L`Africa immobile delle tribù
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L`Africa immobile delle tribù
ESTERI REPORTAGE L’Africa immobile delle tribù Il lago al confine tra Kenya ed Etiopia, una volta denominato Rodolfo, oggi si chiama Turkana, dal nome della tribù che ne popola le rive insieme ai coccodrilli. Nella foto in alto, un maestro Samburu durante una lezione (foto di Federica Miglio) fo, in onore di un principe austro-ungarico. Oggi porta invece il nome di una tribù di nomadi, un po’ pastori e un po’ guerrieri, i Turkana appunto. 42 | 24 marzo 2010 | | da Nairobi Alessandro Turci E siste un’Africa in grado di sottrarsi allo stereotipo del continente oppresso con schiere di dannati senza dignità a popolare metropoli e sobborghi infami? Non si può darlo per scontato, ma certo esiste una terra di frontiera dove Foto: Federica Miglio Viaggio nel nord del Kenya, attraverso il deserto dei nomadi dove il tempo sembra non passare mai. E dove da sempre i popoli si fanno la guerra in attesa del giorno in cui un dio restituirà loro tutte le vacche della terra alle moltitudini indigenti si sostituiscono popoli nomadi e guerrieri, dove il Kenya non è più l’ammaliante meta dei coloni e del romanticismo letterario, ma una landa desertica dominata da tribù austere. È un viaggio che si lascia alle spalle i sofisticati Lodge dei Safari – nulla in contrario, sia chiaro – e impone una geografia minimale e crudele sulle rotte del nord, diretti al mitico lago Turkana, il lago di giada dove i 45 gradi sono la regola e un vento bollente spazza terra e scorpioni. Quando nell’Ottocento l’Africa era un continente che si disegnava in Europa nel corso di lussuose e ciniche conferenze di Stato, il lago Turkana si chiamava lago Rodol- Dalle frecce ai kalashnikov La nostra guida, però, appartiene a un’altra tribù, i Samburu. Stevie ci racconta come ogni tribù sia persuasa che tutte le vacche della terra siano state affidate a loro da dio. Ecco perché Samburu e Turkana, Pokot (una volta chiamati Suk) e Gabra, Rendille e Borana non perdono occasione per scontrarsi. Le armi a basso prezzo passano dal confine quasi incustodito del Sudan, e hanno reso queste faide intollerabili, perché alle frecce e alle lance si sono sostituiti i kalashnikov. Non a caso vicino a Samburu, nell’ultimo villaggio con un distributore di benzina, un frigorifero stanco e una strada bene o male asfaltata, carichiamo con | | 24 marzo 2010 | 43 ESTERI REPORTAGE Nella foto sopra, pastori Gabra pascolano i loro cammelli nel letto di un fiume presso North Horr. In alto, a sinistra, un ragno nel deserto del Chalbi; a destra, la donna più anziana della tribù Turkana. Qui accanto, i poliziotti della scorta di Tempi (foto di Federica Miglio) Un fiume inaridito come casus belli Da queste parti un furto si vendica con un’incursione nel territorio “nemico”: partecipano al raid giovani, vecchi e bambini, armati di mitra. Non esiste una tattica che non sia avvicinarsi al villaggio della tribù rivale e sparare. Così la paura del “fuoco incrociato” torna spesso sulla bocca della nostra guida. Stevie è di Marsabit 44 | 24 marzo 2010 | | iniziò il disordine, la diaspora degli uomini e delle vacche. E ancora oggi i Samburu aspettano il giorno in cui l’equilibrio sarà ristabilito. Dieci chilometri fuori da Nairobi, dove l’eco delle lezioni universitarie non arriva, è questo che imparano gli uomini. La scienza della tradizione, degli antenati e della mitologia. Da qui bisogna partire per iniziare a capire l’Africa. I Gabra pascolano i cammelli nel letto di un fiume prosciugato. Un fiume inaridito è sempre un problema Il furto