aumentando il ricatto sul singolo
lavoratore e mettendolo in contrapposizione con gli altri lavoratori; l’eliminazione del ruolo
contrattuale delle RSU. Queste
sono le condizioni, solo in questo quadro l’azienda è disposta
a mantenere in vita i cantieri
di Sestri (GE), Castellammare
(NA) e Palermo. Questi cantieri
secondo l’azienda hanno poca
redditività dovuta al fatto che
necessitano di interventi strutturali da parte degli Enti locali
e regionali. Per ottenere questi
obbiettivi strategici l’azienda
utilizza, a nostro avviso strumentalmente, la richiesta della
restituzione di 104 ore di PAR
(Permessi annui retribuiti), oppure, in alternativa, mezzora di
lavoro al giorno non retribuita e
ancora, con la scusa della sicurezza sul lavoro, la collocazione
di microchip sugli scarponi dei
lavoratori come strumento di
controllo a distanza.
I sindacati metalmeccanici
presentano due Piattaforme
diverse, puoi illustrare la piattaforma FIOM?
La trattativa è partita con la presentazione di piattaforme separate: da una parte FIM e UIL,
dall’altra la FIOM. La differenza tra le due piattaforme è legata essenzialmente a due punti:
la questione degli appalti e il
ruolo contrattuale delle RSU, in
particolare sulla gestione degli
orari. La piattaforma FIOM è
articolata in diversi capitoli: relazioni sindacali; politiche industriali; appalti e decentramento;
mercato del lavoro; ambiente e
sicurezza; orario di lavoro; professionalità e inquadramento;
formazione e diritto allo studio; salario, parte fissa e variabile; indennità; lavoratori fuori
sede; diritti sociali. La proposta
FIOM è stata votata da 3.450 lavoratori su 5.352 presenti (pari
al 64,46%), i “sì” sono stati
3.171 (pari al 93,5%), quindi la
maggioranza assoluta dei lavo-
ratori presenti ha approvato la
Piattaforma. FIM e UILM hanno invece fatto votare la loro
Piattaforma solo alle proprie
RSU, che l’hanno approvata.
Cosa ne pensi della Piattaforma della FIOM?
Il punto critico maggiore della
Piattaforma FIOM è legato alla
accettazione della flessibilità se
pur contrattata e regolamentata
dalle RSU. Questo in cambio
del riconoscimento di soggetto contrattuale. Mentre su altri
aspetti rappresenta un passo
avanti, per esempio in tema di
contrasto all’attuale regime degli appalti e sub appalti e nella
proposta di incremento occupazionale.
Quali iniziative sono state messe in campo?
Dal primo aprile con la disdetta dell’integrativo precedente i
lavoratori potrebbero trovarsi
con un taglio netto del salario.
La FIOM ha messo in campo un
pacchetto di 12 ore di sciopero,
da attuarsi tra marzo e aprile,
giorno in cui è previsto un nuovo incontro con l’azienda. Il clima tra i lavoratori è di estrema
tensione, a Muggiano e Riva
Trigoso lo sciopero del 19 marzo si è trasformato in sciopero
ad oltranza, a Marghera la mobilitazione è iniziata il 23 marzo
con un’assemblea dei lavoratori che ha votato un ordine del
giorno che impegna il sindacato a conquistare un integrativo
migliorativo e il voto vincolante dei lavoratori sull’accordo,
mentre il 24 marzo è stato bloccato il cantiere. Il pericolo incombente è un accordo separato da parte di FIM e UILM
giustificato con la nota storiella
truffaldina della riduzione del
danno. In questo caso la FIOM
dovrebbe innalzare il livello di
mobilitazione, dallo sciopero ad
oltranza all’occupazione degli
stabilimenti, puntando all’unità
di classe tra tutti i lavoratori.
UNITA’ DI CLASSE - GIORNALE COMUNISTA DEI LAVORATORI - N.3 APRILE 2015
SINDACATO
CONTRO LO SCIOPERO SOCIALE:
per non disperdere il punto di vista di classe nella nuova composizione del lavoro
prima parte
di LucaS
“Le ragioni dello «sciopero sociale» del 14 novembre sono
definite con chiarezza... Eppure
che cosa sia uno «sciopero sociale» resta una domanda alla
quale è molto difficile rispondere” (Bascetta, il manifesto,
12.11.2014). Già, che cosa è
uno sciopero sociale? In fondo,
qualunque sciopero è sociale,
nel duplice senso di essere sia
un processo collettivo, sia l’espressione di una relazione fra
classi. Con questa definizione
si vuole in realtà costruire una
narrazione, una particolare interpretazione dei conflitti sociali. Una rappresentazione politica, quindi, che è stata declinata
sostanzialmente in due diverse
versioni.
Una ristretta, nella quale si sottolinea l’obbiettivo di ricomporre le diverse soggettività del
lavoro attraverso il precariato.
Una generale, nella quale si indica la dislocazione del conflitto oltre i rapporti di lavoro, in
quanto la produzione di valore
sarebbe oramai inscritta nella
conoscenza/intelligenza diffusa
delle relazioni sociali.
