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RASSEGNA STAMPA
lunedì 16 marzo 2015
L’ARCI SUI MEDIA
L’ARCI SUI MEDIA LOCALI
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
WELFARE E SOCIETA’
SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
ECONOMIA E LAVORO
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LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
del 14/03/15, pag. 14
Landini parte con Emergency e Libera
Il capo della Fiom raduna i movimenti interessati alla “Coalizione
sociale” pensata per fare opposizione a Renzi Coinvolti Libertà e
Giustizia, Arci, centri sociali e associazioni di studenti. Aut aut a Sel e
Rifondazione: partiti fuori
MATTEO PUCCIARELLI
MILANO .
Seduti al tavolo di Maurizio Landini oggi a Roma ci saranno gli altri due soggetti che
insieme alla Fiom si preparano a sorreggere l’esperimento della “Coalizione sociale” antiRenzi: Emergency e Libera. Con loro, pezzi di Arci, Libertà e Giustizia, sigle studentesche
come Rete della Conoscenza e Uds e poi il mondo dei centri sociali, quelli meno radicali.
Ma non i partiti come Sel o Prc; su quelli c’è quasi il veto, tanto che ad alcune delle
associazioni che parteciperanno al vertice è stato fatto notare che le strade sono due: o si
sta nel “campo” delle formazioni politiche oppure si sceglie la via del sindacato delle tute
blu. La convocazione è arrivata con una lettera firmata da Landini in cui si legge che «la
politica non è proprietà privata ». Per questo serve «promuovere la partecipazione»,
«superando il frazionamento».
Dall’antimafia ai precari, dagli operai al volontariato. Sono mondi diversi tra loro, uniti dalla
mancanza di un referente politico di peso. L’idea è dare il via a un cantiere che sul medio
termine (unodue anni di gestazione) punti a diventare un soggetto politico. Per ora ci si
limita ad essere “l’associazione delle associazioni”. Landini si muove con i piedi di piombo,
teme molto di bruciarsi. «Prima di ogni cosa occorre ricreare un terreno favorevole, anche
come mobilitazione e movimento» ripetono gli uomini più vicini a lui. Giorni fa Gino Strada,
parlando ai delegati sindacali via telefono dal Sierra Leone, è stato chiaro: «Per un polo di
aggregazione impegnato su diritti, pace e uguaglianza io ci sono, per quel che posso
fare». E anche il legame personale del sindacalista emiliano con il fondatore di Libera don
Luigi Ciotti — che ha presentato una proposta di legge per il reddito minimo, allargando
quindi la propria sfera di interesse — è ben saldo.
La “Coalizione sociale” — ragionano in Corso Trieste — avrebbe un’autorevolezza che per
certi versi le sigle della sinistra radicale non hanno più. L’assenza di Landini alla Human
Factor di Sel a Milano è stata vissuta male da Nichi Vendola. Mentre poche settimane fa
Stefano Rodotà, intellettuale vicino al leader dei metalmeccanico, in un’intervista su MicroMega definì quei partiti «zavorre ». I riferimenti sono più che altro europei. In ottobre, al
comizio di chiusura del festival dei giovani di Syriza ad Atene, erano in tre sul palco: il
padrone di casa Alexis Tsipras, il leader degli spagnoli di Podemos Pablo Iglesias e
proprio Landini. Non a caso il segretario della Fiom ha in testa una via di mezzo tra i due
esperimenti vincenti della sinistra radicale europea: coniugando il mutualismo dei greci
con l’idea molto “indignados” di imporsi nel dibattito bypassando i partiti. La riflessione
parte da un dato di fatto: nei paesi europei a suo tempo denominati “Pigs”, complice la
crisi che ha impoverito molti, si stanno aprendo insperate praterie a sinistra. Italia a parte.
Copiare modelli stranieri è impossibile ma importare alcune pratiche e discorsi sì. E difatti
il linguaggio di Landini è cambiato molto negli ultimi mesi. Il continuo riferimento alla
necessità di «unire i soggetti che il governo (o “il neoliberismo”) ha diviso», è una frase2
chiave del sindacalista ma pure un must di Tsipras. Così come nel concetto di ambire alla
“maggioranza” — cioè conquistare il consenso andando oltre il bacino della sinistra
radicale, oltre ai confini della fabbrica — si intravedono le parole e il piglio di Iglesias.
Ora la prima vera tappa è la manifestazione del 28 marzo a Roma. C’è solo una possibile
variante al disegno di Landini. Cioè il sogno, mai abbandonato, di guidare un giorno tutta
la Cgil.
del 14/03/15, pag. 4
Coalizione Fiom, ora si fa sul serio
Massimo Franchi
Il progetto. Questa mattina prima riunione informale della «associazione
di associazioni». Landini: nè Podemos nè Syriza, ma vogliamo cambiare
il paese contro l'alleanza Renzi-Confindustria. Il leader dei metallurgici
riunisce in sede Libera, Emergency, Arci, Libertà e giustizia. A metà
aprile il lancio del nuovo movimento
Le mail sono partite venerdì scorso. Destinatari una cinquantina di associazioni,
movimenti, personalità. Quasi tutti vecchi compagni di strada: Emergency, Libera, Arci,
Giustizia e Libertà, vari costituzionalisti. Come nuovi compagni di viaggio si possono citare
gli studenti, le partite Iva, i freelance, perfino i gruppi cattolici. Una vera «rete» da aprire
«sul territorio».
Nessun partito invitato, nessun partito all’orizzonte. Ma, si sa, la panna mediatica si monta
in fretta. Ed è bastato un articolo del Corriere della Sera che dava conto della lettera del
segretario generale della Fiom per creare un pandemonio: «Nasce la Podemos di
Landini».
Questa mattina alle 10 invece alla sala Airoldi del seminterrato della palazzina ex Flm di
Corso Trieste 36 si terrà semplicemente la prima riunione di un lungo percorso della già
ampiamente annunciata «coalizione sociale». La volontà è quella di «una chiacchierata
informale» partendo da chi ha partecipato a “La via maestra” a difesa della costituzione
due anni fa. Un confronto chiuso ai media che tra i partecipanti non avrà nomi altisonanti
anche perché non ci saranno né Gino Strada (il primo a dire sì pubblicamente al progetto)
né Don Ciotti, impegnati altrove e sostituiti da loro collaboratori, mentre Stefano Rodotà è
ancora alle prese coi postumi di una frattura alla gamba.
La novità comunque c’è ed è rilevante. La Fiom è la promotrice di questo progetto e ha
un’idea su come portarlo avanti. La forma che dovrebbe prendere la «coalizione sociale» è
quella di «un’associazione di associazioni», sulla falsariga di “Libera” di Don Ciotti che non
a caso è in prima fila nella partita. Un appuntamento più istituzionale per lanciare il
progetto dovrebbe esserci a metà aprile.
Nessuno — tanto meno Landini — si è dilettato con nomi o simboli. Al momento l’unico
nome e l’unica proposta è semplicemtne «coalizione sociale», definito «uno spartito»
ancora tutto da scrivere. Con alcuni caposaldi però: indipendenza, autonomia, pensiero
collettivo. Fare politica — «come la Fiom fa da 115 anni» — promuovendo la
partecipazione, seguendo i principi della Costituzione.
