L`Africa immobile delle tribù

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L`Africa immobile delle tribù
ESTERI REPORTAGE
L’Africa
immobile
delle tribù
Il lago al confine tra Kenya ed Etiopia,
una volta denominato Rodolfo, oggi
si chiama Turkana, dal nome della tribù
che ne popola le rive insieme ai coccodrilli.
Nella foto in alto, un maestro Samburu
durante una lezione (foto di Federica Miglio)
fo, in onore di un principe austro-ungarico. Oggi porta invece il nome di una tribù
di nomadi, un po’ pastori e un po’ guerrieri, i Turkana appunto.
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da Nairobi Alessandro Turci
E
siste un’Africa
in grado di sottrarsi
allo stereotipo del continente oppresso con schiere di dannati senza
dignità a popolare metropoli e sobborghi
infami? Non si può darlo per scontato,
ma certo esiste una terra di frontiera dove
Foto: Federica Miglio
Viaggio nel nord del Kenya, attraverso
il deserto dei nomadi dove il tempo sembra
non passare mai. E dove da sempre i popoli
si fanno la guerra in attesa del giorno in cui
un dio restituirà loro tutte le vacche della terra
alle moltitudini indigenti si sostituiscono
popoli nomadi e guerrieri, dove il Kenya
non è più l’ammaliante meta dei coloni e
del romanticismo letterario, ma una landa
desertica dominata da tribù austere.
È un viaggio che si lascia alle spalle i
sofisticati Lodge dei Safari – nulla in contrario, sia chiaro – e impone una geografia
minimale e crudele sulle rotte del nord,
diretti al mitico lago Turkana, il lago di
giada dove i 45 gradi sono la regola e un
vento bollente spazza terra e scorpioni.
Quando nell’Ottocento l’Africa era un continente che si disegnava in Europa nel corso di lussuose e ciniche conferenze di Stato, il lago Turkana si chiamava lago Rodol-
Dalle frecce ai kalashnikov
La nostra guida, però, appartiene a un’altra tribù, i Samburu. Stevie ci racconta come ogni tribù sia persuasa che tutte le vacche della terra siano state affidate a loro da dio. Ecco perché Samburu e
Turkana, Pokot (una volta chiamati Suk)
e Gabra, Rendille e Borana non perdono
occasione per scontrarsi. Le armi a basso
prezzo passano dal confine quasi incustodito del Sudan, e hanno reso queste faide
intollerabili, perché alle frecce e alle lance si sono sostituiti i kalashnikov.
Non a caso vicino a Samburu, nell’ultimo villaggio con un distributore di benzina, un frigorifero stanco e una strada
bene o male asfaltata, carichiamo con
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Nella foto sopra, pastori Gabra pascolano i loro cammelli nel letto
di un fiume presso North Horr. In alto, a sinistra, un ragno nel deserto
del Chalbi; a destra, la donna più anziana della tribù Turkana.
Qui accanto, i poliziotti della scorta di Tempi (foto di Federica Miglio)
Un fiume inaridito come casus belli
Da queste parti un furto si vendica con
un’incursione nel territorio “nemico”:
partecipano al raid giovani, vecchi e bambini, armati di mitra. Non esiste una tattica che non sia avvicinarsi al villaggio della tribù rivale e sparare. Così la paura del
“fuoco incrociato” torna spesso sulla bocca della nostra guida. Stevie è di Marsabit
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iniziò il disordine, la diaspora degli uomini e delle vacche. E ancora oggi i Samburu aspettano il giorno in cui l’equilibrio
sarà ristabilito. Dieci chilometri fuori da
Nairobi, dove l’eco delle lezioni universitarie non arriva, è questo che imparano gli
uomini. La scienza della tradizione, degli
antenati e della mitologia. Da qui bisogna
partire per iniziare a capire l’Africa.
