Leon Battista Alberti DE PICTURA Leon Battista Alberti

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Leon Battista Alberti DE PICTURA Leon Battista Alberti
Leon Battista Alberti
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DE PICTURA
Leon Battista Alberti
DE PICTURA
PROLOGUS
AD JOHANNEM FR ANCISCUM ILLUSTRISSIMUM
PRINCIPEM MANTUANUM
[A FILIPPO BRUNELLESCHI]
Hos de pictura libros, princeps illustrissime, dono ad te deferri iussi quod
intelligebam te maximum in modum his ingenuis artibus delectari, quibus quidem
quantum ingenio et industria luminis et doctrinae attulerim ex libris ipsis, cum eos per
otium legeris, intelliges. Etenim cum ita pacatam et bene tua virtute constitutam
civitatem habeas ut otium tibi quod a republica vacans litterarum studiis tua pro
consuetudine tribuas interdum non desit, futurum spero ut pro tua solita humanitate,
qua non minus quam armorum gloria litterarumque peritia caeteros omnes principes
longe exuperas, libros nostros minime negligendos ducas. Nam esse eos eiusmodi
intelliges ut quae in illis tractentur cum arte ipsa auribus eruditis digna tum rei
novitate facile delectare studiosos queant. Sed de libris hactenus. Mores meos
doctrinamque si qua est et omnem vitam tum maxime poteris cognoscere cum dederis
operam ut possim, prout mea fert voluntas, apud te esse. Denique putabo tibi op us
non displicuisse ubi me tibi deditissimum voles annumerare inter familiares tuos et
non in postremis commendatum habere.
Io solea maravigliarmi insieme e dolermi che tante ottime e divine arti e scienze,
quali per loro opere e per le istorie veggiamo copiose erano in que' vertuosissimi
passati antiqui, ora così siano mancate e quasi in tutto perdute: pittori, scultori,
architetti, musici, ieometri, retorici, auguri e simili nobilissimi e maravigliosi intelletti
oggi si truovano rarissimi e poco da lodarli. Onde stimai fusse, quanto da molti
questo così essere udiva, che già la natura, maestra delle cose, fatta antica e stracca,
più non producea come né giuganti così né ingegni, quali in que' suoi quasi giovinili e
più gloriosi tempi produsse, amplissimi e maravigliosi. Ma poi che io dal lungo
essilio in quale siamo noi Alberti invecchiati, qui fui in questa nostra sopra l'altre
ornatissima patria ridutto, compresi in molti ma prima in te, Filippo, e in quel nostro
amicissimo Donato scultore e in quegli altri Nencio e Luca e Masaccio, essere a ogni
lodata cosa ingegno da non posporli a qual si sia stato antiquo e famoso in queste arti.
Pertanto m'avidi in nostra industria e diligenza non meno che in benificio della natura
e de' tempi stare il potere acquistarsi ogni laude di qual si sia virtù. Confessoti sì a
quegli antiqui, avendo quale aveano copia da chi imparare e imitarli, meno era
difficile salire in cognizione di quelle supreme arti quali oggi a noi sono
faticosissime; ma quinci tanto più el nostro nome più debba essere maggi ore, se noi
sanza precettori, senza essemplo alcuno, troviamo arti e scienze non udite e mai
vedute. Chi mai sì duro o sì invido non lodasse Pippo architetto vedendo qui struttura
sì grande, erta sopra e' cieli, ampla da coprire con sua ombra tutti e' popoli toscani,
fatta sanza alcuno aiuto di travamenti o di copia di legname, quale artificio certo, se
io ben iudico, come a questi tempi era incredibile potersi, così forse appresso gli
antichi fu non saputo né conosciuto? Ma delle tue lodi e della virtù del nostro Donato,
insieme e degli altri quali a me sono per loro costumi gratissimi, altro luogo sarà da
recitarne. Tu tanto persevera in trovare, quanto fai di dì in dì, cose per quali il tuo
ingegno maraviglioso s'acquista perpetua fama e nome, e se in tempo t'accade ozio,
mi piacerà rivegga questa mia operetta de pictura quale a tuo nome feci in lingua
toscana. Vederai tre libri: el primo, tutto matematico, dalle radici entro dalla natura fa
sorgere questa leggiadra e nobilissima arte. El secondo libro pone l'arte in mano allo
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sorgere questa leggiadra e nobilissima arte. El secondo libro pone l'arte in mano allo
artefice, distinguendo sue parti e tutto dimostrando. El terzo instituisce l'artefice quale
e come possa e debba acquistare perfetta arte e notizia di tutta la pittura. Piacciati
adunque leggermi con diligenza, e se cosa vi ti par da emendarla, correggimi. Niuno
scrittore mai fu sì dotto al quale non fussero utilissimi gli amici eruditi; e io in prima
da te desidero essere emendato per non essere morso da' detrattori.
LIBRO PRIMO
LIBER I
1. Scrivendo de pictura in questi brevissimi coment ari, acciò che 'l nostro dire sia
ben chiaro, piglieremo dai matematici quelle cose in prima quale alla nostra matera
apartengano; e conosciutole, quanto l'ingegno ci porgerà, esporremo la pittura dai
primi principi della natura. Ma in ogni nostro favellare molto priego si consideri me
non come matematico ma come pittore scrivere di queste cose. Quelli col solo
ingegno, separata ogni matera, mesurano le forme delle cose. Noi, perché vogliamo le
cose essere poste da vedere, per questo useremo quanto dicono più grassa Minerva, e
bene stimeremo assai se in qualunque modo in questa certo difficile e da niuno altro
che io sappi descritta matera, chi noi leggerà intenderà. Adunque priego i nostri detti
sieno come da solo pittore interpretati.
1. De pictura his brevissimis commentariis conscripturi, quo clarior sit nostra
oratio, a mathematicis ea primum, quae ad rem pertinere videbuntur, accipiemus.
Quibus quidem cognitis, quoad ingenium suppeditabit, picturam ab ipsis naturae
principiis exponemus. Sed in omni nostra oratione spectari illud vehementer peto non
me ut mathematicum sed veluti pictorem hisce de rebus loqui. Illi enim solo ingenio,
omni seiuncta materia, species et formas rerum metiuntur. Nos vero, quod sub
aspectu rem positam esse volumus, pinguiore idcirco, ut aiunt, Minerva scribendo
utemur. Ac recte quidem esse nobiscum actum arbitrabimur si quoquo pacto in hac
plane difficile et a nemine quod viderim alio tradita litteris materia, nos legentes
intellexerint. Peto igitur nostra non ut puro a mathematico sed veluti a pictore tantum
scripta interpretentur.
2. Dico in principio dobbiamo sapere il punto essere segno quale non si possa
dividere in parte. Segno qui appello qualunque cosa stia alla superficie per modo che
l'occhio possa vederla. Delle cose quali non possiamo vedere, neuno nega nulla
apartenersene al pittore. Solo studia il pittore fingere quello si vede. E i punti, se in
ordine costati l'uno all'altro s'agiungono, crescono una linea. E apresso di noi sarà
linea segno la cui longitudine si può dividere, ma di larghezza tanto sarà sottile che
non si potrà fendere. Delle linee alcuna si chiama dritta, alcuna flessa. La linea ritta
sarà da uno punto ad un altro dritto tratto in lungo segno. La flessa linea sarà da uno
punto ad un altro non dritto, ma come uno arco fatto segno. Più linee, quasi come
nella tela più fili accostati, fanno superficie. Ed è superficie certa parte estrema del
corpo, quale si conosce non per la sua alcuna profondità, ma solo per sua longitudine
e latitudine e per sue ancora qualità. Delle qualità alcune così stanno perpetue alla
superficie che, se non alteri la superficie, nulla indi possano muoversi. Altre sono
qualità tali, che rimanendo il medesimo essere della superficie, pur così giaciono a
vederle che paiono a chi le guarda mutate. Le qualità perpetue sono due. L'una si
conosce per quello ultimo orlo quale chiuda la superficie, e sarà questo orlo chiuso
d'una o di più linee. Sarà una la circulare; saranno più come una flessa e una retta, o
insieme più dritte linee. Sarà circulare quella quale inchiude uno circolo. Sarà circolo
forma di superficie quale una intera linea quasi come una ghirlanda l'avvolge; e se qui
2. Itaque principio novisse oportet punctum esse signum, ut ita loquar, quod
minime queat in partes dividi. Signum hoc loco appello quicquid in superficie ita insit
ut possit oculo conspici. Quae vero intuitum non recipiunt, ea nemo ad pictorem nihil
pertinere negabit. Nam ea solum imitari studet pictor quae sub luce videantur. Puncta
quidem si continenter in ordine iungantur lineam extendent. Erit itaque apud nos linea
signum cuius longitudo sane in partes dividi possit, sed erit usque adeo latitudine
tenuissima ut nusquam findi queat. Linearum alia recta dicitur, alia flexa. Recta linea
est signum a puncto ad punctum directe in longum protensum. Flexa ea est quae a
puncto ad punctum non recto gressu sed facto sinu fluxerit. Lineae plures quasi fila in
tela adacta si cohaereant, superficiem ducent. Est namque superficies extrema
corporis pars quae non profunditate aliqua sed latitudine tantum longitudineque atque
perinde suis qualitatibus cognoscatur. Qualitatum aliae ita superficiei inhaerent ut
prorsus nisi alterata superficie minime semoveri aut seiungi queant. Aliae vero
qualitates huiusmodi sunt, ut eadem facie superficiei manente, ita sub aspectu tamen
iaceant, ut superficies visentibus alterata esse videatur. Perpetuae autem
superficierum qualitates geminae sunt. Una quidem quae per extremum illum
ambitum quo superficies clauditur notescat, quem quidem ambitum nonnulli
horizontem nuncupant; nos, si liceat, latino vocabulo similitudine quadam appellamus
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forma di superficie quale una intera linea quasi come una ghirlanda l'avvolge; e se qui
in mezzo sarà uno punto, qualunque linea da questo punto sino alla ghirlanda sarà
d'una mensura all'altre equale, e questo punto in mezzo si chiama centrico. Quella
linea dritta, la quale coprirà il punto e taglierà in due luoghi il circolo, si dice
appresso de' matematici diamitro. Noi giovi chiamarla centrica. E qui sia da'
matematici persuaso quanto essi dicono, che niuna linea segna alla ghirlanda del
circolo angoli equali se non quella una quale dritta cuopra il centro.
horizontem nuncupant; nos, si liceat, latino vocabulo similitudine quadam appellamus
oram aut, dum ita libeat, fimbriam. Eritque et ipsa fimbria aut unica ilnea aut pluribus
lineis perfinita, unica ut circulari, pluribus ut altera flexa altera recta, aut etiam quae
pluribus rectis aut pluribus flexis lineis ambiatur. Circularis quidem linea est ipsa
fimbria quae totum circulum continet. Circulus vero est forma superficiei quam linea
veluti corona obambit, quod si in medio aderit punctus, omnes radii ab hoc ipso
puncto directe ad coronam ducti longitudine inter se equales sunt. Ac is idem medius
punctus centrum circuli dicitur. Linea idcirco recta quae bis coronam circuli secuerit
perque centrum recta ibit, ea diameter circuli apud mathematicos vocatur. Nos hanc
ipsam nominemus centricam. Sitque hoc apud nos loco ab ipsis mathematicis
persuasum quod aiunt lineam nullam aequos angulos a corona circuli signare nisi
quae recta ipsum centrum attingat.
3. Ma torniamo alla superficie. Qui vedi che mutato l'andare dell'orlo la superficie
muta e faccia e nome, e quello si dicea triangolo ora si dirà quadrangolo o di più
canti. Dicesi mutato l'orlo se le linee o vero gli angoli saranno più o meno, più lunghi,
più corti, più acuti o più ottusi. Questo luogo ammonisce si dica degli angoli. Dico
angolo essere certa estremità di superficie, fatto da due linee quali l'una l'altra seghi.
Sono tre generi d'angoli: retto, ottuso, acuto. L'angolo retto sarà uno de' quattro fatti
da due rette linee ove l'una sega l'altra in modo che di loro ciascuno sia equale
all'altro. Di qui si dice che tutti gli angoli retti sono a sé equali. L'angolo ottuso è
quello che sia maggiore che il retto, e quello che sia minore che il retto si chiama
acuto.
3. Sed ad superficies redeamus. Ex his enim quae recensui facile intelligi potest
ut, tractu fimbriae immutato, ipsa superficies et faciem et nomen quoque pristinum
perdat, atque quae triangulus fortasse dicebatur nunc tetrangulus aut plurium deinceps
angulorum nuncupabitur. Dicetur quidem fimbria mutata si lineae aut anguli non
modo plures sed obtusiores longioresve vel acutiores brevioresve quoquo pacto fiant.
Is locus admonet ut de angulis nonnihil recenseamus. Est enim angulus extremitas
superficiei a duabus lineis se invicem secantibus confectus. Angulorum tria sunt
genera: rectum, obtusum atque acutum. Angulus rectus unus est ex quattuor angulis
qui a duabus rectis lineis sese mutuo secantibus ita conscribitur ut cuivis reliquorum
trium sit aequalis. Hinc est quod aiunt omnes recti anguli inter se sunt aequales.
Obtusus angulus est qui recto maior est. Acutus is est qui recto minor est.
4. Ancora ritorniamo alle superficie. Sia persuaso, quanto all'orlo sue linee e
angoli non si mutano, tanto sarà medesima superficie. Abbiamo adunque mostro una
qualità che mai si parte datorno dalla superficie. Abbiamo a dire dell'altra qualità
quale sta quasi come buccia sopra tutto il dosso della superficie. Questa si divide in
tre. Sono alcune superficie piane, alcune cavate in dentro, alcune gonfiate fuori e
sperice; e a questa agiugni la quarta quale sia composta da due di queste. La
superficie piana sarà quella quale, sopra trattoli uno regolo diritto, ad ogni parte se
l'acosterà; a questa molto sta simile la superficie dell'acqua. Sperica superficia
s'assomiglia al dosso della spera. Dicono la spera essere uno corpo ritondo, volubile
in ogni parte, in cui mezzo siede uno punto, dal quale punto qual si sia parte estrema
di quel corpo all'altre simile sia distante. La superficie cavata sarà dentro, sotto
l'ultimo estremo della superficie, sperica, quasi come drento il guscio dell'uovo. La
superficie composta sarà quella che per uno verso sia piana, per un altro verso sia
cavata o sperica, qual sono drento i cannoni e di fuori le colonne.
4. Iterum ad superficiem redeamus. Docuimus quo pacto una per fimbriam
qualitas superficiei inhaereat. Sequitur ut altera superficierum qualitas referatur, quae
est, ut ita loquar, tamquam cutis per totum superficiei dorsum distenta. Ea in tres
divisa est, nam alia uniformis et plana, alia tuberosa et sphaerica, alia incurva et
concava dicitur. Quarto loco his addendae sunt superficies quae ex duabus harum
superficierum compositae sunt. De his postea. Nunc de primis: plana superficies ea
est quam in quavis parte sui recta superducta regula aeque contingat. Huic persimilis
erit superficies purissimae aquae. Sphaerica superficies dorsum sphaerae imitatur.
Sphaeram diffiniunt corpus rotundum in omnes partes volubile cuius in medio
punctus inest a quo extremae omnes illius corporis partes aeque distant. Concava
superficies ea est quae interius extremum sub ultima, ut ita dixerim, cute sphaerae
subiacet, ut sunt in textis ovorum intimae superficies. Composita vero superficies ea
est quae una dimensione planitiem, altera aut concavam aut sphaericam superficiem
imitetur, quales sunt interiores fistularum et exteriores columnarum superficies.
5. Adunque l'orlo e dorso danno suoi nomi alle superficie. Ma le qualità per le
quali, non alterata la superficie né mutatoli suo nome, pure possono parere alterate,
sono due, quali pigliano variazione per mutazione del luogo o de' lumi. Diciamo
5. Itaque et ambitu et dorso inhaerentes qualitates cognomenta superficiebus, ut
diximus, imposuerunt. At vero qualitates quae non alterata superficie non tamen
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sono due, quali pigliano variazione per mutazione del luogo o de' lumi. Diciamo
prima del luogo, poi de' lumi, e investighiamo in che modo per questo le qualità alla
superficie paiano mutate. Questo s'apartiene alla forza del vedere, imperò che mutato
il sito le cose parranno o maggiori o d'altro orlo o d'altro colore, quali tutte cose
misuriamo col vedere. Cerchiamo a queste sue ragioni cominciando dalla sentenza de'
filosafi, i quali affermano misurarsi le superficie con alcuni razzi quasi ministri al
vedere, chiamati per questo visivi, quali portino la forma delle cose vedute al senso. E
noi qui imaginiamo i razzi quasi essere fili sottilissimi da uno capo quasi come una
mappa molto strettissimi legati dentro all'occhio ove siede il senso che vede, e quivi
quasi come tronco di tutti i razzi quel nodo estenda drittissimi e sottilissimi suoi
virgulti per insino alla opposita superficie. Ma fra questi razzi si truova differenza
necessaria a conoscere. Sono loro differenze quanto alla forza e quanto all'officio.
Alcuni di questi razzi giugnendo all'orlo delle superficie misurano sue tutte quantità.
Adunque perché così cozzano l'ultime ed estreme parti della superficie, nominiàlli
estremi o vuoi estrinsici. Altri razzi da tutto il dorso della superficie escono sino
all'occhio, e questi hanno suoi offici, però che da que' colori e que' lumi accesi dai
quali la superficie splende, empiono la pirramide della quale più giù diremo al suo
luogo: e questi così si chiamino razzi mediani. Ecci fra i razzi visivi uno detto
centrico. Questo, quando giugne alla superficie, fa di qua e di qua torno a sé angoli
retti ed equali. Dicesi centrico a similitudine di quella sopradetta centrica linea.
Adunque abbiamo trovato tre differenze di razzi: estremi, mediani e centrici.
diximus, imposuerunt. At vero qualitates quae non alterata superficie non tamen
semper eundem aspectum exhibent, duae item sunt, nam aut loco aut luminibus
mutatis tamen variatae intuentibus videntur. De loco prius dicendum, postea de
luminibus. Ac perscrutendum quidem est quonam pacto mutato loco ipsae superficiei
inhaerentes qualitates immutatae esse videantur. Equidem haec ad vim oculorum
spectant. Nam situ mutato aut maiores aut omnino non eiusdem quam hactenus
fuerant fimbriae, aut item colore fraudatae superficies appareant necesse est, quas res
omnes intuitu metimur. Id quidem qua ratione fiat perscrutemur, exordiamurque a
philosophorum sententia, qui metiri superficies affirmant radiis quibusdam quasi
visendi ministris, quos idcirco visivos nuncupant, quod per eos rerum simulacra
sensui imprimantur. Nam ipsi idem radii inter oculum atque visam superficiem intenti
suapte vi ac mira quadam subtilitate pernicissime congruunt, aera corporaque
huiusmodi rara et lucida penetrantes quoad aliquod densum vel opacum offendant,
quo in loco cuspide ferientes e vestigio haereant. Verum non minima fuit apud
priscos disceptatio a superficie an ab oculo ipsi radii erumpant. Quae disceptatio sane
difficilis atque apud nos admodum inutilis pretereatur. Ac imaginari quidem deceat
radios, quasi fila quaedam distenta et prorsus tenuissima uno capite quasi in
manipulum arctissime colligata, una simul per oculum interius, ubi sensus visus
consideat, recipi, quo loco non secus atque truncus radiorum adstent, a quo quidem
exeuntes in longum laxati radii veluti rectissima virgulta ad oppositam superficiem
effluant. Sed hos inter radios nonnulla differentia est quam tenuisse pernecessarium
arbitror. Differunt quidem viribus et officio, nam alii fimbrias superficierum
contingentes totas quantitates superficiei metiuntur. Hos autem, quod ultimas partes
superficiei libando volitant, extrinsecos radios appellemus. Alii quidem radii ab omni
dorso superficiei seu recepti seu fluentes, intra eam pyramidem, de qua paulo post suo
loco dicemus, suum quoque officium peragunt, nam coloribus et luminibus imbuuntur
iisdem quibus ipsa superficies refulgeat. Hos ergo medios radios nuncupemus. Est
quoque ex radiis mediis quidam qui similitudine quadam centricae de qua supra
diximus lineae, dicatur centricus, quod in superficie ita perstet ut circa se aequales
utrinque angulos reddat. Itaque tres radiorum species repertae sunt: extremorum,
mediorum et centrici.
6. Ora investighiamo quanto ciascuno razzo s'adoperi al vedere. Prima diremo
degli estremi, poi de' mezzani, e ivi apresso del centrico. Coi razzi estremi si
misurano le quantità. Quantità si chiama ogni spazio super la superficie qual sia da
uno punto dell'orlo all'altro. E misura l'occhio queste quantità con i razzi visivi quasi
come con un paio di seste. E sono in ogni superficie tante quantità quanti sono spazi
tra punto e punto, però che l'altezza dal basso in su, la larghezza da man destra a
sinistra, la grossezza tra presso e lunge e qualunque altra dimensione vel misurazione
si faccia guatando, a quella s'adopera questi razzi estremi. Onde si suole dire che al
vedere si fa triangolo, la base del quale sia la veduta quantità e i lati sono questi razzi,
i quali dai punti della quantità si estendono sino all'occhio. Ed è certissimo niuna
quantità potersi sanza triangolo vedere. Gli angoli in questo triangolo visivo sono
prima i due punti della quantità; il terzo, quale sia opposto alla base, sta drento
6. Perscrutemur igitur quid quique radii ad visendum conferant; ac primo de
extremis, postea de mediis, tum de centrico dicendum erit. Radiis quidem extremis
quantitates metiuntur. Est enim quantitas spatium inter duo disiuncta puncta fimbriae
transiens per superficiem, quod oculus quasi circino quodam instrumento his extremis
radiis metitur. Suntque tot in superficie quantitates quot sunt disiuncta in fimbria sese
correspicientia puncta; nam cum proceritatem quae ni ter supremum et infimum, seu
latitudinem quae inter dextrum et sinistrum, seu crassitudinem quae inter propinquius
et remotius, seu caeteras quasvis dimensiones aspectu recognoscimus, his tantum
radiis extremis utimur. Ex quo illud dici solitum est visum per triangulum fieri cuius
basis visa quantitas cuiusve latera sunt iidem ipsi radii qui a punctis quantitatis ad
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prima i due punti della quantità; il terzo, quale sia opposto alla base, sta drento
all'occhio. Sono qui regole: quanto all'occhio l'angolo sarà acuto, tanto la veduta
quantità parrà minore. Di qui si conosce qual cagione facci una quantità molto
distante quasi parere non maggiore che uno punto. E benché così sia, pure si truova
alcuna quantità e superficia di quale, quanto più li sia presso, meno ne vedi, e da
lunge ne vegga molto più parte. Vedesi di questo pruova nel corpo sperico. Adunque
le quantità per la distanza paiono maggiori e minori. E chi ben gusta quello che detto
è, credo intenda come mutato l'intervallo i razzi estrinsici divenghino mediani, e così
i mediani estrinsici; e intenderà, dove i mediani razzi sieno fatti estrinsici, subito
quella quantità parere minore, e contrario, quando i razzi estremi saranno dentro
all'orlo adiritti, quanto più distanti dall'orlo, tanto parrà la veduta quantità maggiore.
basis visa quantitas cuiusve latera sunt iidem ipsi radii qui a punctis quantitatis ad
oculum protenduntur. Ac illud quidem certissimum est nisi per hunc ipsum
triangulum quantitatem nullam videri. Latera ergo trianguli visivi patent. Anguli
quidem in hoc ipso triangulo duo sunt alterutra illa quantitatis capita; tertius vero
angulus est is qui basi oppositus intra oculum consistit. Neque hoc loco disputandum
est utrum in ipsa iunctura interioris nervi visus, ut aiunt, quiescat, an in superficie
oculi quasi in speculo animato imagines figurentur. Sed nec omnia quidem oculorum
ad visendum hoc munera referenda sunt. Satis enim erit his commentariis succinte
quae ad rem pernecessaria sint demonstrasse. Cum igitur in oculo consistat angulus
visivus, regula deducta est haec: quo videlicet acutior sit in oculo angulus, eo
quantitatem breviorem apparere. Ex quo plane discitur cur sit quod multo intervallo
quantitas ad punctum usque extenuata esse videatur. Verum haec cum ita sint, fit
tamen nonnullis superficiebus ut quo illi propinquior sit visentis oculus eo minorem,
quo remotior eo longe plurimam superficiei partem videat. Quod in sphaerica
superficie ita esse discitur. Quantitates ergo pro intervallo minores ac maiores
intuentibus nonnunquam videntur. Cuius rei qui probe rationem tenuerit minime
dubitabit medios aliquos radios aliquando fieri extremos extremosque intervallo
mutato item fieri medios; atque idcirco intelliget ubi medii radii sint facti extremi,
illico quantitatem breviorem apparere, contraque cum extremi radii intra fimbriam
recipiantur, quo magis a fimbria distent, eo maiorem quantitatem videri.
7. Qui soglio io appresso ad i miei amici dare sim ile regola: quanto a vedere più
razzi occupi, tanto ti pare quel che si vede maggiore, e quanto meno razzi, tanto
minore. E questi razzi estrinsici così circuendo la superficie che l'uno tocchi l'altro,
chiuggono tutta la superficie quasi come vetrici ad una gabbia, e fanno quanto si dice
quella pirramide visiva. Adunque mi pare da dire che cosa sia pirramide, e a che
modo sia da questi razzi construtta. Noi la discriveremo a nostro modo. La pirramide
sarà figura d'uno corpo dalla cui base tutte le linee diritte tirate su terminano ad uno
solo punto. La basa di questa pirramide sarà una superficie che si vede. I lati della
pirramide sono quelli razzi i quali io chiamai estrinsici. La cuspide, cioè la punta
della pirramide, sta drento all'occhio quivi dov'è l'angulo delle quantità. Sino a qui
dicemmo dei razzi estrinsici dai quali sia conceputa la pirramide, e parmi provato
quanto differenzi una più che un'altra distanza tra l'occhio e quello che si vegga.
Seguita a dire dei razzi mediani quali sono quella moltitudine nella pirramide dentro
ai razzi estrinsici; e questi fanno quanto si dice il cameleone, animale che piglia
d'ogni a sé prossima cosa colore, imperò che da dove toccano le superficie perfino
all'occhio, così pigliano colori e lume qual sia alla superficie, che dovunque li
rompesse, per tutto li troveresti per uno modo luminati e colorati. E di questo si
pruova che per molta distanza indebiliscono. Credo ne sia ragione che, carichi di
lume e di colore, trapassano l'aere quale, umido di certa grassezza, stracca i carichi
razzi. Onde traemmo regola: quanto maggiore sarà la distanza, tanto la veduta
superficie parrà più fusca.
7. Hic solitus sum apud familiares regulam exponere: quo plures radiorum
videndo occupentur, eo quantitatem prospectam grandiorem existimari; quo autem
pauciores, eo minorem. Caeterum ii radii extremi dentatim universam fimbriam
superficiei comprehendentes ipsam totam superficiem quasi cavea circumducunt.
Unde illud aiunt visum per pyramidem radiosam fieri. Dicendum idcirco est pyramis
quid sit, quove pacto ea radiis construatur. Eam nos nostra Minerva describamus.