L’idea di Landini — che oggi sarà esaminata dagli altri movimenti e da buona parte del
gruppo dirigente nazionale e locale della Fiom — è quello di darsi obiettivi stringenti a
partire dal tema lavoro. Lo scopo è riconquistare diritti in tutti i campi: beni comuni,
giustizia, partecipazione. Gli strumenti saranno vari: dal referendum abrogativo a quello
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propositivo, dalla legge di iniziativa popolare alla contrattazione sociale sul territorio.
Nessuna partecipazione diretta a qualsiasi tipo di elezione, ma non si esclude di
appoggiare singoli candidati o movimenti locali. In stretto rapporto — come è sempre stato
— con i partiti e movimenti politici della sinistra. Il modello dunque non è Podemos (partito
nato da una protesta sociale) o Syriza (federazione di partiti e movimenti).
«Io non so parlare né spagnolo né inglese, parlo a malapena l’italiano. Quello di domani
(oggi, ndr) è solo l’avvio per dare sostanza a una lotta per cambiare il paese non come
vogliono governo o Confindustria ma come vogliono le persone che hanno a cuore
giustizia sociale, libertà e i diritti del lavoro», ha ribadito Landini. Se proprio si vuole
guardare a un modello, ad un esempio del passato si può pensare al sindacato che in
Inghilterra finanziava il Labour o alla rinascita del partito socialista francese.
Nel frattempo in agenda c’è già un appuntamento a Firenze il 23 marzo. E la
manifestazione del 28 marzo, che da ieri ha anche un nome e un programma: si chiamerà
“Unions”, la primavera dei diritti e si terrà di (sabato) pomeriggio a Roma con corteo da
piazza Esedra (ore 14) a piazza del Popolo, esattamente lo stesso programma de “La via
maestra” del 12 ottobre 2013.
Landini ha lanciato l’idea della coalizione sociale a novembre: mettere assieme chi ci sta
contro Renzi e la sua coalizione con Confindustria. A Cervia tre settimane fa ha avuto il via
libera da parte dell’assemblea nazionale dei delegati. Il documento con al centro il
progetto di «coalizione sociale» ha ricevuto con oltre il 90 per cento avendo il voto
favorevole anche della componente riformista dei “camussiani” guidati da Gianni Venturi.
La stessa Camusso è stata messa al corrente del progetto e delle riunioni già organizzate.
Non che questo abbia diminuito la sua contrarietà, ma (i probabili) attacchi che arriveranno
da altri esponenti della Cgil hanno comunque uno scudo solido nel fatto che l’operazione è
già stata spiegata e illustrata ai vertici di Corso Italia.
Da Repubblica.it del 14/03/15
Landini: "Pd nel silenzio distrugge diritti"
A porte chiuse l'evento per il lancio della 'coalizione sociale' alternativa
al Pd di Renzi. All'evento Emergency, Libera, Arci, Libertà e Giustizia,
Articolo 21. Guerini: "Conferma che sua opposizione era politica e non
sindacale"
ROMA - Riunificare il popolo della sinistra, questa la missione che Maurizio Landini si è
riproposto con la "coalizione sociale" che oggi ha fondato, richiamandosi espressamente
all'articolo 2 della Costituzione, insieme ad associazioni e rappresentanti della società
civile nella sede nazionale della Fiom, in corso Trieste a Roma. "Ho sentito parlare
qualcuno di urla per quanto mi riguarda. Io sinceramente sono abituato a discutere di
merito più che stare attento ai decibel", ha detto il leader sindacale al termine dell'incontro
a porte chiuse per la fondazione della coalizione. Una coalizione nata per difendere "i diritti
di cittadinanza a partire da quello del lavoro, non solo quello salariato, ma in tutte le
forme". Il leader sindacale ha replicato in questo modo al capogruppo pd Roberto
Speranza, che lo aveva criticato per essere espressione di "una sinistra massimalista che
urla". "Vorrei ricordare che una parte del Pd ha votato per la cancellazione e dello statuto
dei lavoratori. Quindi si può fare peggio di chi urla".
Landini: "Io urlo? Pd fa cose peggiori cancellando diritti"
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"A volte - ha aggiunto - si può non urlare, ma fare qualcosa che è peggiore della urla e
peggiorare le condizioni dei lavoratori. Io sto attendo a quello che dicono o fanno. Io
inviterei ad avere rispetto delle proposte che si fanno e ricordare che questo parlamento, e
in particolare la maggioranza hanno votato la cancellazione dello statuto dei lavoratori".
Poi ha sottolineato in vista della manifestazione del prossimo 28 marzo ("aperta a tutti i
soggetti che hanno portato a scioperare insieme Fiom e Cgil in autunno"): "Oggi c'è stato
un importante avvio di discussione con una presenza molto più ampia del previsto. C'è
stata la conferma della disponibilità a costruire la coalizione sociale nel rispetto della
Costituzione". Per il segretario Fiom, "l'elemento di novità è che questa azione mette al
centro come si realizzano i diritti dei cittadini, a partire dal diritto al lavoro". Ed è proprio la
difesa dei diritti di tutti che la 'coalizione sociale' si pone come obiettivo. Landini, poi, ha
ribadito la necessità di "rinnovare il sindacato per evitare la cancellazione": il governo
Renzi, ha proseguito, "non ha mai avuto un voto per cancellare lo statuto e i diritti, questo
voto non glielo ha dato nessuno".
Unire ciò che il governo divide. Il segretario Fiom ha ribadito, poi, il ruolo del sindacato:
"Noi facciamo il nostro mestiere di movimento sindacale e sociale, agiremo sui luoghi di
lavoro per riconquistare i contratti, ma cambiare le leggi vuol dire fare proposte per
costruire un consenso e se necessario fare proposte di referendum abrogativi perché
quando una legge non va bene si cambia".
Nessun partito. La coalizione non è un abbozzo di partito, Landini ci ha tenuto a
specificarlo nel corso della seduta, arrivando persino a minacciare chi lo pensasse di
tornarsene a casa - secondo quanto racconta lo storico costituzionalista della sinistra
Gianni Ferrara - e come ha ribadito lui stesso alla stampa, arrivando fino a scherzare sul
termine: "Partito? - ha detto -. Non capisco questa parola".
Lo spirito della coalizione. Una coalizione sociale, dunque, che nasce, spiega ancora
Landini, da una certezza, "che la politica non è proprietà privata" e da due assunti, "la fine
del lavoro" e quello secondo cui "la società non esiste, esistono solo gli individui e il potere
che li governa" con cui è stato creato "lo spettro di un futuro già presente con cui siamo
chiamati a fare i conti in tutta Europa" e che sta scatenando "una guerra tra poveri". Per
questo, scrive ancora Landini, "serve superare le divisioni, il frazionamento, le solitudini
collettive e individuali e coalizzarsi insieme". È questo, "lo spirito innovativo" su cui si
fonderà la nuova coalizione sociale, "indipendente e autonoma", puntualizza ancora, per la
quale, sabato, potrà già essere possibile "individuare punti di programma condivisi" per
una "visione nuova del lavoro, della cittadinanza, del welfare e della società".