In questa prima parte consideriamo la versione ristretta, in
cui si vuole evidenziare la centralità di una particolare composizione di classe: il precariato e
più in generale le diverse figure atipiche. Prendiamo ancora Bascetta, il 10 dicembre sul
manifesto: “lo sciopero generale deve fare i conti con le trasformazioni subite, nel tempo,
dalla società e dalle forme del
lavoro. Quei tutti si presentano
oggi assai più disomogenei e
articolati di quanto non fossero
una trentina di anni fa … Molti,
disoccupati, precari, autonomi
non dispongono nemmeno di
un lavoro che possa essere sospeso, eppure rappresentano un
elemento decisivo di quella dimensione «generale» alla quale
lo sciopero dovrebbe rivolgersi…. Attività fondate sull’intermittenza,
sull’incertezza,
sull’occasione, sulla continua
riconversione del proprio agire,
spesso considerate una semplice fase di transito tra una condizione e un’altra, si collocano
agli antipodi di ogni prospettiva
corporativa. Lo stesso mondo
relazionale del lavoratore precario, autonomo o sotto contratto a termine, non si lascia
racchiudere entro uno specifico
ambiente professionale. I termini «generici» della sua vita attiva gli conferiscono, appunto, un
carattere «generale» che non
si lascia organizzare in nessun
sistema di «categorie». Seppure
dei «precari» stessi si sia soliti
ragionare come di una specifica «categoria» da affiancare
a quelle del lavoro dipendente
nelle quali finirà coll’essere riassorbita e addomesticata. Ma
proprio perché la condizione
precaria resta indefinita, irriducibile al «particolare», i suoi interessi si sviluppano piuttosto in
una direzione necessariamente
universalistica”
In queste righe si
sottolinea l’emersione di un soggetto
generico e generale,
in quanto continuamente transeunte tra
diverse condizioni
di lavoro. Un forza
lavoro libera, il cui
antagonismo non è
limitato da specifiche condizioni professionali. Quindi
più mobilitabile, più
movimentista, più
radicale. Il precariato metropolitano
come
componente più sviluppata e
anticapitalista del
proletariato, la cui
organizzazione di
lotta attraverso uno
sciopero sociale sarebbe quindi
quella più rivoluzionaria.
Non abbiamo nessuna contrarietà teorica a questa analisi.
Non c’è infatti nessun principio
che impone l’una o l’altra composizione di classe come quella
autenticamente anticapitalista.
E’ solo la lettura concreta della
situazione concreta che ci offre
risposte. La stessa esperienza
del movimento operaio ci conferma che settori generici, precari, semioccupati o disoccupati
hanno talvolta giocato un ruolo
determinante nella lotta di classe. Perché lo sviluppo capitalista si dipana attraverso contraddizioni, cicli di sviluppo e crisi,
lunghe fasi espansive e lunghe
depressioni distruttive. In questo andamento non progressivo
(nel duplice senso di non esser
lineare e di esser segnato da
barbarie), la classe lavoratrice
ha conosciuto diverse forme di
organizzazione e di coscienza
di sé. E quindi in diverse fasi
sono emersi settori precari e
dispersi (più o meno metropolitani). Basti pensare alla storia
del socialismo e del sindacalismo italiano: una delle sue radici, sulla fine dell’800, non si
colloca nelle grandi concentrazioni industriali (le filande della
campagna lombarda o le prime
ferriere tra Milano e Torino), ma
in Romagna e in Emilia, intorno
a lavoratori e lavoratrici precari e migranti. Masse proletarie
ora braccianti, ora sterratori,
ora muratori, ora camerieri, ora
mendicanti, ora mezzadri, che
non casualmente si organizzano
sindacalmente e politicamente
nella riproduzione: non nelle
fabbriche, non per mestiere, ma
nelle Camere del lavoro (spesso
costruite intorno a luoghi di ri-
trovo), nelle cooperative di consumo, nella conquista degli enti
locali per avviare lavori socialmente utili. Esperienze simili, o
che hanno visto al centro di lotte
importanti simili composizioni
di classe, le possiamo trovare
insegnanti e ricercatori precari
(più o meno 500mila), precari
storici della PA (intorno a 1 milione) o consulenti specializzati (come le infermiere assunte
a partita IVA); e, certo, anche
quello che possiamo chiamare
negli anni venti e nei primi anni
trenta in Germania, con l’organizzazione politica dei disoccupati nella KPD, o in anni più
recenti nel movimento piqueteros argentino, vero protagonista
della fase pre-rivoluzionaria del
2001-2002.
proletariato metropolitano generico (lavoratori e lavoratrici
oggi nella logistica, domani in
catena di montaggio come interinali, dopodomani da McDonald’s). Difficile calcolare quanti siano, perché spesso sono
trasversali alle diverse categorie
(iscritti gestione separata, pubblica amministrazione, LSU,
ecc). Rappresentare l’insieme
degli atipici come proletariato
generico è però una distorsione,
che nega tipicità e differenze
di classe che attraversano questo mondo: identità, interessi e
coscienze di categoria che sono
anche molto radicati (ad esempio tra insegnanti precari, infermiere professionali, avvocati o
professionisti della IT).
Terzo. La centralità di una particolare composizione di classe
sta nella sua forza, che è una
combinazione di numero, rappresentazione di sé (coscienza
politica) e ruolo nei processi di
produzione. La versione ristretta non prende in considerazione
quest’ultimo aspetto. Intendiamo cioè sottolineare il ruolo
del lavoro produttivo di capitale. Alcune letture teoriche,
una certa tradizione, un intero
immaginario simbolico hanno
identificato il lavoro produttivo
con la fabbricazione di oggetti.
Gli operai con le mani sporche
di grasso, i caschetti e le tute.
Non è così. Il lavoro produttivo
è quello inserito in un rapporto
che permette al capitale di crescere sfruttando la forza lavoro.
La merce quindi non è una cosa,
ma il risultato di una relazione
sociale. Quello che definisce il
lavoro come produttivo non è
né la tipologia professionale,
né cosa si produce e neanche la
tipologia di contratto che si ap-
I punti critici che vogliamo invece sottolineare sono tre.