Pyramis est figura corporis oblongi ab cuius basi omnes lineae rectae sursum
protractae ad unicam cuspidem conterminent. Basis pyramidis visa superficies est,
latera pyramidis radii ipsi visivi quos extrinsecos nuncupari diximus. Cuspis
pyramidis illic intra oculum considet, ubi in unum anguli quantitatum in triangulis
conveniunt. Hactenus de extrinsecis radiis ex quibus pyramis concipitur, qua omni ex
ratione constat multum interesse quae intervalla inter superficiem et oculum
interiaceant. Sequitur ut de mediis radiis dicendum sit. Radii medii sunt ea multitudo
radiorum quae ab radiis extrinsecis septa intra pyramidem continetur. Atque hi
quidem radii id agunt quod aiunt camaleonta animal et huiusmodi feras metu
conterritas solere propinquarum rerum colores suscipere ne a venatoribus facile
reperiantur. Hoc ipsum medii radii exequuntur, nam a contactu superficiei usque ad
cuspidem pyramidis toto tractu ita colorum et luminum reperta varietate inficiuntur,
ut quovis loco rumperentur, eodem loco ipsum inhaustum lumen atque eundem
colorem expromerent. Ac de his mediis radiis re primum ipsa cognitum est eos multo
intervallo deficere aciemque hebetiorem agere. Demum id cur ita sit ratio reperta est,
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intervallo deficere aciemque hebetiorem agere. Demum id cur ita sit ratio reperta est,
nam cum iidem ceterique omnes radii visivi luminibus et coloribus imbuti atque
graves aerem pervadant sitque aer ipse nonnulla crassitudine suffusus, fit ut multa
pars oneris, dum aerem perterebrant, fessis radiis deficiat. Idcirco recte aiunt quo
maior distantia sit, eo superficiem subobscuriorem et magis fuscam videri.
8. Restaci a dire del razzo centrico. Sarà centrico razzo quello uno solo, quale sì
cozza la quantità che di qua e di qua ciascuno angolo sia all'altro equale. Questo uno
razzo, fra tutti gli altri gagliardissimo e vivacissimo, fa che niuna quantità mai pare
maggiore che quando la ferisce. Potrebbesi di questo razzo dire più cose, ma basti che
questo uno, stivato dagli altri razzi, ultimo abandona la cosa veduta; onde merito si
può dire prencipe de' razzi. Parmi avere dimostrato assai che, mutato la distanza e
mutato il porre del razzo centrico, subito la superficie parrà alterata. Adunque la
distanza e la posizione del centrico razzo molto vale alla certezza del vedere. Ecci
ancora una terza qual facci parere la superficie variata. Questo viene dal ricevere il
lume. Vedesi nelle superficie speriche e concave, sendo ad uno lume, hanno questa
parte oscura e quella chiara; e bene che sia quella medesima distanza e posizione di
centrica linea, ponendo il lume altrove vedrai quelle parti, quali prima erano chiare,
ora essere oscure, e quelle chiare quali erano oscure; e dove attorno fussino più lumi,
secondo loro numero e forza vedresti più macole di chiarore e di oscuro.
8. Restat ut de centrico radio dicamus. Centricum radium dicimus eum qui solus
ita quantitatem feriat ut utrinque anguli angulis sibi cohaerentibus respondeant.
Equidem et quod ad hunc centricum radium attinet verissimum est hunc esse omnium
radiorum acerrimum et vivacissimum. Neque negandum est quantitatem nunquam
maiorem videri quam cum centricus in eam radius institerit. Possent plura de centrici
radii vi et officio referri. Tantum hoc non praetermittatur, hunc unicum radium quasi
unita quadam congressione a caeteris radiis constipatum foveri, ut merito dux
radiorum plane ac princeps dici debeat. Reliqua vero, quae ad ostentandum ingenium
pertinuissent magis quam ad ea de quibus dicere instituimus, praetereantur. Multa
etiam de radiis suis locis accommodatius dicentur. Hoc autem loco sit, quantum
commentariorum brevitas postulat, satis ea retulisse ex quibus dubitet nemo hoc ita
esse quod quidem satis demonstratum put o: intervallo scilicet centricique radii
positione mutatis illico superficiem alteratam videri. Nam ea quidem aut minor aut
maior aut denique pro linearum et angulorum inter se concinnitate immutata
apparebit. Centrici ergo positio distantiaque ad certitudinem visus plurimum
conferunt. Est quoque tertium aliquid ex quo superficies difformes et variae
intuentibus exhibeantur. Id quidem est luminum receptio. Nam videre licet in
sphaerica atque concava superficie, si unicum tantum adsit lumen, una parte
subobscuram alia clariorem esse superficiem, ac eodem intervallo centricaque
positione pristina manente, modo ea ipsa superficies diverso quam prius lumine
subiaceat, videbis fuscas illic esse partes eas quae sub diverso antea lumine sitae
clarebant, atque esse easdem claras quae prius obumbratae erant. Tum etiam si plura
circumstent lumina, pro luminum numero et viribus variae suis locis maculae
candoris et obscuritatis micabunt. Haec res experimento ipso comprobatur.
9. Questo luogo m'amonisce a dire de' colori insieme e de' lumi. Parmi manifesto
che i colori pigliano variazione dai lumi, poi che ogni colore posto in ombra pare non
quello che è nel chiarore. Fa l'ombra il colore fusco, e il lume fa chiaro ove percuote.
Dicono i filosafi nulla potersi vedere quale non sia luminato e colorato. Adunque
tengono gran parentado i colori coi lumi a farsi vedere, e quanto sia grande vedilo,
che mancando il lume mancano i colori, e ritornando il lume tornano i colori.
Adunque parmi da dire prima de' colori, poi investigheremo come sotto il lume si
varino. Parliamo come pittore. Dico per la permistione de' colori nascere infiniti altri
colori, ma veri colori solo essere quanto gli elementi, quattro, dai quali più e più altre
spezie d colori nascono. Fia colore di fuoco il rosso, dell'aere celestrino, dell'acqua il
verde, e la terra bigia e cenericcia. Gli altri colori, come diaspri e porfidi, sono
permistione di questi. Adunque quattro sono generi di colori, e fanno spezie sue
secondo se gli agiunga oscuro o chiarore, nero o bianco, e sono quasi innumerabili.
9. Sed hic locus admonet ut de luminibus et coloribus aliqua referamus. Colores a
luminibus variari palam est, siquidem omnis color non idem conspectu est in umbra
ac sub radiis luminum positus. Nam umbra fuscum colorem, lumen vero clarum et
apertum exhibet. Dicunt philosophi posse videri nil quod ipsum non sit lumine
coloreque vestitum. Maxima idcirco inter colores et lumina cognatio est ad visum
agendum, quae quanta sit hinc intelligitur, quod lumine pereunte colores ipsi quoque
pereunt, redeunteque luce una et ipsi cum viribus luminum colores res taurantur. Quae
res cum ita sit, videndum est ergo de coloribus primo. Dehinc investigabimus
quemadmodum colores sub luminibus varientur. Missam faciamus illam
philosophorum disceptationem qua primi ortus colorum investigantur. Nam quid
iuvat pictorem novisse quonam pacto ex rari et densi aut ex calidi et sicci frigidi
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secondo se gli agiunga oscuro o chiarore, nero o bianco, e sono quasi innumerabili.
Veggiamo le fronde verzose di grado in grado perdere la verdura per insino che
divengono scialbe; simile in aere circa all'orizzonte non raro essere vapore
bianchiccio, e a poco a poco seguirsi perdendo. E nelle rose veggiamo ad alcune
molta porpora, alcune simigliarsi alle gote delle fanciulle, alcune allo avorio. E così la
terra secondo il bianco e 'l nero fa suo spezie di colore.
iuvat pictorem novisse quonam pacto ex rari et densi aut ex calidi et sicci frigidi
humidique permixtione color extet? Neque tamen eos philosophantes aspernandos
putem qui de coloribus ita disputant ut species colorum esse numero septem statuant:
album atque nigrum duo colorum extrema, unum quidem intermedium, tum inter
quodque extremum atque ipsum medium binos, quod alter plus altero de extremo
sapiat, quasi de limite ambigentes, collocant. Pictorem sane novisse sat est qui sint
colores et quibus in pictura modis iisdem utendum sit. Nolim a peritioribus redargui,
qui dum philosophos sectantur, duos tantum esse in rerum natura integros colores
asserunt, album et nigrum, caeteros autem omnes ex duorum permixtione istorum
oriri. Ego quidem ut pictor de coloribus ita sentio permixtionibus colorum alios oriri
colores paene infinitos, sed esse apud pictores colorum vera genera pro numero
elementorum quattuor, ex quibus plurimae species educantur. Namque est igneus, ut
ita loquar, color quem rubeum vocant, tum et aeris qui celestis seu caesius dicitur,
aquaeque color viridis; terra vero cinereum colorem habet. Caeteros omnes colores
veluti diaspri et porphyrii lapidis ex permixtione factos videmus. Genera ergo
colorum quattuor quorum pro albi et nigri admixtione sunt species admodum
innumerabiles. Narn videmus frondes virentes gradibus deserere viriditatem quoad
albescant. Idque ipsum videmus in ipso aere ut circa horizontem plerunque albente
vapore suffusus sensim ad proprium colorem redeat. Tum et in rosis hoc videmus ut
aliae plenam et incensam purpuram, aliae genas virgineas, aliae candidum ebur
imitentur. Terrae quoque color pro albi et nigri admixtione suas species habet.
10. Adunque la permistione del bianco non muta e' generi de' colori, ma ben fa
spezie. Così il nero colore tiene simile forza con sua permistione fare quasi infinite
spezie di colori. Vedesi dall'ombra i colori alterati: crescendo l'ombra s'empiono i
colori, e crescendo il lume diventano i colori più aperti e chiari. Per questo assai si
può persuadere al pittore che 'l bianco e 'l nero non sono veri colori, ma sono
alterazione degli altri colori, però che il pittore truova cosa niuna con la quale egli
ripresenti l'ultimo lustro de' lumi, altro che il bianco, e così solo il nero a dimostrare
le tenebre. Aggiugni che mai troverai bianco o nero, il quale non sia sotto qualcuno di
quelli quattro colori.
10. Non igitur albi permixtio genus colorum immutat sed species ipsas creat Cui
quidem persimilem vim niger color habet, nam nigri admixtione multae colorum
species oriuntur, quod quidem pulchre ex umbra qua ipse color alteratur patet,
siquidem crescente umbra coloris claritas et albedo deficit, lumine vero insurgente
clarescit et fit candidior. Ergo pictori satis persuaderi potest album et nigrum minime
esse veros colores sed colorum, ut ita dixerim, alteratores, siquidem nihil invenit
pictor quo ultimum luminis candorem referat praeter album solumque nigrum quo
ultimas tenebras demonstret. Adde his quod album aut nigrum nusquam invenies
quod ipsum non sub aliquo genere colorum sit.
11. Seguita de' lumi. Dico de' lumi alcuno essere dalle stelle, come dal sole, dalla
luna e da quell'altra bella stella Venere. Altri lumi sono dai fuochi. Ma tra questi si
vede molta differenza. Il lume delle stelle fa l'ombra pari al corpo, ma il fuoco le fa
maggiori. Rimane ombra dove i razzi de' lumi sono interrotti. I razzi interrotti o
ritornano onde vennono, o s'adirizzano altrove. Vedilo' adiritti altrove quando,
aggiunti alla superficie dell'acqua, feriscono i travi della casa. Circa a queste
reflessioni si potre' dire più cose, quali apartengono a quelli miracoli della pittura,
quali più miei compagni videro da me fatti altra volta in Roma. Ma basti qui che
questi razzi flessi seco portano quel colore quale essi truovano alla superficie. Vedilo
che chi passeggia su pe' prati al sole pare nel viso verzoso.
11. Sequitur de vi luminum. Lumina alia siderum ut solis et lunae et luciferae
stellae, alia lampadum et ignis. At inter haec magna differentia est, nam lumina
siderum admodum pares corporibus umbras referunt, ignis vero umbrae maiores
quam ipsa corpora sunt. Atqui fit umbra cum radii luminum intercipiuntur. Radii
intercepti aut alio flectuntur aut in se ipsos reciprocantur. Flectuntur veluti cum a
superficie aquae radii solis in lacunaria exiliunt, fitque omnis radiorum flexio angulis
inter se, ut probant mathematici, aequalibus. Sed haec ad aliam partem picturae
pertinent. Radii flexi eo colore imbuuntur quem in ea a qua flectuntur superficie
invenerint. Hoc ita videmus fieri cum facies perambulantium in pratis subvirides
apparent.
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12. Dicemmo sino a qui delle superficie; dicemmo de' razzi; dicemmo in che
modo vedendo si facci pirramide; provammo quanto facci la distanza e posizione del
razzo centrico, insieme e ricevere de' lumi. Ora, poi che ad uno solo guardare non
solo una superficie si vede ma più, investigheremo in che modo molte insieme giunte
si veggano. Vedesti che ciascuna superficie in sé tiene sua pirramide, colori e lumi.
Ma poi che i corpi sono coperti dalle superficie, tutte le vedute insieme superficie
d'uno corpo faranno una pirramide di tante minori pirramide gravida quanto in quello
guardare si vedranno superficie. Ma dirà qui alcuno: «Che giova al pittore cotanto
investigare?» Estimi ogni pittore ivi sé essere ottimo maestro, ove bene intende le
proporzioni e agiugnimenti delle superficie; qual cosa pochissimi conoscono, e
domandando in su quella quale e' tingono superficie che cosa essi cercano di fare,
diranti ogni altra cosa più a proposito di quello di che tu domandi. Adunque priego gli
studiosi pittori non si vergognino d'udirci. Mai fu sozzo imparare da chi si sia cosa
quale giovi sapere. E sappiano che <quando> con sue linee circuiscono la superficie,
e quando empiono di colori e' luoghi descritti, niun'altra cosa cercarsi se non che in
questa superficia si representino le forme delle cose vedute, non altrimenti che se essa
fusse di vetro tralucente tale che la pirramide visiva indi trapassasse, posto una certa
distanza, con certi lumi e certa posizione di centro in aere e ne' suoi luoghi alt rove.
Qual cosa così essere, dimostra ciascuno pittore quando sé stessi da quello dipigne sé
pone a lunge, dutto dalla natura, quasi come ivi cerchi la punta e angolo della
pirramide, onde intende le cose dipinte meglio remirarsi. Ma ove questa sola
veggiamo essere una sola superficie, o di muro o di tavola, nella quale il pittore studia
figurare più superficie comprese nella pirramide visiva, converralli in qualche luogo
segare a traverso questa pirramide, a ciò che simili orli e colori con sue linee il pittore
possa dipignendo espriemere. Qual cosa se così è quanto dissi, adunque chi mira una
pittura vede certa intersegazione d'una pirramide. Sarà adunque pittura non altro che
intersegazione della pirramide visiva, sicondo data distanza, posto il centro e
constituiti i lumi, in una certa superficie con linee e colori artificiose representata.
apparent.
12. Dixi ergo de superficiebus. Dixi de radiis. Dixi quo pacto visendo ex
triangulis coaedificetur pyramis. Probavimus quam maxime intersit intervallum
centricique radii positionem ac luminum receptionem certam esse. Verum cum uno
aspectu non unam modo sed et plurimas quoque superficies intueamur, posteaquam
de singulis superficiebus non omnino ieiune conscripsimus, nunc investigandum est
quemadmodum coniunctae sese superficies efferant. Singulae quidem superficies, ut
docuimus, propria pyramide suis coloribus et luminibus referta gaudent. Quod cum ex
superficiebus corpora integantur, totae corporum prospectae quantitates unicam
pyramidem referent tot minutis pyramidibus gravidam quot eo prospectu superficies
radiis comprehendantur. Haec cum ita sint, dicet tamen quispiam quid tanta indagatio
pictori ad pingendum afferet emolumenti. Nempe ut intelligat se futurum artificem
plane optimum ubi optime superficierum discrimina et proportiones notarit, quod
paucissimi admodum noverunt. Nam si rogentur quid in ea quam tingunt superficie
conentur assequi, omnia rectius possunt quam quid ita studeant respondere. Quare
obsecro nos audiant studiosi pictores. Quae enim didicisse iuvabit, ea a quovis
praeceptore discere nunquam fuit turpe. Ac discant quidem dum lineis circumeunt
superficiem, dumque descriptos locos implent coloribus, nihil magis queri quam ut in
hac una superficie plures superficierum formae repraesententur, non secus ac si
superficies haec, quam coloribus operiunt, esset admodum vitrea et perlucida
huiusmodi ut per eam tota pyramis visiva permearet certo intervallo certaque centrici
radii et luminis positione cominus in aere suis locis constitutis. Quod ipsum ita esse
demonstrant pictores dum sese ab eo quod pingunt ammovent longiusque consistunt
natura duce cuspidem pyramidis quaeritantes unde omnia rectius concerni intelligunt.
Sed cum haec sit unica seu tabulae seu parietis superficies in quam pictor plures una
pyramide comprehensas superficies studet effingere, necesse est aliquo loco sui
pyramidem visivam perscindi, ut istic quales fimbrias et colores intercisio dederit,
tales pictor lineis et pingendo exprimat. Quae res cum ita sit, pictam superficiem
intuentes intercisionem quandam pyramidis videre videntur. Erit ergo pictura
intercisio pyramidis visivae secundum datum intervallum posito centro statutisque
luminibus in datam superficiem lineis et coloribus arte repraesentata.
13. Ora poi che dicemmo la pittura essere intercisione della pirramide, convienci
investigare qualunque cosa a noi faccia questa intersegazione conosciuta. Convienci
avere nuovo principio a ragionare delle superficie, dalle quali dicemmo che la
pirramide usciva. Dico delle superficie alcuna essere in terra riversa e giacere, come i
pavimenti e i solari degli edifici e ciascuna superficia quale equalmente da questa sia
distante. Altre stanno apoggiate in lato, come i pareti e l'altre superficie collineari ad i
pareti. Le superficie equalmente fra sé distanti saranno, quando la distanza fra l'una e
l'altra in ciascuna sua parte sarà equale. Collineari superficie saranno quelle, quali una
diritta linea in ogni parte equalmente toccherà, come sono le faccie de' pilastri quadri
posti ad ordine in uno portico. E sono queste cose da essere aggiunte a quelle quali di
sopra dicemmo alle superficie. E a quelle cose quali dicemmo de' razzi intrinsici,
13. Iam vero, quoniam picturam diximus esse intercisionem pyramidis, omnia
idcirco perscrutanda sunt ex quibus nobis intercisio sit notissima. Nobis ergo
novissimus sermo habendus est de superficiebus a quibus pyramides pictura
intercidendas manare demonstratum est. Superficierum aliae prostratae iacent ut
pavimenta aedificiorum et caeterae superficies aeque a pavimento distantes, aliae in
latus incumbunt ut sunt parietes et caeterae superficies parietibus collineares. Inter se
autem aeque distare superficies dicuntur cum intermedia inter eas distantia omni loco
eadem est. Collineares superficies illae sunt quas eadem continuata recta linea omni
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sopra dicemmo alle superficie. E a quelle cose quali dicemmo de' razzi intrinsici,
estrinsici e centrici, e a quelle dicemmo della pirammide, aggiugni la sentenza de'
matematici, onde si pruova che, se una dritta linea taglia due lati d'uno triangolo, e sia
questa linea, qualora fa triangolo, equidistante alla linea del primo e maggiore
triangolo, certo sarà questo minore triangolo a quel maggiore proporzionale. Tanto
dicono i matematici.
14. Ma noi, per fare più chiaro il nostro dire, parleremo in questo più largo.
Conviensi intendere qui che cosa sia proporzionale. Diconsi proporzionali quelli
triangoli quali con suo lati e angoli abbiano fra sé una ragione che, se uno lato di
questo triangolo sarà in lunghezza due volte più che la base e l'altro tre, ogni triangolo
simile, o sia maggiore o sia minore, avendo una medesima convenienza alla sua base,
sarà a quello proporzionale: imperò che quale ragione sta da parte a parte nel minore
triangolo, quella ancora sta medesima nel maggiore. Adunque tutti i triangoli così
fatti saranno fra sé proporzionali. E per meglio intendere questo, useremo una
similitudine. Vedi uno picciolo uomo certo proporzionale ad uno grande; imperò che
medesima proporzione, dal palmo al passo e dal piè all'altre sue parti del corpo, fu in
Evandro qual fu in Ercole, quale Aulo Gelio conietturava essere stato grande sopra
agli altri uomini. Né simile fu nel corpo di Ercole proporzione altra che nei membri
d'Anteo gigante, ove all'uno e all'altro si congiugneva con pari ragioni e ordini dalla
mano al cubito e dal cubito al capo, e così poi ogni suo membro. Simile truovi ne'
triangoli misura, per la quale il minore al maggiore sia, eccetto che nella grandezza,
equale. E se qui bene sono inteso, istatuirò coi matematici quanto a noi s'apertenga,
che ogni intercesione di qual sia triangolo, pure che sia equidistante dalla base, fa
nuovo triangolo proporzionale a quello maggiore. E quelle cose quali fra sé sieno
proporzionali, in queste ciascune parti corrispondono; ma dove siene diverse e poco
corrispondano le parti, questi sono certo non proporzionali.
15. E sono parte del triangolo visivo, quanto ti dissi, i razzi, i quali certo saranno
nelle quantità proporzionali, quanto al numero, pari, e in le non proporzionali, non
pari; imperò che una di queste non proporzionali quantità occuperà razzi o più o
meno. Vedesti adunque come uno minore triangolo sia proporzionale ad uno
maggiore, e imparasti dai triangoli farsi la pirramide visiva. Pertanto traduchiamo il
nostro ragionare a questa pirramide. Ma sia persuaso che niuna quantità equidistante
dalla intercesione potere nella pittura fare alcuna alterazione: imperò che esse sono in
ogni equedistante intersegazione pari alle sue proporzionali. Quali cose sendo così, ne
seguita che, non alterate le quantità onde se ne fa l'orlo, sarà del medesimo orlo in
pittura niuna alterazione. E così resta manifesto che ogni intersegazione della
pirramide visiva, qual sia alla veduta superficie equedistante, sarà a quella guardata
superficie proporzionale.
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eadem est. Collineares superficies illae sunt quas eadem continuata recta linea omni
in parte sui aeque contingit, uti sunt superficies quadratarum columnarum quae
rectum in ordinem ad porticum adstant. Haec illis quae supra de superficiebus
diximus addenda sunt. His vero, quae de radiis cum extrinsecis tum intrinsecis et
centrico, atque his quae supra de pyramide visiva recensuimus, addenda est illa
mathematicorum sententia ex qua illud probatur quod, si linea recta duo alicuius
trianguli latera intersecet, sitque haec ipsa secans et novissime triangulum condens
linea alterae lineae prioris trianguli aequedistans, erit tunc quidem is maior triangulus
huic minori proportionalis. Haec mathematici.
14. At nos quo clarior sit nostra orario, latius hanc propositionem explicabimus.
Intelligendum est quid sit hoc loco proportionale pictori. Dicimus proportionales esse
triangulos quorum latera et anguli inter se eandem admodum rationem servant, quod
si alterum trianguli latus sit in longitudine bis quam basis atque semis et alterum ter,
omnes hi eiusmodi trianguli seu sint illi quidem maiores hoc seu minores, modo
eandem laterum ad basim, ut ita loquar, convenientiam habeant, erunt inter se apud
nos proportionales. Nam quae ratio partis ad partem extat in maiori triangulo, eadem
in minori. Ergo trianguli qui ita se habeant omnes inter se proportionales sunt. Hoc
quoque ut apertius intelligatur similitudine quadam utemur. Est quidem homo
pusillus homini maximo proportionalis, nam eadem fuit proportio palmi ad passum et
pedis ad reliquas sui corporis partes in Evandro quae fuit in Hercule, quem Gelius
supra alios homines procerum et magnum fuisse coniectatur. Neque tamen fuit alia in
membris Herculis proportio quam fuit in Antaei gigantis corpore, siquidem utrisque
manus ad cubitum et cubiti ad proprium caput et caeterorum membrorum symmetria
pari inter se ordine congruebat. Hoc ipsum in triangulis evenit, ut sit aliqua inter
triangulos commensuratio, per quam minor cum maiori caeteris in rebus praeterquam
in magnitudine conveniat. Haec autem si satis intelliguntur, statuamus
mathematicorum sententia quantum ad rem nostram conducit, omnem intercisionem
alicuius trianguli aequedistantem a basi triangulum constituere illi suo maiori
triangulo proportionalem. Etenim quae inter se proportionalia sunt, in his omnes
partes respondent. In quibus vero diversae et non congruentes partes adsunt, hae
minime proportionales sunt.
15. Partes trianguli visivi sunt anguli ipsi et radii, qui quidem erunt in
proportionalibus quantitatibus admodum pares ac in non proportionalibus erunt
dispares; tum et altera istarum non proportionalium visa quantitas aut pluros
occupabit radios aut pauciores. Nosti ergo quemadmodum minor triangulus aliquis
maiori proportionalis sit, et meministi ex triangulis pyramidem visivam construi.
Ergo omnis noster sermo de triangulis habitus ad pyramidem traducatur, ac
persuasum quidem apud nos sit nullas quantitates superficiei, quae aeque ab
intercisione sui distent, in pictura alterationem aliquam facere. Nam sunt illae quidem
aequedistantes quantitates in omni aequedistanti intercisione suis proportionalibus
16. Dicemmo delle superficie proporzionali alla intercesione, cioè equedistante
dalla dipinta superficie. Ma poi che molte superficie si truovano non equedistanti,
conviensi di queste avere diligente investigazione, acciò che tutta la ragione della
intersegazione sia manifesta. Sarebbe cosa lunga, difficile e oscura in queste
intersegazione di triangoli e di pirramide seguire ogni cosa con la regola de'
matematici. Seguiremo dicendo pure come pittore.
17. Recitiamo delle quantità non equedistanti brevissime, quali conosciute, facile
conosceremo le superficie non equedistante. Delle quantità non equedistante alcune
sono ad i razzi visivi collineari, altre sono ad alcuni razzi visivi equedistanti. Le
quantità ad i razzi visivi collineari, perché non fanno triangolo né occupano numero
di razzi, adunque niuno luogo hanno alla intersegazione. Ma le quantità ad i razzi
visivi equedistanti, quanto l'angolo quale è maggiore nel triangolo alla base sarà più
ottuso, tanto quella quantità meno occuperà dei razzi e per questo alla intersegazione
meno spazio. Dicemmo a torno coprirsi la superficie dalle quantità; ma ove non raro
avviene che in una superficie sarà qualche quantità equedistante dalla intersegazione,
quella così fatta quantità certo nella pittura farà niuna alterazione. Quelle vero
quantità non equedistante, quanto aranno l'angolo alla base maggiore, tanto più
faranno alterazione.
18. E conviensi a queste dette cose agiugnere quella oppinione de' filosafi, e' quali
affermano, se il cielo, le stelle, il mare e i monti, e tutti gli animali e tutti i corpi
divenissono, così volendo Iddio, la metà minori, sarebbe che a noi nulla parrebbe da
parte alcuna diminuta. Imperò che grande, picciolo, lungo, brieve, alto, basso, largo,
stretto, chiaro, oscuro, luminoso, tenebroso, e ogni simile cosa, quale perché può
essere e non essere agiunta alle cose, però quelle sogliono i filosafi appellarle
accidenti, sono sì fatte che ogni loro cognizione si fa per comperazione. Disse
Virgilio Enea vedersi sopra gli uomini tutte le spalle, quale posto presso a Polifemo
parrebbe uno piccinacolo. Niso e Eurialo furono bellissimi, quali comparati a
Ganimede ratto dagli iddii, forse parrebbono sozzi. Appresso degl'Ispani molte
fanciulle paiono biancose, che appresso a' Germani sarebbono fusche e brune.
L'avorio e l'argento sono bianchi, quali posti presso al cigno o alla neve parrebbono
palidi. Per questa ragione nella pittura paiono cose splendidissime ove sia quivi buona
proporzione di bianco a nero, simile a quella sia nelle cose dal luminoso all'ombroso.