Presenti all'incontro numerose associazioni, da Emergency a Libera, da Libertà e Giustizia
all'Arci ad Articolo 21. E rappresentanti di alcune categorie professionali come avvocati,
farmacisti e dottorandi di ricerca. E non è mancata la partecipazione di un rappresentante
politico vero e proprio, impersonato dalla senatrice ex M5s Maria Mussini.
Ma il vicesegretario del PD Lorenzo Guerini commenta: "Non capisco bene in che cosa
consista la sua proposta però ciò che mi sembra abbastanza evidente è che si conferma
che l'opposizione di questi mesi era più politica che sindacale".
http://www.repubblica.it/politica/2015/03/14/news/landini_-109498289/?ref=search
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del 15/03/15, pag. 2
di Salvatore Cannavò
È ARRIVATO L’ANTIRENZI LANDINI C’È, E
SPARA SUL PD
LA “COALIZIONE SOCIALE” VARATA DAL SEGRETARIO FIOM PRENDE
FORMA GIÀ IN PIAZZA IL 28. AD APRILE È PREVISTA ANCHE UNA
“LEOPOLDA” ROSSA
Cosa sarà davvero la “coalizione sociale” di Maurizio Landini si capirà un po ’ alla volta.
Quello che è chiaro da ieri, giorno in cui il segretario della Fiom ha riunito alcune decine di
associazioni, strutture sociali, singole persone in una sede Fiom assediata dai giornalisti, è
che la Coalizione è stata avviata e che ha un avversario molto preciso: il governo Renzi e
le politiche europee di cui è portatore.
“NOI NON ACCETTEREMO il terreno che ci è imposto da altri”, ha precisato il leader
sindacale nelle conclusioni. “Vogliono decidere come siamo vestiti, quali mutande
portiamo, che calzini indossiamo. È il modo migliore per evitare che nasca la coalizione
sociale”. Il riferimento è al Corriere della Sera che ha parlato di un “progetto Podemos”, un
modo per alludere “a un perimetro ristretto e poi depotenziarlo”. Lo stesso atteggiamento
assunto da Matteo Renzi quando ha parlato di un Landini “sconfitto che si butta in politica”.
La strada del “partito”, però, è esclusa: “Chi ha in mente questa soluzione può anche
andarsene”, dice all ’ inizio della sua introduzione. E, non si sa se, folgorati dalla frase, i
primi a lasciare la sala saranno proprio i due senatori ex M 5 S, Maria Mussini e Maurizio
Romani, ospiti inaspettati e che abbandoneranno i lavori dopo circa mezz’ora. Di partiti
non si vede traccia. Non c’è Sel né il Prc. Sarà presente Alfonso Gianni, già stretto
collaboratore di Fausto Bertinotti e poi sottosegretario nel governo Prodi, oggi attivo
nell’Altra Europa con Tsipras. Ma è una presenza individuale. Il grosso dei partecipanti
compone una rete di associazioni più o meno grandi, più o meno radicali. C’è Libera con
Gabriella Stramaccioni anche se la struttura, come spiegato ieri al Fatto da don Luigi Ciotti
non farà parte in quanto tale della Coalizione. Ma non è un caso che la sua campagna
“100 giorni per un reddito di dignità” sia tra le prime misure proposte ieri. Avrebbe dovuto
intervenire da Milano via streaming Cecilia Strada, ma un guasto ha impedito il
collegamento. L’Arci è rappresentata da Filippo Miraglia che mette a disposizione i suoi
circoli per pratiche mutualistiche; c’è Sandra Bonsanti di Libertà e Giustizia, Legambiente,
il Forum per l’acqua pubblica, ma anche i centri sociali che hanno dato vita allo Strike
Meeting, quelli del nord-est, gli studenti della Rete della conoscenza e dell’Udu, la Flc-Cgil,
i Comitati “Per una buona scuola”, l ’ associazione di avvocati free lance e i parafarmacisti,
la fabbrica recuperata Rimaflow che sta organizzando una Casa del Mututo soccorso.
Nessuna “costituente di un nuovo partito” e nemmeno una iniziativa in cui “cinque
decidono il progetto” spiega Landini. La Coalizione potrebbe divenire una “associazione di
associazioni” ma anche uno spazio in cui dare spazio a singoli e personalità. Del resto, tra
le figure finora coinvolte da Landini ci sono nomi come Stefano Rodotà, Gustavo
Zagrebelsky, don Luigi Ciotti, Gino Strada, Sergio Cofferati. L’importante è che ci sia “un
programma condiviso tra soggetti diversi” e “un’azione collettiva” contro le politiche di
austerità in Europa e in Italia, da radicare sui territori. Offrire di nuovo “il diritto alla
coalizione” a chi lavora ma anche a chi, ad esempio, difende l’ambiente. Il problema del
rapporto con la politica è però presente. In diversi invitano a non contrapporsi alla sinistra
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esistente, in particolare le strutture più legate a Sel. Landini chiude dicendo che non c’è
contrapposizione con i partiti ma la politica che propone è quella basata su un mix di
“programma e iniziative: avremo successo se avremo consenso”. Il progetto non sarà
semplice anche perché, al momento, poggia sulle spalle della sola Fiom dove, però, sono
convinti che “ne valga la pena”. Qualche segnale positivo è giunto dalla Cgil, ieri assente,
ma con alcune strutture che hanno aderito alla manifestazione del 28 marzo lanciata dalla
Fiom: sono la Cgil dell’Emilia Romagna, la Flc, il sindacato di scuola e università, e la
Fisac-Cgil del Lazio. E il rapporto con la Cgil resta decisivo. “Anche il sindacato ha
bisogno di rinnovarsi” ripete il segretario Fiom e non è un mistero che questa sua iniziativa
sia rivolta a offrire una via d’uscita dalla sconfitta subita sul Jobs Act e alle difficoltà che il
sindacato sta vivendo. Quello del 28 marzo sarà un appuntamento rilevante. Landini
precisa che la Coalizione non deve cercare la prova della piazza a tutti i costi, non ora, e
l’appuntamento, “Unions”, è stato già indetto dalla Fiom. Lo scontro con Renzi, sarà
evidente, come dimostra il nuovo attacco mosso ieri al premier e al Pd: “Nel silenzio si
distruggono i diritti”. PRIMA DEL 28, la coalizione si farà europea partecipando al
Blockupy di Francoforte contro la Bce. Il 21 marzo ci sarà invece la giornata per ricordare
le vittime di tutte le mafie, promossa da Libera a Bologna. Ma il primo vero appuntamento
nazionale, una sorta di “Leopolda sociale” si svolgerà a metà aprile presso un albergo
confiscato alle mafie nei pressi di Roma. Sarà una grande assemblea con tavoli tematici e
l’occasione, quindi, per mettere a punto programma e iniziative future. Poi, propone
Landini alla costituenda Coalizione, ci sarà il 25 aprile a Milano e il 2 giugno a Bologna, in
difesa della Costituzione. Infine, il radicamento territoriale. La proposta è di organizzare
Coalizioni sociali a livello di base: si cita l’esempio del Fondo di solidarietà creato a
Pomigliano ma anche Milano dove la festa della Fiom presso la fabbrica recuperata
Rimaflow potrebbe divenire una festa della Coalizione sociale.
del 15/03/15, pag. 6
Il battesimo di Landini nasce Coalizione
sociale “Il Pd distrugge i diritti”
Speranza: “La soluzione non sono le sue urla in tv” La replica: “Avete
cancellato lo Statuto dei lavoratori”
TOMMASO CIRIACO
ROMA .