Primo. La forma prevalente della classe è veramente oggi quella
del precariato? E’ vero, negli ultimi anni i contratti precari sono
stati la maggioranza: il 70-80%
tra i neoassunti. Sembra quindi
esser questa la forma del lavoro
dominante. Non è così. In Italia
ci sono circa 22,5 milioni di occupati, 3 milioni di disoccupati,
14 milioni di “inattivi”: tra gli
occupati, 16,9 milioni sono dipendenti e 5,6 milioni autonomi (partite IVA, professionisti,
ecc); dei dipendenti, 14,5 milioni sono a tempo indeterminato
(2,5 milioni a tempo parziale) e
solo 2,1 milioni sono a termine
(600mila quelli a tempo parziale). Due terzi dei lavoratori
e delle lavoratrici sono quindi
dipendenti subordinati a tempo
indeterminato: lavoratrici e lavoratori classici.
Secondo. Questo precariato è
veramente generico e generale,
astratto da identità e condizioni
particolari? Se li sommiamo,
tutti i lavoratori atipici sono 7
milioni e rotti. In questa massa sono però comprese figure
molto diverse: commercianti e
artigiani (circa 1 milione), professionisti di vecchia e nuova
generazione (avvocati, commercialisti, notai, tecnici IT,
ecc: circa 3,5 milioni, di cui
almeno un milione considerati “professionisti affermati”);
plica. Ma è la relazione in cui si
è inseriti: anche un clown, o un
insegnante, può esser un lavoratore produttivo, se il suo lavoro
è inserito in un circuito di valorizzazione capitalista (se cioè
dalla sua attività un impresa
estrae plusvalore,
che viene realizzato in profitto attraverso la vendita
sul mercato di una
merce, concreta
o intangibile che
essa sia). Un centralinista al call
center Almaviva
è produttivo di
capitale. Un’infermiera del San
Raffaele, ospedale di un gruppo
quotato in borsa,
è produttiva di
capitale
(anche
se assunta a partita IVA). Come
un ricercatore nei
laboratori GlaxoSmithKline, o un
insegnate precarissimo che tiene
ripetizioni presso la CEPU (in
nero e non). Un lavoratore in
un’azienda del gas ex municipalizzata, nel momento in cui
questa viene inserita nel mercato per produrre capitale (SpA),
diventa produttivo (mentre prima, facendo lo stesso identico
lavoro, non lo era).
Con queste considerazioni non
vogliamo quindi negare differenze e scomposizioni nella
classe. Il punto è che vogliamo
ricomporre lavoratrici e lavoratori non sulla rappresentazione
di sé, non sulle forme giuridiche
dei loro contratti, ma sul loro
ruolo nei rapporti di produzione. Perché la centralità è quella
del lavoro che è direttamente in
contrasto con il capitale. Il salario e l’organizzazione del lavoro (ritmi, turni, intensità dello
sfruttamento) in queste realtà
sono direttamente legati ai profitti. Essendo nella loro vita quotidiana inseriti in una relazione
antagonista con il capitale, sono
spesso questi lavoratori e queste lavoratrici (precari o stabili,
produttori di auto o di servizi
assistenziali), che sviluppano
una prospettiva anticapitalista e
che hanno il potere contrattuale
di inceppare la riproduzione di
capitale.
Per questo è importante ricomporre il lavoro produttivo, contro le altre rappresentazioni
politiche del conflitto. Vedremo infatti, nella seconda parte,
come questa versione ristretta
è in fondo solo uno scivolo per
proporre la versione generale: la
negazione del conflitto di classe
nei rapporti di lavoro, in funzione della costruzione di una
coalizione sociale interclassista
(una sola moltitudine).
segue nel prossimo numero
PAGINA 9
UNITA’ DI CLASSE - GIORNALE COMUNISTA DEI LAVORATORI - N.3 APRILE 2015
INTERNAZIONALE
AD UN ANNO DA MAIDAN
di Ruggero Rognoni
E’ passato circa un anno in Ucraina dalla cosìddetta “rivoluzione
di Maidan” che più correttamente
andrebbe chiamata come “colpo di stato a Kiev” ed il popolo
ucraino si trova immerso in un
devastante collasso economico e
nella guerra civile.
Fin dall’inizio avevamo interpretato correttamente la rivolta
di Maidan come direttamente
controllata da un movimento reazionario con all’interno perfino
tendenze neonaziste organizzate
militarmente. Queste hanno dato
la spallata decisiva per il cambiamento di potere del vecchio
regime oligarchico. Nei paesi
occidentali era stata vista inizialmente come una rivolta democratica ma l’influenza dell’estrema destra nelle scelte del nuovo
governo è diventata sempre più
devastante. Le proteste di Maidan inizialmente parlavano di
una generica richiesta di accordi
economici con l’Unione Europea
e chiedevano un indirizzo capitalistico delle scelte economiche,
individuando nel potere oligarchico filo russo il principale responsabile dello stato generale di
impoverimento della popolazione a causa della disoccupazione
dilagante e delle corruzione dei
principali detentori del potere. Le
forze reazionarie ultranazionaliste e fasciste però ne hanno preso
totalmente il controllo.
Ad un anno dal rovesciamento
del vecchio governo l’economia
Ucraina è precipitata in un profondo baratro travolgendo anche
il valore della Grivnia la moneta
nazionale. L’economia di guerra
è diventata l’unica scelta del nuovo governo reazionario ai danni
dei lavoratori. I prezzi e le tariffe sono volate alle stelle insieme
ad una politica di licenziamenti
massa dove l’assistenza medica
non è più garantita mentre vengono tagliati del 50% i salari e le
pensioni. La guerra civile contro
le regioni dell’est del Donbass e
Donetsk al confine con la Russia
è la logica conseguenza della politica ultra nazionalista del nuo-
PAGINA 10
vo governo ucraino guidata dal
presidente Poroshenko. Il desiderio folle degli ultranazionalisti
è quello di volere una sola entità
etnica ucraina imponendo delle
regole che sono entrate in conflitto con le popolazioni di lingua
russa dell’est. Ma questo si è reso
impossibile con lo scoppio della
rivolta di quelle regioni che per
prima cosa hanno difeso la posizione dei loro rappresentanti politici locali.