Così queste cose tutte si conoscono per com perazione. In sé tiene questa forza la
comperazione, che subito dimostra in le cose qual sia più, qual meno o equale. Onde
si dice grande quello che sia maggiore che questo picciolo, e grandissimo quello che
sia maggiore che questo grande; lucido qual sia più chiaro che questo oscuro,
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aequedistantes quantitates in omni aequedistanti intercisione suis proportionalibus
pares. Quae res cum ita sit, sequitur illud quod non alteratis quantitatibus ex quibus
fimbria efficitur nulla fimbriae alteratio in pictura succedit. Itaque illud manifestum
est omnem pyramidis visivae intercisionem a visa superficie aequedistantem illi
prospectae superficiei esse conproportionalem.
16. Diximus de superficiebus intercisioni proportionalibus, hoc est superficiei
pictae aequedistantibus. Verum cum perplurimae pingendae superficies non
aequedistantes adsint, de his nobis investigatio diligens habenda est quo omnis ratio
intercisionis explicetur. Etenim longum esset perdifficileque atque obscurissimum in
his triangulorum ac pyramidis intercisionibus omnia mathematicorum regula
prosequi. Idcirco nostro more ut pictores dicendo procedamus.
17. Referamus brevissime aliqua de quantitatibus non aequedistantibus, quibus
perceptis facilis erit omnis non aequedistantis superficiei cognitio. Quantitatum ergo
non aequedistantium aliae radiis visivis collineares, aliae radiis aliquibus visivis
aequedistantes sunt. Quantitates radiis collineares, quoniam triangulum non efficiant
radiorumque numerum non occupent, locum idcirco nullum in intercisione
adipiscuntur. At in quantitatibus radiis visivis aequedistantibus quanto qui maior est
angulus ad basim trianguli erit obtusior, tanto ea quantitas minus radiorum excipiet
atque idcirco in intercisione minus obtinebit spatii. Superficiem quantitatibus contegi
diximus; at cum in superficiebus non raro eveniat ut in ea sint quantitates aliquae
aeque ab intercisione distantes, caeterae vero eiusdem superficiei quantitates non
aequedistent, eam ob rem fit ut quae in superficie adsunt aequedistantes quantitates,
hae solae in pictura nullam alterationem faciant. Quae vero quantitates non
aequedistant, hae quanto angulum qui in triangulo sit <ad basim> maior obtusiorem
habebunt, tanto plus alterationis accipient.
18. Denique his omnibus addenda illa philosophorum opinio est qua affirmant, si
coelum, sidera, maria, montes, animantiaque ipsa atque deinceps corpora omnia
dimidio quam sint minora, superis ita volentibus, redderentur, fore ut nobis quaeque
videantur nulla ex parte ac nunc sint diminuta apparerent. Nam magnum, parvum,
longum, breve, altum, infimum, latum, arctum, clarum, obscurum, <luminosum>,
tenebrosum et huiusmodi omnia, quae cum possint rebus adesse et non adesse, ea
philosophi accidentia nuncuparunt, huiusmodi sunt ut omnis earum cognitio fiat
comparatione. Aeneam inquit Virgilius totis humeris supra homines extare, at is, si
Polyphemo comparetur, pygmaeus videbitur. Euryalum pulcherrimum fuisse tradunt,
qui si Ganymedi a diis rapto comparetur, fortassis deformis videatur. Apud Hispanos
pleraeque virgines candidae putantur, quae apud Germanos fuscae et atri coloris
haberentur. Ebur argentumque colore alba sunt, quae si cigno aut niveis linteis
comparentur, subpallentia videantur. Hac ratione in pictura tersissimae ac
fulgentissimae quidem superficies apparent, cum illic albi ad nigrum eadem quae est
sia maggiore che questo grande; lucido qual sia più chiaro che questo oscuro,
lucidissimo quale sia più chiaro che questo chiaro. E fassi comperazione in prima alle
cose molto notissime. E dove a noi sia l'uomo fra tutte le cose notissimo, forse
Protagora, dicendo che l'uomo era modo e misura di tutte le cose, intendea che tutti
gli accidenti delle cose, comparati fra gli accidenti dell'uomo si conoscessero. Questo
che io dico appartiene a dare ad intendere che, quanto bene i piccioli corpi sieno
dipinti nella pittura, questi parranno grandi e piccioli a comparazione di quale ivi sia
dipinto uomo. E parmi che Timantes pittore fra gli altri antiqui gustasse questa forza
di comparazione, il quale in una picciola tavoletta dipingendo uno Ciclope gigante
adormentato, fece ivi alcuni satiri iddii quali a lui misuravano il dito grosso, tale che
comparando colui che giacea a questi satiri parea grandissimo.
19. Persino a qui dicemmo tutto quanto apartenga alla forza del vedere, e quanto
s'apartenga alla intersegazione. Ma poi che non solo giova sapere che cosa sia
intersegazione, ma conviene al pittore sapere intersegare, di ciò diremo. Qui solo,
lassato l'altre cose, dirò quello fo io quando dipingo. Principio, dove io debbo
dipingere scrivo uno quadrangolo di retti angoli quanto grande io voglio, el quale
reputo essere una finestra aperta per donde io miri quello che quivi sarà dipinto; e
quivi ditermino quanto mi piaccino nella mia pittura uomini grandi; e divido la
lunghezza di questo uomo in tre parti, quali a me ciascuna sia proporzionale a quella
misura si chiama braccio, però che commisurando uno comune uomo si vede essere
quasi braccia tre; e con queste braccia segno la linea di sotto qual giace nel
quadrangolo in tante parti quanto ne riceva; ed èmmi questa linea medesima
proporzionale a quella ultima quantità quale prima mi si traversò inanzi. Poi dentro a
questo quadrangolo, dove a me paia, fermo uno punto il quale occupi quello luogo
dove il razzo centrico ferisce, e per questo il chiamo punto centrico. Sarà bene posto
questo punto alto dalla linea che sotto giace nel quadrangolo non più che sia l'altezza
dell'uomo quale ivi io abbia a dipignere, però che così e chi vede e le dipinte cose
vedute paiono medesimo in suo uno piano. Adunque posto il punto centrico, come
dissi, segno diritte linee da esso a ciascuna divisione posta nella linea del quadrangolo
che giace, quali segnate linee a me dimostrino in che modo, quasi persino in infinito,
ciascuna traversa quantità segua alterandosi. Qui sarebbono alcuni i quali
segnerebbono una linea a traverso equedistante dalla linea che giace nel quadrangolo,
e quella distanza, quale ora fusse tra queste due linee, dividerebbono in tre parti; e
presone le due, a tanta distanza sopracignerebbono un'altra linea, e così a questa
agiugnerebbono un'altra e poi un'altra, sempre così misurando che quello spazio
diviso in tre, qual fusse tra la prima e la seconda, sempre una parte avanzi lo spazio
che sia fra la seconda e la terza; e così seguendo farebbe che sempre sarebbono li
spazi superbipartienti, come dicono i matematici, ad i suoi seguenti. Questi forse così
farebbono, quali bene che seguissero a loro ditto buona via da dipignere, pure dico
errerebbono; però che ponendo la prima linea a caso, benché l'altre seguano a
ragione, non però sanno ove sia certo luogo alla cuspide della pirramide visiva, onde
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fulgentissimae quidem superficies apparent, cum illic albi ad nigrum eadem quae est
in rebus ipsis luminati ad umbrosum proportio sit. Itaque comparationibus haec
omnia discuntur. Inest enim in comparandis rebus vis, ut quid plus, quid minus,
quidve aequale adsit, intelligamus. Ex quo magnum esse dicimus quod sit hoc parvo
maius, maximum quod sit hoc magno maius, lucidum quod sit obscuro clarius,
lucidissimum quod sit hoc claro lucidius. Fit quidem comparatio ad res imprimis
notissimas. Sed cum sit homo rerum omnium homini notissimus, fortassis Protagoras,
hominem inquiens modum et mensuram rerum omnium esse, hoc ipsum intelligebat
rerum omnium accidentia hominis accidentibus recte comparari atque cognosci. Haec
eo spectant ut intelligamus in pictura quantulacunque pinxeris corpora, ea pro illic
picti hominis commensuratione grandia aut pusilla videri. Hanc sane vim
comparationis pulcherrime omnium antiquorum prospexisse Timanthes mihi videri
solet, qui pictor, ut aiunt, Cyclopem dormientem parva in tabella pingens fecit iuxta
satyros pollicem dormientis amplectentes ut ea satyrorum commensuratione dormiens
multo maximus videretur.
19. Hactenus a nobis ferme omnia dicta sunt quae ad visendi vim quaeve ad
intercisionem cognoscendam spectant. Sed quia non modo quid sit atque ex quibus
constet intercisio, verum etiam quemadmodum eadem fiat, ad rem pertinet, dicendum
est de hac intercisione quanam arte pingendo exprimatur. De hac igitur, caeteris
omissis, referam quid ipse dum pingo efficiam. Principio in superficie pingenda quam
amplum libeat quadrangulum rectorum angulorum inscribo, quod quidem mihi pro
aperta finestra est ex qua historia contueatur, illicque quam magnos velim esse in
pictura homines determino. Huiusque ipsius hominis longitudinem in tres partes
divido, quae quidem mihi partes sunt proportionales cum ea mensura quam vulgus
brachium nuncupat. Nam ea trium brachiorum, ut ex symmetria membrorum hominis
patet, admodum communis humani corporis longitudo est. Ista ergo mensura
iacentem infimam descripti quadranguli lineam in quot illa istiusmodi recipiat partes
divido, ac mihi quidem haec ipsa iacens quadranguli linea est proximiori transversae
et aequedistanti in pavimento visae quantitati proportionalis. Post haec unicum
punctum quo sit visum loco intra quadrangulum constituo, qui mihi punctus cum
locum occupet ipsum ad quem radius centricus applicetur, idcirco centricus punctus
dicatur. Condecens huius centrici puncti positio est non altius a iacenti linea quam sit
illius pingendi hominis longitudo, nam hoc pacto aequali in solo et spectantes et
pictae res adesse videntur. Posito puncto centrico, protraho lineas rectas a puncto ipso
centrico ad singulas lineae iacentis divisiones, quae quidem mihi lineae demonstrant
quemadmodum paene usque ad infinitam distantiam quantitates transversae
successivae sub aspectu alterent ur. Hic essent nonnulli qui unam ab divisa
aequedistantem lineam intra quadrangulum ducerent, spatiumque, quod inter utrasque
lineas adsit, in tres partes dividerent. Tum huic secundae aequedistanti lineae aliam
item aequedistantem hac lege adderent, ut spatium, quod inter primam divisam et
secundam aequedistantem lineam est, in tres partes divisum una parte sui excedat
ragione, non però sanno ove sia certo luogo alla cuspide della pirramide visiva, onde
loro succedono errori alla pittura non piccioli. Aggiugni a questo quanto la loro
ragione sia viziosa, ove il punto centrico sia più alto o più basso che la lunghezza del
dipinto uomo. E sappi che cosa niuna dipinta mai parrà pari alle vere, dove non sia
certa distanza a vederle. Ma di questo diremone sue ragioni, se mai scriveremo di
quelle dimostrazioni quali, fatte da noi, gli amici, veggendole e maravigliandosi,
chiamavano miracoli. Ivi ciò che sino a qui dissi molto s'apartiene. Adunque torniamo
al nostro proposito.
20. Trovai adunque io questo modo ottimo così in tutte le cose seguendo quanto
dissi, ponendo il punto centrico, traendo indi linee alle divisioni della giacente linea
del quadrangolo. Ma nelle quantità trasverse, come l'una seguiti l'altra così conosco.
Prendo uno picciolo spazio nel quale scrivo una diritta linea, e questa divido in simile
parte in quale divisi la linea che giace nel quadrangolo. Poi pongo di sopra uno punto
alto da questa linea quanto nel quadrangolo posi el punto centrico alto dalla linea che
giace nel quadrangolo, e da questo punto tiro linee a ciascuna divisione segnata in
quella prima linea. Poi constituisco quanto io voglia distanza dall'occhio alla pittura, e
ivi segno, quanto dicono i matematici, una perpendiculare linea tagliando qualunque
truovi linea. Dicesi linea perpendiculare quella linea dritta, quale tagliando un'altra
linea diritta fa appresso di sé di qua e di qua angoli retti. Questa così perpendiculare
linea dove dall'altra sarà tagliata, così mi darà la successione di tutte le trasverse
quantità. E a questo modo mi truovo descritto tutti e' paraleli, cioè le braccia quadrate
del pavimento nella dipintura, quali quanto sieno dirittamente descritti a me ne sarà
indizio se una medesima ritta linea continoverà diamitro di più quadrangoli descritti
alla pittura. Dicono i matematici diamitro d'uno quadrangolo quella retta linea da uno
angolo ad un altro angolo, quale divida in due parti il quadrangolo per modo che
d'uno quadrangolo solo sia due triangoli. Fatto questo, io descrivo nel quadrangolo
della pittura attraverso una dritta linea dalle inferiori equedistante, quale dall'uno lato
all'altro passando super 'l centrico punto divida il quadrangolo. Questa linea a me
tiene uno termine quale niuna veduta quantità, non più alta che l'occhio che vede, può
sopragiudicare. E questa, perché passa per 'l punto centrico, dicasi linea centrica. Di
qui interviene che gli uomini dipinti posti nell'ultimo braccio quadro della dipintura
sono minori che gli altri. Qual cosa così essere, la natura medesima a noi dimostra.
Veggiamo ne' tempî i capi degli uomini quasi tutti ad una quantità, ma i piedi de' più
lontani quasi corrispondere ad i ginocchi de' più presso.
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secundam aequedistantem lineam est, in tres partes divisum una parte sui excedat
spatium id quod sit inter secundam et tertiam lineam, ac deinceps reliquas lineas
adderent ut semper sequens inter lineas esset spatium ad antecedens, ut verbo
mathematicorum loquar, superbipartiens. Itaque sic illi quidem facerent, quos etsi
optimam quandam pingendi viam sequi affirment, eosdem tamen non parum errare
censeo, quod cum casu primam aequedistantem lineam posuerint, tametsi caeterae
aequedistantes lineae ratione et modo subsequantur, non tamen habent quo sit certus
cuspidis ad bene spectandum locus. Ex quo non modici in pictura errores facile
succedunt. Adde his quod istorum ratio admodum vitiosa esset, ubi centricus punctus
aut supra aut infra picti hominis longitudinem adstaret. Tum etiam pictas res nullas
veris rebus pares, nisi certa ratione distent, videri posse nemo doctus negabit. Cuius
rei rationem explicabimus, siquando de his demonstrationibus picturae conscribemus,
quas a nobis factas amici dum admirarentur miracula picturae nuncuparunt. Nam ad
eam ipsam partem haec quae dixi maxime pertinent. Ergo ad rem redeamus.
20. Haec cum ita sint, ipse idcirco optimum hunc adinveni modum. In caeteris
omnibus eandem illam et centrici puncti et lineae iacentis divisionem et a puncto
linearum ductionem ad singulas iacentis lineae divisiones prosequor. Sed in
successivis quantitatibus transversis hunc modum servo. Habeo areolam in qua
describo lineam unam rectam. Hanc divido per eas partes in quas iacens linea
quadranguli divisa est. Dehinc pono sursum ab hac linea punctum unicum ad alterum
lineae caput perpendicularem tam alte quam est in quadrangulo centricus punctus a
iacente divisa quadranguli linea distans, ab hocque puncto ad singulas huius ipsius
lineae divisiones singulas lineas duco. Tum quantam velim distantiam esse inter
spectantis oculum et picturam statuo, atque illic statuto intercisionis loco,
perpendiculari, ut aiunt mathematici, linea intercisionem omnium linearum, quas ea
invenerit, efficio. Perpendicularis quidem linea est ea quae aliam rectam lineam
dividens angulos utrinque circa se rectos habeat. Igitur haec mihi perpendicularis
linea suis percisionibus terminos dabit omnis distantiae quae inter transversas
aequedistantes pavimenti lineas esse debeat. Quo pacto omnes pavimenti parallelos
descriptos habeo. Est enim parallelus spatium quod intersit inter duas aequedistantes
lineas de quibus supra nonnihil tetigimus. Qui quidem quam recte descripti sint
inditio erit, si una eademque recta continuata linea in picto pavimento coadiunctorum
quadrangulorum diameter sit. Est quidem apud mathematicos diameter quadranguli
recta quaedam linea ab angulo ad sibi oppositum angulum ducta, quae in duas partes
quandrangulum dividat ita ut ex quadrangulo duos triangulos efficiat. His ergo
diligenter absolutis, unam item superduco transversam aeque a ceteris inferioribus
distantem lineam, quae duo stantia magni quadrati latera secet, perque punctum
centricum permeet. Haec mihi quidem linea est terminus atque limes, quem nulla non
plus alta quam sit visentis oculus quantitas excedat. Eaque quod punctum centricum
pervadat, idcirco centrica dicatur. Ex quo fit ut qui picti homines in ulteriori parallelo
steterint, iidem longe minores sint quam qui in anterioribus adstant, quam rem
21. Ma questa ragione di dividere il pavimento s'apartiene a quella parte quale al
suo luogo chiameremo composizione. E sono tali che io dubito sì per la novità della
matera, sì etiam per questa brevità del nostro comentare, sarà non molto forse intesa
da chi leggerà. E quanto sia difficile veggasi nell'opere degli antiqui scultori e pittori.
Forse perché era oscura, loro fu ascosa e incognita. Appena vedrai alcuna storia
antiqua attamente composta.
22. Da me sino a qui sono dette cose utili ma brieve e, come estimo, non in tutto
oscure. Ma bene intendo quali sieno che, dove in esse io posso acquistare laude niuna
di eloquenza, ivi ancora chi non le comprende al primo aspetto, costui appena mai
con quanta sia fatica le apprenderà. Ma ad i sottili ingegni e atti alla pittura queste
nostre cose in qualunque modo dette saranno facili e bellissime; e a chi altri sia rozzo
e da natura poco dato a queste arti nobilissime, saranno queste cose, benché da
eloquentissimi scritte, ingrate. Da noi forse perché sono sanza eloquenza scritte, si
leggeranno con fastidio. Ma priego mi perdonino, se dove io in prima volli essere
inteso, ebbi riguardo a fare il nostro dire chiaro molto più che ornato. Quello che
seguirà, credo, sarà meno tedioso a chi leggerà.
23. Dicemmo de' triangoli, della pirramide, della intercesione quanto parea da
dire; quale cose, mia usanza, soglio appresso de' miei amici prolisso con certe
dimostrazioni ieometrice esplicare, quali in questi comentari per brevità mi parve da
lassare. Qui solo raccontai i primi dirozzamenti dell'arte, e per questo così li chiamo
dirozzamenti, quali ad i pittori non eruditi dieno i primi fondamenti a ben dipignere.
Ma sono sì fatti che chi bene li conoscerà, costui come allo ingegno, così a conoscere
la difinizione della pittura intenderà quanto li giovi. Né sia chi dubiti quanto mai sarà
buono alcuno pittore colui, il quale non molto intenda qualunque cosa si sforzi di
fare. Indarno si tira l'arco ove non hai da dirizzare la saetta. E voglio sia persuaso
apresso di noi che solo colui sarà ottimo artefice, el quale arà imparato conoscere gli
orli delle superficie e ogni sua qualità. Così contrario mai sarà buon artefice chi non
sarà diligentissimo a conoscere quanto abbiamo sino a qui detto.
24. Furono adunque cose necessarie queste intersegazioni e superficie. Seguita ad
istituire il pittore in che modo possa seguire colla mano quanto arà coll'ingegno
compreso.
steterint, iidem longe minores sint quam qui in anterioribus adstant, quam rem
quidem a natura ipsa ita ostendi palam est. Nam in templis perambulantium hominum
capita videmus fere in altum aequalia nutare, pedes vero eorum qui longius absint
forte ad genu anteriorum respondere.
21. Haec omnis dividendi pavimenti ratio maxime ad eam picturae partem
pertinet, quam nos compositionem suo loco nominabimus. Et huiusmodi est ut verear
ne ob materiae novitatem obque hanc commentandi brevitatem parum a legentibus
intelligatur. Nam, ut ex operibus priscis facile intelligimus, eadem fortassis apud
maiores nostros, quod esset obscura et difficillima, admodum incognita latuit. Vix
enim ullam antiquorum historiam apte compositam, neque pictam, neque fictam,
neque sculptam reperies.
22. Qua de re haec a me dicta sunt breviter et, ut existimo, non omnino obscure, sed
intelligo qualia sint ut cum in his nullam eloquentiae laudem adipisci queam, tum
eadem qui primo aspectu non comprehenderit, vix ullo unquam vel ingenti labore
apprehendat. Subtilissimis autem et ad picturam bene pronis ingeniis haec,
quoquomodo dicantur, facillima sane et pulcherrima sunt, quae quidem rudibus et a
natura parum ad has nobilissimas artes pronis, etiam si ab eloquentissimis dicantur,
admodum ingrata sunt. A nobis vero eadem, quod sine ulla eloquentia brevissime
recitata sint, fortassis non sine fastidio leguntur. Sed velim nobis dent veniam si, dum
imprimis volui intelligi, id prospexi ut clara esset nostra oratio magis quam compta et
ornata. Quae vero sequentur minus, ut spero, tedium legentibus afferent.
23. Diximus ergo de triangulis, de pyramide, de intercisione, quae dicenda
videbantur, quas res tamen consuevi apud familiares prolixius quadam geometrica
ratione cur ea ita essent demonstrare, quod his commentariis brevitatis causa
praetermittendum censui. Hic enim sola prima picturae artis rudimenta pictor quidem
pictoribus recensui. Eaque idcirco rudimenta nuncupari volumus, quod ineruditis
pictoribus prima artis fundamenta iecerint. Sed huiusmodi sunt ut qui eadem probe
tenuerit, is cum ad ingenium tum ad cognoscendam picturae definitionem, tum etiam
ad ea de quibus dicturi sumus, non minimum profuisse intelligat. Neque sit qui
dubitet futurum pictorem nunquam bonum eum, qui quae pingendo conetur non ad
unguem intelligat. Frustra enim arcu contenditur, nisi quo sagittam dirigas destinatum
habeas. Ac velim quidem apud nos persuasum esse eum solum fore pictorem
optimum, qui optime cum fimbrias tum superficierum qualitates omnes notasse
didicerit. Contraque eum futurum nunquam bonum arteficem affirmo, qui non
diligentissime quae diximus omnia tenuerit.
24. Idcirco nobis haec de superficiebus et intercisione dicta pernecessaria fuere.
Sequitur ut pictorem instituamus quemadmodum quae mente conceperit ea manu
imitari queat.
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imitari queat.
LIBRO SECONDO
LIBER II
25. Ma perché forse questo imparare ad i giovani può parere cosa faticosa, parmi
qui da dimostrare quanto la pittura sia non indegna da consumarvi ogni nostra opera e
studio. Tiene in sé la pittura forza divina non solo quanto si dice dell'amicizia, quale
fa gli uomini assenti essere presenti, ma più i morti dopo molti secoli essere quasi
vivi, tale che con molta ammirazione dell'artefice e con molta voluttà si riconoscono.
Dice Plutarco, Cassandro uno de' capitani di Allessandro, perché vide l'immagine
d'Allessandro re tremò con tutto il corpo; Agesilao Lacedemonio mai permise alcuno
il dipignesse o isculpisse: non li piacea la propia sua forma, che fuggiva essere
conosciuto da chi dopo lui venisse. E così certo il viso di chi già sia morto, per la
pittura vive lunga vita. E che la pittura tenga espressi gli iddii quali siano adorati dalle
genti, questo certo fu sempre grandissimo dono ai mortali, però che la pittura molto
così giova a quella pietà per quale siamo congiunti agli iddii, insieme e a tenere gli
animi nostri pieni di religione. Dicono che Fidia fece in Elide uno iddio Giove, la
bellezza del quale non poco confermò la ora presa religione. E quanto alle delizie
dell'animo onestissime e alla bellezza delle cose s'agiugna dalla pittura, puossi
d'altronde e in prima di qui vedere, che a me darai cosa niuna tanto preziosa, quale
non sia per la pittura molto più cara e molto più graziosa fatta. L'avorio, le gemme e
simili care cose per mano del pittore diventano più preziose; e anche l'oro lavorato
con arte di pittura si contrapesa con molto più oro. Anzi ancora il piombo medesimo,
metallo in fra gli altri vilissimo, fattone figura per mano di Fidia o Prassiteles, si
stimerà più prezioso che l'argento. Zeusis pittore cominciava a donare le sue cose,
quali, come dicea, non si poteano comperare; né estimava costui potersi invenire atto
pregio quale satisfacesse a chi fingendo, dipignendo animali, sé porgesse quasi uno
iddio.
26. Adunque in sé tiene queste lode la pittura, che qual sia pittore maestro vedrà le
sue opere essere adorate, e sentirà sé quasi giudicato un altro iddio. E chi dubita qui
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25. Sed quoniam hoc perdiscendi studium forte nimis laboriosum iuvenibus videri
potest, idcirco hoc loco ostendendum censeo quam sit pictura non indigna, in qua
omnem operam et studium consumamus. Nam habet ea quidem in se vim admodum
divinam non modo ut quod de amicitia dicunt, absentes pictura praesentes esse faciat,
verum etiam defunctos longa post saecula viventibus exhibeat, ut summa cum
artificis admiratione ac visentium voluptate cognoscantur. Refert Plutarchus
Cassandrum unum ex Alexandri ducibus, quod simulacrum iam defuncti Alexandri
intueretur, in quo regis maiestatem cognovisset, toto cum corpore trepidasse,
Agesilaumque Lacenam, quod se esse admodum deformem intelligeret, suam
recusasse a posteris effigiem cognosci, eaque de re neque pingi a quoquam neque
fingi voluisse. Itaque vultus defunctorum per picturam quodammodo vitam
praelongam degunt. Quod vero pictura deos expresserit quos gentes venerentur,
maximum id quidem mortalibus donum fuisse censendum est, nam ad pietatem qua
superis coniuncti sumus, atque ad animos integra quadam cum religione detinendos
nimium pictura profuit. Phidias in Elide Iovem fecisse dicitur, cuius pulchritudo non
parum receptae religioni adiecerit. Iam vero ad delitias animi honestissimas atque ad
rerum decus quantum conferat pictura, cum aliunde tum hinc maxime licet videre,
quod nullam ferme dabis rem usque adeo pretiosam, quam picturae societas non
longe cariorem multoque gratiosissimam efficiat. Ebur, gemmae et istiusmodi cara
omnia pictoris manu fiunt pretiosiora. Aurum quoque ipsum picturae arte elaboratum
longe plurimo auro penditur. Quin vel plumbum, metallorum vilissimum, si Phidiae
aut Praxitelis manu in simulacrum aliquod deductum sit, argento rudi atque
inelaborato esse pretiosius fortassis videbitur. Zeuxis pictor suas res donare ceperat,
quoniam, ut idem aiebat, pretio emi non possent. Nullum enim pretium existimabat
sue opere essere adorate, e sentirà sé quasi giudicato un altro iddio. E chi dubita qui
apresso la pittura essere maestra, o certo non picciolo ornamento a tutte le cose? Prese
l'architetto, se io non erro, pure dal pittore gli architravi, le base, i capitelli, le
colonne, frontispici e simili tutte altre cose; e con regola e arte del pittore tutti i fabri,
iscultori, ogni bottega e ogni arte si regge; né forse troverai arte alcuna non vilissima
la quale non raguardi la pittura, tale che qualunque truovi bellezza nelle cose, quella
puoi dire nata dalla pittura. Però usai di dire tra i miei amici, secondo la sentenza de'
poeti, quel Narcisso convertito in fiore essere della pittura stato inventore; ché già ove
sia la pittura fiore d'ogni arte, ivi tutta la storia di Narcisso viene a proposito. Che
dirai tu essere dipignere altra cosa che simile abracciare con arte quella ivi superficie
del fonte? Diceva Quintiliano ch'e' pittori antichi soleano circonscrivere l'ombre al
sole, e così indi poi si trovò questa arte cresciuta. Sono chi dicono un certo Filocle
egitto, e non so quale altro Cleante furono di questa arte tra i primi inventori. Gli
Egizi affermano fra loro bene anni se' milia essere la pittura stata in uso prima che
fusse traslata in Grecia. Di Grecia dicono i nostri traslata la pittura dopo le vittorie di
Marcello avute di Sicilia. Ma qui non molto si richiede sapere quali prima fussero
inventori dell'arte o pittori, poi che non come Plinio recitiamo storie, ma di nuovo
fabrichiamo un'arte di pittura, della quale in questa età, quale io vegga, nulla si truova
scritto, benché dicono Eufranore istmio scrivesse non so che delle misure e de' colori,
e dicono che Antigono e Senocrate misono in lettere non so che pitture, e dicono che
Appelle scrisse a Perseo de pittura. Raconta Laerzio Diogenes che Demetrio fece
commentari della pittura. E così estimo, quando tutte l'altre buone arti furono dai
nostri maggiori acomandate alle lettere, con quelle insieme dai nostri latini scrittori fu
la pittura non negletta, già che i nostri Toscani antiquissimi furon in Italia maestri in
dipignere peritissimi.