La strategia della coalizione sociale a trazione Fiom trapela dalla finestra di un
seminterrato di corso Trieste. Lì dentro, da sei ore, associazioni e frammenti di sinistra
ragionano a porte chiuse del progetto di Maurizio Landini. Finché il numero uno dei
metalmeccanici prende la parola per fissare i paletti: «La mia idea è costruire qualcosa
che difenda i diritti di cittadinanza, a partire da quello del lavoro. Ma altri vogliono decidere
per noi, dirci anche quali mutande e calzini indossare. Hanno già costruito lo schema del
sindacalista che lancia un partito e approda in Parlamento. Se accettiamo questo terreno,
il progetto non decollerà». Guai a parlare di partito, allora. Almeno per il momento. «Non
conosco il significato di questa parola...». Guai a mostrarsi parte di un sistema che si
intende scardinare. Guai soprattutto a contaminarsi con piccoli e grandi leader di Palazzo.
«La politica, oggi, è lobby».
È un battesimo affollato e un po’ troppo blindato. Il servizio d’ordine con felpa Fiom a
caratteri cubitali filtra senza sconti i partecipanti. I cronisti sono tenuti alla larga. In sala, a
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dibattere, ci sono almeno quindici sigle: Legambiente ed Emergency, Libertà e giustizia e
pure Libera (“ma non faremo parte della coalizione”, precisano dall’associazione), Arci,
Uds e centri sociali. I partiti, invece, sono banditi. «La sinistra — si accende uno dei
relatori — cerca di rinascere con la ricerca di un santone. Noi percorriamo un’altra strada».
Certo, c’è qualche candidato della lista Tsipras reduce dalle Europee. A far rumore, in ogni
caso, è soprattutto l’assenza di Sel. Alla vigilia non sono mancati i contatti con la galassia
vendoliana, ma il messaggio fatto recapitare da Landini è stato chiaro: «Ne parliamo
un’altra volta, grazie ». Tre incauti senatori ex grillini si presentano comunque al raduno,
sfidando il veto. Dopo pochi minuti vengono messi garbatamente alla porta.
Lo scontro più aspro, però, è con la minoranza del Pd. È la prima tappa di una guerra che
sembra solo all’inizio. A gettare benzina sul fuoco della polemica è Roberto Speranza.
«Più spazio alla sinistra — sostiene il capogruppo dem, intervenendo a Bologna durante la
convention di Area riformista — non può significare una sinistra antagonista che nasce
dalle urla televisive di Landini». Poi tocca a Pierluigi Bersani esorcizzare il potenziale
competitor: «Non credo che Maurizio voglia mettersi in politica. Questa coalizione sociale
mi sembra un movimento che mette in discussione un’idea di sindacato più che un
soggetto politico». Il leader della Fiom non gradisce e poco dopo reagisce: «Sono abituato
a discutere di merito, più che di decibel. Inviterei ad avere rispetto delle proposte che si
fanno, senza dimenticare che il partito di maggioranza — non tutto, ma in buona parte —
ha votato la cancellazione dello statuto dei lavoratori. Si può anche non urlare, ma fare
cose peggiori».
È proprio sugli effetti del Jobs act che il sindacalista intende sfidare i democratici. E non fa
nulla per nasconderlo: «Mai un governo aveva cancellato i diritti senza alcun confronto con
i sindacati». Anche le organizzazioni dei lavoratori, però, devono cambiare. «Rinnovarsi»,
a costo di cambiare pelle: «Per impedire la cancellazione del sindacato confederale
bisogna unire tutto ciò che stanno dividendo. Mettere insieme tutte le forme di lavoro, non
solo quello salariato».
Un solo nodo, però decisivo, resta ancora da sciogliere: che forma avrà questa
eterogenea coalizione sociale, per ora a metà strada tra un movimento e un sindacato? Il
numero uno dei metalmeccanici non fa nulla per risolvere il rebus, anzi punta tutto sulla
contaminazione: «La politica non è proprietà privata. Un nuovo partito? Lo chieda a
Speranza, lui fa politica. Noi ci occupiamo di sindacato e abbiamo la nostra autonomia ».
Qualcosa in più si capirà nelle prossime settimane, a partire dalla manifestazione Fiom
convocata per il 28 marzo a Roma. Ad aprile, poi, sono previsti un altro paio di
appuntamenti con Landini. Nel frattempo si riuniranno i gruppi tematici per occuparsi della
piattaforma programmatica. Con alcuni punti fermi: «Contestiamo le politiche della
Commissione europea e della Troika. E vogliamo unire tutto ciò che il governo sta
dividendo».
del 15/03/15, pag. 2
Landini, la coalizione è servita
Antonio Sciotto
Fiom. «Non siamo un partito, ma siamo qui per unire tutti quelli che il
governo ha diviso». Il leader delle tute blu Cgil presenta il suo nuovo
soggetto. All’incontro con movimenti e associazioni, ma senza politici
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né stampa, c’erano anche studenti, avvocati e partite Iva. Con i
distinguo di Libera e l’attacco frontale da parte del Pd
E così è nata: non in piazza, o con uno sciopero, ma con una discussione a porte chiuse.
Lontano dalla stampa, «dal clamore dei media», come aveva precisato qualche giorno fa
la stessa Fiom, invitando i soggetti della costituenda Coalizione sociale. E mostrando una
certa allergia sia nei confronti dei politici che dei giornalisti.
Un netto distacco dall’“apparato” — in altri ambienti si direbbe la “casta” — che il
segretario dei metalmeccanici Cgil, Maurizio Landini, ha voluto rimarcare, proprio perché
l’intento di questo nuovo soggetto è quello di riappropriarsi della politica: fin dalla base, dai
movimenti e dalle associazioni, e ovviamente dai luoghi di lavoro. «Perché la politica non è
una proprietà privata», come ha evidenziato nella famosa frase scritta in grassetto nella
sua lettera di convocazione agli alleati.
Per l’ennesima volta Landini, aprendo i lavori poco dopo le 10,30 nella sala riunioni della
Fiom nazionale a Roma, ha ripetuto che «la coalizione sociale non vuole essere un partito
e non vuole fare un partito». Anzi, come ha spiegato il costituzionalista Gianni Ferrara
uscendo durante una pausa, ha detto che «chi pensa che siamo qui per fare un partito se
ne vada a casa».
Questo non vuol dire che la Coalizione sociale non faccia politica, anzi: la fa nel senso più
nobile del termine, e Landini cita l’articolo 2 della Costituzione, quello che «riconosce e
garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si
svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà
politica, economica e sociale». Unirsi, «coalizzarsi», è quindi un diritto e anche un dovere.