Poroshenko ha scelto la linea dura
usando il pugno di ferro contro la
ribellione in un’azione di guerra
curezza ucraine.
I caduti sono stati in gran parte
arsi vivi o uccisi con colpi di arma
da fuoco. La risposta conseguente
delle regioni del Donbass e Donetsk è stata l’organizzazione e
la presa delle armi da parte una
cospicua fetta della popolazione.
L’ autodifesa dell’est Ucraina è
composta da minatori, giovani disoccupati, ex militari.
Chiaramente non sono omogenei. Sono divisi in tante frange
anche contraddittorie (dalla “rinascita sovietica” alla mitologia
panrussa) ma in ogni caso hanno
tolineare tra le due parti in questo
conflitto: da una parte Kiev ha
solo nelle sue truppe volontarie
nazionalisti e estremisti di destra,
ma sul lato dei ribelli russofoni ci
sono sia battaglioni destra che di
“sinistra”. La battaglia contro il
governo fascista di Kiev per l’autodeterminazione del proletariato
ucraino dagli imperialismi occidentali deve procedere insieme
alla lotta per l’autonomia dalle
mire dell’imperialismo russo.
Infatti Putin ed il suo regime bonapartista vogliono solo aumentare la loro posizione di forza in
sostenuta dagli imperialismi occidentali definita come “Operazione Antiterrorismo” dove le bande
paramilitari fasciste si sono rese
responsabili di azioni ignobili
e sanguinose. Quella forse più
drammatica è accaduta il 2 mag-
oltre alla autodifesa dal governo
fascista di Kiev la parola d’ ordine dominante dell’indipendenza
dall’Ucraina.
La posizione dei marxisti rivoluzionari non è equidistante né tanto meno neutrale ma è schierata
gio 2014 ad Odessa. Circa 40 oppositori al nuovo governo di Kiev
rifugiati dentro la Casa dei Sindacati, in gran parte militanti di
sinistra e antifascisti sono caduti
per mano delle squadre paramilitari del gruppo neonazista Pravij
sektor sostenuto dalle forze di si-
contro la guerra di repressione di
Kiev e in favore dell’autodifesa
dei diritti di autodeterminazione
della popolazione russofona. Ma
detto questo le contraddizioni
da contrastare che devono essere attentamente analizzate non
mancano. Una differenza da sot-
un compromesso con l’ Unione
Europea e gli USA. Mosca ha
chiaramente un enorme influenza
sui ribelli, in quanto si rivolgono
alla Russia per un sostegno nella
guerra civile. Da Kiev gridano ad
una presunta invasione della Russa ma che in realtà per ora trattasi
solo di un appoggio ai ribelli con
forniture di armi e di consiglieri
militari.
Putin non permetterebbe mai
una rivoluzione socialista nel
Donbass. Se questo avvenisse in
Ucraina orientale, potrebbe ispirare una rivoluzione sociale simile in Russia dove molti lavoratori
sono insoddisfatti dalle ingiustizie del capitalismo. Il presidente
russo farà di tutto per reprimere le
forze marxiste in Ucraina orientale che lottano per un cambiamento sociale. Gli imperialismi su
entrambi i fronti sono interessati
a trasformare questo “teatro” in
una guerra etnico nazionalista e
temono che possa tramutarsi in
un conflitto sociale.
Segnali in questo senso sono
già accaduti. Nel dicembre 2014
quattro dirigenti dell’organizzazione marxista Borot’ba che
si batte anch’essa contro Kiev,
sono stati arrestati dai militari di
un battaglione di ribelli filo russi
a Donetsk. L’accusa, palesemente provocatoria, sosteneva che
i compagni di Borot’ba fossero
nemici della Russia perché allacciavano relazioni politiche con
l’organizzazione marxista russa
“Fronte di Sinistra” che si oppone
a Putin e agli oligarchi che lo so-
stengono. Dopo una forte campagna internazionale sono stati poi
rilasciati. Purtroppo una linea di
classe nel conflitto è ancora minoritaria e tale da contrastare le mire
di forze politico militari nazionaliste contro Kiev e che mirano all’
intervento diretto militare della
Russia di oggi che non può essere
assolutamente paragonata nelle
sue varie vesti alla passata URSS.
Sull’altro campo, il governo liberal-fascista di Kiev può contare
viceversa con chi vuole gettare
benzina sul fuoco. La NATO ha
già pronto un piano per consolidare la sua azione nell’Est Europa
per poter intervenire velocemente
e con forza dentro la crisi ucraina. Ha messo a punto contingente
di 5000 uomini per un intervento
rapido con linee di comando immediate. Ma qualcuno già parla
della preparazione di ben 30.000
militari e non si esclude la fornitura di armi a Kiev. Non solo ma
la repressione da parte dell’apparato poliziesco fascista ha iniziato
la pianificazione degli arresti nel
campo della sinistra. Il 18 marzo 2015, ad esempio, i servizi di
sicurezza hanno arrestato il leader del Partito dei Lavoratori di
Ucraina e direttore del quotidiano
“Working Class” Alexander Bondarchuk. E’ accusato di scrivere
articoli che sostengono i ribelli
Donbass; ma gli arresti oramai
si contano a decine. Battersi in
Ucraina contro la guerra oramai è
un reato molto grave.