27. Giudica Trimegisto, vecchissimo scrittore, che insieme con la religione
nacque la pittura e scoltura. Ma chi può qui negare in tutte le cose publiche e private,
profane e religiose la pittura a sé avere prese tutte le parti onestissime, tale che mi
pare cosa niuna tanto sempre essere stata estimata dai mortali? Racontasi i pregi
incredibili di tavole dipinte. Aristide tebano vendè una sola pittura talenti cento; e
dicono che Rodi non fu arsa da Demetrio re, ove temea che una tavola di Protogenes
non perisse. Possiamo adunque qui affermare che la città di Rodi fu ricomperata dai
nemici con una sola dipintura. Simile molte cose raccolse Plinio, per le quali tu
conoscerai i buoni pittori sempre stati apresso di tutti in molto onore, tanto che molti
nobilissimi cittadini, filosafi, ancora e non pochi re, non solo di cose dipinte, ma e di
sua mano dipignerle assai si dilettavano. Lucio Manilio cittadino romano e Fabio
uomo nobilissimo furono dipintori. Turpilio cavaliere romano dipinse a Verona.
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quoniam, ut idem aiebat, pretio emi non possent. Nullum enim pretium existimabat
inveniri quod satisfaceret huic qui fingendis aut pingendis animantibus quasi alterum
sese inter mortales deum praestaret.
26. Has ergo laudes habet pictura, ut ea instructi cum opera sua admirari videant,
tum deo se paene simillimos esse intelligant. Quid, quod omnium artium vel magistra
vel sane praecipuum pictura ornamentum est? Nam architectus quidem epistilia,
capitula, bases, columnas fastigiaque et huiusmodi caeteras omnes aedificiorum
laudes, ni fallor, ab ipso tantum pictore sumpsit. Pictoris enim regula et arte lapicida,
sculptor, omnesque fabrorum officinae omnesque fabriles artes diriguntur. Denique
nulla paene ars non penitus abiectissima reperietur quae picturam non spectet, ut in
rebus quicquid adsit decoris, id a pictura sumptum audeam dicere. Sed et hoc in
primis honore a maioribus honestata pictura est ut, cum caeteri ferme omnes artifices
fabri nuncuparentur, solus pictor in fabrorum numero non esset habitus. Quae cum ita
sint, consuevi inter familiares dicere picturae inventorem fuisse, poetarum sententia,
Narcissum illum qui sit in florem versus, nam cum sit omnium artium flos pictura,
tum de Narcisso omnis fabula pulchre ad rem ipsam perapta erit. Quid est enim aliud
pingere quam arte superficiem illam fontis amplecti? Censebat Quintilianus priscos
pictores solitos umbras ad solem circumscribere, demum additamentis artem
excrevisse. Sunt qui referant Phyloclem quendam Aegyptium et Cleantem nescio
quem inter primos huius artis repertores fuisse. Aegyptii affirmant sex millibus
annorum apud se picturam in usu fuisse prius quam in Graeciam esset translata. E
Graecia vero in Italiam dicunt nostri venisse picturam post Marcelli victorias ex
Sicilia. Sed non multum interest aut primos pictores aut picturae inventores tenuisse,
quando quidem non historiam picturae ut Plinius sed artem novissime recenseamus,
de qua hac aetate nulla scriptorum veterum monumenta quae ipse viderim extant,
tametsi ferunt Euphranorem Isthmium nonnihil de symmetria et coloribus scripsisse,
Antigonum et Xenocratem de picturis aliqua litteris mandasse, tum et Apellem ad
Perseum de pictura conscripsisse. Refert Laertius Diogenes Demetrium quoque
philosophum picturam commentatum fuisse. Tum etiam existimo, cum caeterae
omnes bonae artes monumentis litterarum a maioribus nostris commendatae fuerint,
picturam quoque a nostris Italis non fuisse scriptoribus neglectam. Nam fuere quidem
antiquissimi in Italia Etrusci pingendi arte omnium peritissimi.
27. Censet Trismegistus vetustissimus scriptor una cum religione sculpturam et
picturam exortam: sic enim inquit ad Asclepium: humanitas memor naturae et
originis suae deos ex sui vultus similitudine figuravit. Sed quis negabit omnibus in
rebus cum publicis tum privatis, profanis religiosisque picturam sibi honestissimas
partes vendicasse, ut nullum artificium apud mortales tanti ab omnibus existimatum
inveniam? Referuntur de tabulis pictis pretia paene incredibilia. Aristides Thebanus
picturam unicam centum talentis vendidit. Rhodum non incensam a Demetrio rege, ne
Protogenis tabula periret, referunt. Rhodum ergo unica pictura fuisse ab hostibus
uomo nobilissimo furono dipintori. Turpilio cavaliere romano dipinse a Verona.
Sitedio, uomo stato pretore e proconsolo, acquistò dipignendo nome. Pacuvio poeta
tragico, nipote ad Ennio poeta, dipinse Ercole in foro romano. Socrate, Platone,
Metrodoro, Pirro furono in pittura conosciuti. Nerone, Valentiniano e Alessandro
Severo imperadori furono studiosissimi in pittura. Ma sarebbe qui lungo racontare a
quanti principi e re sia piaciuto la pittura. E ancora non mi pare da racontare tutta la
turba degli antiqui pittori, quale quanto fusse grande vedilo quinci che a Demetrio
Falerio, figliuolo di Fanostrato, furono fra quattrocento di trecentosessanta statue,
parte a cavallo, parte sui carri, compiute. E in questa terra in quale sia stato tanto
numero di scultori, credi che manco fussero pittori? Sono certo queste arti cognate e
da uno medesimo ingegno nutrite, la pittura insieme con la scoltura. Ma io sempre
preposi l'ingegno del pittore, perché s'aopera in cosa più difficile. Pure torniamo al
fatto nostro.
28. Fu certo grande numero di scultori in que' tempi e di pittori, quando i prencipi
e i plebei e i dotti e gl'indotti si dilettavano di pittura, e quando fra le prime prede
delle province si estendeano ne' teatri tavole dipinte e immagini. E processe in tanto
che Paolo Emilio e non pochi altri cittadini romani fra le buone arti a bene e beato
vivere ad i figliuoli insegnavano la pittura; quale ottimo costume molto apresso de'
Greci s'osservava. Voleano che i figliuoli bene allevati insieme con geometria e
musica imparassono dipignere. Anzi fu ancora alle femine onore sapere dipignere.
Marzia, figliuola di Varrone, si loda appresso degli scrittori che seppe dipignere. E fu
in tanta lode e onore apresso de' Greci la pittura, che fecero editto e legge non essere
ad i servi licito imparare pittura. Fecero certo bene, però che l'arte del dipignere
sempre fu ad i liberali ingegni e agli animi nobili dignissima. E quant'io, certo così
estimo ottimo indizio d'uno perfettissimo ingegno essere in chi molto si diletti di
pittura; benché intervenga che questa una arte così sta grata ai dotti quanto agl'indotti,
qual cosa poco accade in quale altra si sia arte, che quello qual diletti ai periti muova
chi sia imperito. Né ispesso troverrai chi non molto desideri sé essere in pittura ben
dotto. Anzi la natura medesima pare si diletti di dipignere, quale veggiamo quanto
nelle fessure de' marmi spesso dipinga ipocentauri e più facce di re barbate e crinite.
Anzi più dicono che in una gemma di Pirro si trovò dipinto dalla natura tutte e nove le
Muse distinte con suo segno. Agiugni a questo che niuna si truova arte in quale ogn i
età di periti e d'imperiti così volentieri s'affatichi ad impararla e a essercitarla. Sia
licito confessare di me stesso. Io se mai per mio piacere mi do a dipignere, - qual cosa
fo non raro quando dall'altre mie maggiori faccende io truovo ozio -, ivi con tanta
voluttà sto fermo al lavoro, che spesso mi maraviglio così avere passate tre o quattro
ore.
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Protogenis tabula periret, referunt. Rhodum ergo unica pictura fuisse ab hostibus
redemptam possumus affirmare. Multa praeterea huiusmodi a scriptoribus collecta
sunt, quibus aperte intelligas semper bonos pictores in summa laude et honore apud
omnes fuisse versatos, ut etiam nobilissimi ac praestantissimi cives philosophique et
reges non modo pictis rebus sed pingendis quoque maxime delectarentur. L. Manilius
civis Romanus et Fabius homo in urbe nobilissimus pictores fuerunt. Turpilius eques
Romanus Veronae pinxit. Sitedius pretorius et proconsularis pingendo nomen adeptus
est. Pacuvius poeta tragicus, Ennii poetae nepos ex filia, Herculem in foro pinxit.
Socrates, Plato Metrodorusque Pyrrhoque philosophi pictura claruere. Nero,
Valentinianusque atque Alexander Severus imperatores pingendi studiosissimi fuere.
Longum esset referre quot principes quotve reges huic nobilissimae arti dediti fuerint.
Tum etiam minime decet omnem pictorum veterum turbam recensere, quae quidem
quanta fuerit hinc conspici potest quod Demetrio Phalereo, Phanostrati filio,
trecentaesexaginta statuae partim equestres partim in curribus et bigis ferme intra
quadringentos dies fuere consumatae. Ea vero in urbe, in qua tantus fuerit sculptorum
numerus, utrum et pictores non paucos fuisse arbitrabimur? Sunt quidem cognatae
artes eodemque ingenio pictura et sculptura nutritae. Sed ipse pictoris ingenium, quod
in re longe difficillima versetur, semper praeferam. Verum ad rem redeamus.
28. Ingens namque fuit et pictorum et sculptorum illis temporibus turba, cum et
principes et plebei et docti atque indocti pictura delectabantur, cumque inter primas
ex provinciis praedas signa et tabulas in theatris exponebant; eoque processit res ut
Paulus Aemilius caeterique non pauci Romani cives filios inter bonas artes ad bene
beateque vivendum picturam edocerent. Qui mos optimus apud Graecos maxime
observabatur, ut ingenui et libere educati adolescentes, una cum litteris, geometria et
musica, pingendi quoque arte instruerentur. Quin et feminis etiam haec pingendi
facultas honori fuit. Martia, Varronis filia, quod pinxerit apud scriptores celebratur.
Ac fuit quidem tanta in laude et honore pictura ut apud Graecos caveretur edicto ne
servis picturam discere liceret; neque id quidem iniuria, nam est pingendi ars profecto
liberalibus ingeniis et nobilissimis animis dignissima, maximumque optimi et
praestantissimi ingenii apud me semper fuit inditium illius quem in pictura
vehementer delectari intelligerem. Tametsi haec una ars et doctis et indoctis aeque
admodum grata est, quae res nulla fere alia in arte evenit ut quod peritos delectat
imperitos quoque moveat. Neque facile quempiam invenies qui non maiorem in
modum optet se in pictura profecisse. Ipsam denique naturam pingendo delectari
manifestum est. Videmus enim naturam ut saepe in marmoribus hippocentauros
regumque barbatas facies effigiet. Quin et aiunt in gemma Pyrrhi novem musas cum
suis insignibus distincte a natura ipsa fuisse depictas. Adde his quod nulla ferme ars
est in qua perdiscenda ac exercenda omnis aetas et peritorum et imperitorum tanta
cum voluptate versetur. Liceat de me ipso profiteri. Si quando me animi voluptatis
causa ad pingendum confero, quod facio sane persaepius cum ab aliis negotiis otium
suppeditat, tanta cum voluptate in opere perficiendo insisto ut tertiam et quartam
29. Così adunque dà voluttà questa arte a chi bene la esserciti, e lode, ricchezze e
perpetua fama a chi ne sia maestro. Quale cose così sendo quanto dicemmo, se la
pittura sia ottimo e antiquissimo ornamento delle cose, digna ad i liberi uomini, grata
ai dotti e agl'indotti, molto conforto i giovani studiosi diano quanto sia licito opera
alla pittura. E poi amonisco chi sia studioso di dipignere imparino questa arte. Sia a
chi in prima cerca gloriarsi di pittura questa una cura grande ad acquistare fama e
nome, quale vedete gli antiqui avere agiunta. E gioveravvi ricordarvi che l'avarizia fu
sempre inimica della virtù. Raro potrà acquistare nome animo alcuno che sia dato al
guadagno. Vidi io molti quasi nel primo fiore d'imparare, subito caduti al guadagno,
indi acquistare né ricchezze né lode, quali certo se avessero acresciuto suo ingegno
con studio, facile sarebbono saliti in molta lode e ivi arebbono acquistato ricchezze e
piacere assai. Ma di queste assai sino a qui sia detto. Torniamo a nostro proposito.
30. Dividesi la pittura in tre parti, qual divisione abbiamo presta dalla natura. E
dove la pittura studia ripresentare cose vedute, notiamo in che modo le cose si
veggano. Principio, vedendo qual cosa, diciamo questo esser cosa quale occupa uno
luogo. Qui il pittore, descrivendo questo spazio, dirà questo suo guidare uno orlo con
linea essere circonscrizione. Apresso rimirandolo conosciamo come più superficie del
veduto corpo insieme convengano; e qui l'artefice, segnandole in suoi luoghi, dirà
fare composizione. Ultimo, più distinto discerniamo colori e qualità delle superficie,
quali ripresentandoli, ché ogni differenza nasce da' lumi, proprio possiamo chiamarlo
recezione di lumi.
31. Adunque la pittura si compie di circonscrizione, composizione, e ricevere di
lumi. Seguita adunque dirne brevissimo. Prima diremo della circunscrizione. Sarà
circunscrizione quella che descriva l'attorniare dell'orlo nella pittura. In questa dicono
Parrasio, quel pittore el quale appresso Senofonte favella con Socrate, essere stato
molto perito e molto avere queste linee essaminate. Io così dico in questa
circonscrizione molto doversi osservare ch'ella sia di linee sottilissime fatta, quasi tali
che fuggano essere vedute, in quali solea sé Appelles pittore essercitare e contendere
con Protogene; però che la circonscrizione è non altro che disegnamento dell'orlo,
quale ove sia fatto con linea troppo apparente, non dimostrerà ivi essere margine di
superficie ma fessura, e io desiderrei nulla proseguirsi circonscrivendo che solo
l'andare dell'orlo; in qual cosa così affermo debbano molto essercitarsi. Niuna
composizione e niuno ricevere di lumi si può lodare ove non sia buona
circonscrizione aggiunta; e non raro pur si vede solo una buona circonscrizione, cioè
uno buono disegno per sé essere gratissimo. Qui adunque si dia principale opera, a
quale, se bene vorremo tenerla, nulla si può trovare, quanto io estimo, più
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suppeditat, tanta cum voluptate in opere perficiendo insisto ut tertiam et quartam
quoque horam elapsam esse postea vix possim credere.
29. Itaque voluptatem haec ars affert dum eam colas, laudem, divitias ac
perpetuam famam dum eam bene excultam feceris. Quae res cum ita sit, cum sit
pictura optimum et vetustissimum ornamentum rerum, liberis digna, doctis atque
indoctis grata, maiorem in modum hortor studiosos iuvenes ut, quoad liceat, picturae
plurimam operam dent. Proxime eos moneo, qui picturae studiosissimi sunt, ut omni
opera et diligentia prosequantur ipsam perfectam pingendi artem tenere. Sit vobis, qui
pictura praestare contenditis, cura in primis nominis et famae, quam veteres
assequutos videtis, ac meminisse quidem iuvabit semper adversam laudi et virtuti
fuisse avaritiam. Quaestui enim intentus animus raro posteritatis fructum assequetur.
Vidi ego plerosque in ipso quasi flore perdiscendi illico decidisse ad quaestum et nec
divitias nec laudem ullam inde fuisse adeptos, qui si ingenium studio auxissent, in
laude facile conscendissent, quo in loco et divitias et voluptatem nominis accepissent.
Itaque de his satis hactenus. Ad institutum redeamus.
30. Picturam in tres partes dividimus, quam quidem divisionem ab ipsa natura
compertam habemus. Nam cum pictura studeat res visas repraesentare, notemus
quemadmodum res ipsae sub aspectu veniant. Principio quidem cum quid aspicimus,
id videmus esse aliquid quod locum occupet. Pictor vero huius loci spatium
circumscribet, eamque rationem ducendae fimbriae apto vocabulo circumscriptionem
appellabit. Proxime intuentes dignoscimus ut plurimae prospecti corporis superficies
inter se conveniant; hasque superficierum coniunctiones artifex suis locis designans
recte compositionem nominabit. Postremo aspicientes distinctius superficierum
colores discernimus, cuius rei repraesentatio in pictura, quod omnes differentias a
luminibus recipiat, percommode apud nos receptio luminum dicetur.
31. Picturam igitur circumscriptio, compositio et luminum receptio perficiunt. De
his ergo sequitur ut quam brevissime dicamus. Et primo de circumscriptione.
Circumscriptio quidem ea est quae lineis ambitum fimbriarum in pictura conscribit.
In hac Parrhasium pictorem eum, cum quo est apud Xenophontem Socratis sermo,
pulchre peritum fuisse tradunt, illum enim lineas subtilissime examinasse aiunt. In
hac vero circumscriptione illud praecipue servandum censeo, ut ea fiat lineis quam
tenuissimis atque admodum visum fugientibus; cuiusmodi Apellem pictorem exerceri
solitum ac cum Protogene certasse referunt. Nam est circumscriptio aliud nihil quam
fimbriarum notatio, quae quidem si valde apparenti linea fiat, non margines
superficierum in pictura sed rimulae aliquae apparebunt. Tum cuperem aliud nihil
circumscriptione nisi fimbriarum ambitum prosequi, in qua quidem vehementer
exercendum affirmo. Nulla enim compositio nullaque luminum receptio non adhibita
circumscriptione laudabitur. At sola circumscriptio plerunque gratissima est.
Circumscriptioni igitur opera detur, ad quam quidem bellissime tenendam nihil
quale, se bene vorremo tenerla, nulla si può trovare, quanto io estimo, più
acommodata cosa altra che quel velo, quale io tra i miei amici soglio appellare
intersegazione. Quello sta così. Egli è uno velo sottilissimo, tessuto raro, tinto di
quale a te piace colore, distinto con fili più grossi in quanti a te piace paraleli, qual
velo pongo tra l'occhio e la cosa veduta, tale che la pirramide visiva penetra per la
rarità del velo. Porgeti questo velo certo non picciola commodità: primo, che sempre
ti ripresenta medesima non mossa superficie, dove tu, posti certi termini, subito
ritruovi la vera cuspide della pirramide, qual cosa certo senza intercisione sarebbe
difficile; e sai quanto sia impossibile bene contraffare cosa quale non continovo servi
una medesima presenza. Di qui pertanto sono più facili a ritrarre le cose dipinte che le
scolpite. E conosci quanto, mutato la distanza e mutato la posizione del centro, paia
quello che tu vedi molto alterato. Adunque il velo ti darà, quanto dissi, non poca
utilità ove sempre a vederla sarà una medesima cosa. L'altra sarà utilità che tu potrai
facile constituire i termini degli orli e delle superficie. Ove in questo paralelo vedrai il
fronte, in quello e il naso, in un altro le guance, in quel di sotto il mento, e così ogni
cosa distinto ne' suoi luoghi, così tu nella tavola o in parete vedi divisa in simili
paraleli, ogni cosa a punto porrai. Ultimo a te darà il velo molto aiuto ad imparare
dipignere, quando vedrai nel velo cose ritonde e rilevate, per le quali cose assai potrai
e con giudicio e con esperienza provare quanto a te sia il nostro velo utilissimo.
32. Né io qui udirò quelli che dicano poco convenirsi al pittore usarsi a queste
cose, quali bene che portino molto aiuto a bene dipignere, pure sono sì fatte che poi
senza quelle potrai nulla. Non credo io dal pittore si richiegga infinita fatica, ma bene
s'aspetti pittura quale molto paia rilevata e simigliata a chi ella si ritrae; qual cosa non
intendo io sanza aiuto del velo alcuno mai possa. Adunque usino questa intercisione,
cioè velo, qual dissi. E dove a loro piaccia provare l'ingegno suo senza velo, pure in
prima notino i termini delle cose drento da' paraleli del velo, o vero così seguitino
rimirandole che sempre immaginino una linea a traverso ivi da un'altra
perpendiculare essere segata, ove sia statuito quel termine. Ma perché non raro ad i
pittori inesperti sono gli orli delle superficie non conosciuti, dubbi e incerti, come ne'
visi degli uomini, ove non discernono che mezzo sia tra 'l fronte e le tempie, pertanto
conviensi loro insegnare in che modo possano conoscere. Questo bene ci dimostra la
natura. Veggiamo nelle piane superficie che ciascuna ci si dimostra con sue linee,
lumi e ombre; così ancora le sperich'e concave superficie veggiamo quasi divise in
molte superficie quasi quadrate con diverse macchie di lumi e d'ombre. Pertanto
ciascuna parte, con sua chiarità divisa da quella che sia oscura, si vuole avere per più
superficie. Ma se una medesima superficie cominciando ombrosa a poco a poco
venendo in chiaro continua, allora quello che fra loro sia il mezzo si noti con una
sottilissima linea, acciò che ivi sia la ragione del colorire men dubbia.
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Circumscriptioni igitur opera detur, ad quam quidem bellissime tenendam nihil
accomodatius inveniri posse existimo quam id velum quod ipse inter familiares meos
sum solitus appellare intercisionem, cuius ego usum nunc primum adinveni. Id
istiusmodi est: velum filo tenuissimo et rare textum quovis colore pertinctum filis
grossioribus in parallelas portiones quadras quot libeat distinctum telarioque
distentum. Quod quidem inter corpus repraesentandum atque oculum constituo, ut per
veli raritates pyramis visiva penetret. Habet enim haec veli intercisio profecto
commoda in se non pauca, primo quod easdem semper immotas superticies referat,
nam positis terminis illico pristinam pyramidis cuspidem reperies, quae res absque
intercisione sane perdifficillima est. Et nosti quam sit impossibile aliquid pingendo
recte imitari quod non perpetuo eandem pingenti faciem servet. Hinc est quod pictas
res, cum semper eandem faciem servent, facilius quam sculptas aemulantur. Tum
nosti quam, intervallo ac centrici positione mutatis, res ipsa visa alterata esse
appareat. Itaque hanc non mediocrem quam dixi utilitatem velum praestabit, ut res
semper eadem e conspectu persistat. Proxima utilitas est quod fimbriarum situs et
superficierum termini certissimis in pingenda tabula locis facile constitui possint, nam
cum istoc in parallelo frontem, in proximo nasum, in propinquo genas, in inferiori
mentum, et istiusmodi omnia in locis suis disposita intuearis, itidem in tabula aut
pariete suis quoque parallelis divisa illico bellissime om nia collocaris. Postremo hoc
idem velum maximum ad perficiendam picturam adiumentum praestat,
quandoquidem rem ipsam prominentem et rotundam in istac planitie veli conscriptam
et depictam videas. Quibus ex rebus quantam ad facile et recte pingendum utilitatem
velum exhibeat, satis et iudicio et experientia intelligere possumus.
32. Nec eos audiam qui dicunt minime conducere pictorem his rebus assuefieri,
quae etsi maximum ad pingendum adiumentum afferant, tamen huismodi sunt ut
absque illis vix quicquam per se artifex possit. Non enim a pictore, ni fallor, infinitum
laborem exposcimus, sed picturam expectamus eam quae maxime prominens et datis
corporibus persimilis videatur. Quam rem quidem non satis intelligo quonam pacto
unquam sine veli adminiculo possit quispiam vel mediocriter assequi. Igitur
intercisione hac, idest velo, ut dixi, utantur ii qui student in pictura proficere. Quod si
absque velo experiri ingenium delectet, hanc ipsam parallelorum rationem intuitu
consequantur, ut semper lineam illic transversam ab altera perpendiculari persectam
imaginentur, ubi prospectum terminum in pictura statuant. Sed cum plerunque
inexpertis pictoribus fimbriae superficierum dubiae et incertae sint veluti in vultibus,
quod non decernunt quo potissimum loco tempora a fronte discriminentur, edocendi
idcirco sunt quonam argumento eius rei cognitionem assequantur. Natura id quidem
pulchre demonstrat. Nam ut in planis superficiebus intuemur ut suis propriis
luminibus et umbris insignes sint, ita et in sphaericis atque concavis superficiebus
quasi in plures superficies easdem diversis umbrarum et luminum maculis quadratas
videmus. Ergo singulae partes claritate et obscuritate differentes pro singulis
superficiebus habendae sunt. Quod si ab umbroso sensim deficiendo ad illustrem
sottilissima linea, acciò che ivi sia la ragione del colorire men dubbia.
superficiebus habendae sunt. Quod si ab umbroso sensim deficiendo ad illustrem
colorem visa superficies continuarit, tunc medium, quod inter utrunque spatium est,
linea signare oportet, quo omnis colorandi spatii ratio minus dubia sit.