Unirsi, «unire quel che il governo ha diviso»: per questo, ripete Landini, «serve superare le
divisioni, il frazionamento, le solitudini collettive e individuali e coalizzarsi insieme». È
questo, «lo spirito innovativo» su cui si fonderà la nuova coalizione sociale, «indipendente
e autonoma», puntualizza ancora, ribadendo i concetti che aveva scritto nella sua lettera:
per poter affermare una «visione nuova del lavoro, della cittadinanza, del welfare e della
società».
Nel corso dei diversi interventi si traccia un possibile percorso, da fare insieme: con
Libera, Arci, Emergency, ma anche Legambiente, Libertà e giustizia, il gruppo Abele. E
ancora, la possibilità di coinvolgere le associazioni di freelance e partite Iva, come gli
avvocati di Mga, i farmacisti, i dottorandi di ricerca. Chiaro che Landini vuole andare oltre il
sindacalismo metalmeccanico di stampo classico, per coinvolgere i nuovi lavoratori, anche
quelli che non si riconoscono come dipendenti.
Per tracciare un nuovo «Statuto dei lavoratori», a partire dall’elaborazione della stessa
Cgil, ma non solo, e anche andare a un «referendum»: per «cancellare quello che delle
leggi attuali non ci piace, come il Jobs Act». E per fare questo, «bisogna creare consenso,
diffondere e coltivare una cultura dei diritti», e «lo possiamo fare solo se stiamo nelle
fabbriche ma anche fuori». Dove serve la solidarietà: «Perché sempre più persone si
avvicinano al sindacato dicendo che non arrivano alla fine del mese, e allora a queste
persone noi dobbiamo dare risposte».
Non a caso la saldatura con i gruppi cattolici, e con associazioni come Emergency che
assicurano l’assistenza sanitaria a poveri e immigrati. E poi i recenti riferimenti, tra il serio
e il faceto, a papa Francesco. Allargare oltre il consueto steccato della sinistra,
abbandonare i vecchi partiti che hanno perso, polverizzati da Renzi, Grillo, e Salvini.
Bisogna dare un messaggio di «nuovo», al di là dei contenuti più solidi, e questo Landini lo
sa bene.
Anche se ieri è arrivata una prima puntualizzazione di Libera, che ha spiegato che sì,
partecipa e collabora, ma che non entra in nessuna coalizione sociale: «Libera non
partecipa a nessuna coalizione sociale», ha fatto sapere l’associazione di Luigi Ciotti in
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una nota. Libera specifica di aver soltanto raccolto l’invito a «incontrarsi per affrontare
singole questioni di comune interesse». «Nel manifesto conclusivo di Contromafie, gli Stati
generali dell’antimafia svolti a Roma nell’ottobre 2014 abbiamo indicato con chiarezza i
dieci punti su cui siamo impegnati, come rete che raccoglie oltre 1.600 associazioni».
Lo scontro con i democrat
Come si può immaginare le peggiori stoccate sono venute dal Pd. Non solo l’entourage
renziano, che ha parlato solo in serata: «Si conferma che l’opposizione di questi mesi era
più politica che sindacale», dice il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini.
Ma i più acidi sono quelli dell’area riformista del Pd, che vedono togliersi potenziale
terreno sotto i piedi, mentre vorrebbero essere loro, pur in preda a un eterno amletismo, a
interpretare la sinistra a sinistra del Pd (vedi i brillanti risultati sul Jobs Act). E così Roberto
Speranza dice che «la parola scissione non esiste, non fa parte del vocabolario Pd», e che
«la soluzione non può essere una nuova sinistra antagonista che nasce dalle urla
televisive di Landini, ma avere più sinistra nel Pd e nella nostra azione di governo». Molti
aspettano fiduciosi.
Gli risponde Landini, che si dice «più attento ai contenuti che ai decibel»: «Il partito di
maggioranza, non tutti — aggiunge — ha votato la cancellazione dello Statuto dei
lavoratori. Ma il partito, questo governo, non hanno mai avuto un mandato del popolo su
un tale programma».
Porte aperte alla coalizione sociale dal Prc di Paolo Ferrero («Ottima notizia») e da Sel di
Nichi Vendola: «È una necessità».
L’appuntamento sabato prossimo a Bologna per la manifestazione di Libera, e poi sabato
28 a Roma, in Piazza del Popolo.
del 15/03/15, pag. 9
Landini in movimento
‘Il Pd cancella diritti io provo a difenderli’
Speranza lo aveva attaccato: le urla non servon
Un partito non è, una lista elettorale neanche. L’assemblea (a porte chiuse) di ieri non è
l’avvio di Podemos o Syriza all’italiana. Ma solo «una chiacchierata» che apre la strada
alla nascita della «coalizione sociale» fatta di movimenti e associazioni che fuori dai partiti
- ma nella società - affianchi e sostenga le ragioni dei lavoratori, che il Pd ha ormai
abbandonato. Ancora non si sa in che modo evolverà la «cosa» concepita dal leader della
Fiom Maurizio Landini. Ma è evidente a tutti l’impatto politico di un’operazione che
potenzialmente potrebbe riconfigurare la sinistra, riaggregando il vasto campo che non si
riconosce nelle scelte politiche e nelle riforme di Matteo Renzi e del suo governo.
Un’iniziativa che avrà presto la «controprova» della piazza, con la manifestazione contro il
«Jobs Act» di sabato 28 marzo a Roma. Che crea problemi a tutto il Pd, e grandissimi
imbarazzi alla Cgil di Susanna Camusso. Nella sede nazionale della Fiom ieri c’erano
rappresentanti di tante realtà: da Emergency ad Arci, da Libera ad Articolo 21, ma anche
categorie professionali. L’unica «politica», la senatrice ex-M5S Maria Mussini. Landini ha
spiegato che il cantiere della «coalizione sociale» ha l’obiettivo di «mettere nelle condizioni
di poter difendere i diritti» di tutti, «diritti di cittadinanza a partire da quello del lavoro, non
solo quello salariato, ma in tutte le forme». Per cui - se il capo gruppo Pd Speranza lo
attacca, «le urla di Landini non servono» - lui risponde che «non era mai successo dal
dopoguerra che un governo facesse leggi che cancellano i diritti senza consultare i diretti
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interessati né i sindacati, che semmai c’è l’intenzione di cancellare». Ma anche diritti
sociali e civili, antimafia, ambiente, «la politica non è proprietà privata». Di partito non se
ne parla, giura Landini, e in ogni caso le critiche del Pd (sinistra bersaniana compresa)
valgono poco: «Vorrei ricordare - dice - che una parte del Pd ha votato per la
cancellazione dello Statuto dei Lavoratori. Quindi si può fare peggio di chi urla». E la
Fiom? «Facciamo il nostro mestiere di movimento sindacale e sociale. Agiremo sui luoghi
di lavoro lo e il distacco riservatigli dal mondo dal quale proviene: e cioè quello del
sindacato. Meno scontati, forse - e per questo più dolorosi - i distinguo e le critiche
esplicite arrivati al suo progetto dalla minoranza interna al Pd, che dal Jobs Act alle riforme
costituzionali (fino all’allarme sul rischio di svolte autoritarie) ha un pacchetto di lagnanze e
di proposte assai vicino a quello del leader Fiom. Invece, lui lancia la sua «coalizione
sociale» ed apriti cielo. per riconquistare i contratti. Ma cambiare le leggi vuol dire fare
proposte per costruire un consenso. E se necessario fare proposte di referendum
abrogativi perché quando una legge non va bene si cambia». Matteo Renzi sembra
convinto che molto presto la «coalizione sociale» diventerà una cosa più concreta. «Si
dimostra che l’opposizione della Fiom di questi mesi, era politica non sindacale», è la tesi
del premier e dei renziani, che a questo punto vogliono cambiare le regole sindacali
varando una legge sulla rappresentanza sindacale e attuando l’articolo 39 della
Costituzione. Il problema più serio per adesso però ce l’ha la Cgil e il suo leader Susanna
Camusso. Nessun commento ieri dal segretario generale, in visita con degli studenti ai
campi di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Ma in Cgil ormai c’è palese preoccupazione,
perché Landini sta chiaramente superando le «linee rosse». «La Cgil non può fare un
partito politico, una corrente di un partito, né essere mallevadore di un movimento
politico», disse a suo tempo il segretario. E Landini - sia pure giurando di non farlo certamente è andato oltre. Mettendo a rischio l’autonomia della Cgil, e indebolendo la
Confederazione nei confronti degli altri sindacati, delle controparti. E anche verso un
governo che già non nasconde la sua ostilità.