I colloqui di “pace” di Minsk vengono considerati per le frange più
estreme come un tradimento del
presidente Poroshenko che secondo loro non vorrebbe battersi
per un conflitto aperto contro i separatisti dell’ Est. Per non averli
contro il governo ha lanciato un
reclutamento di massa nel paese.
Sono solo le famiglie dei lavoratori a doverne subire le conseguenze per l’evidente esclusione
da questa mobilitazione della borghesia più influente.
La sola soluzione a questo conflitto può avvenire da parte dei lavoratori uniti di entrambe le parti in
conflitto con la prospettiva di una
rivoluzione democratica combinata ad una rivoluzione sociale.
Solo la forza autonoma del movimento operaio può essere la
soluzione che può realizzare quegli obbiettivi capaci di rigettare
questo conflitto: esproprio delle
banche e controllo operaio delle
industrie; annullamento del debito nei confronti della Russia e
delle potenze occidentali.
Una nuova costituzione anche
federale che veda il rispetto delle
minoranze nazionali e la realizzazione di un governo dei lavoratori
dell’Est e dell’Ovest costituito
con la sua autodifesa e suo armamento popolare che disarmi tutte
le bande fasciste e reazionarie. I
lavoratori ucraini però non possono restare isolati nella loro battaglia. La loro lotta deve essere anche quella del movimento operaio
internazionale ed in particolare
europeo sotto la bandiera della
rivoluzione socialista nella prospettiva storica degli Stati Uniti
Socialisti d’Europa.
UNITA’ DI CLASSE - GIORNALE COMUNISTA DEI LAVORATORI - N.3 APRILE 2015
DALLE SEZIONI
SUGLI ENNESIMI ASSASSINI DI STATO SUI MIGRANTI
a cura della sezione di
RAGUSA del PCL
L’ennesima strage di migranti al
largo della Sicilia riaccende i riflettori sulla tratta degli essere
umani. Alle innumerevoli vittime si aggiungono altri 300 morti
che potevano essere salvati e che
invece il governo ha deciso di
abbandonare al mare: l’ Italia e
l’Europa sono complici dei trafficanti,
per queste ragioni non esitiamo
a definire il governo Renzi e i
governi europei che hanno introdotto “Triton” come comuni assassini.
Il dispositivo “Frontex” voluto
dall’Europa e dal governo Italiano conta già centinaia di morti a
pochissimi mesi dalla sua applicazione.
Per tutto il 2014 le forze di centro destra e buona parte del P.D.
hanno chiesto a gran voce di sospendere l’operazione Mare Nostrum perché imponeva ingenti
costi all’Italia e perché invogliava
i migranti a partire per le nostre
coste; è così che il governo Renzi
è riuscito nell’intento di blindare
le nostre frontiere lasciando che i
migranti morissero nel Mar Mediterraneo.
Adesso il governo Renzi prepara
l’azione militare in Libia con il
duplice scopo di fermare gli sbarchi e l’avanzata dell’Isis che mette a rischio tutti gli investimenti
delle aziende italiane in quel paese. Eppure tutti i governi occidentali, compreso il nostro, hanno
lasciato soli quei popoli, come i
Kurdi, che hanno resistito eroicamente all’invasione dei tagliagole
dell’Isis : insomma, tutti compatti
contro il terrorismo solo quando
questo lacera i confini della “for-
migratorio è stato usato dal capitale come garanzia di un afflusso
sempre costante di un “esercito di
riserva” senza diritti e quindi utile
per essere sfruttato e contrappo-
Dobbiamo, anche, tenere presente con quale logica vengono
gestiti i flussi migratori nella fortezza Europa: le attuali politiche
italiane intendono controllare il
numero dei migranti stabilendo delle quote
d’ingresso per
tipi diversi di
lavoratori e rilasciando permessi sulla base
di un contratto
scritto. Questo
sistema crea ad
arte le condizioni di sfruttamento
dei
lavoratori immigrati, costret-
tezza-Europa” e quando questo
mette in crisi l’imperialismo economico occidentale.
Ciò che si vuole fare è, in pratica, la stessa operazione che tentò
il governo Berlusconi con Gheddafi. Oggi, dopo la guerra alla Libia del 2011, le condizioni sono
cambiate ma l’unica cosa che é
rimasta uguale è la situazione di
migliaia di persone che dall’Africa sono costretti a scappare anche
per sfuggire alla follia del terrorismo islamico.
Tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi vent’anni, di
destra o di centro-sinistra, hanno
affrontato il fenomeno migratorio come mezzo per far leva, da
un lato, sulla paura dei cittadini
creando artificiosamente nella figura dell’immigrato un falso nemico, dall’altro lato il fenomeno
sto agli sfruttati indigeni.
In altre parole, il grande capitale
crea, attraverso le sue guerre imperialiste e i suoi grandi privilegi,
le condizioni per le quali grandi
masse di immigrati scappano
dalla violenza e dalla miseria dei
propri paesi per cercare speranze
di democrazia e lavoro salpando
nelle nostre coste.
Una volta arrivati qui però questi
uomini e queste donne diventano
il capro espiatorio delle condizioni di crisi e disoccupazione in cui
versano i lavoratori italiani.
Le classi dominanti e l’apparato
politico ed economico del nostro
paese creano artificiosamente nella figura dell’immigrato il nemico
da combattere e da rendere fuorilegge poiché causa delle terribili
condizioni della classe operaia e
lavoratrice nel nostro paese.
ti ad accettare qualsiasi condizione pur di lavorare e di risiedere
legalmente nel nostro territorio.
Numerose sono le inchieste che
fanno emergere quali sono le
reali condizioni dei lavoratori
immigrati nelle nostre campagne: a Eboli come a Santa Croce
centinaia di braccianti costretti a
vivere in baraccopoli fatiscenti,
donne costrette a cedere a ricatti
sessuali, uomini costretti a “doparsi” per reggere il carico di 12
ore di lavoro continuativo per una
paga di 30 euro al giorno. Questa
si chiama “riduzione in schiavitù”
e tutti sanno chi arricchisce il business sui migranti: cooperative
sociali, aziende agricole, … tutte
rigorosamente gestite da italiani!