33. Resta da dire della circonscrizione cosa quale non poco apartiene alla
composizione. Per questo si conviene sapere che sia in pittura composizione. Dico
composizione essere quella ragione di dipignere, per la quale le parti si compongono
nella opera dipinta. Grandissima opera del pittore sarà l'istoria: parte della istoria
sono i corpi: parte de' corpi sono i membri: parte de' membri sono le superficie. E
dove la circonscrizione non altro sia che certa ragione di segnare l'orlo delle
superficie, poi che delle superficie alcuna si truova picciola come quella degli
animali, alcuna si truova grande come quella degli edifici e de' colossi, delle picciole
superficie bastino i precet ti sino a qui detti, quali dimostrano quanto s'apprendano col
velo. Alle superficie maggiori ci convien trovare nuove ragioni. Ma dobbiamo
ricordarci di quanto di sopra ne' dirozzamenti dicemmo delle superficie, de' razzi,
della pirramide e della intersegazione, ancora e de' paraleli del pavimento, e del
centrico punto e linea. Nel pavimento scritto con sue linee e paraleli sono da edificare
muri e simili superficie quali appellammo giacenti. Qui adunque dirò brevissimo
quello che io faccio. Principio, comincio dai fondamenti. Pongo la larghezza e la
lunghezza de' muri ne' suoi paraleli, in quale descrizione seguo la natura, in qual
veggo che di niuno quadrato corpo, quale abbia retti angoli, ad uno tratto posso
vedere d'intorno più che due facce congiunte. Così io questo osservo descrivendo i
fondamenti dei pareti; e sempre in prima comincio dalle più prossimane superficie,
massime da quelle quali equalmente sieno distanti dalla intersegazione. Queste
adunque metto inanzi l'altre, descrivendo loro latitudine e longitudine in quelli
paraleli del pavimento, in modo che quante io voglia occupare braccia, tanto prendo
paraleli. E a ritrovare il mezzo di ciascuno paralelo truovo dove l'uno e l'altro
diamitro si sega insieme, e così quanto voglio i fondamenti descrivo. Poi l'altezza
seguo con ordine non difficilissimo. Conosco l'altezza del parete in sé tenere questa
proporzione, che quanto sia dal luogo onde essa nasce sul pavimento per sino alla
centrica linea, con quella medesima in su crescere. Onde se vorrai questa quantità dal
pavimento persino alla centrica linea essere l'altezza d'uno uomo, saranno adunque
queste braccia tre. Tu adunque volendo il parete tuo essere braccia dodici, tre volte
tanto andrai su in alto quanto sia dalla centrica linea persino a quel luogo del
pavimento. Con queste ragioni così possiamo disegnare tutte le superficie quali
abbiano angolo.
34. Restaci a dire in che modo si disegnino le circulari. Tragonsi le circulari delle
angulari; e questo fo io così. Fo in sullo spazzo uno quadrangolo con angoli retti, e
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33. Restat ut de circumscriptione aliquid etiam referamus, quod ad
compositionem quoque non parum pertinet. Idcirco non ignorandum est quid sit
compositio in pictura. Est autem compositio ea pingendi ratio qua partes in opus
picturae componuntur. Amplissimum pictoris opus historia, historiae partes corpora,
corporis pars membrum est, membri pars est superficies. Etenim cum sit
circumscriptio ea ratio pingendi qua fimbriae superficierum designantur, cumque
superficierum aliae parvae ut animantium, aliae ut aedificiorum et colossorum
amplissimae sint, de parvis superficiebus circumscribendis ea praecepta sufficiant
quae hactenus dicta sunt, nam ostensum est ut eadem pulchre velo metiantur. In
maioribus ergo superficiebus nova ratio reperienda est. Qua de re quae supra in
rudimentis a nobis de superficiebus, radiis pyramideque atque intercisione exposita
sunt, ea omnia menti repetenda sunt. Denique meministi quae de pavimenti parallelis
et centrico puncto atque linea disserui. In pavimento ergo parallelis inscripto alae
murorum et quaevis huiusmodi, quas incumbentes nuncupavimus superficies,
coaedificandae sunt. Dicam ergo breviter quid ipse in hac coaedificatione efficiam.
Principio ab ipsis fundamentis exordium capio. Latitudinem enim et longitudinem
murorum in pavimento describo, in qua quidem descriptione illud a natura
animadverti nullius quadrati corporis rectorum angulorum plus quam duas solo
incumbentes iunctas superficies uno aspectu posse videri. Ergo in describendis
parietum fundamentis id observo ut solum ea latera circumeam quae sub aspectu
pateant; ac primo semper a proximioribus superficiebus incipio, maxime ab his quae
aeque ab intercisione distant. Itaque has ego ante alias conscribo, atque quam velim
esse harum ipsarum longitudinem ac latitudinem ipsis in pavimento descriptis
parallelis constituo, nam quot ea velim esse bracchia tot mihi parallelos assumo.
Medium vero parallelorum ex utriusque diametri mutua sectione accipio. Nam
diametri a diametro intersectio medium sui quadranguli locum possidet. Itaque hac
parallelorum mensura pulchre latitudinem atque longitudinem surgentium a solo
moenium conscribo. Tum altitudinem quoque superficierum hinc non difficillime
assequor. Nam quae mensura est inter centricam lineam et eum pavimenti locum unde
aedificii quantitas insurgit, eandem mensuram tota illa quantitas servabit. Quod si
voles istanc quantitatem ab solo esse usque in sublime quater quam est hominis picti
longitudo, et fuerit linea centrica ad hominis altitudinem posita, erunt tunc quidem ab
infimo quantitatis capite usque ad centricam lineam bracchia tria. Tu vero qui istanc
quantitatem vis usque ad bracchia xii excrescere, ter tantundem quantum est a
centrica usque ad inferius quantitatis caput sursum versus educito. Ergo ex his quas
retulimus rationibus pingendi probe possumus omnes angulares superficies
circumscribere.
angulari; e questo fo io così. Fo in sullo spazzo uno quadrangolo con angoli retti, e
divido i lati di questo quadrangolo in parte simili a quelle parti in quale divisi la linea
iacente nel primo quadrangolo della pittura; e qui da ciascuno punto al suo oposito
punto tiro linee, e così rimane lo spazzo diviso in molti piccioli quadrangoli. Quivi io
scrivo uno cerchio quanto il voglio grande, così che le linee de' piccioli quadrati e la
linea del circolo insieme l'una con l'altra si tagli, e noto tutti i punti di questi
tagliamenti, quali luoghi segno ne' paraleli del pavimento nella mia pittura. Ma
perché sarebbe fatica estrema e quasi infinita con nuovi minori paraleli dividere il
cerchio in molti luoghi, e così con molto numero di punti seguire continovando il
circolo, per questo, quando io arò notato otto o più tagliamenti, segno con ingegno il
mio circulo nella pittura guidando la linea da termine a termine. Forse sarebbe più
brieve via corlo all'ombra? Certo sì, dove il corpo quale facesse ombra fusse in mezzo
posto con sua ragione in suo luogo. Dicemmo adunque in che modo coll'aiuto de'
paraleli le superficie grandi acantonate e tonde si disegnino. Finita adunque la
circunscrizione, cioè il modo del disegnare, restaci a dire della composizione.
Convienci repetere che sia composizione.
35. Composizione è quella ragione di dipignere con la quale le parti delle cose
vedute si pongono insieme in pittura. Grandissima opera del pittore non uno collosso,
ma istoria. Maggiore loda d'ingegno rende l'istoria che qual sia collosso. Parte della
istoria sono i corpi, parte de' corpi i membri, parte de' membri la superficie. Le prime
adunque parti del dipignere sono le superficie. Nasce della composizione delle
superficie quella grazia ne' corpi quale dicono bellezza. Vedesi uno viso, il quale
abbia sue superficie chi grandi e chi piccole, quivi ben rilevate e qui ben drento
riposto, simile al viso delle vecchierelle, questo essere in aspetto bruttissimo. Ma
quelli visi s'aranno le superficie giunte in modo che piglino ombre e lumi ameni e
suavi, né abbino asperitate alcuna di rilevati canti, certo diremo questi essere formosi
e dilicati visi. Adunque in questa composizione di superficie molto si cerca la grazia e
bellezza delle cose quale, a chi voglia seguirla, pare a me niuna più atta e più certa via
che di torla dalla natura, ponendo mente in che modo la natura, maravigliosa artefice
delle cose, bene abbia in be' corpi composte le superficie. A quale imitarla, si
conviene molto avervi continovo pensieri e cura, insieme e molto dilettarsi del nostro,
qual di sopra dicemmo, velo. E quando vogliamo mettere in opera quanto aremo
compreso dalla natura, prima sempre aremo notato i termini dove tiriamo ad uno
certo luogo nostre linee.
36. Sino a qui detto della composizione delle superficie. Seguita de' membri.
Conviensi in prima dare opera che tutti i membri bene convengano. Converranno
quando e di grandezza e d'offizio e di spezie e di colore e d'altre simili cose
corrisponderanno ad una bellezza: ché se fusse in una dipintura il capo grandissimo e
il petto piccolo, la mano ampia e il piè enfiato, il corpo gonfiato, questa composizione
certo sarebbe brutta a vederla. Adunque conviensi tenere certa ragione circa alla
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34. Restat ut de circularibus superficiebus suis fimbriis conscribendis enarremus.
Circulares quidem ex angularibus extrahuntur. Id ipse sic facio. Areolam
quandrangulo rectorum angulorum incircuo, huiusque quadranguli latera in partes
eiusmodi divido in quales partes inferior in pictura quadranguli linea divisa est,
lineasque a singulis punctis ad sibi oppositos punctos divisionum ducens parvis
quadrangulis aream repleo. Illicque circulum quam velim magnum super inscribo ut
mutuo sese circulus et parallelae lineae secent, omnesque sectionum punctos loco
adnoto, quae loca in suis parallelis pavimenti descripti in pictura consigno. Sed quia
esset extremus labor minutis ac paene infinitis parallelis totum circulum multis ac
multis locis percidere, quoad numerosa punctorum consignatione fimbria circuli
continuaretur, idcirco ipse cum octo aut quot libuerit percisiones notaro, tum ingenio
eum circuli ambitum pingendo ad hos ipsos signatos terminos duco. Fortassis brevior
esset via hanc fimbriam ad umbram luminis circumscribere, modo corpus quod
umbram efficiat certa ratione suo loco interponeretur. Itaque diximus ut parallelorum
adiumentis maiores superficies angulares et circulares circumscribantur. Absoluta
igitur omni circumscriptione, sequitur ut de compositione dicendum sit. Repetendum
idcirco est quid sit compositio.
35. Est autem compositio ea pingendi ratio qua partes in opus picturae
componuntur. Amplissimum pictoris opus non colossus sed historia. Maior enim est
ingenii laus in historia quam in colosso. Historiae partes corpora, corporis pars
membrum est, membri pars est superficies. Primae igitur operis partes superficies,
quod ex his membra, ex membris corpora, ex illis historia, ultimum illud quidem et
absolutum pictoris opus perficitur. Ex superficierum compositione illa elegans in
corporibus concinnitas et gratia extat, quam pulchritudinem dicunt. Nam is vultus qui
superficies alias grandes, alias minimas, illuc prominentes, istuc intus nimium
retrusas et reconditas habuerit, quales in vetularum vultibus videmus, erit quidem is
aspectu turpis. In qua vero facie ita iunctae aderunt superficies ut amena lumina in
umbras suaves defluant, nullaeque angulorum asperitates extent, hanc merito
formosam et venustam faciem dicemus. Ergo in hac superficierum compositione
maxime gratia et pulchritudo perquirenda est. Quonam vero pacto id assequamur,
nulla alia modo mihi visa est via certior quam ut naturam ipsam intueamur, diuque ac
diligentissime spectemus quemadmodum natura, mira rerum artifex, in pulcherrimis
membris superficies composuerit. In qua imitanda omni cogitatione et cura versari
veloque quod diximus vehementer delectari oportet. Dumque sumptas a pulcherrimis
corporibus superficies in opus relaturi sumus, semper terminos prius destinemus quo
lineas certo loco dirigamus.
36. Hactenus de superficierum compositione. Sequitur ut de compositione
membrorum referamus. In membrorum compositione danda in primis opera est ut
quaequae inter se membra pulchre conveniant. Ea quidem tunc convenire pulchre
certo sarebbe brutta a vederla. Adunque conviensi tenere certa ragione circa alla
grandezza de' membri, in quale commensurazione gioverà prima allogare ciascuno
osso dell'animale, poi apresso agiungere i suoi muscoli, di poi tutto vestirlo di sue
carne. Ma qui sarà chi mi contraponga quanto di sopra dissi, che al pittore nulla
s'apartiene delle cose quali non vede. Ben ramentano costoro, ma come a vestire
l'uomo prima si disegna ignudo, poi il circondiamo di panni, così dipignendo il nudo,
prima pogniamo sue ossa e muscoli, quali poi così copriamo con sue carni che non sia
difficile intendere ove sotto sia ciascuno moscolo. E poi che la natura ci ha porto in
mezzo le misure, ove si truova non poca utilità a riconoscerle dalla natura, ivi
adunque piglino gli studiosi pittori questa fatica, per tanto tenere a mente quello che
piglino dalla natura, quanto a riconoscerle aranno posto suo studio e opera. Una cosa
ramento, che a bene misurare uno animante si pigli uno quale che suo membro col
quale gli altri si misurino. Vitruvio architetto misurava la lunghezza dell'omo coi
piedi. A me pare cosa più degna l'altre membra si riferiscano al capo, benché ho posto
mente quasi comune in tutti gli uomini che il piede tanto è lungo quanto dal mento al
cocuzzolo del capo.
37. Così adunque, preso uno membro, si accommodi ogni altro membro in modo
che niuno di loro sia non conveniente agli altri in lunghezza e in larghezza. Poi si
provegga che ciascuno membro segua, a quello che ivi si fa, al suo officio. Sta bene a
chi corre non meno gittare le mani che i piedi; ma voglio un filosafo, mentre che
favella, dimostri molto più modestia che arte di schermire. Lodasi una storia in Roma
nella quale Meleagro morto, portato, aggrava quelli che portano il peso, e in sé pare
in ogni suo membro ben morto ogni cosa pende, mani, dito e capo; ogni cosa cade
languido; ciò che ve si dà ad espriemere uno corpo morto, qual cosa certo è
difficilissima, però che in uno corpo chi saprà fingere ciascuno membro ozioso, sarà
ottimo artefice. Così adunque in ogni pittura si osservi che ciascuno membro faccia il
suo officio, che niuno per minimo articolo che sia, resti ozioso. E sieno le membra de'
morti sino all'unghie morte. Dei vivi sia ogni minima parte viva. Dicesi vivere il
corpo quando a sua posta abbia certo movimento: dicesi morte dove i membri non più
possono portare gli offici della vita, cioè movimento e sentimento. Adunque il pittore,
volendo espriemere nelle cose vita, farà ogni sua parte in moto; ma in ciascuno moto
terrà venustà e grazia. Sono gratissimi i movimenti e ben vivaci quelli e' quali si
muovano in alto verso l'aere. Dicemmo ancora alla composizione de' membri doversi
certa spezie: e sarebbe cosa assurda se le mani di Elena o di Efigenia fussero
vecchizze e zotiche, o se in Nestor fusse il petto tenero e il collo dilicato, o se a
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quaequae inter se membra pulchre conveniant. Ea quidem tunc convenire pulchre
dicuntur, cum et magnitudine et officio et specie et coloribus et caeteris siquae sunt
huiusmodi rebus ad venustatem et pulchritudinem correspondeant. Quod si in
simulacro aliquo caput amplissimum, pectus pusillum, manus perampla, pes tumens,
corpus turgidum adsit, haec sane compositio erit aspectu deformis. Ergo quaedam
circa magnitudinem membrorum ratio tenenda est, in qua sane commensuratione
iuvat in animantibus pingendis primum ossa ingenio subterlocare, nam haec, quod
minime inflectantur, semper certam aliquam sedem occupant. Tum oportet nervos et
musculos suis locis inhaerere, denique extremum carne et cute ossa et musculos
vestitos reddere. Sed (video) hoc in loco fortassis aderunt obiicientes quod supra
dixerim nihil ad pictorem earum rerum spectare quae non videantur. Recte illi
quidem, sed veluti in vestiendo prius nudum subsignare oportet quem postea vestibus
obambiendo involuamus, sic in nudo pingendo prius ossa et musculi disponendi sunt,
quos moderatis carnibus et cute ita operias, ut quo sint loco musculi non difficile
intelligatur. At enim cum has omnes mensuras natura ipsa explicatas in medium
exhibeat, tum in eisdem ab ipsa natura proprio labore recognoscendis utilitatem non
modicam inveniet studiosus pictor. Idcirco laborem hunc studiosi suscipiant, ut
quantum in symmetria membrorum recognoscenda studii et operae posuerint, tantum
sibi ad eas res quas didicerint memoria firmandas profuisse intelligant. Unum tamen
admoneo, ut in commensurando animante aliquod illius ipsius animantis membrum
sumamus, quo caetera metiantur. Vitruvius architectus hominis longitudinem pedibus
dinumerat. Ipse vero dignius arbitror si caetera ad quantitatem capitis referantur,
tametsi hoc animadverti ferme commune esse in hominibus, ut eadem et pedis et quae
est a mento ad cervicem capitis mensura intersit.
37. Itaque uno suscepto membro, huic caetera accommodanda sunt ut nullum in
toto animante membrum adsit longitudine aut latitudine caeteris non correspondens.
Tum providendum est ut omnia membra suum ad id de quo agitur officium
exequantur. Decet currentem manus non minus iactare quam pedes. At philosophum
orantem malo in omni membro sui modestiam quam palaestram ostentet. Daemon
pictor hoplicitem (sic) in certamine expressit, ut illum sudare tum quidem diceres,
alterumque arma deponentem, ut plane anhelare videretur. Fuit et qui Ulixem pingeret
ut in eo non veram sed fictam et simulatam insaniam agnoscas. Laudatur apud
Romam historia in qua Meleager defunctus asportatur, quod qui oneri subsunt angi et
omnibus membris laborare videantur; in eo vero qui mortuus sit, nullum adsit
membrum quod non demortuum appareat, omnia pendent, manus, digiti, cervix,
omnia languida decidunt, denique omnia ad exprimendam corporis mortem
congruunt. Quod quidem omnium difficillimum est, nam omni ex parte otiosa in
corpore membra effingere tam summi artificis est quam viva omnia et aliquid agentia
reddere. Ergo hoc ipsum in omni pictura servandum est, ut quaequae membra suum
ad id de quo agitur officium ita peragant, ut ne minimus quidem articulus pro re vacet
munere, ut mortuorum membra ad unguem usque mortua, viventium vero omnia viva
vecchizze e zotiche, o se in Nestor fusse il petto tenero e il collo dilicato, o se a
Ganimede fusse la fronte crespa o le coscie d'un facchino, o se a Milone, fra gli altri
gagliardissimo, fusseno i fianchi magrolini e sottiluzzi. E ancora in quella figura, in
quale fusse il viso fresco e lattoso, sarebbe sozzo soggiungervi le braccia e le mani
secche per magrezza. Così chi dipignesse Acamenide, trovato da Enea in su
quell'isola con quella faccia quale Virgilio il descrive, non seguendo gli altri membri
a tanta tisichezza, sarebbe pittore da farsene beffe. Pertanto così conviene tutte le
membra condicano ad una spezie. E ancora voglio le membra corrispondano ad uno
colore, però che a chi avesse il viso rosato, candido e venusto, a costui poco
s'affarebbe il petto e l'altre membra brutte e sucide.
38. Adunque nella composizione de' membri dobbiamo seguire quanto dissi della
grandezza, officio, spezie e colori. Poi apresso ogni cosa seguiti ad una dignità.
Sarebbe cosa non conveniente vestire Venere o Minerva con uno capperone da
saccomanno: simile sarebbe vestire Marte o Giove con una vesta di femmina.
Curavano gli antiqui dipintori, dipignendo Castor e Poluce, fare che paressero fratelli,
ma nell'uno apparesse natura pugnace, nell'altro agilità. Facevano ancora che a
Vulcano sotto la vesta parea il suo vizio di zopicare, tanto era in loro studio
espriemere officio, spezie e dignità a qualunque cosa dipignessero.
39. Seguita la composizione de' corpi, nella quale ogni lode e ingegno del pittore
consiste. Alla quale composizione certe cose dette nella composizione de' membri qui
s'apartengono. Conviensi che i corpi insieme si confacciano in istoria con grandezza e
con adoperarsi. Chi dipignesse centauri far briga apresso la cena, sarebbe cosa innetta
in tanto tumulto che alcuno carico di vino stesse adormentato. E sarebbe vizio se in
pari distanza l'uno fusse più che l'altro maggiore, o se ivi fussero e' cani equali ai
cavalli, overo se, quello che spesse volte veggo, ivi fusse uomo alcuno nello edificio
quasi come in uno scrigno inchiuso, dove apena sedendo vi si assetti. Adunque tutti i
corpi per grandezza e suo officio s'aconfaranno a quello che ivi nella storia si facci.
40. Sarà la storia, qual tu possa lodare e maravigliare, tale che con sue
piacevolezze si porgerà sì ornata e grata, che ella terrà con diletto e movimento
d'animo qualunque dotto o indotto la miri. Quello che prima dà voluttà nella istoria
viene dalla copia e varietà delle cose. Come ne' cibi e nella musica sempre la novità e
abondanza tanto piace quanto sia differente dalle cose antique e consuete, così
l'animo si diletta d'ogni copia e varietà. Per questo in pittura la copia e varietà piace.
Dirò io quella istoria essere copiosissima in quale a' suo luoghi sieno permisti vecchi,
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munere, ut mortuorum membra ad unguem usque mortua, viventium vero omnia viva
esse videantur. Vivere corpus tum dicitur cum motu quodam sua sponte agatur,
mortemque aiunt esse ubi membra vitae officia, hoc est motum et sensum, amplius
ferre nequeunt. Ergo quae corporum simulacra pictor viva apparere voluerit, in his
efficiet ut omnia membra suos motus exequantur. Sed in omni motu venustas et gratia
sectanda est. Ac maxime hi membrorum motus vivaces et gratissimi sunt qui aera in
altum petunt. Tum speciem quoque diximus in componendis membris spectandam
esse. Nam perabsurdum esset si Helenae aut Iphigeniae manus seniles et rusticanae
viderentur, aut si Nestori pectus tenerum et cervix lenis, aut si Ganymedi frons
rugosa, crura athletae, aut si Miloni omnium robustissimo latera levia et gracilia
adderemus. Tum etiam in eo simulacro, in quo vultus sint solidi et succipleni, ut
aiunt, turpe esset lacertos et manus macie absumptas agere. Contraque qui
Achaemenidem ab Aenea in insula inventum pingeret facie qua eum fuisse Virgilius
refert, nec caetera faciei convenientia sequerentur, esset is quidem pictor perridiculus
atque ineptus. Itaque specie omnia conveniant oportet. Tum colore quoque inter se
correspondeant velim. Nam quibus sint vultus rosei, venusti, nivei, his pectus ac
caetera membra fusca et truculenta minime conveniunt.
38. Ergo in compositione membrorum quae de magnitudine, officio, specie et
coloribus diximus tenenda sunt. Tum et pro dignitate omnia subsequantur oportet.
Nam Venerem aut Minervam saga indutam esse minime convenit. Iovem aut Martem
veste muliebri indecenter vestires. Castorem et Pollucem prisci pictores pingendo
curabant ut, cum gemelli viderentur, in altero tamen pugilem naturam, in altero
agilitatem discerneres. Tum et Vulcano claudicandi vitium apparere sub vestibus
volebant, tantum illis erat studium pro officio, specie et dignitate quod oportet
exprimere.
39. Sequitur corporum compositio, in qua omne pictoris ingenium et laus versatur.
Quam quidem ad compositionem nonnulla in com positione membrorum dicta
pertinent, nam officio et magnitudine corpora omnia in historia conveniant oportet. Si
enim centauros in cena tumultuantes pinxeris, ineptum esset in tam efferato tumultu
aliquem vino sopitum accubare. Tum etiam vitium esset, si homines pari distantia alii
aliis multo maiores, aut si canes equis pares in pictura adessent. Neque parum etiam
vituperandum est, quod plerunque video, pictos in aedificio homines quasi in scrinio
reclusos, in quo vix sedentes et in orbem coacti recipiantur. Corpora igitur omnia et
magnitudine et officio ad eam rem de qua agitur conveniant.
40. Historia vero, quam merito possis et laudare et admirari, eiusmodi erit quae
illecebris quibusdam sese ita amenam et ornatam exhibeat, ut oculos docti atque
indocti spectatoris diutius quadam cum voluptate et animi motu detineat. Primum
Dirò io quella istoria essere copiosissima in quale a' suo luoghi sieno permisti vecchi,
giovani, fanciulli, donne, fanciulle, fanciullini, polli, catellini, uccellini, cavalli,
pecore, edifici, province, e tutte simili cose: e loderò io qualunque copia quale
s'apartenga a quella istoria. E interviene, dove chi guarda soprasta rimirando tutte le
cose, ivi la copia del pittore acquisti molta grazia. Ma vorrei io questa copia essere
ornata di certa varietà, ancora moderata e grave di dignità e verecundia. Biasimo io
quelli pittori quali, dove vogliono parere copiosi nulla lassando vacuo, ivi non
composizione, ma dissoluta confusione disseminano; pertanto non pare la storia facci
qualche cosa degna, ma sia in tumulto aviluppata. E forse chi molto cercherà dignità
in sua storia, a costui piacerà la solitudine. Suole ad i prencipi la carestia delle parole
tenere maestà, dove fanno intendere suoi precetti. Così in istoria uno certo
competente numero di corpi rende non poca dignità. Dispiacemi la solitudine in
istoria, pure né però laudo copia alcuna quale sia sanza dignità. Ma in ogni storia la
varietà sempre fu ioconda, e in prima sempre fu grata quella pittura in quale sieno i
corpi con suoi posari molto dissimili. Ivi adunque stieno alcuni ritti e mostrino tutta la
faccia, con le mani in alto e con le dita liete, fermi in su un piè. Agli altri sia il viso
contrario e le braccia remisse, coi piedi agiunti. E così a ciascuno sia suo atto e
flessione di membra: altri segga, altri si posi su un ginocchio, altri giacciano. E se
così ivi sia licito, sievi alcuno ignudo, e alcuni parte nudi e parte vestiti, ma sempre si
serva alla vergogna e alla pudicizia. Le parti brutte a vedere del corpo, e l'altre simili
quali porgono poca grazia, si cuoprano col panno, con qualche fronde o con la mano.
Dipignevano gli antiqui l'immagine d'Antigono solo da quella parte del viso ove non
era mancamento dell'occhio. E dicono che a Pericle era suo capo lungo e brutto, e per
questo dai pittori e dagli scultori, non come gli altri era col capo nudo, ma col capo
armato ritratto. E dice Plutarco gli antiqui pittori, dipignendo i re, se in loro era
qualche vizio, non volerlo però essere non notato, ma quanto potevano, servando la
similitudine, lo emendavano. Così adunque desidero in ogni storia servarsi quanto
dissi modestia e verecundia, e così sforzarsi che in niuno sia un medesimo gesto o
posamento che nell'altro.
41. Poi moverà l'istoria l'animo quando gli uomini ivi dipinti molto porgeranno
suo propio movimento d'animo. Interviene da natura, quale nulla più che lei si truova
rapace di cose a sé simile, che piagniamo con chi piange, e ridiamo con chi ride, e
doglianci con chi si duole. Ma questi movimenti d'animo si conoscono dai movimenti
del corpo. E veggiamo quanto uno atristito, perché la cura estrigne e il pensiero
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indocti spectatoris diutius quadam cum voluptate et animi motu detineat. Primum
enim quod in historia voluptatem afferat est ipsa copia et varietas rerum. Ut enim in
cibis atque in musica semper nova et exuberantia cum caeteras fortassis ob causas
tum nimirum eam ob causam delectant quod ab vetustis et consuetis differant, sic in
omni re animus varietate et copia admodum delectatur. Idcirco in pictura et corporum
et colorum varietas amena est. Dicam historiam esse copiosissimam illam in qua suis
locis permixti aderunt senes, viri, adolescentes, pueri, matronae, virgines, infantes,
cicures, catelli, aviculae, equi, pecudes, aedificia, provinciaeque; omnemque copiam
laudabo modo ea ad rem de qua illic agitur conveniat. Fit enim ut cum spectantes
lustrandis rebus morentur, tum pictoris copia gratiam assequatur. Sed hanc copiam
velim cum varietate quadam esse ornatam, tum dignitate et verecundia gravem atque
moderatam. Improbo quidem eos pictores, qui quo videri copiosi, quove nihil vacuum
relictum volunt, eo nullam sequuntur compositionem sed confuse et dissolute omnia
disseminant, ex quo non rem agere sed tumultuare historia videtur. Ac fortassis qui
dignitatem in primis in historia cupiet, huic solitudo admodum tenenda erit. Ut enim
in principe maiestatem affert verborum paucitas, modo sensa et iussa intelligantur, sic
in historia competens corporum numerus adhibet dignitatem. Odi solitudinem in
historia, tamen copiam minime laudo quae a dignitate abhorreat. Atque in historia id
vehementer approbo quod a poetis tragicis atque comicis observatum video, ut quam
possint paucis personatis fabulam doceant. Meo quidem iudicio nulla erit usque adeo
tanta rerum varietate referta historia, quam novem aut decem homines non possint
condigne agere, ut illud Varronis huc pertinere arbitror, qui in convivio tumultum
evitans non plus quam novem accubantes admittebat. Sed in omni historia cum
varietas iocunda est, tamen in primis onmibus grata est pictura, in qua corporum
status atque motus inter se multo dissimiles sint. Stent igitur alii toto vultu conspicui,
manibus supinis et digitis micantibus, alterum in pedem innixi, aliis adversa sit facies
et demissa bracchia, pedesque iniuncti, singulisque singuli flexus et actus extent; alii
consideant, aut in flexo genu morentur, aut prope incumbant. Sintque nudi, si ita
deceat, aliqui, nonnulli mixta ex utrisque arte partim velati partim nudi assistant. Sed
pudori semper et verecundiae inserviamus. Obscoenae quidem corporis et hae omnes
partes quae parum gratiae habent, panno aut frondibus aut manu operiantur. Apelles
Antigoni imaginem ea tantum parte vultus pingebat qua oculi vitium non aderat.