del 15/03/15, pag. 10
Landini in campo: per i diritti
coalizione sociale e sfida al Pd
ROMA Oltre la minoranza Pd, oltre il sindacato e, soprattutto, contro Matteo Renzi:
Maurizio Landini (e la Fiom), dopo settimane di annunci in tv, ieri hanno lanciato
ufficialmente la loro «coalizione sociale a difesa dei diritti di tutti i lavoratori» che si articola
sulla Fiom e su associazioni e movimenti sociali che vanno da Libera ai No Tav. È dalla
piazza, che Landini vuole cominciare, e lo ribadisce fin quasi allo sfinimento, con lo scopo
di non affossare il progetto trasformandolo in un partitino. Ma, nel lungo periodo, è alle
prossime elezioni e all'avversario Renzi, che il segretario della Fiom guarda, con l'occhio
del politico e, non più, solo, del sindacalista. E, non a caso in serata, è uno degli uomini
più vicini a Matteo Renzi, il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerinì a replicare: «Non
capisco bene la sua proposta però conferma che l'opposizione di questi mesi era. più
polìtica che sindacale».
LA POLITICA NON È PRIVATA
Sta di fatto che è nata la coalizione sociale targata Landini, o meglio, targata Fiom, come
lo stesso segretario chiarisce ricordando l'avallo dell'organizzazione. La novità è che alla
classica mobilitazione sindacale si aggiunge la mobilitazione di piazza e associazioni di
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varia origine e finalità: da Emergency a Giustizia e Libertà, da Arci ad Articolo 21 fino a
LiberàTcHè smentisce una sua adesione alla coalizione ma al fianco della quale la Fiom
scenderà in piazza a Bologna il 21 marzo. Del resto, è lo stesso Landini a spiegare la sua
strategia nella riunione, convocata (a porte chiuse) con una lettera che, in grassetto,
metteva in evidenza le parole: «la politica non è proprietà privata». «Bisogna partire dai
territori, bisogna aggregare sulla base della lotta per i diritti e contro la povertà e non solo
della difesa dei salariati», spiega Landini nel suo intervento conclusivo non escludendo
una sua discesa in campo in un prossimo futuro ma chiarendo che, «chi oggi vuoi fare un
partito è meglio che vada via».
L'idea, insomma, è quella di coagulare tutto il malcontento e la protesta con qualche
strizzata d'occhio all'esperienza degli spagnoli di Podemos o ai greci di Syriza ma anche
agli italiani di 5Stelle sapendo, però, che la situazione italiana è molto diversa da quella di
altri paesi alle prese con l'austerity. Landini dovrà vedersela con il sordo malumore della
Cgil (che ieri non ha proferito parola) e la durissima contrarietà della sinistra dem, «Le uria
non servono», ha liquidato il progetto il bersagliano Roberto Speranza. Il leader di Sei
Nichi Vendola sposa invece la nascita della nuova coalizione definita come una
«necessità» e annuncia la partecipazione alla manifestazione Fiom del 28 marzo a Roma.
Netta infine la contrarietà degli altri sindacati metalmeccanici, «Landini pone fine a ogni
suggestione di unità sindacale», chiosa Marco Bentivoglio segretario della Fim.
D.Pir.
Da Radio popolare del 13/03/15
Intervista alla presidente nazionale Arci Francesca Chiavacci su Coalizione sociale
Da Radio popolare del 14/03/15
Intervista al vicepresidente nazionale Arci Filippo Miraglia su Coalizione sociale
Da Repubblica.it del 15/03/15
Il battesimo di Landini nasce Coalizione
sociale "Il Pd distrugge i diritti"
La strategia della coalizione sociale a trazione Fiom trapela dalla finestra di un
seminterrato di corso Trieste. Lì dentro, da sei ore, associazioni e frammenti di sinistra
ragionano a porte chiuse del progetto di Maurizio Landini. Finché il numero uno dei
metalmeccanici prende la parola per fissare i paletti: «La mia idea è costruire qualcosa
che difenda i diritti di cittadinanza, a partire da quello del lavoro. Ma altri vogliono decidere
per noi, dirci anche quali mutande e calzini indossare. Hanno già costruito lo schema del
sindacalista che lancia un partito e approda in Parlamento. Se accettiamo questo terreno,
il progetto non decollerà». Guai a parlare di partito, allora. Almeno per il momento. «Non
conosco il significato di questa parola...». Guai a mostrarsi parte di un sistema che si
intende scardinare. Guai soprattutto a contaminarsi con piccoli e grandi leader di Palazzo.
«La politica, oggi, è lobby».
È un battesimo affollato e un po' troppo blindato. Il servizio d'ordine con felpa Fiom a
caratteri cubitali filtra senza sconti i partecipanti. I cronisti sono tenuti alla larga. In sala, a
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dibattere, ci sono almeno quindici sigle: Legambiente ed Emergency, Libertà e giustizia e
pure Libera ("ma non faremo parte della coalizione", precisano dall'associazione), Arci,
Uds e centri sociali. I partiti, invece, sono banditi. «La sinistra — si accende uno dei
relatori — cerca di rinascere con la ricerca di un santone. Noi percorriamo un'altra strada».
Certo, c'è qualche candidato della lista Tsipras reduce dalle Europee. A far rumore, in ogni
caso, è soprattutto l'assenza di Sel. Alla vigilia non sono mancati i contatti con la galassia
vendoliana, ma il messaggio fatto recapitare da Landini è stato chiaro: «Ne parliamo
un'altra volta, grazie ». Tre incauti senatori ex grillini si presentano comunque al raduno,
sfidando il veto. Dopo pochi minuti vengono messi garbatamente alla porta.
Lo scontro più aspro, però, è con la minoranza del Pd. È la prima tappa di una guerra che
sembra solo all'inizio. A gettare benzina sul fuoco della polemica è Roberto Speranza.