Anche se in modo diverso anche
i lavoratori italiani sono costretti
a rinunciare alle proprie garanzie
salariali, alle condizioni di sicurezza nei propri luoghi di lavoro,
ad accettare le regole disumane
della progressiva precarizzazione. Basti pensare all’ esercito di
“volontari” dell’Expo di Milano,
migliaia di giovani costretti a lavorare gratis solo perché “fa curriculum”.
Per tutte queste ragioni ci siamo
schierati contro i governi di destra e di sinistra che hanno varato
leggi sull’immigrazione come la
Turco-Napolitano o la Bossi-Fini,
introdotto il reato di clandestinità
e tutta una serie di riforme del lavoro a partire dal pacchetto-Treu
che ha introdotto il precariato fino
all’ abolizione dell’art. 18.
Per le stesse ragioni ci opponiamo ai governi borghesi di ogni
colore perché sono solo il mezzo
con cui il capitalismo attua le sue
politiche di sfruttamento.
Per noi non possono esistere frontiere tra gli uomini e per questo
crediamo che
l’ unico strumento di reale liberazione dei lavoratori è l’ unità di
classe.
Solo riconoscendosi nella stessa
classe lavoratrice stranieri e italiani potranno segnare la propria
svolta, solo riconoscendo nel Capitale la ragione della drammatica situazione della classe lavoratrice, del suo sfruttamento e della
sua crescente precarizzazione ci
si potrà liberare dalle condizioni
che vedono i lavoratori sempre
più poveri e la classe dominante
arricchirsi sul sudore della classe
operaia.
SULLE ELEZIONI AMMINISTRATIVE 2015
IN PROVINCIA DI CASERTA
di Raffaele Mormile
Dopo cinque anni di rapine, distruzioni e speculazioni su un
piano urbanistico, ambientale e
lavorativo, le classi dominanti,
rilanciano la propria campagna
elettorale per assicurarsi un altro
quinquennio di dominio sui vari
territori. Un dominio basato sullo
sfruttamento criminale dei lavoratori e dell’ambiente.
Le corse ad ottenere gare di appalto per completare l’opera di cementificazione e degrado ambientale vanno ad arricchire soltanto
le tasche di strozzini e padroni.
Territori agricoli saccheggiati
e usati come campi di battaglia
per soddisfare la loro esagerata
ingordigia. Gare di appalto, che
comprendono lo smaltimento dei
rifiuti, vengono vinte imprenditori collusi con le mafie, il cui unico
obiettivo è quello di ottenere il
massimo profitto utilizzando anche lo smaltimento illegale, senza
curarsi dell’ambiente e della salute della popolazione.
Il connubio criminale tra politica
e affari ha portato in carcere il
sindaco di Orta di Atella e consigliere provinciale Angelo Brancaccio, già condannato per corruzione, prostituzione e peculato.
La classe borghese evidentemente non può condannare se stessa e
schiaccia senza nessuna pietà chi
è dominato da essa.
In uno scenario di corruzione e
degrado si presenta la farsa delle
elezioni: mazzette, bollette pagate, spese di beni alimentari e
promesse di posti di lavoro. Tutto
in cambio di qualche manciata di
voti.
Quali sono le liste elettorali e chi
sono i nuovi “volti puliti” della
borghesia in campo?
Durante le tornate elettorali, talvolta, la borghesia cambia i propri galoppini con “volti puliti”
reclutati tra diverse classi.
Essi sono figli di proletari, di professionisti e di piccoli imprenditori appartenenti al cerchio fidato
di questa borghesia criminale, che
in determinate situazioni offre il
conto per i propri affari in cambio
di voti con la candidatura di un
membro della famiglia.
Quali sono i benefici che hanno
gli appartenenti a questa cerchia ?
Costoro offrono posti di lavoro
spesso umilissimi e che in molti
rifiuterebbero, ma per chi si trova
in miseria diventano piccoli benefici.
Gran parte del ceto medio corre alla corte di questi clan della
borghesia: insegnanti, ingegneri,
architetti e dottori, i quali vivono
nel benessere e nel lusso, mentre
gran parte della popolazione vive
in un territorio completamente
degradato, dove il lavoro nero è
all’ ordine del giorno , dove non
esistono opere urbanistiche e
nemmeno servizi pubblici, dove
un proletario è costretto a vendere la propria pelle in cambio di
miseria per permettersi una casa
umile e una vecchia auto non assicurata.
E’ logico che la borghesia abbia
bisogno di una schiera di fedeli sottomessi. Uno strato sociale
privilegiato servile agli interessi
della classe dominante.
Chi sono i concorrenti a questa
farsa elettorale?
La borghesia criminale e quella
legale si presentano con i loro
simboli maggiormente rappresen-
tativi cioè Forza Italia o PD o in
liste civiche.
Il PD in certi territori è il primo
partito, in altri rappresenta l’opposizione , ma più che opposizione è solo l’immagine del gioco
dei politicanti.
Non può esistere una vera opposizione se questa non è anticapitalista, sarebbe una contraddizione
in termini. In particolare, in certi
territori laddove il padrone è anche sindaco, i partiti fanno finta
di fargli opposizione, ma sono in
realtà speculari.
Invece quando il padrone non
mette la sua faccia in politica, tutti gli altri partiti si fanno la guerra
tra di loro per la gestione del territorio, ma sempre su ordine del
padrone, che agisce da dietro le
quinte.