Periclem referunt habuisse caput oblongum et deforme; idcirco a pictoribus et
sculptoribus, non ut caeteros inoperto capite, sed casside vestito eum formari solitum.
Tum antiquos pictores refert Plutarchus solitos in pingendis regibus, si quid vitii
aderat formae, non id praetermissum videri velle, sed quam maxime possent, servata
similitudine, emendabant. Hanc ergo modestiam et verecundiam in universa historia
observari cupio ut foeda aut praetereantur aut emendentur. Denique, ut dixi,
studendum censeo ut in nullo ferme idem gestus aut status conspiciatur.
41. Animos deinde spectantium movebit historia, cum qui aderunt picti homines
suum animi motum maxime prae se ferent. Fit namque natura, qua nihil sui similium
del corpo. E veggiamo quanto uno atristito, perché la cura estrigne e il pensiero
l'assedia, stanno con sue forze e sentimenti quasi balordi, tenendo sé stessi lenti e
pigri in sue membra palide e malsostenute. Vedrai a chi sia malinconico il fronte
premuto, la cervice languida, al tutto ogni suo membro quasi stracco e negletto cade.
Vero, a chi sia irato, perché l'ira incita l'animo, però gonfia di stizza negli occhi e nel
viso, e incendesi di colore, e ogni suo membro, quanto il furore, tanto ardito si getta.
Agli uomini lieti e gioiosi sono i movimenti liberi e con certe inflessioni grati. Dicono
che Aristide tebano equale ad Appelle molto conoscea questi movimenti, quali certo e
noi conosceremo quando a conoscerli porremo studio e diligenza.
42. Così adunque conviene sieno ai pittori notissimi tutti i movimenti del corpo,
quali bene impareranno dalla natura, bene che sia cosa difficile imitare i molti
movimenti dello animo. E chi mai credesse, se non provando, tanto essere difficile,
volendo dipignere uno viso che rida, schifare di non lo fare piuttosto piangioso che
lieto? E ancora chi mai potesse senza grandissimo studio espriemere visi nei quale la
bocca, il mento, gli occhi, le guance, il fronte, i cigli, tutti ad uno ridere o piangere
convengono? Per questo molto conviensi impararli dalla natura, e sempre seguire
cose molto pronte e quali lassino da pensare a chi le guarda molto più che egli non
vede. Ma che noi racontiamo alcune cose di questi movimenti, quali parte
fabbricammo con nostro ingegno, parte imparammo dalla natura. Parmi in prima tutti
e' corpi a quello si debbano muovere a che sia ordinata al storia. E piacemi sia nella
storia chi ammonisca e insegni a noi quello che ivi si facci, o chiami con la mano a
vedere, o con viso cruccioso e con gli occhi turbati minacci che niuno verso loro
vada, o dimostri qualche pericolo o cosa ivi maravigliosa, o te inviti a piagnere con
loro insieme o a ridere. E così qualunque cosa fra loro o teco facciano i dipinti, tutto
apartenga a ornare o a insegnarti la storia. Lodasi Timantes di Cipri in quella tavola in
quale egli vinse Colocentrio, che nella imolazione di Efigenia, avendo finto Calcante
mesto, Ulisse più mesto, e in Menelao poi avesse consunto ogni suo arte a molto
mostrarlo adolorato, non avendo in che modo mostrare la tristezza del padre, a lui
avolse uno panno al capo, e così lassò si pensasse qual non si vedea suo acerbissimo
merore. Lodasi la nave dipinta a Roma, in quale el nostro toscano dipintore Giotto
pose undici discepoli tutti commossi da paura vedendo uno de' suoi compagni
passeggiare sopra l'acqua, ché ivi espresse ciascuno con suo viso e gesto porgere suo
certo indizio d'animo turbato, tale che in ciascuno erano suoi diversi movimenti e
stati. Ma piacemi brevissimo passare tutto questo luogo de' movimenti.
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suum animi motum maxime prae se ferent. Fit namque natura, qua nihil sui similium
rapacius inveniri potest, ut lugentibus conlugeamus, ridentibus adrideamus,
dolentibus condoleamus. Sed hi motus animi ex motibus corporis cognoscuntur. Nam
videmus ut tristes, quod curis astricti et aegritudine obsessi sint, totis sensibus ac
viribus torpeant, interque pallentia et admodum labantia membra sese lenti detineant.
Est quidem maerentibus pressa frons, cervix languida, denique omnia veluti defessa
et neglecta procidunt. Iratis vero, quod animi ira incendantur, et vultus et oculi
intumescunt ac rubent, membrorumque omnium motus pro furore iracundiae in
eisdem acerrimi et iactabundi sunt. Laeti autem et hilares cum sumus, tum solutos et
quibusdam flexionibus gratos motus habemus. Laudatur Euphranor quod in
Alexandro Paride et vultus et faciem effecerit, in qua illum et iudicem dearum et
amatorem Helenae et una Achillis interfectorem possis agnoscere. Est et Daemonis
quoque pictoris mirifica laus, quod in eius pictura adesse iracundum, iniustum,
inconstantem, unaque et exorabilem et clementem, misericordem, gloriosum,
humilem ferocemque facile intelligas. Sed inter caeteros referunt Aristidem
Thebanum Apelli aequalem probe hos animi motus expressisse, quos certum quidem
est et nos quoque, dum in ea re studium et diligentiam quantum convenit posuerimus,
pulchre assequemur.
42. Pictori ergo corporis motus notissimi sint oportet, quos quidem multa solertia
a natura petendos censeo. Res enim perdifficilis est pro paene infinitis animi motibus
corporis quoque motus variare. Tum quis hoc, nisi qui expertus sit, crediderit usque
adeo esse difficile, cum velis ridentes vultus effigiare, vitare id ne plorabundi magis
quam alacres videantur? Tum vero et quis poterit sine maximo labore, studio et
diligentia vultus exprimere, in quibus et os et mentum et oculi et genae et frons et
supercilia in unum ad luctum aut hilaritatem conveniant? Idcirco diligentissime ex
ipsa natura cuncta perscrutanda sunt, semperque promptiora imitanda, eaque
potissimum pingenda sunt, quae plus animis quod excogitent relinquant, quam quae
oculis intueantur. Sed nos referamus nonnulla quae de motibus partim fabricavimus
nostro ingenio, partim ab ipsa natura didicimus. Primum reor oportere ut omnia inter
se corpora, ad eam rem de qua agitur, concinnitate quadam moveantur. Tum placet in
historia adesse quempiam qui earum quae gerantur rerum spectatores admoneat, aut
manu ad visendum advocet, aut quasi id negotium secretum esse velit, vultu ne eo
proficiscare truci et torvis oculis minitetur, aut periculum remve aliquam illic
admirandam demonstret, aut ut una adrideas aut ut simul deplores suis te gestibus
invitet. Denique et quae illi cum spectantibus et quae inter se picti exequentur, omnia
ad agendam et docendam historiam congruant necesse est. Laudatur Timanthes
Cyprius in ea tabula qua Colloteicum vicit, quod cum in Iphigeniae immolatione
tristem Calchantem, tristiorem fecisset Ulixem, inque Menelao maerore affecto
omnem artem et ingenium exposuisset, consumptis affectibus, non reperiens quo
digno modo tristissimi patris vultus referret, pannis involuit eius caput, ut cuique plus
relinqueret quod de illius dolore animo meditaretur, quam quod posset visu
43. Sono alcuni movimenti d'animo detti affezione, come ira, dolore, gaudio e
timore, desiderio e simili. Altri sono movimenti de' corpi. Muovonsi i corpi in più
modi, crescendo, discrescendo, infermandosi, guarendo e mutandosi da luogo a
luogo. Ma noi dipintori, i quali vogliamo coi movimenti delle membra mostrare i
movimenti dell'animo, solo riferiamo di quel movimento si fa mutando el luogo.
Qualunque cosa si muove da luogo può fare sette vie: in su, uno; in giù, l'altro; in
destra, il terzo; in sinistra, il quarto; colà lunge movendosi di qui, o di là venendo in
qua; il settimo, andando attorno. Questi adunque tutti movimenti desidero io essere in
pittura. Sianvi corpi alcuni quali si porgano verso noi, alcuni si porgano in qua verso
e in là, e d'uno medesimo alcune parti si dimostrino a chi guarda, alcune si retriano,
alcune stieno alte, e alcune basse. Ma perché talora in questi movimenti si truova chi
passa ogni ragione, mi piace qui de' posari e de' movimenti raccontare alcune cose
quali ho raccolte dalla natura, onde bene intenderemo con che moderazione si
debbano usare. Posi mente come l'uomo in ogni suo posare sottostatuisca tutto il
corpo a sostenere il capo, membro fra gli altri gravissimo, e posandosi in uno piè
sempre ferma il piè perpendiculare sotto il capo quasi come base d'una colonna, e
quasi sempre di chi stia diritto il viso si porge dove si dirizzi il piè. I movimenti del
capo veggo quasi sempre essere tale che sotto a sé hanno qualche parte del corpo a
sostenerlo, tanto è grande peso quello del capo; overo certo in contraria parte quasi
come stile d'una bilancia distende uno membro quale corrisponda al peso del capo. E
veggiamo che chi sul braccio disteso sostiene uno peso fermando il piè quasi come
ago di bilancia, tutta l'altra parte del corpo si contraponga a contrapesare il peso.
Parmi ancora che, alzando il capo, niuno più porga la faccia in alto se non quanto
vegga in mezzo il cielo, né in lato alcuno più si volge il viso se non quanto il mento
tocchi la spalla; in quella parte del corpo ove ti cigni, quasi mai tanto ti torci che la
punta della spalla sia perpendiculare sopra il bellico. I movimenti delle gambe e delle
braccia sono molto liberi, ma non vorrei io coprissero alcuna degna e onesta parte del
corpo. E veggo dalla natura quasi mai le mani levarsi sopra il capo, né le gomita
sopra la spalla, né sopra il ginocchio il piede, né tra uno piè ad un altro essere più
spazio che d'uno solo piede. E posi mente distendendo in alto una mano, che persino
al piede tutta quella parte del corpo la sussegua tale che il calcagno medesimo del piè
si leva dal pavimento.
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relinqueret quod de illius dolore animo meditaretur, quam quod posset visu
discernere. Laudatur et navis apud Romam ea, in qua noster Etruscus pictor Giottus
undecim metu et stupore percussos ob socium, quem supra undas meantem videbant,
expressit, ita pro se quemque suum turbati animi inditium vultu et toto corpore
praeferentem, ut in singulis singuli affectionum motus appareant. Sed decet hunc
totum locum de motibus brevissime transigere.
43. Sunt namque motus alii animorum, quos docti affectiones nuncupant, ut ira,
dolor, gaudium, timor, desiderium et eiusmodi. Sunt et alii corporum, nam dicuntur
moveri corpora plerisque modis, siquidem cum crescunt aut minuuntur, cumque
valentes in aegritudinem cadunt, cumque a morbo in valetudinem surgunt, cumque
locum mutant et huiusmodi causis corpora moveri dicuntur. Nos autem pictores, qui
motibus membrorum volumus animos affectos exprimere, caeteris disputationibus
omissis, de eo tantum motu referamus, quem tum factum dicunt, cum locus mutatus
sit. Res omnis quae loco movetur, septem habet movendi itinera, nam aut sursum
versus aut deorsum aut in dexteram aut in sinistram aut illuc longe recedendo aut
contra nos redeundo. Septimus vero movendi modus est is qui in girum ambiendo
vehitur. Hos igitur omnes motus cupio esse in pictura. Adsint corpora nonnulla quae
sese ad nos porrigant, alia abeant horsum, dextrorsum et sinistrorsum. Tum ex ipsis
corporibus nonnullae partes adversus conspectantes ostententur, aliquae retrocedant,
aliae sursum tollantur, aliquae in infimum tendantur. Sed cum in his expingendis
motibus ratio plerunque et modus transgrediatur, iuvat hoc loco de statu et motibus
membrorum referre nonnulla quae ex ipsa natura collegi, unde plane intelligatur qua
moderatione his motibus utendum sit. Perspexi quidem in homine quam in omni statu
sui totum substituat corpus capiti, membro omnium ponderosissimo. Tum si toto
corpore idem in unum pedem institerit, semper is pes tamquam columnae basis est ad
perpendiculum capiti subiectus, ac ferme semper eo stantis vultus porrectus est quo
sit pes ipse directus. Capitis vero motus animadverti vix unquam ullam in partem esse
tales, ut non semper aliquas reliqui corporis partes sub se positas habeat, quo immane
pondus regatur, aut certe in adversam partem tamquam alteram lancem aliquod
membrum protendit quod ponderi correspondeat. Namque idem videmus, dum quis
manu extensa pondus aliquod sustentat, ut altero pede tamquam asse bilancis firmato
alia tota corporis pars ad coaequandum pondus contrasistatur. Intellexi etiam stantis
caput non plus verti sursum quam quo oculi coelum medium contueantur, neque in
alterum latus plus diverti quam usque quo mentum scapulam attigerit; in ea parte vero
corporis qua incingimur, vix unquam ita intorquemur ut humerum supra umbilicum
ad rectam lineam super astituamus. Tibiarum et bracchiorum motus liberiores sunt,
modo caeteras corporis honestas partes non impediant. At in his illud a natura
perspexi, manus ferme nunquam supra caput neque cubitum supra humeros elevari,
neque supra genu pedem in altum attolli, neque pedem a pede plus distare quam
quantum pedis unius spatium intersit. Tum spectavi, si quam in altum protendamus
manum, eum motum caeteras omnes eius lateris partes ad pedem usque subsequi, ut
44. Simile molte cose uno diligente artefice da sé a sé noterà; e forse quali dissi
cose tanto sono in pronto che paiono superflue recitare. Ma perché veggio non pochi
in quelle errare, parsemi da non tacerle. Truovasi chi esprimendo movimenti troppo
arditi, e in una medesima figura facendo che ad un tratto si vede il petto e le reni, cosa
impossibile e non condicente, credono essere lodati, perché odono quelle immagini
molto parer vive quali molto gettino ogni suo membro, e per questo in loro figure
fanno parerle schermidori e istrioni senza alcuna degnità di pittura, onde non solo
sono senza grazia e dolcezza, ma più ancora mostrano l'ingegno dell'artefice troppo
fervente e furioso. E conviensi alla pittura avere movimenti soavi e grati, convenienti
a quello ivi si facci. Siano alle vergini movimenti e posari ariosi, pieni di semplicità,
in quali piuttosto sia dolcezza di quiete che gagliardia, bene che ad Omero, quale
seguitò Zeosis, piacque la forma fatticcia persino in le femine. Siano i movimenti ai
garzonetti leggieri, iocondi, con una certa demostrazione di grande animo e buone
forze. Sia nell'uomo movimenti con più fermezza ornati con belli posari e artificiosi.
Sia ad i vecchi loro movimenti e posari stracchi: non solo in su due piè, ma ancora si
sostenghino sulle mani. E così a ciascuno con dignità siano i suoi movimenti del
corpo ad espriemere qual vuoi movimento d'animo; e delle grandissime perturbazione
dell'animo, simile sieno grandissimi movimenti delle membra. E questa ragione dei
movimenti comune si osservi in tutti gli animanti. Già non si aconfà ad uno bue
aratore darli que' movimenti quali daresti a Bucefalas, gagliardissimo cavallo
d'Alessandro. Forse facendo Io, quale fu conversa in vacca, correre colla coda ritta,
rintorcigliata, col collo erto, coi piè levati, sarebbe atta pittura.
45. Basti così avere discorso il movimento degli animanti. Ora, poi che ancora le
cose non animate si muovono in tutti quelli modi quali di sopra dicemmo, adunque e
di queste diremo. Dilettano nei capelli, nei crini, ne' rami, frondi e veste vedere
qualche movimento. Quanto certo a me piace ne' capelli vedere quale io dissi sette
movimenti: volgansi in uno giro quasi volendo anodarsi, e ondeggino in aria simile
alle fiamme; parte quasi come serpe si tessano fra gli altri, parte crescendo in qua e
parte in là; così i rami ora in alto si torcano, ora in giù, ora in fuori, ora in dentro,
parte si contorcano come funi. Medesimo ancora le pieghe facciano, e nascano le
pieghe come al tronco dell'albero i suo rami. In questo adunque si seguano tutti i
movimenti tale che parte niuna del panno sia senza vacuo movimento. Ma siano,
quanto spesso ricordo, i movimenti moderati e dolci, più tosto quali porgano grazia a
chi miri che maraviglia di fatica alcuna. Ma dove così vogliamo ad i panni suoi
movimenti, sendo i panni di natura gravi e continuo cadendo a terra, per questo starà
bene in la pittura porvi la faccia del vento zeffiro o austro che soffi tra le nuvole, onde
i panni ventoleggino; e quinci verrà a quella grazia che i corpi da questa parte
percossi dal vento, sotto i panni in buona parte mostreranno il nudo, dall'altra parte i
panni gittati dal vento dolce voleranno per aria. E in questo ventoleggiare guardi il
pittore non ispiegare alcuno panno contro il vento; e così tutto osservi quanto
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manum, eum motum caeteras omnes eius lateris partes ad pedem usque subsequi, ut
etiam ipsius pedis calcaneus eiusdem bracchii motu a pavimento levetur.
44. Sunt his simillima perplurima quae diligens artifex animadvertet, et fortasse
quae ipse hactenus retuli, usque adeo in promptu sunt ut superflua videri possint. Sed
ea idcirco non negleximus, quod plerosque in ea re vehementer errare noverimus.
Motus enim nimium acres exprimunt, efficiuntque ut in eodem simulacro et pectus et
nates uno sub prospectu conspiciantur, quod quidem cum impossibile factu, tum
indecentissimum visu est. Sed hi, quo audiunt eas imagines maxime vivas videri,
quae plurimum membra agitent, eo histrionum motus, spreta omni picturae dignitate,
imitantur. Ex quo non modo gratia et lepore eorum opera nuda sunt, sed etiam
artificis nimis fervens ingenium exprimunt. Suaves enim et gratos atque ad rem de
qua agitur condecentes habere pictura motus debet. Sint in virginibus motus et
habitudo venusta simplicitate compta atque amena, quae statum magis sapiat dulcem
et quietem quam agitationem, tametsi Homero, quem Zeuxis sequutus est, etiam in
feminis forma validissima placuit. Sint in adolescente motus leviores, iocundi cum
quadam significatione valentis animi et virium. Sint in viro motus firmiores et status
celeri palaestra admodum ornati. Sint in senibus omnes motus tardi, sintque ipsi
status defessi, ut corpus non pedibus modo ambobus sustineant, sed et manibus aliquo
haereant. Denique pro dignitate cuique sui motus corporis ad eos quos velis
exprimere motus animi referantur. Tum denique maximarum animi perturbationum
maximae in membris significationes adsint necesse est. Atqui haec de motibus ratio in
omni animante admodum comunis est. Non enim convenit bovem aratorem his
motibus uti quibus Bucephalum generosum Alexandri equum. At celebrem illam
Inachi filiam, quae in vaccam conversa sit, fortassis currentem, erecta cervice, levatis
pedibus, intorta cauda, perapte pingemus.
45. Haec de animantium motu breviter excursa sufficiant. Nunc vero, quoniam et
rerum inanimatarum eos onmes quos dixi motus in pictura necessarios esse arbitror,
quonam illa pacto moveantur dicendum censeo. Sane et capillorum et iubarum et
ramorum et frondium et vestium motus in pictura expressi delectant. Ipse quidem
capillos cupio eos omnes quos retuli septem motus agere; etenim vertantur in girum
nodum conantes, atque undent in aera flammas imitantes, modoque sub aliis crinibus
serpant, modo sese in has atque has partes attollant. Sintque item ramorum flexus et
curvationes partim in sublime arcuati, partim inferius tracti, partim emineant, partim
introcedant, partim ut funis intorqueantur. Idque ipsum in plicis pannorum observetur,
ut veluti trunco arboris rami in omnes partes emanent, sic ex plica succedant plicae
utputa in suos ramos. In hisque idem quoque omnes motus expleantur ut nullius panni
extensio adsit, in qua non idem ferme omnes motus reperiantur. Sed sint motus
omnes, quod saepius admoneo, moderati et faciles, gratiamque potius quam
admirationem laboris exhibeant. Iam vero cum pannos motibus aptos esse volumus,
cumque natura sui panni graves et assiduo in terram cadentes omnes admodum
pittore non ispiegare alcuno panno contro il vento; e così tutto osservi quanto
dicemmo de' movimenti degli animali e delle cose non animate. Ancora con diligenza
séguiti quanto racontammo della composizione delle superficie, de' membri e de'
corpi.
46. Resta a dire del ricevere de' lumi. Ne' dirozzamenti di sopra assai
dimostrammo quanto i lumi abbiano forza a variare i colori, ché insegnammo come
istando uno medesimo colore, secondo il lume e l'ombra che riceve altera sua veduta:
e dicemmo che 'l bianco e 'l nero al pittore esprimea l'ombra e il chiarore, tutti gli altri
colori essere al pittore come materia a quale aggiugnesse più o meno ombra o lume.
Adunque lassando l'altre cose, qui solo resta a dire in che modo abbia il pittore usare
suo bianco e nero. Dicono che gli antiqui pittori Polignoto e Timante usavano solo
colori quattro, e Aglaofon si maravigliano si dilettasse dipignere in uno solo semplice
colore, quasi come fusse poco in quanto estimavano grandissimo numero di colori, se
quegli ottimi dipintori avessero eletti quelli pochi, e ad uno copioso artefice credeano
convenirsi tutta la moltitudine de' colori. Certo affermo che alla grazia e lode della
pittura la copia e varietà de' colori molto giova. Ma voglio così estimino i dotti, che
tutta la somma industria e arte sta in sapere usare il bianco e 'l nero, e in ben sapere
usare questi due conviensi porre tutto lo studio e diligenza. Però che il lume e l'ombra
fanno parere le cose rilevate, così il bianco e 'l nero fa le cose dipinte parere rilevate,
e dà quella lode quale si dava a Nitia pittore ateniese. Dicono che Zeusis,
antiquissimo e famosissimo dipintore, fu quasi prencipe degli altri in conoscere la
forza de' lumi e dell'ombre: agli altri poco fu data simile loda. Ma io quasi mai
estimerò mezzano dipintore quello quale non bene intenda che forza ogni lume e
ombra tenga in ogni superficie. Io, coi dotti e non dotti, loderò quelli visi quali come
scolpiti parranno uscire fuori della tavola, e biasimerò quelli visi in quali vegga arte
niuna altra che solo forse nel disegno. Vorrei io un buono disegno ad una buona
composizione bene essere colorato. Così adunque in prima studino circa i lumi e circa
all'ombre, e pongano mente come quella superficie più che l'altra sia chiara in quale
feriscano i razzi del lume, e come, dove manca la forza del lume, quel medesimo
colore diventa fusco. E notino che sempre contro al lume dall'altra parte corrisponda
l'ombra, tale che in corpo niuno sarà parte alcuna luminata, a cui non sia altra parte
diversa oscura. Ma quanto ad imitare il chiarore col bianco e l'ombra col nero,
ammonisco molto abbino studio a conoscere distinte superficie, quanto ciascuna sia
coperta di lume o d'ombra. Questo assai da te comprenderai dalla natura; e quando
bene le conoscerai, ivi con molta avarizia, dove bisogni, comincerai a porvi il bianco,
e subito contrario ove bisogni il nero, però che con questo bilanciare il bianco col
nero molto si scorge quanto le cose si rilievino. E così pure con avarizia a poco a
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cumque natura sui panni graves et assiduo in terram cadentes omnes admodum
flexiones refugiant, pulchre idcirco in pictura Zephiri aut Austri facies perflans inter
nubes ad historiae angulum ponetur, qua panni omnes adversi pellantur. Ex quo gratia
illa aderit ut quae corporum latera ventus feriat, quod panni vento ad corpus
imprimantur, ea sub panni velamento prope nuda appareant. A reliquis vero lateribus
panni vento agitati perapte in aera inundabunt. Sed in hac venti pulsione illud
caveatur ne ulli pannorum motus contra ventum surgant, neve nimium refracti, neve
nimium porrecti sint. Haec igitur de motibus animantium et rerum inanimatarum dicta
valde a pictore servanda sunt. Tum etiam ea omnia diligenter exequenda, quae de
superficierum, membrorum, corporumque compositione recensuimus.
46. Itaque duae a nobis partes picturae absolutae sunt: circumscriptio et
compositio. Restat ut de luminum receptione dicendum sit. In rudimentis satis
demonstravimus quam vim lumina ad variandos colores habeant. Nam manentibus
colorum generibus, modo apertiores, modo restrictiores colores pro luminum
umbrarumque pulsu fieri edocuimus; albumque et nigrum colores eos esse quibus
lumina et umbras in pictura exprimamus; caeteros vero colores tamquam materiam
haberi, quibus luminis et umbrae alterationes adigantur. Ergo, caeteris omissis,
explicandum est quonam pacto sit pictori albo et nigro utendum. Veteres pictores
Polygnotum et Timanthem quattuor coloribus tantum usos fuisse, tum Aglaophon
simplici colore delectatum admirantur, ac si in tanto quem putabant esse colorum
numero, modicum sit eosdem optimos pictores tam paucos in usum delegisse,
copiosique artificis putent omnem colorum multitudinem ad opus congerere. Sane ad
gratiam et leporem picturae affirmo copiam colorum et varietatem plurimum valere.