«Più spazio alla sinistra — sostiene il capogruppo dem, intervenendo a Bologna durante la
convention di Area riformista — non può significare una sinistra antagonista che nasce
dalle urla televisive di Landini». Poi tocca a Pierluigi Bersani esorcizzare il potenziale
competitor: «Non credo che Maurizio voglia mettersi in politica. Questa coalizione sociale
mi sembra un movimento che mette in discussione un'idea di sindacato più che un
soggetto politico». Il leader della Fiom non gradisce e poco dopo reagisce: «Sono abituato
a discutere di merito, più che di decibel. Inviterei ad avere rispetto delle proposte che si
fanno, senza dimenticare che il partito di maggioranza — non tutto, ma in buona parte —
ha votato la cancellazione dello statuto dei lavoratori. Si può anche non urlare, ma fare
cose peggiori».
È proprio sugli effetti del Jobs act che il sindacalista intende sfidare i democratici. E non fa
nulla per nasconderlo: «Mai un governo aveva cancellato i diritti senza alcun confronto con
i sindacati». Anche le organizzazioni dei lavoratori, però, devono cambiare. «Rinnovarsi»,
a costo di cambiare pelle: «Per impedire la cancellazione del sindacato confederale
bisogna unire tutto ciò che stanno dividendo. Mettere insieme tutte le forme di lavoro, non
solo quello salariato».
Un solo nodo, però decisivo, resta ancora da sciogliere: che forma avrà questa
eterogenea coalizione sociale, per ora a metà strada tra un movimento e un sindacato? Il
numero uno dei metalmeccanici non fa nulla per risolvere il rebus, anzi punta tutto sulla
contaminazione: «La politica non è proprietà privata. Un nuovo partito? Lo chieda a
Speranza, lui fa politica. Noi ci occupiamo di sindacato e abbiamo la nostra autonomia ».
Qualcosa in più si capirà nelle prossime settimane, a partire dalla manifestazione Fiom
convocata per il 28 marzo a Roma. Ad aprile, poi, sono previsti un altro paio di
appuntamenti con Landini. Nel frattempo si riuniranno i gruppi tematici per occuparsi della
piattaforma programmatica. Con alcuni punti fermi: «Contestiamo le politiche della
Commissione europea e della Troika. E vogliamo unire tutto ciò che il governo sta
dividendo».
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/03/15/il-battesimo-di-landininasce-coalizione-sociale-il-pd-distrugge-i-diritti06.html?ref=search
Da il SecoloXIX.it del 14/03/15
Landini lancia la “coalizione sociale”: «La
politica non è proprietà privata»
Roma - Oltre la minoranza Pd, oltre il sindacato. Soprattutto, oltre e contro Matteo Renzi:
Maurizio Landini, dopo settimane di annunci, ha posto la prima pietra della sua “coalizione
sociale”, «a difesa dei diritti di tutti i lavoratori» e già affiancata da una selva di
associazioni e movimenti sociali.
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È dalla piazza, dalla Rete, che Landini vuole incominciare, come ha ribadito sin quasi allo
sfinimento, con il chiaro scopo di non “bruciare” il progetto mutuandolo in partito. Ma, nel
lungo periodo, è alle prossime elezioni e all’avversario Renzi, che il segretario della Fiom
guarda, con l’occhio del politico e non più solo del sindacalista. Non a caso, se Renzi opta
per il silenzio, in serata è uno degli uomini più vicini al premier, Lorenzo Guerini, a
replicare: «Non capisco bene la sua proposta, però conferma che l’opposizione di questi
mesi era più politica che sindacale».
Sta di fatto che ufficialmente è nata la nuova “coalizione sociale” targata Landini. Anzi:
targata Fiom, come è lo stesso segretario a sottolineare, ricordando come l’iniziativa abbia
avuto l’avallo delle tute blu e parta anche dall’azione nelle aziende. La novità, però, è che
alla classica mobilitazione sindacale si aggiunga un’ampia mobilitazione di piazza, oltre ad
associazioni di varia origine e finalità: da Emergency a Giustizia e Libertà, da Arci ad
Articolo 21, sino a Libera, che smentisce una sua adesione “ufficiale”, ma al fianco della
quale la Fiom scenderà in piazza a Bologna il 21 marzo.
Del resto, è lo stesso Landini a spiegare la sua strategia nella riunione, convocata a porte
chiuse con una lettera che, in grassetto, metteva in evidenza le parole «la politica non è
proprietà privata». Bisogna partire dai territori, bisogna aggregare sulla base della lotta per
i diritti e contro la povertà e non solo della difesa dei salariati, spiega Landini
nell’intervento conclusivo, non escludendo una sua “ufficiale” discesa in campo in un
prossimo futuro, ma chiarendo che, «chi oggi vuol fare un partito è meglio che vada via».
L’idea, insomma, rimarca quella della mobilitazione dal basso del Movimento 15-M in
Spagna, o la stella nascente, sempre a Madrid, di Podemos, senza disdegnare l’ellenica
Syriza o la tedesca Linke. Tutti riferimenti lontanissimi dalla rottamazione renziana, lontani
dalla minoranza Pd.
«Inviterei ad avere rispetto delle nostre proposte senza dimenticare che il partito di
maggioranza ha votato la cancellazione dello statuto dei lavoratori. Si può anche non
urlare, ma fare cose peggiori», è la replica al vetriolo che Landini affida al leader di Area
Riformista, Roberto Speranza, che da Bologna osservava come la soluzione alla richiesta
di più sinistra non siano «le sue urla» in tv. Più aperto, invece, il leader della sinistra Dem,
Gianni Cuperlo, che invita a «guardare con rispetto all’iniziativa di Landini». E se Massimo
Cacciari avanza una soluzione oggi a dir poco originale («Area riformista e Landini si
mettano insieme»), il leader di Sel, Nichi Vendola, sposa in pieno la nascita della nuova
coalizione, definita come una «necessità», e annuncia la partecipazione alla
manifestazione Fiom del 28 marzo a Roma, che Landini, tra l’altro, apre a chiunque
«voglia condividere i nostri obiettivi». Sarà quella, forse, la prima, vera cartina di tornasole
di un progetto che punta al referendum abrogativo sul Jobs Act e dal quale, per il numero
1 delle tute blu, dovrebbe partire anche un «rinnovamento del sindacato» per evitare la
sua stessa morte. Perché, avverte Landini, con queste politiche «il rischio c’è».
Quasi a voler rafforzare la tesi, il sindacalista ricorda come il governo «abbia cancellato i
diritti conquistati da chi lavora», anche se «questo consenso non gli è mai stato dato da
nessuno». Insomma: a sinistra, da oggi, Renzi ha un nuovo “nemico”.
http://www.ilsecoloxix.it/p/italia/2015/03/14/ARAr7doD-politica_proprieta_coalizione.shtml
Da il Giornale.it del 16/03/15
Sindacati e piazza. Landini segue il modello
Cofferati
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Dice che non vuole creare un partito ma solo fare politica. Usa questa
ambiguità per restare a metà del guado e utilizzare il sindacato a suo
uso e consumo
Adalberto Signore
Continua a ripetere che no, non ha alcuna intenzione di creare un partito ma vuole
soltanto fare politica «uscendo dagli schemi tradizionali».