La “novità politica”, anche in
queste elezioni, sono i 5 stelle ,
“volti nuovi”, “puliti”, “onesti” e
pieni di voglia di “fare giustizia”
e di “denunciare la corruzione”.
Peccato che in una regione come
la Campania, dove il problema
principale è la disoccupazione,
costoro preferiscano parlare di
problematiche giustizialiste legate ad un dibattito tutto interno alla
borghesia e che nulla hanno a che
fare con gli interessi economici
del proletariato.
In tale miserabile quadro elettorale, troviamo le baracche della
sinistra riformista in cerca ancora
uno spiraglio per riaffermare il
proprio fallimento.
L’unica prospettiva di cambiamento per i territori della Campania, abbandonati alla disoccupazione e alla degradazione, è la
lotta e la costruzione del Partito
Comunista dei Lavoratori è l’unica arma per unire tutto il proletariato cosciente e di risvegliare la
lotta di classe, per far si che anche
le masse più arretrate comprendano l’importanza dell’alternativa di un governo dei lavoratori
attraverso delle rivendicazioni
transitorie.
PAGINA 11
UNITA’ DI CLASSE - GIORNALE COMUNISTA DEI LAVORATORI - N.3 APRILE 2015
IL RINNOVATO INTERESSE PER L’ARTISTA MESSICANA
Frida Khalo
quando il dolore concepisce l’atto creativo
di Annamaria Albanese
Si è da poco conclusa al Palazzo Ducale di Genova la mostra
dedicata alla figura leggendaria
di Frida Khalo, nome a cui è indissolubilmente legato quello di
Diego Rivera; figure unite fatalmente da una relazione “tormentata, passionale e infedele. Una
storia d’amore che ha assunto
ben presto i contorni di una leggenda”.
Lo scenario di questa leggenda è
il Messico in piena rivoluzione.
É da questo contesto infatti che
Rivera matura le sue conoscenze
artistiche e sviluppa il suo fervore politico. Egli aderisce al muralismo, ovvero l’arte e l’ideologia
dell’affresco contemporaneo monumentale che nasce nel Messico degli anni ‘10 e ‘20, dopo la
rivoluzione di Madero contro la
dittatura militare-latifondista di
Porfirio Díaz e gli ulteriori avvenimenti, fra cui spicca il tentativo
di rivoluzione agraria di Emiliano Zapata; questa corrente nasce
come espressione e sotto il segno
di un doppio mito: la tradizione
autoctona precolombiana e la rivoluzione “istituzionalizzata”.
Rivera aderisce al gruppo sovietico Ottobre, fiancheggiatore del
Fronte di Sinistra delle Arti, e nel
1924 Majakovskij è a Città del
Messico.
La sua adesione alle coeve avanguardie risulta anche sul piano
politico: nel 1917 come Modigliani cerca di raggiungere la
Russia per porre al servizio della
causa rivoluzionaria la propria
attività. Ed è proprio in questo
periodo che manifesta il proprio
stile nitido e fluido, necessario ad
una buona leggibilità delle scene,
a cui si affianca una buona capacità decorativa, interpretando in
chiave marxista l’evolversi della
storia messicana. Nel 1929 inizia il suo lavoro in America, e
tre anni dopo gli viene commissionato un trittico per RCA Buiding al Rockefeller center di New
York. Partendo da un tema di carattere generale, “L’uomo al bivio
alla ricerca di un futuro nuovo e
migliore”, l’interpretazione di
Rivera si sviluppa in chiave ideologica, causando scandalo con
l’inserimento nell’opera del volto
di Lenin (tanto che l’opera verrà
demolita). “Nell’incerto clima
politico del tempo - in cui l’Europa era preda dei totalitarismi,
l’Unione Sovietica era passata
alla fase stalinista e l’economia
era dominata da un capitalismo
sfrenato e iniquo - non era possibile, secondo l’artista, sottrarsi a
una presa di coscienza della realtà, in favore di una celebrazione
meramente astratta e acritica del
percorso dell’umanità verso la
modernità” (1). In questa opera
il lavoratore, al centro, dopo un
lungo processo storico di emancipazione è diventato fautore del
suo destino, “punto di raccordo
fra microcosmo e macrocosmo”.
Concezioni queste che mal coincidono con lo spirito del centro
del capitalismo americano. Nel
1934 affresca un’opera, montata come una sequenza filmica,
inneggia all’internazionale dei
lavoratori, contrapposta ai capi
reazionari, quali Hitler e Mussolini. A questo punto l’arte di Rivera è “troppo schierata”. Il suo
impegno politico si intensifica:
diventa consigliere della Lega
degli Artisti e Scrittori Rivoluzionari e inizia l’aspra polemica con
il collega muralista Siqueiros, di
posizioni staliniste; tanto che nel
1935 Rivera rompe con il Partito
Comunista Messicano, e nel 1936
si fa promotore della richiesta di
asilo politico per Trotsky presso il
presidente Cardenas.
Nel 1937 Leon e Natalia Trotsky
sono ospiti nella sua casa e di
Frida, a Cayocàn; si aggiungeranno Andrè e Jacqueline Bréton:
gruppo da cui nacque un intenso
scambio intellettuale, culminato
con la pubblicazione del manifesto “Per un’arte rivoluzionaria
indipendente”, in difesa dell’autonomia del processo creativo
dalle imposizioni della politica. É
in questo periodo che Frida intrattiene una relazione sentimentale
con Trotsky, in quanto, possiamo
presumere, “la sua reputazione di
eroe rivoluzionario, insieme alla
sua vivacità intellettuale e alla
forza di carattere, l’attrassero.
senza dubbio l’ovvia ammirazione di Rivera per Trotzcky contribuì a soffiare sul fuoco: una relazione sentimentale con l’amico
e idolo politico del marito era la
rappresaglia perfetta per la storia tra riviera e la sorella” (2). Il
1941 è un anno di riflessione per
Rivera, che si riavvicina al Partito Comunista Messicano (verrà
riammesso solo nel 1954, mentre
Frida già dal 1949). É doveroso
puntualizzare, rispetto all’orientamento politico della pittrice,
che “anche se l’orientamento
politico di Frida non è in discussione resta da chiarire quale ne
fosse l’intensità. Per qualcuno è
un’eroina della sinistra, per altri
fondamentalmente un’apolitica.