Sed sic velim pictores eruditi existiment summam industriam atque artem in albo
tantum et nigro disponendo versari, inque his duobus probe locandis omne ingenium
et diligentiam consummandam. Nam veluti luminum et umbrae casus id efficit ut quo
loco superficies turgeant, quove in cavum recedant, quantumve quaeque pars declinet
ac deflectat <appareat>, sic albi et nigri concinnitas efficit illud quod Niciae pictori
Atheniensi laudi dabatur quodve artifici in primis optandum est: ut suae res pictae
maxime eminere videantur. Zeuxim nobilissimum vetustissimumque pictorem dicunt
quasi principem ipsam hanc luminum et umbrarum rationem tenuisse. Caeteris vero
ea laus minime attributa est. Ego quidem pictorem nullum vel mediocrem putabo eum
qui non plane intelligat quam vim umbra omnis et lumina in quibusque superficiebus
habeant. Pictos ego vultus, et doctis et indoctis consentientibus, laudabo eos qui
veluti exsculpti extare a tabulis videantur, eosque contra vituperabo quibus nihil artis
nisi fortassis in lineamentis eluceat. Bene conscriptam, optime coloratam
compositionem esse velim. Ergo ut vituperatione careant, utque laudem mereantur, in
primis lumina et umbrae diligentissime notanda sunt, atque animadvertendum quam
in eam superficiem in quam radii luminum feriant, color ipse insignior atque illustrior
sit, tum ut dehinc sensim deficiente vi luminum idem color subfuscus reddatur.
Denique animadvertendum est quo pacto semper umbrae luminibus ex adverso
nero molto si scorge quanto le cose si rilievino. E così pure con avarizia a poco a
poco seguirai acrescendo più bianco e più nero quanto basti. E saratti a ciò conoscere
buono giudice lo specchio, né so come le cose ben dipinte molto abbino nello
specchio grazia: cosa maravigliosa come ogni vizio della pittura si manifesti diforme
nello specchio. Adunque le cose prese dalla natura si emendino collo specchio.
47. Qui vero raccontiamo cose quali imparammo dalla natura. Posi mente che alla
superficie piana in ogni suo luogo sta il colore uniforme; nelle superficie cave e
sperice piglia il colore variazione, però ch'è qui chiaro, ivi oscuro, in altro luogo
mezzo colore. Questa alterazione de' colori inganna gli sciocchi pittori, quali se, come
dicemmo, bene avessono disegnato gli orli delle superficie, sentirebbono facile il
porvi i lumi. Così farebbono: prima quasi come leggerissima rugiada per infino
all'orlo coprirebbono la superficie di qual bisognasse bianco o nero; di poi sopra a
questa un'altra, e poi un'altra; e così a poco a poco farebbono che dove fusse più
lume, ivi più bianco da torno, mancando il lume, il bianco si perderebbe quasi in
fummo. E simile contrario farebbero del nero. Ma ramentisi mai fare bianca alcuna
superficie tanto che ancora non possa farla vie più bianca. Se bene vestissi di panni
candidissimi, convienti fermare molto più giù che l'ultima bianchezza. Truova il
pittore cosa niuna altro che 'l bianco con quale dimostri l'ultimo lustro d'una
forbitissima spada, e solo il nero a dimostrare l'ultime tenebre della notte. E vedesi
forza in ben comporre bianco presso a nero, che vasi per questo paiano d'argento,
d'oro e di vetro, e paiono dipinti risplendere. Per questo molto si biasimi ciascuno
pittore il quale senza molto modo usi bianco o nero. Piacerebbemi apresso de' pittori
il bianco si vendesse più che le preziosissime gemme caro. Sarebbe certo utile il
bianco e nero si facesse di quelle grossissime perle quale Cleopatra distruggeva in
aceto, ché ne sarebbono quanto debbono avari e massai, e sarebbero loro opere più al
vero dolci e vezzose. Né si può dire quanto di questi si convenga masserizia al
dipintore. E se pure in distribuirli peccano, meno si riprenda chi adoperi molto nero,
che chi non bene distende il bianco. Di dì in dì fa la natura che ti viene in odio le cose
orride e oscure; e quanto più facendo impari, tanto più la mano si fa dilicata a vezzosa
grazia. Certo da natura amiamo le cose aperte e chiare. Adunque più si chiuda la via
quale più stia facile a peccare.
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Denique animadvertendum est quo pacto semper umbrae luminibus ex adverso
respondeant, ut nullo in corpore superficies lumine illustretur, in quo eodem
contrarias superficies umbris obtectas non reperias. Sed quantum ad lumina albo et
umbras nigro imitandas pertinet, admoneo ut praecipuum studium adhibeas ad
superficies eas cognoscendas quae lumine aut umbra pertactae sint. Id quidem a
natura et rebus ipsis pulchre perdisces. Eas demum cum probe tenueris, tum levissimo
albo quam parcissime suo loco intra fimbrias colorem alteres, suoque contrario loco
pariter nigrum illico adiunges. Nam hac nigri et albi conlibratione, ut ita dicam,
surgens prominentia fit perspicacior. Dehinc pari parsimonia additamentis prosequere
quoad quid satis sit assequutum te sentias. Erit quidem ad eam rem cognoscendam
iudex optimus speculum. Ac nescio quo pacto res pictae in speculo gratiam habeant,
si vitio careant. Tum mirum est ut omnis menda picturae in speculo deformior
appareat. A natura ergo suscepta speculi iudicio emendentur.
47. Sed liceat hic nonnulla, quae a natura hausimus, referre. Animadverti quidem
ut planae superficies uniformem omni loco sui colorem servent, sphaericae vero et
concavae colores variant, nam istic clarior, illic obscurior est, alio vero loco medii
coloris species servatur. Haec autem coloris in non planis superficiebus alteratio
difficultatem exhibet ignavis pictoribus. Sed si, ut docuimus, recte fimbrias
superficierum pictor conscripserit luminumque sedes discriminarit, facilis tum
quidem erit colorandi ratio. Nam levissimo quasi rore primum usque ad discriminis
lineam albo aut nigro eam superficiem, ut oporteat, alterabit. Dehinc aliam, ut ita
loquar, irrorationem citra lineam, post hanc aliam citra hanc, et citra eam aliam
superaddendo assequetur, ut cum illustrior locus apertiori colore pertinctus sit, tum
idem deinceps color quasi fumus in contiguas partes diluatur. At meminisse oportet
nullam superficiem usque adeo dealbandam esse ut eandem multo ac multo
candidiorem nequeas efficere. Ipsas quoque niveas vestes exprimendo citra ultimum
candorem longe residendum est. Nam habet pictor aliud nihil quam album colorem
quo ultimos tersissimarum superficierum fulgores imitetur, solumque nigrum invenit
quo ultimas noctis tenebras referat. Idcirco in albis vestibus pingendis unum ex
quattuor generibus colorum suscipere opus est, quod quidem apertum et clarum sit.
Idque ipsum contra in nigro fortassis pallio pingendo alium extremum quod non
longe ab umbra distet, veluti profundi et nigrantis maris colorem sumemus. Denique
vim tantam haec albi et nigri compositio habet, ut arte et modo facta aureas
argenteasque et vitreas splendidissimas superficies demonstret in pictura. Ergo
vehementer vituperandi sunt pictores qui albo intemperanter et nigro indiligenter
utuntur. Quam ideo ipse vellem apud pictores album colorem longe carius quam
pretiosissimas gemmas coemi! Conduceret quidem album et nigrum ex illis unionibus
Cleopatrae quos aceto colliquabat, constare quo eorum avarissimi redderentur, nam et
lepidiora opera et ad veritatem proximiora essent. Neque facile dici potest quantam
esse oporteat distribuendi albi in pictura parsimoniam atque modum. Hinc solitus erat
Zeuxis pictores redarguere, quod nescirent quid esset nimis. Quod si vitio
48. Detto del bianco e nero, diremo degli altri colori, non come Vitruvio architetto
in che luogo nasca ciascuno ottimo e ben provato colore; ma diremo in che modo i
colori ben triti s'adoperino in pittura. Dicono che Eufranor, antiquissimo dipintore,
scrisse non so che de' colori: non si truova oggi. Noi vero, i quali, se mai da altri fu
scritta, abbiamo cavata quest'arte di sotterra, o se non mai fu scritta, l'abbiamo tratta
di cielo, seguiamo quanto sino a qui facemmo con nostro ingegno. Vorrei nella pittura
si vedessero tutti i generi e ciascuna sua spezie con molto diletto e grazia a rimirarla.
Sarà ivi grazia quando l'uno colore apresso, molto sarà dall'altro differente; che se
dipignerai Diana guidi il coro, sia a questa ninfa panni verdi, a quella bianchi, all'altra
rosati, all'altra crocei, e così a ciascuna diversi colori, tale che sempre i chiari sieno
presso ad altri diversi colori oscuri. Sarà per questa comparazione ivi la bellezza de'
colori più chiara e più leggiadra. E truovasi certa amicizia de' colori, che l'uno giunto
con l'altro li porge dignità e grazia. Il colore rosato presso al verde e al cilestro si
danno insieme onore e vista. Il colore bianco non solo appresso il cenericcio e
appresso il croceo, ma quasi presso a tutti posto, porge letizia. I colori oscuri stanno
fra i chiari non sanza alcuna dignità, e così i chiari bene s'avolgano fra gli oscuri. Così
adunque, quanto dissi, il pittore disporrà suo colori.
49 Truovasi chi adopera molto in sue storie oro, che stima porga maestà. Non lo
lodo. E benché dipignesse quella Didone di Virgilio, a cui era la faretra d'oro, i capelli
aurei nodati in oro, e la veste purpurea cinta pur d'oro, i freni al cavallo e ogni cosa
d'oro, non però ivi vorrei punto adoperassi oro, però che nei colori imitando i razzi
dell'oro sta più ammirazione e lode all'artefice. E ancora veggiamo in una piana
tavola alcune superficie ove sia l'oro, quando deono essere oscure risplendere, e
quando deono essere chiare parere nere. Dico bene che gli altri fabrili ornamenti
giunti alla pittura, qual sono colunne scolpite, base, capitelli e frontispici, non li
biasimerò se ben fussero d'oro purissimo e massiccio. Anzi più una ben perfetta storia
merita ornamenti di gemme preziosissime.
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Zeuxis pictores redarguere, quod nescirent quid esset nimis. Quod si vitio
indulgendum est, minus redarguendi sunt qui nigro admodum profuse, quam qui albo
paulum intemperanter utantur. Natura enim ipsa indies atrum et horrendum opus usu
pingendi odisse discimus, continuoque quo plus intelligimus, eo plus ad gratiam et
venustatem manum delinitam reddimus. Ita natura omnes aperta et clara amamus.
Ergo qua in parte facilior peccato via patet, eo arctius obstruenda est.
48. Haec de albi et nigri usu dicta hactenus. De colorum vero generibus etiam
ratio quaedam adhibenda est. Sequitur ergo ut de colorum generibus nonnulla
referamus, non id quidem quemadmodum Vitruvius architectus quo loco rubrica
optima et probatissimi colores inveniantur, sed quonam pacto selecti et valde pertriti
colores in pictura componendi sint. Ferunt Euphranorem priscum pictorem de
coloribus nonnihil mandasse litteris. Ea scripta non extant hac tempestate. Nos autem
qui hanc picturae artem seu ab aliis olim descriptam ab inferis repetitam in lucem
restituimus, sive nunquam a quoquam tractatam a superis deduximus, nostro ut usque
fecimus ingenio, pro instituto rem prosequamur. Velim genera colorum et species,
quoad id fieri possit, omnes in pictura quadam cum gratia et amenitate spectari.
Gratia quidem tunc extabit cum exacta quadam diligentia colores iuxta coloribus
aderunt; quod si Dianam agentem chorum pingas, huic nymphae virides, illi
propinquae candidos, proximae huic purpureos, alteri croceos amictus dari convenit,
ac deinceps istiusmodi colorum diversitate caeterae induantur ut clari semper colores
aliquibus diversi generis obscuris coloribus coniungantur. Nam ea quidem coniugatio
colorum et venustatem a varietate et pulchritudinem a comparatione illustriorem
referet. Atqui est quidem nonnulla inter colores amicitia ut iuncti alter alteri gratiam
et venustatem augeat. Rubeus color si inter coelestem et viridem medius insideat,
mutuum quoddam utrisque suscitat decus. Niveus quidem color non modo inter
cinereum atque croceum positus, sed paene omnibus coloribus hilaritatem praestat.
Obscuri autem colores inter claros non sine insigni dignitate assident, parique ratione
inter obscuros clari belle collocant ur. Ergo quam dixi varietatem colorum in historia
pictor disponet.
49. At sunt qui auro inmodice utantur, quod aurum putent quandam historiae
afferre maiestatem. Eos ipse plane non laudo. Quin et si eam velim Didonem Virgilii
expingere, cui pharetra ex auro, in aurumque crines nodabantur, aurea cui fibula
vestem subnectebat, aureisque frenis vehebatur, dehinc omnia splendebant auro, eam
tamen aureorum radiorum copiam, quae undique oculos visentium perstringat, potius
coloribus imitari enitar quam auro. Nam cum maior in coloribus sit artificis admiratio
et laus, tum etiam videre licet ut in plana tabula auro posito pleraeque superficies,
quas claras et fulgidas repraesentare oportuerat, obscurae visentibus appareant, aliae
fortassis quae umbrosiores debuerant esse, luminosiores porrigantur. Caetera quidem
fabrorum ornamenta quae picturae adiiciuntur, ut sunt circumsculptae columnae et
bases et fastigia, non sane vituperabo si ex ipso argento atque auro solido vel
50. Sino a qui dicemmo brevissime di tre parti della pittura. Dicemmo della
circonscrizione delle minori e maggiori superficie. Dicemmo della composizione
delle superficie, membri e corpi. Dicemmo de' colori quanto all'uso del pittore
estimammo s'apartenesse. Adunque così esponemmo tutta la pittura, quale dicemmo
stava in queste tre cose: circonscrizione, composizione e ricevere di lumi.
bases et fastigia, non sane vituperabo si ex ipso argento atque auro solido vel
admodum purissimo fuerint. Nam et gemmarum quoque ornamentis perfecta et
absoluta historia dignissima est.
50. Hactenus picturae partes tres brevissime transactae a nobis sunt. Diximus de
circumscriptione minorum et maiorum superficierum. Diximus de compositione
superficierum, membrorum atque corporum. Diximus de coloribus quantum ad
pictoris usum pertinere arbitrabamur. Omnis igitur pictura a nobis exposita est, quam
quidem in tribus his rebus consistere praediximus, circumscriptione, compositione et
luminum receptione.
LIBRO TERZO
51. Ma poi che ancora altre utili cose restano a fare uno pittore tale che possa
seguire intera lode, parmi in questi commentari da non lassarlo. Direnne molto
brevissimo.
52. Dico l'officio del pittore essere così descrivere con linee e tignere con colori in
qual sia datoli tavola o parete simile vedute superficie di qualunque corpo, che quelle
ad una certa distanza e ad una certa posizione di centro paiano rilevate e molto simili
avere i corpi; la fine della pittura, rendere grazia e benivolenza e lode allo artefice
molto più che ricchezze. E seguiranno questo i pittori ove la loro pittura terrà gli
occhi e l'animo di chi la miri; qual cosa come possa farlo dicemmo di sopra dove
trattammo della composizione e del ricevere de lumi. Ma piacerammi sia il pittore,
per bene potere tenere tutte queste cose, uomo buono e dotto in buone lettere. E sa
ciascuno quanto la bontà dell'uomo molto più vaglia che ogni industria o arte ad
acquistarsi benivolenza da' cittadini, e niuno dubita la benivolenza di molti molto
all'artefice giovare a lode insieme e al guadagno. E interviene spesso che i ricchi,
mossi più da benivolenza che da maravigliarsi d'altrui arte, prima danno guadagno a
costui modesto e buono, lassando adrieto quell'altro pittore forse migliore in arte ma
non sì buono in costumi. Adunque conviensi all'artefice molto porgersi costumato,
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LIBER III
51. Sed cum ad perfectum pictorem instituendum ut omnes quas recensuimus
laudes assequi possit, nonnulla etiam supersint, quae his commentariis minime
praetereunda censeo, ea quam brevissime referamus.
52. Pictoris officium est quaevis data corpora ita in superficie lineis et coloribus
conscribere atque pingere, ut certo intervallo, certaque centrici radii positione
constituta, quaeque picta videas, eadem prominentia et datis corporibus persimillima
videantur. Finis pictoris laudem, gratiam et benivolentiam vel magis quam divitias ex
opere adipisci. Id quidem assequetur pictor dum eius pictura oculos et animos
spectantium tenebit atque movebit. Quae res, quonam argumento fieri possint
diximus cum de compositione atque luminum receptione supra disceptavimus. Sed
cupio pictorem, quo haec possit omnia pulchre tenere, in primis esse virum et bonum
et doctum bonarum artium. Nam nemo nescit quantum probitas vel magis quam
omnis industriae aut artis admiratio valeat ad benivolentiam civium comparandam.
Tum nemo dubitat benivolentiam multorum artifici plurimum conferre ad laudem
non sì buono in costumi. Adunque conviensi all'artefice molto porgersi costumato,
massime da umanità e facilità, e così arà benivolenza, fermo aiuto contro la povertà, e
guadagni, ottimo aiuto a bene imparare sua arte.
53. Piacemi il pittore sia dotto, in quanto e' possa, in tutte l'arti liberali; ma in
prima desidero sappi geometria. Piacemi la sentenza di Panfilo, antiquo e nobilissimo
pittore, dal quale i giovani nobili cominciarono ad imparare dipignere. Stimava niuno
pittore potere bene dipignere se non sapea molta geometria. I nostri dirozzamenti, dai
quali si esprieme tutta la perfetta, assoluta arte di dipignere, saranno intesi facile dal
geometra. Ma chi sia ignorante in geometria, né intenderà quelle né alcuna altra
ragione di dipignere. Pertanto affermo sia necessario al pittore imprendere geometria.
E farassi per loro dilettarsi de' poeti e degli oratori. Questi hanno molti ornamenti
comuni col pittore; e copiosi di notizia di molte cose, molto gioveranno a bello
componere l'istoria, di cui ogni laude consiste in la invenzione, quale suole avere
questa forza, quanto vediamo, che sola senza pittura per sé la bella invenzione sta
grata. Lodasi leggendo quella discrezione della Calunnia, quale Luciano racconta
dipinta da Appelle. Parmi cosa non aliena dal nostro proposito qui narrarla, per
ammonire i pittori in che cose circa alla invenzione loro convenga essere vigilanti.
Era quella pittura uno uomo con sue orecchie molte grandissime, apresso del quale,
una di qua e una di là, stavano due femmine: l'una si chiamava Ign oranza, l'altra si
chiamava Sospezione. Più in là veniva la Calunnia. Questa era una femmina a vederla
bellissima, ma parea nel viso troppo astuta. Tenea nella sua destra mano una face
incesa; con l'altra mano trainava, preso pe' capelli, uno garzonetto, il quale stendea
suo mani alte al cielo. Ed eravi uno uomo palido, brutto, tutto lordo, con aspetto
iniquo, quale potresti assimigliare a chi ne' campi dell'armi con lunga fatica fusse
magrito e riarso: costui era guida della Calunnia, e chiamavasi Livore. Ed erano due
altre femmine compagne alla Calunnia, quali a lei aconciavano suoi ornamenti e
panni: chiamasi l'una Insidie e l'altra Fraude. Drieto a queste era la Penitenza,
femmina vestita di veste funerali, quale sé stessa tutta stracciava. Dietro seguiva una
fanciulletta vergognosa e pudica, chiamata Verità. Quale istoria se mentre che si
recita piace, pensa quanto essa avesse grazia e amenità a vederla dipinta di mano
d'Appelle.
54. Piacerebbe ancora vedere quelle tre sorelle a quali Esiodo pose nome Egle,
Eufronesis e Talia, quali si dipignevano prese fra loro l'una l'altra per mano ridendo,
con la vesta scinta e ben monda; per quali volea s'intendesse la liberalità, ché una di
queste sorelle dà, l'altra riceve, la terza rende il benificio; quali gradi debbano in ogni
perfetta liberalità essere. Adunque si vede quanta lode porgano simile invenzioni
all'artefice. Pertanto consiglio ciascuno pittore molto si faccia famigliare ad i poeti,
retorici e agli altri simili dotti di lettere, già che costoro doneranno nuove invenzioni,
o certo aiuteranno a bello componere sua storia, per quali certo acquisteranno in sua
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Tum nemo dubitat benivolentiam multorum artifici plurimum conferre ad laudem
atque ad opes parandas. Siquidem ex ea fit ut cum non nunquam divites benivolentia
magis quam artis peritia moveantur, tum lucra ad hunc potissimum modestum et
probum deferant, spreto alio peritiore sane, sed fortassis intemperanti. Quae cum ita
sint, moribus egregie inserviendum erit artifici, maxime humanitati et facilitati, quo et
benivolentiam, firmum contra paupertatem praesidium, et lucra, optimum ad
perficiendam artem auxilium, assequatur.
53. Doctum vero pictorem esse opto, quoad eius fieri possit, omnibus in artibus
liberalibus, sed in eo praesertim geometriae peritiam desidero. Assentior quidem
Pamphilo antiquissimo et nobilissimo pictori, a quo ingenui adolescentes primo
picturam didicere. Nam erat eius sententia futurum neminem pictorem bonum qui
geometriam ignorarit. Nostra quidem rudimenta, ex quibus omnis absoluta et perfecta
ars picturae depromitur, a geometra facile intelliguntur. Eius vero artis imperitis
neque rudimenta neque ullas picturae rationes posse satis patere arbitror. Ergo
geometricam artem pictoribus minime negligendam affirmo. Proxime non ab re erit
se poetis atque rhetoribus delectabuntur. Nam hi quidem multa cum pictore habent
ornamenta communia. Neque parum illi quidem multarum rerum notitia copiosi
litterati ad historiae compositionem pulchre constituendam iuvabunt, quae omnis laus
praesertim in inventione consistit. Atqui ea quidem hanc habet vim, ut etiam sola
inventio sine pictura delectet. Laudatur, dum legitur, illa Calumniae descriptio quam
ab Apelle pictam refert Lucianus. Eam quidem enarrare minime ab instituto alienum
esse censeo, quo pictores admoneantur eiusmodi inventionibus fabricandis advigilare
oportere. Erat enim vir unus, cuius aures ingentes extabant, quem circa duae
adstabant mulieres, Inscitia et Suspitio, parte alia ipsa Calumnia adventans, cui forma
mulierculae speciosae sed quae ipso vultu nimis callere astu videbatur, manu sinistra
facem accensam tenens, altera vero manu per capillos trahens adolescentem qui
manus ad coelum tendit. Duxque huius est vir quidam pallore obsitus, deformis, truci
aspectu, quem merito compares his quos in acie longus labor confecerit. Hunc esse
Livorem merito dixere. Sunt et aliae duae Calumniae comites mulieres, ornamenta
dominae componentes, Insidiae et Fraus. Post has pulla et sordidissima veste operta et
sese dilanians adest Poenitentia, proxime sequente pudica et verecunda Veritate.
Quae plane historia etiam si dum recitatur animos tenet, quantum censes eam gratiae
et amoenitatis ex ipsa pictura eximii pictoris exhibuisse?
54. Quid tres illae iuvenculae sorores, quibus Hesiodus imposuit nomina Egle,
Euphronesis atque Thalia, quas pinxere implexis inter se manibus ridentes, soluta et
perlucida veste ornatas, ex quibus liberalitatem demonstratam esse voluere, quod una
sororum det, alia accipiat, tertia reddat beneficium; qui quidem gradus in omni
perfecta liberalitate adesse debent. Vides quam huiusmodi inventa magnam artifici
laudem comparent. Idcirco sic consulo poetis atque rhetoribus caeterisque doctis
litterarum sese pictor studiosus familiarem atque benivolum dedat, nam ab eiusmodi
o certo aiuteranno a bello componere sua storia, per quali certo acquisteranno in sua
pittura molte lode e nome. Fidias, più che gli altri pittori famoso, confessava avere
imparato da Omero poeta dipignere Iove con molta divina maestà. Così noi, studiosi
d'imparare più che di guadagno, dai nostri poeti impareremo più e più cose utili alla
pittura.
55. Ma non raro avviene che gli studiosi e cupidi d'imparare, non meno si
straccano ove non sanno imparare, che dove l'incresce la fatica. Per questo diremo in
che modo si diventi in questa arte dotto. Niuno dubiti capo e principio di questa arte,
e così ogni suo grado a diventare maestro, doversi prendere dalla natura. Il perficere
l'arte si troverà con diligenza, assiduitate e studio. Voglio che i giovani, quali ora
nuovi si danno a dipignere, così facciano quanto veggo di chi impara a scrivere.
Questi in prima separato insegnano tutte le forme delle lettere, quali gli antiqui
chiamano elementi; poi insegnano le silabe; poi apresso insegnano componere tutte le
dizioni. Con questa ragione ancora seguitino i nostri a dipignere. In prima imparino
ben disegnare gli orli delle superficie, e qui se essercitino quasi come ne' primi
elementi della pittura; poi imparino giugnere insieme le superficie; poi imparino
ciascuna forma distinta di ciascuno membro, e mandino a mente qualunque possa
essere differenza in ciascuno membro. E sono le differenze de' membri non poche e
molto chiare. Vedrai a chi sarà il naso rilevato e gobbo; altri aranno le narici scimmie
o arovesciate aperte; altri porgerà i labri pendenti; alcuni altri aranno ornamento di
labrolini magruzzi. E così essamini il pittore qualunque cosa a ciascuno membro
essendo più o meno, il facci differente. E noti ancora quanto veggiamo, che i nostri
membri fanciulleschi sono ritondi, quasi fatti a tornio, e dilicati; nella età più provetta
sono aspri e canteruti. Così tutte queste cose lo studioso pittore conoscerà dalla
natura, e con sé stessi molto assiduo le essaminerà in che modo ciascuna stia, e
continuo starà in questa investigazione e opera desto con suo occhi e mente. Porrà
mente il grembo a chi siede; porrà mente quanto dolce le gambe a chi segga sieno
pendenti; noterà di chi stia dritto tutto il corpo, né sarà ivi parte alcuna della quale
non sappi suo officio e sua misura. E di tutte le parti li piacerà non solo renderne
similitudine, ma più aggiugnervi bellezza, però che nella pittura la vaghezza non
meno è grata che richiesta. A Demetrio, antiquo pittore, mancò ad acquistare l'ultima
lode che fu curioso di fare cose assimigliate al naturale molto più che vaghe. Per
questo gioverà pigliare da tutti i belli corpi ciascuna lodata parte. E sempre ad
imparare molta vaghezza si contenda con istudio e con industria. Qual cosa bene che
sia difficile, perché nonne in uno corpo solo si truova compiute bellezze, ma sono
disperse e rare in più corpi, pure si debba ad investigarla e impararla porvi ogni fatica.
Interverrà come a chi s'ausi volgere e prendere cose maggiori, che facile costui potrà
le minori: né truovasi cosa alcuna tanto difficile quale lo studio e assiduità non vinca.
56. Ma per non perdere studio e fatica si vuole fuggire quella consuetudine
d'alcuni sciocchi, i quali presuntuosi di suo ingegno, senza avere essemplo alcuno
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litterarum sese pictor studiosus familiarem atque benivolum dedat, nam ab eiusmodi
eruditis ingeniis cum ornamenta accipiet optima, tum in his profecto inventionibus
iuvabitur, quae in pictura non ultimam sibi laudem vendicent. Phidias egregius pictor
fatebatur se ab Homero didicisse qua potissimum maiestate Iovem pingeret. Nostris
sic arbitror nos etiam poetis legendis et copiosiores et emendatiores futuros, modo
discendi studiosiores fuerimus quam lucri.
55. Sed plerunque non minus studiosos quam cupidos, quod viam perdiscendae rei
ignorent, magis quam discendi labor frangit. Idcirco quonam pacto in hac arte nos
eruditos fieri oporteat ordiamur. Caput sit omnes discendi gradus ab ipsa natura esse
petendos; artis vero perficiendae ratio diligentia, studio et assiduitate comparetur.
Velim quidem eos qui pingendi artem ingrediuntur, id agere quod apud scribendi
instructores observari video. Nam illi quidem prius omnes elementorum characteres
separatim edocent, postea vero syllabas atque perinde dictiones componere instruunt.