si vendica con l’incursione nel villaggio in Africa: le jeep e i truck ci si insabbiano, le bestie non “nemico”: al raid partecipano giovani, vecchi hanno da mangiare, tra le e bambini, armati di mitra. Esiste una sola tribù iniziano le turbolenze. I Gabra hanno tratti etiopi e tattica, avvicinarsi alla tribù rivale e sparare e non dimentica l’assalto avvenuto poco tempo fa al suo villaggio da parte di una tribù rivale che ha provocato la morte di un bambino di cinque anni. Stevie ci racconta la cosmogonia della sua tribù. Una liana scendeva dal cielo in una zona rigogliosa nei pressi di Maralal: era la congiunzione tra il divino e i Samburu. A causa della loro condotta, però, una notte la liana fu tagliata: una parte cadde sulla terra, l’altra ritornò in cielo. Così abitano un paesaggio dominato da branchi di struzzi e lontani miraggi. L’Etiopia e il Kenya, superato lo strepitoso deserto del Chalbi, devono dividersi il lago Turkana, che maestoso scavalca il confine tracciato degli uomini e ci si adagia sopra. Foto: Federica Miglio noi sul camion due poliziotti in assetto militare, con il compito di scortarci verso nord. La prima minaccia non sono i banditi: la stagione delle piogge è stata abbondante e non si prevedono razzie; il problema sono i furti di vacche, il principale patrimonio di ogni famiglia e clan. Il destino dei Turkana È vero, le acque del Turkana sono infestate dai coccodrilli, ma in fondo questa è casa loro. La minaccia viene dagli uomini: etiopi e kenyoti hanno progetti per il Turkana. I primi vogliono costruire una diga che pregiudicherà il livello del lago nella parte kenyota; i secondi vogliono promuovere l’eolico che inciderà gravemente sulla rotta degli uccelli migratori. D’altronde il destino di una tribù El-Molo stanziata sulle sponde del lago, con zattere elementari e capanne ancor più semplici, non preoccupa nessuno, e i Turkana non sono quello che si dice una tribù comunicativa. L’Africa qui scandisce il tempo come l’eterno ritorno della stessa giornata, mese dopo mese, anno dopo anno, secolo dopo secolo. Non esiste memoria che non sia pedissequa riproposizione, e non esiste futuro che sia diverso da ieri. I volti dei Turkana sono l’emblema di questa insondabile chiusura. Quel che riguarda questa terra è una vicenda tutta africana, la costa è lontana e l’uomo bianco, il muzungu, di rado si è spinto fin qui. Già debole e spaesato nelle metropoli, nel cuore del Turkana il bianco è uno spaventapasseri piantato di sbieco contro il vento. E il vento, la notte, non cessa un solo istante di scagliarsi contro la capanna di giunchi nella quale si dorme, in un calore identico alla fornace del giorno, aspettando l’alba. Sulla via del ritorno la guida ci chiede se abbiamo una grande casa in Italia. Rispondiamo che no, abbiamo preferito averne due piccole. «Piccole quanto?», chiede. Settanta metri quadrati, rispondiamo. «Ok amico, allora hai due grandi case». Miraggi e strade asfaltate Il viaggio continua lento e massacrante. Ma alla fine ci si affeziona ai percorsi impossibili che hanno fiaccato la nostra resistenza e quella del robusto mezzo. Quando, dopo due giorni di viaggio, all’orizzonte si profila il manto liscio della prima strada asfaltata da piccoli ingegneri asiatici che guidano operai di colore, sembra di lasciarsi alle spalle un tesoro arcaico, tanto più affascinante in quanto inavvicinabile e ostico. E si inizia a sperare che tecnocrati e burocrati terzomondisti si dimentichino di questa regione, lasciandola al suo immutabile destino di tribù e rocce, aracnidi e mitologie, miraggi sullo sfondo di un miraggio. n | | 24 marzo 2010 | 45