Il calore e la freddezza dei suoi
argomenti sembrano dipendere
dall’atteggiamento politico della
persona con cui stava parlando e,
naturalmente, da ciò che Diego
pensava veramente in quel momento”(3). Se non c’è dubbio che
il matrimonio con Rivera influenzò profondamente il carattere e le
scelte della Khalo, il suo operato
artistico pare quasi agli antipodi del coniuge; quella di Frida è
la pittura “che meglio si sottrae
a qualsiasi influenza straniera e
attinge più profondamente alle
proprie risorse”.
Lo stile di Khalo rifugge da ogni
catalogazione. Esso è surrealista
nel gioco delle libere associazioni, nella sua simbologia “sicura
e profonda”; per lo spiccato manifestarsi di un “humor noir”;
ma anche sul piano dell’indagine
introspettiva, per il suo primitivismo e la ripresa di immagini-repertorio della tradizione popolare; e in ultimo per la sua adesione
al marxismo.
Caratteri questi che portarono il
poeta Bréton ad invitare la pittrice
ad unirsi al gruppo surrealista; ma
la sua coincidenza col mondo psicologico dei surrealisti appare più
accidentale che voluto: agli occhi
degli europei la pittura di Frida,
intrisa di fonti dell’arte popolare
messicana e di pittura precolombiana, doveva apparire dichiaratamente surrealista. Ma l’incontro
con l’arte occidentale sancisce il
palese distacco di Khalo dall’ambiente europeo: “Frida si reca a
Parigi quando la sua vita e la sua
arte hanno raggiunto la maturità.
Ci va controvoglia, su invito di
Breton e dei surrealisti che vogliono farla militare sotto le loro
insegne sfiorite. Vi resta poco
tempo, detesta Parigi e l’ambiente degli artisti; - Este pinche Paris - Questa fottuta Parigi, scrive
agli amici, e ritorna in Messico
convinta dell’abisso che la separa dall’Europa e dai conformisti
della rivolta intellettuale”(4).
Il suo operato e il suo rifuggire da
catalogazioni non deve essere inteso però come caratteristica d’attitudine sorniona: la sua pittura è
intrisa di realismo culturale che
testimonia una costante vigilanza
che le permette la partecipazione all’evoluzione del linguaggio
contemporaneo. Ella utilizza stili e oggetti quotidiani che mette
al proprio servizio mediante una
volare familiarizzazione, la quale
toglie ogni spessore culturale. In
questo senso l’arte di Frida Khalo
è narcisista in quanto ella si appropria di linguaggi comuni, di
“temi di nessuno” che, attraverso
una personalissima elaborazione
creativa se ne appropria, creando un proprio spazio di dominio;
effetto di una volontà di potenza
dell’artista che può solo se riservato da giudizi morali, senza tabù
o sensi di colpa. Narcisismo che
si traduce anche nella vita reale:
in componenti di approccio libero
alla sessualità, in atteggiamenti
e abbigliamenti che trasformano
Frida in una sorta di Dea pagana,
dedita alla Bellezza e alla Vita,
creando la sua propria immagine,
la sua leggenda.
Una pittura liscia, nitida e levigata che associa alla continua
combinazione tra forme umane
ed elementi animali (che derivano dall’immaginario azteco) un
connubio dalla sintesi del tutto
particolare con l’elemento tedesco, ovvero lo stile analista, dallo sguardo scettico e allucinato;
recuperando
il
repertorio
classicista, ovvero lo stile e
la
coscienza
dell’impersonale oggettività
del linguaggio
artistico, inteso come strumento, e mai
come fine (a
tal proposito si
concepisce la
totale assenza
di uno sforzo
sperimentale);
il linguaggio
diventa l’unica realtà su cui
costruire e ricostruire la pro-
pria immagine che, deturpata da
ogni soggettività (atteggiamento
del tutto palesato nei suoi ritratti
dallo sguardo distante, altezzoso,
assente) permette di giungere alla
percezione di una condizione esistenziale ”compatta e coerente”.
La tela è il riflesso della sua sofferenza; l’infermità il luogo dove
coltivare lo spirito; una condizione, quella fisica, perennemente
instabile e sofferente: dal gravoso
incidente (1925) che compromise
la condizione del suo apparato
osseo: situazione precaria che la
portò a compiere ripetuti interventi chirurgici: dall’utilizzo di
un bustino d’acciaio (a cui dedicò
il dipinto della colonna spezzata),
a svariati problemi di circolazione che portarono all’amputazione
della gamba destra. Condizione
questa, in cui la cognizione del
dolore feconda l’atto del dipingere.
UNITA’ DI CLASSE E’ L’ORGANO DI STAMPA DEL
PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI
ABBANDONA LE ILLUSIONI, UNISCITI ALLA LOTTA!!
CONTATTACI sUL SITO
TRAMITE E-MAIL
www.pclavoratori.it
[email protected]
1-C. Brook, Art dossier, Giunti, 2007
2-H. Herrera, Frida, La tartaruga edizioni, 1993
3-J-M G. Le Clézio, Il saggiatore, 2008
4-H. Herrera, Frida, La tartaruga edizioni, 1993