Hanc ergo rationem et nostri in pingendo sequantur. Primo ambitum superficierum
quasi picturae elementa, tum et superficierum connexus, dehinc membrorum omnium
formas distincte ediscant, omnesque quae in membris possint esse differentias
memoriae commendent. Nam sunt illae quidem neque modicae neque non insignes.
Aderunt quibus sit nasus gibbosus; erunt qui gerant simas nares, recurvas, patulas: alii
buccas fluentes porrigunt, alios labiorum gracilitas ornat, ac deinceps quaeque
membra aliquid praecipuum habent, quod cum plus aut minus affuerit, tunc multo
totum membrum variet. Quin etiam videmus ut eadem membra pueris nobis rotunda
et, ut ita dicam, tornata atque levia, aetatis vero accessu asperiora et admodum
angulata sint. Haec igitur omnia picturae studiosus ab ipsa natura excipiet, ac secum
ipse assiduo meditabitur quonam pacto quaeque extent, in eaque investigatione
continuo oculis et mente persistet. Spectabit namque sedentis gremium et tibias ut
dulce in proclivum labantur. Notabit stantis faciem totam atque habitudinem, denique
nulla erit pars cuius officium et symmetriam, ut Graeci aiunt, ignoret. At ex partibus
omnibus non modo similitudinem rerum, verum etiam in primis ipsam
pulchritudinem diligat. Nam est pulchritudo in pictura res non minus grata quam
expetita. Demetrio pictori illi prisco ad summam laudem defuit quod similitudinis
exprimendae fuerit curiosior quam pulchritudinis. Ergo a pulcherrimis corporibus
omnes laudatae partes eligendae sunt. Itaque non in postremis ad pulchritudinem
percipiendam, habendam atque exprimendam studio et industria contendendum est.
Quae res tametsi omnium difficillima sit, quod non uno loco omnes pulchritudinis
laudes comperiantur sed rarae illae quidem ac dispersae sint, tamen in ea investiganda
ac perdiscenda omnis labor exponendus est. Nam qui graviora apprehendere et
versare didicerit, is facile minora poterit ex sententia, neque ulla est usque adeo
difficilis res quae studio et assiduitate superari non possit.
d'alcuni sciocchi, i quali presuntuosi di suo ingegno, senza avere essemplo alcuno
dalla natura quale con occhi o mente seguano, studiano da sé a sé acquistare lode di
dipignere. Questi non imparano dipignere bene, ma assuefanno sé a' suoi errori.
Fugge gl'ingegni non periti quella idea delle bellezze, quale i bene essercitatissimi
appena discernono. Zeusis, prestantissimo e fra gli altri essercitatissimo pittore, per
fare una tavola qual pubblico pose nel tempio di Lucina appresso de' Crotoniati, non
fidandosi pazzamente, quanto oggi ciascuno pittore, del suo ingegno, ma perché
pensava non potere in uno solo corpo trovare quante bellezze egli ricercava, perché
dalla natura non erano ad uno solo date, pertanto di tutta la gioventù di quella terra
elesse cinque fanciulle le più belle, per torre da queste qualunque bellezza lodata in
una femmina. Savio pittore, se conobbe che ad i pittori, ove loro sia niuno essemplo
della natura quale elli seguitino, ma pure vogliono con suoi ingegni giugnere le lode
della bellezza, ivi facile loro avverrà che non quale cercano bellezza con tanta fatica
troveranno, ma certo piglieranno sue pratiche non buone, quali poi ben volendo mai
potranno lassare. Ma chi da essa natura s'auserà prendere qualunque facci cosa, costui
renderà sua mano sì essercitata che sempre qualunque cosa farà parrà tratta dal
naturale. Qual cosa quanto sia dal pittore a ricercarla si può intendere, ove poi che in
una storia sarà uno viso di qualche conosciuto e degno uomo, bene che ivi sieno altre
figure di arte molto più che questa perfette e grate, pure quel viso conosciuto a sé
imprima trarrà tutti gli occhi di chi la storia raguardi: tanto si vede in sé tiene forza
ciò che sia ritratto dalla natura. Per questo sempre ciò che vorremo dipignere
piglieremo dalla natura, e sempre torremo le cose più belle.
57. Ma guarda non fare come molti, quali imparano disegnare in picciole
tavolelle. Voglio te esserciti disegnando cose grandi, quasi pari al ripresentare la
grandezza di quello che tu disegni, però che nei piccioli disegni facile s'asconde ogni
gran vizio, nei grandi molto i bene minimi vizi si veggono. Scrive Galieno medico
avere ne' suo tempi veduto scolpito in uno anello Fetonte portato da quattro cavalli,
dei quali suo freni, petto e tutti i piedi distinti si vedeano. Ma i nostri pittori lassino
queste lode agli scultori delle gemme; loro vero si spassino in campi maggiori di lode.
Chi saprà ben dipignere una gran figura, molto facile in uno solo colpo potrà
quest'altre cose minute ben formare. Ma chi in questi piccioli vezzi e monili arà usato
suo mano e ingegno, costui facile errerà in cose m aggiori.
58. Alcuni ritranno figure d'altri pittori, e ivi cercano lode quale fu data a
Calamide scultore, quanto referiscono che scolpì due tazze in quali così retratte cose
prima simili fatte da Zenodoro, che niuna differenza vi si conosceva. Ma certo i nostri
pittori saranno in grandi errori se non intenderanno che chi dipinse si sforzò
ripresentarti cosa, quale puoi vedere nel nostro quale di sopra dicemmo velo, dolce e
bene da essa natura dipinto. E se pure ti piace ritrarre opere d'altrui, perché elle più
teco hanno pazienza che le cose vive, più mi piace a ritrarre una mediocre scultura
che una ottima dipintura, però che dalle cose dipinte nulla più acquisti che solo sapere
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56. Sed quo sit studium non futile et cassum, fugienda est illa consuetudo
nonnullorum qui suopte ingenio ad picturae laudem contendunt, nullam naturalem
faciem eius rei oculis aut mente coram sequentes. Hi enim non recte pingere discunt
sed erroribus assuefiunt. Fugit enim imperitos ea pulchritudinis idea quam peritissimi
vix discernunt. Zeuxis, praestantissimus et omnium doctissimus et peritissimus pictor,
facturus tabulam quam in tempio Lucinae apud Crotoniates publice dicaret, non suo
confisus ingenio temere, ut fere omnes hac aetate pictores, ad pingendum accessit,
sed quod putabat omnia quae ad venustatem quaereret, ea non modo proprio ingenio
non posse, sed ne a natura quidem petita uno posse in corpore reperiri, idcirco ex
omni eius urbis iuventute delegit virgines quinque forma praestantiores, ut quod in
quaque esset formae muliebris laudatissimum, id in pictura referret. Prudenter is
quidem, nam pictoribus nullo proposito exemplari quod imitentur, ubi ingenio tantum
pulchritudinis laudes captare enituntur, facile evenit ut eo labore non quam debent aut
quaerunt pulchritudinem assequantur, sed plane in malos, quos vel volentes vix
possunt dimittere, pingendi usus dilabantur. Qui vero ab ipsa natura omnia suscipere
consueverit, is manum it a exercitatam reddet ut semper quicquid conetur naturam
ipsam sapiat. Quae res in picturis quam sit optanda videmus, nam in historia si adsit
facies cogniti alicuius hominis, tametsi aliae nonnullae praestantioris artificii
emineant, cognitus tamen vultus omnium spectantium oculos ad se rapit, tantam in se,
quod sit a natura sumptum, et gratiam et vim habet. Ergo semper quae picturi sumus,
ea a natura sumamus, semperque ex his quaeque pulcherrima et dignissima
deligamus.
57. Sed cavendum ne, quod plerique faciunt, ea minimis tabellis pingamus.
Grandibus enim imaginibus te velim assuefacias, quae quidem quam proxime
magnitudine ad id quod ipse velis efficere, accedant. Nam in parvis simulacris
maxima vitia maxime latent, in magna effigie etiam minimi errores conspicui sunt.
Scripsit Galienus vidisse se in anulo sculptum Phaethontem quattuor equis vectum,
quorum frena et omnes pedes et pectora distincte videbantur. Concedant pictores hanc
laudem sculptoribus gemmarum; ipsi vero maioribus in campis laudis versentur. Nam
qui magnas figuras fingere aut pingere noverit, is perfacile atque optime unico tractu
eiusmodi minuta poterit. Qui vero pusillis his monilibus manum et ingenium
assuefecerit, facile in maioribus aberrabit.
58. Sunt qui aliorum pictorum opera aemulentur, atque in ea re sibi laudem
quaerant; quod Calamidem sculptorem fecisse ferunt, qui duo pocula caelavit in
quibus Zenodorum ita aemulatus est ut nulla in operibus differentia agnosceretur. At
pictores maximo in errore versantur, si non intelligunt eos qui pinxerint conatos fuisse
tale simulacrum repraesentare, quale nos ab ipsa natura depictum in velo intuemur.
Vel si iuvat opera aliorum imitari, quod ea firmiorem quam viventes patientiam ad se
che una ottima dipintura, però che dalle cose dipinte nulla più acquisti che solo sapere
asimigliarteli, ma dalle cose scolpite impari asimigliarti, e impari conoscere e ritrarre
i lumi. E molto giova a gustare i lumi socchiudere l'occhio e strignere il vedere coi
peli delle palpebre, acciò che ivi i lumi si veggano abacinati e quasi come in
intersegazione dipinti. E forse più sarà utile essercitarsi al rilievo che al disegno. E
s'io non erro, la scultura più sta certa che la pittura; e raro sarà chi possa bene
dipignere quella cosa della quale elli non conosca ogni suo rilievo; e più facile si
truova il rilievo scolpendo che dipignendo. Sia questo argomento atto quanto
veggiamo che quasi in ogni età sono stati alcuni mediocri scultori, ma truovi quasi
niuno pittore non in tutto da riderlo e disadatto.
59. Ma in quale ti esserciti, sempre abbi inanzi qualche elegante e singulare
essempio, quale tu rimirando ritria; e in ritrarlo, giudico bisogni avere una diligenza
congiunta con prestezza, che mai ponga lo stile o suo pennello se prima non bene con
la mente arà constituito quello che egli abbi a fare, e in che modo abbia a condurlo;
ché certo più sarà sicuro emendare gli errori colla mente che raderli dalla pittura. E
ancora quando saremo usati a fare nulla senza prima avere ordinato, interverracci che
molto più che Asclipiodoro saremo pittori velocissimi, quale uno antiquo pittore
dicono fra gli altri fu dipignendo velocissimo. E l'ingegno mosso e riscaldato per
essercitazione molto si rende pronto ed espedito al lavoro; e quella mano seguita
velocissimo, quale sia da certa ragione d'ingegno ben guidata. E se alcuno si troverà
pigro artefice, costui per questo così sarà pigro, perché lento e temoroso tenterà quelle
cose quale non arà prima fatte alla sua mente conosciute e chiare; e mentre che
s'avolgerà fra quelle tenebre d'errori e quasi come il cieco con sua bacchetta, così lui
con suo pennello tasterà questa e quest'altra via. Pertanto mai se non con ingegno
scorgidore, bene erudito, mai porrà mano a suo lavoro.
60. Ma poi che la istoria è summa opera del pittore, in quale dee essere ogni copia
ed eleganza di tutte le cose, conviensi curare sappiamo dipignere non solo uno uomo,
ma ancora cavalli, cani e tutti altri animali, e tutte altre cose degne d'essere vedute.
Questo così conviensi per bene fare copiosa la nostra istoria; cosa qual ti confesso
grandissima, e a chi si fusse dagli antiqui non molto concessa, che uno in ogni cosa,
non dico eccellente fusse, ma mediocre dotto. Pure affermo dobbiamo sforzarci che
per nostra negligenza quelle cose non manchino quale acquistate rendono lode, e
neglette lassano biasimo. Nitias, ateniese pittore, diligente dipinse femmine. Eraclides
fu lodato in dipignere navi. Serapion non potea dipignere uomini; altra qual vuoi cosa
molto dipignea bene. Dionisio nulla potea dipignere altri che uomini. Allessandro,
quello il quale dipinse il portico di Pompeo, sopra gli altri bene dipignea animali,
massime cani. Aurelio che sempre amava, solo dipignendo dee ritraeva i loro visi
quali esso amava. Fidias in dimostrare la maestà degli iddii più dava opera che in
seguire la bellezza degli uomini. Eufranore si dilettava espriemere la degnità de'
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Vel si iuvat opera aliorum imitari, quod ea firmiorem quam viventes patientiam ad se
ostendenda praestent, malo mediocriter sculptam quam egregie pictam rem tibi
imitandam proponas, nam ex pictis rebus solum ad aliquam similitudinem referendam
manum assuefacimus, ex rebus vero sculptis et similitudinem et vera lumina deducere
discimus. In quibus quidem luminibus colligendis plurimum confert pilis
palpebrarum aciem intuitus subopprimere, quo illic lumina subfusca et quasi
intercisione depicta videantur. Ac fortassis conducet fingendo exerceri quam
penniculo. Certior enim et facilior est sculptura quam pictura. Neque unquam erit
quispiam qui recte possit eam rem pingere, cuius omnes prominentias non cognoscat.
Prominentiae vero facilius reperiuntur sculptura quam pictura. Etenim sit hoc ad rem
non mediocre argumentum, quod videre liceat quam omni fere in aetate mediocres
aliquos fuisse sculptores invenias, pictores vero paene nullos non irridendos ac
prorsus imperitos reperias.
59. Denique vel picturae studias vel sculpturae, semper tibi proponendum est
elegans et singulare aliquod exemplar, quod et spectes et imiteris, in eoque imitando
diligentiam celeritati coniunctam ita adhiberi oportere censeo, ut nunquam
penniculum aut stilum ad opus admoveat pictor, quin prius mente quid facturus et
quomodo id perfecturus sit, optime constitutum habeat. Tutius est enim errores mente
levare quam ex opere abradere. Tum etiam dum ex composito agere omnia
consueverimus, fit ut Asclepiodoro longe promptiores artifices reddamur, quem
quidem omnium velocissimum pingendo fuisse ferunt. Nam redditur ad rem
peragendam promptum, accinctum expeditumque ingenium id quod exercitatione
agitatum calet, eaque manus velocissima sequitur, quam certa ingenii ratio duxerit. Si
qui vero sunt pigri artifices, hi profecto idcirco ita sunt quod lente et morose eam rem
tentent quam non prius menti suae studio perspicuam effecere, dumque inter eas
erroris tenebras versantur, meticulosi ac veluti obcaecati, penniculo, ut caecus bacillo,
ignotas vias et exitus praetentant ac perquirunt. Ergo nunquam, nisi praevio ingenio
atque eodem bene erudito, manum ad opus admoveat.
60. Sed cum sit summum pictoris opus historia, in qua quidem omnis rerum copia
et elegantia adesse debet, curandum est ut non modo hominem, verum et equum et
canem et alia animantia et res omnes visu dignissimas pulchre pingere, quoad per
ingenium id liceat, discamus, quo varietas et copia rerum, sine quibus nulla laudatur
historia, in nostris rebus minime desideretur. Magnum id quidem atque nulli
antiquorum concessum, ut omni in re, non dico praestaret, sed vel mediocriter esset
doctus. Tamen omni studio enitendum censeo, ne nobis negligentia nostra ea
deficiant, quae et laudem afferunt permagnam si assequantur, et vituperationem si
negligantur. Nicias Atheniensis pictor diligentissime pinxit mulieres. At Zeuxim
muliebri in corpore pingendo plurimum aliis praestitisse ferunt. Eraclides navibus
pingendis claruit. Serapion nequibat hominem pingere, caeteras plane res pulcherrime
pingebat. Dionysius nihil nisi hominem poterat. Alexander is qui Pompeii porticum
seguire la bellezza degli uomini. Eufranore si dilettava espriemere la degnità de'
signori, e in questo avanzò tutti gli altri. Così a ciascuno fu non equali facultà; e diede
la natura a ciascuno ingegno sue proprie dote, delle quali non però in tanto dobbiamo
essere contenti che per negligenza lassiamo di tentare quanto ancora più oltre con
nostro studio possiamo. E conviensi cultivare i beni della natura con studio ed
essercizio, e così di dì in dì farle maggiori; e conviensi per nostra negligenza nulla
pretermettere quale a noi possa retribuere lode.
pingebat. Dionysius nihil nisi hominem poterat. Alexander is qui Pompeii porticum
pinxit, quadrupedes omnes, maximeque canes, egregie faciebat. Aurelius, quod
semper amaret, solum deas, in earumque simulacris amatos vultus exprimere
gaudebat. Phidias in deorum maiestate demonstranda quam in hominum pulchritudine
elaborabat. Euphranori dignitatem heroum simulari cordi admodum erat, in eaque
caeteros antecelluit. Itaque cuique non aequa facultas affuit. Proprias enim dotes
natura singulis ingeniis elargita est, quibus non usque adeo contenti esse debemus, ut
quid ultra possimus intentatum relinquamus. Sed et naturae dotes industria, studio
atque exercitatione colendae, augendaeque sunt, et praeterea nihil quod ad laudem
pertineat, negligentia praetermissum a nobis videri decet.
61. E quando aremo a dipignere storia, prima fra noi molto penseremo qual modo
e quale ordine in quella sia bellissima, e faremo nostri concetti e modelli di tutta la
storia e di ciascuna sua parte prima, e chiameremo tutti gli amici a consigliarci sopra
a ciò. E così ci sforzeremo avere ogni parte in noi prima ben pensata, tale che nella
opera abbi a essere cosa alcuna, quale non intendiamo ove e come debba essere fatta
e collocata. E per meglio di tutto aver certezza, segneremo i modelli nostri con
paraleli, onde nel publico lavoro torremo dai nostri congetti, quasi come da privati
commentari, ogni stanza e sito delle cose. In lavorare la istoria aremo quella prestezza
di fare, congiunta con diligenza, quale a noi non dia fastidio o tedio lavorando, e
fuggiremo quella cupidità di finire le cose quale ci facci abboracciare il lavoro. E
qualche volta si conviene interlassare la fatica del lavorare ricreando l'animo. Né
giova fare come alcuni, intraprendere più opere cominciando oggi questa e domani
quest'altra, e così lassarle non perfette, ma qual pigli opera, questa renderla da ogni
parte compiuta. Fu uno a cui Appelles rispose, quando li mostrava una sua dipintura,
dicendo: «oggi feci questo»; disseli: «non me ne maraviglio se bene avessi più altre
simili fatte». Vidi io alcuni pittori, scultori, ancora rettorici e poeti, - se in questa età
si truovano rettorici o poeti, - con ardentissimo studio darsi a qualche opera, poi
freddato quello ardore d'ingegno, lassano l'opera cominciata e rozza e con nuova
cupidità si danno a nuove cose. Io certo vitupero così fatti uomini, però che
qualunque vuole le sue cose essere, a chi dopo viene, grate e acette, conviene prima
bene pensi quello che egli ha a fare, e poi con molta diligenza il renda bene perfetto.
Né in poche cose più si pregia la diligenz a che l'ingegno; ma conviensi fuggire quella
decimaggine di coloro, i quali volendo ad ogni cosa manchi ogni vizio e tutto essere
troppo pulito, prima in loro mani diventa l'opera vecchia e sucida che finita.
Biasimavano gli antiqui Protogene pittore che non sapesse levare la mano d'in sulla
tavola. Meritamente questo, però che, benché si convenga sforzare, quanto in noi sia
ingegno, che le cose con nostra diligenza sieno ben fatte, pure volere in tutte le cose
più che a te non sia possibile, mi pare atto di pertinace e bizzarro, non d'uomo
diligente.
61. Caeterum cum historiam picturi sumus, prius diutius excogitabimus quonam
ordine et quibus modis eam componere pulcherrimum sit. Modulosque in chartis
conicientes, tum totam historiam, tum singulas eiusdem historiae partes
commentabimur, amicosque omnes in ea re consulemus. Denique omnia apud nos ita
praemeditata esse elaborabimus, ut nihil in opere futurum sit, quod non optime qua id
sit parte locandum intelligamus. Quove id certius teneamus, modulos in parallelos
dividere iuvabit, ut in publico opere cuncta, veluti ex privatis commentariis ducta,
suis sedibus collocentur. In opere vero perficiendo eam diligentiam adhibebimus quae
sit coniuncta celeritati agendi, quam neque taedium a prosequendo deterreat, neque
cupiditas perficiendi praecipitet. Interlaxandus interdum negotii labor est
recreandusque animus, neque id agendum quod plerique faciunt, ut plura opera
assumant, hoc ordiantur, hoc inchoatum atque imperfectum abiciant. Sed quae
coeperis opera, ea omni ex parte perfecta reddenda sunt. Cuidam, cum imaginem
ostenderet, dicenti: hanc modo pinxi, respondit Apelles: te quidem tacente id sane
perspicuum est, quin et miror non plures huiuscemodi abs te esse pictas. Vidi ego
aliquos tum pictores atque sculptores, tum rhetores et poetas, si qui nostra aetate aut
rhetores aut poetae appellandi sunt, flagranti studio aliquod opus aggredi, qui postea,
dum ardor ille ingenii deferbuit, inchoatum ac rude opus deserunt, novaque cupiditate
aliud agendi ad novissima sese conferunt. Quos ego homines profecto vitupero. Nam
omnes qui sua posteris grata et accepta fore opera cupiunt, multo ante meditari opus
oportet, quod multa diligentia perfectum reddant. Siquidem non paucis in rebus ipsa
diligentia grata non minus est quam omne ingenium. Sed vitanda est superflua illa, ut
ita loquar, superstitio eorum qui, dum omni vitio sua penitus carere et nimis polita
esse volunt, prius contritum opus vet ustate efficiunt quam absolutum sit. Protogenem
soliti erant vituperare antiqui pictores quod nesciret manum a tabula amovere. Merito
id quidem, nam conari sane oportet ut pro ingenii viribus quantum sat sit diligentia
rebus adhibeatur, sed in omni re plus velle quam vel possis vel deceat, pertinacis est
non diligentis.
62. Adunque alle cose si dia diligenza moderata, e abbisi consiglio degli amici, e
dipignendo s'apra a chiunque viene e odasi ciascuno. L'opera del pittore cerca essere
62. Ergo moderata diligentia rebus adhibenda est, amicique consulendi sunt, quin
et in ipso opere exequendo omnes passim spectatores recipiendi et audiendi sunt.
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dipignendo s'apra a chiunque viene e odasi ciascuno. L'opera del pittore cerca essere
grata a tutta la moltitudine. Adunque non si spregi il giudicio e sentenza della
moltitudine, quando ancora sia licito satisfare a loro oppenione. Dicono che Appelles,
nascoso drieto alla tavola, acciò che ciascuno potesse più libero biasimarlo e lui più
onesto udirlo, udiva quanto ciascuno bias imava o lodava. Così io voglio i nostri
pittori apertamente domandino o odano ciascuno quello che giudichi, e gioveralli
questo ad acquistar grazia. Niuno si truova il quale non estimi onore porre sua
sentenza nella fatica altrui. E ancora poco mi pare da dubitare che gli invidi e
detrattori nuocano alle lode del pittore. Sempre fu al pittore ogni sua lode palese, e
sono alle sue lode testimoni cose quale bene arà dipinte. Adunque oda ciascuno, e
imprima tutto bene pensi e bene seco gastighi; e quando arà udito ciascuno, creda ai
più periti.
et in ipso opere exequendo omnes passim spectatores recipiendi et audiendi sunt.
Pictoris enim opus multitudini gratum futurum est. Ergo multitudinis censuram et
iudicium tum non aspernetur, cum adhuc satisfacere opinionibus liceat. Apellem aiunt
post tabulam solitum latitare, quo et visentes liberius dicerent, et ipse honestius vitia
sui operis recitantes audiret. Nostros ergo pictores palam et audire saepius et rogare
omnes quid sentiant volo, quandoquidem id cum ad caeteras res tum ad gratiam
pictori aucupandam valet. Nemo enim est qui non sibi decorum putet suam in alienis
laboribus sententiam proferre. Tum minime verendum est ne vituperatorum et
invidorum iudicium laudibus pictoris quicquam possit decerpere. Perspicua enim ac
celeberrima est pictoris laus, dicacemque testem ipsum bene pictum opus habet. Ergo
omnes audiat, secumque ipse rem prius pensitet atque emendet; deinde cum omnes
audiverit, peritioribus pareat.
63. Ebbi da dire queste cose della pittura, quali se sono commode e utili a' pittori,
solo questo domando in premio delle mie fatiche, che nelle sue istorie dipingano il
viso mio, acciò dimostrino sé essere grati e me essere stato studioso dell'arte. E se
meno satisfeci alle loro aspettazioni, non però vituperino me se ebbi animo
traprendere matera sì grande. E se il nostro ingegno non ha potuto finire quello che fu
laude tentare, pure solo il volere ne' grandi e difficili fatti suole essere lode. Forse
dopo me sarà chi emenderà e' nostri scritti errori, e in questa dignissima e
prestantissima arte saranno più che noi in aiuto e utile ad i pittori, quale io, - se mai
alcuno sarà, - priego e molto ripriego piglino questa fatica con animo lieto e pronto in
quale essercitino suo ingegno e rendano questa arte nobilissima ben governata. Noi
però ci reputeremo a voluttà primi aver presa questa palma d'avere ardito
commendare alle lettere questa arte sottilissima e nobilissima. In quale impresa
difficilissima se poco abbiamo potuto satisfare alla espettazione di chi ci ha letto,
incolpino la natura non meno che noi, quale impose questa legge alle cose, che niuna
si truovi arte quale non abbia avuto suoi inizi da cose mendose: nulla si truova
insieme nato e perfetto. Chi noi seguirà, se forse sarà alcuno di studio e d'ingegno più
prestante che noi, costui, quanto mi stimo, farà la pittura assoluta e perfetta.
63. Haec habui quae de pictura his commentariis referrem. Ea si eiusmodi sunt ut
pictoribus commodum atque utilitatem aliquam afferant, hoc potissimum laborum
meorum premium exposco ut faciem meam in suis historiis pingant, quo illos
memores beneficii et gratos esse ac me artis studiosum fuisse posteris praedicent. Si
vero expectationibus eorum minime satisfeci, non tamen quod tantam aggredi rem
ausi fuerimus vituperent. Nam si quod laudis est conari id perficere nostrum ingenium
nequivit, meminerint tamen solere in maximis rebus laudi esse id voluisse quod
difficillimum esset. Aderunt fortasse qui nostra vitia emendent et in hac
praestantissima et dignissima re longe magis quam nos possint esse pictoribus
adiumento. Quos ego, si qui futuri sunt, etiam atque etiam precor ut hoc munus alacri
animo ac prompto suscipiant, in quo et ipsi ingenium exerceant suum et hanc
nobilissimam artem excultissimam reddant. Nos tamen hanc palmam praeripuisse ad
voluptatem ducimus, quandoquidem primi fuerrimus qui hanc artem subtilissimam
litteris mandaverimus. Quod quidem sane difficillimum inceptum, si pro expectatione
legentium perficere nequivimus, in eo natura magis quam nos inculpanda est, quae
hanc legem rebus imposuisse visa est, ut nulla sit ars quae non a mendosis admodum
initiis exordium sumpserit. Simul enim ortum atque perfectum nihil esse aiunt. Qui
vero nos sequentur, si qui aderunt studio et ingenio quam nos praestantiores, hi
fortasse artem picturae perfectam atque absolutam reddent.
(1)
È questa la traduzione, fatta dallo stesso Leon Battista Alberti nel 1436, del testo latino scritto l'anno precedente.
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