I Gabra pascolano i cammelli nel letto
di un fiume prosciugato. Un fiume inaridito è sempre un problema
Il furto si vendica con l’incursione nel villaggio in Africa: le jeep e i truck ci
si insabbiano, le bestie non
“nemico”: al raid partecipano giovani, vecchi
hanno da mangiare, tra le
e bambini, armati di mitra. Esiste una sola
tribù iniziano le turbolenze.
I Gabra hanno tratti etiopi e
tattica, avvicinarsi alla tribù rivale e sparare
e non dimentica l’assalto avvenuto poco
tempo fa al suo villaggio da parte di una
tribù rivale che ha provocato la morte di
un bambino di cinque anni.
Stevie ci racconta la cosmogonia della
sua tribù. Una liana scendeva dal cielo in
una zona rigogliosa nei pressi di Maralal:
era la congiunzione tra il divino e i Samburu. A causa della loro condotta, però, una
notte la liana fu tagliata: una parte cadde sulla terra, l’altra ritornò in cielo. Così
abitano un paesaggio dominato da branchi di struzzi e lontani miraggi. L’Etiopia e
il Kenya, superato lo strepitoso deserto del
Chalbi, devono dividersi il lago Turkana,
che maestoso scavalca il confine tracciato
degli uomini e ci si adagia sopra.
Foto: Federica Miglio
noi sul camion due poliziotti in assetto
militare, con il compito di scortarci verso
nord. La prima minaccia non sono i banditi: la stagione delle piogge è stata abbondante e non si prevedono razzie; il problema sono i furti di vacche, il principale
patrimonio di ogni famiglia e clan.
Il destino dei Turkana
È vero, le acque del Turkana sono infestate
dai coccodrilli, ma in fondo questa è casa
loro. La minaccia viene dagli uomini: etiopi e kenyoti hanno progetti per il Turkana. I primi vogliono costruire una diga che
pregiudicherà il livello del lago nella parte kenyota; i secondi vogliono promuovere l’eolico che inciderà gravemente sulla
rotta degli uccelli migratori. D’altronde il
destino di una tribù El-Molo stanziata sulle sponde del lago, con zattere elementari
e capanne ancor più semplici, non preoccupa nessuno, e i Turkana non sono quello
che si dice una tribù comunicativa.
L’Africa qui scandisce il tempo come
l’eterno ritorno della stessa giornata,
mese dopo mese, anno dopo anno, secolo
dopo secolo. Non esiste memoria che non
sia pedissequa riproposizione, e non esiste futuro che sia diverso da ieri. I volti dei
Turkana sono l’emblema di questa insondabile chiusura.
Quel che riguarda questa terra è una
vicenda tutta africana, la costa è lontana
e l’uomo bianco, il muzungu, di rado si è
spinto fin qui. Già debole e spaesato nelle
metropoli, nel cuore del Turkana il bianco è uno spaventapasseri piantato di sbieco contro il vento. E il vento, la notte, non
cessa un solo istante di scagliarsi contro la
capanna di giunchi nella quale si dorme,
in un calore identico alla fornace del giorno, aspettando l’alba.
Sulla via del ritorno la guida ci chiede se abbiamo una grande casa in Italia.
Rispondiamo che no, abbiamo preferito
averne due piccole. «Piccole quanto?», chiede. Settanta metri quadrati, rispondiamo.
«Ok amico, allora hai due grandi case».
Miraggi e strade asfaltate
Il viaggio continua lento e massacrante. Ma alla fine ci si affeziona ai percorsi impossibili che hanno fiaccato la
nostra resistenza e quella del robusto mezzo. Quando, dopo due giorni di viaggio,
all’orizzonte si profila il manto liscio della prima strada asfaltata da piccoli ingegneri asiatici che guidano operai di colore, sembra di lasciarsi alle spalle un tesoro arcaico, tanto più affascinante in quanto inavvicinabile e ostico. E si inizia a sperare che tecnocrati e burocrati terzomondisti si dimentichino di questa regione,
lasciandola al suo immutabile destino di
tribù e rocce, aracnidi e mitologie, miraggi sullo sfondo di un miraggio.
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