La differenza è sottile e, soprattutto, si perde nell'equivoco visto che disegnare i confini di
quello che è oggi un partito e di quali possano essere i modelli tradizionali non è per nulla
facile. Maurizio Landini lo sa bene. Anzi, è proprio su questa ambiguità che gioca il
segretario della Fiom per restare a metà del guado e utilizzare il sindacato a suo uso e
consumo.
L'operazione è ormai in fase avanzata e difficilmente riusciranno a farlo desistere le
ritrosie della stessa Cgil. Susanna Camusso, infatti, non l'ha presa per nulla bene, tanto
che ieri ha voluto mettere in chiaro di non essere stata informata dell'iniziativa Coalizione
sociale . Inutile, insomma, aspettarsi da Landini passi indietro. D'altra parte, il leader della
Fiom sa bene di essere molto efficace, soprattutto in televisione. Al punto che i talk show
del prime time se lo contendono e lui se la gode, tanto che - ironizzano i suoi detrattori nel
sindacato - è stato ospite di tutte le reti con la sola eccezione di Rai YoYo . Ieri, per dire, è
stata la volta di In 1/2 ora su RaiTre, trasmissione nella quale ha ribadito quasi fosse un
mantra che non vuole «né fare politica né uscire dal sindacato». Di più: chi descrive il
lancio della sua Coalizione sociale come una «operazione politica» è «in malafede». Con
buona pace della Camusso.
Landini, dunque, tira dritto. E sembra ripercorrere le orme di un suo noto predecessore.
Come il leader della Fiom sta cercando di riunire sotto l'ombrello della Coalizione sociale
associazioni come Emergency, Arci e Articolo 21, allo stesso modo Sergio Cofferati strizzò
l'occhio a lungo ai girotondi. Fu anche grazie a loro che nel 2002 l'allora segretario della
Cgil riuscì a portare al Circo Massimo 700mila persone (tre milioni secondo gli
organizzatori) contro la modifica dell'articolo 18. Alla piazza - ovviamente con numeri
diversi - guarda anche Landini che il 28 marzo sfilerà contro il Jobs Act. Ma le similitudini
non finiscono qui se pure Cofferati è andato avanti per anni a giurare che lui no, in politica
non sarebbe mai entrato. Con tanto di ritorno da «quadro» alla Pirelli quando nell'ottobre
2002 lasciò la segreteria Cgil a Guglielmo Epifani. I buoni propositi, però, durarono poco. Il
tempo di essere eletto sindaco di Bologna nel 2004, parlamentare europeo nel 2009 e
2014 e infine correre alle primarie del Pd per la scelta del candidato governatore della
Liguria. Storia recente di un sindacalista che non voleva far politica.
Da Radio 24 - il sole24ore.com del 16/03/15
A sinistra di Renzi
Le inchieste di Daniele Biacchessi
Cosa bolle in pentola a sinistra del Partito Democratico di Matteo Renzi?
Se dovessimo giudicare gli ultimi movimenti molto.
C'è Maurizio Landini che lancia la sua Coalizione sociale e chiama a raccolta la Fiom e il
mondo dell'associazionismo: Arci, Libera, Emergency, libertà e giustizia, Articolo 21.
Il progetto non sembra quello di realizzare un vero e proprio partito come erroneamente
indicano molti osservatori di cose politiche, ma un cartello di opposizione al Governo su
temi del lavoro, politiche sociali, diritti, ambiente, antimafia, .
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Anche le varie anime delle minoranze del Pd sono in subbuglio.
L'attivissimo deputato dem Alfredo D'Attorre ha organizzato una nuova tappa della road
map che porterà a breve numerosi parlamentari di minoranza a dar vita ad un soggetto
politico organizzato che si muoverà all'interno del Partito Democratico.
Infatti, sabato 21 marzo a Roma l'assemblea vedrà la partecipazione anche di
rappresentanti della Cgil e di Sel e avrà come titolo "A sinistra nel Pd".
Ma questo continuo darsi da fare non pare portare a qualcosa di sostanzioso: la
Coalizione sociale di Landini, la rete di amministratori e sindaci di Nicky Vendola col suo
«Human factor», i bersaniani di Roberto Speranza, i potenziali scissionisti come Gianni
Cuperlo, Pippo Civati e Stefano Fassina decisi a non votare o votare contro leggi e riforme
del governo.
A sinistra di Renzi la frantumazione resta totale e alla fine nessuno dei contendenti riesce
a scalfire la popolarità e la fiducia di cui gode ancora il presidente del Consiglio.
di Daniele Biacchessi
http://www.radio24.ilsole24ore.com/notizie/effettogiorno/2015-03-16/sinistra-renzi103222.php
Da Quotidiano Nazionale del 14/03/15
Landini: "Il Pd ha distrutto i diritti dei
lavoratori". Bersani avverte Renzi: "Sul
partito voglio vedere i fatti"
Alla chiamata del leader Fiom per lanciare la coalizione sociale hanno
risposto diverse associazioni, dall'Arci a 'Giustizia e libertà'. Speranza:
"Le sue urla non servono". Convegno di Area Riformista a Bologna
Roma, 14 marzo 2015 - Il leader della Fiom Maurizio Landini battezza la 'cosa rossa' nella
sede nazionale della Fiom: un incontro a porte chiuse per fondare la 'coalizione sociale'
alternativa al Pd di Matteo Renzi: non un partito, ma una formazione politica nelle
intenzioni del segretario dei metalmeccanici della Cgil. E a Bologna si riunisce Area
Riformista del Pd, con un intervento di Bersani.
COALIZIONE LANDINI - "La politica non è proprietà privata": è lo slogan scritto in
grassetto sulla lettera che Landini ha inviato ad associazioni, simpatizzanti e iscritti alla
Fiom per fondare "una coalizione sociale" alternativa a quella dei partiti esistenti. Alla
'chiamata' del leader Fiom hanno risposto membri di diverse associazioni, da Arci a
Giustizia e Libertà, Articolo 21 e singoli membri di altre reti sociali. "C'è bisogno di una
coalizione sociale. Questo è un movimento d'opinione che farà anche delle cose concrete.
Non diventerà un partito", commenta la presidente nazionale di Libertà e Giustizia Sandra
Bonsanti. E anche Landini chiarisce: "Chi pensa sia iniziata una fase preparatoria per la
nascita di un nuovo partito sbaglia. E se ne vada a casa". Il giurista Gianni Ferrara,
lasciando la riunione, ha ribadito: "Non siamo venuti qui per fondare un nuovo partito. Su
questo Landini è stato chiarissimo: ha invitato a uscire e andarsene a casa chi invece
volesse farlo". Ferrara ha insistito sulla prospettiva comune proposta da Landini
qualificandola come "coalizione sociale, aperta a chiunque voglia farne parte".
Una coalizione sociale per difendere "i diritti di cittadinanza a partire da quello del lavoro,
non solo quello salariato, ma in tutte le forme", ha affermato Landini, sottolineando che di
fronte al processo di "fortissima svalorizzazione" del lavoro serve anche "un rinnovamento
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del sindacato". "C'è bisogno di un rinnovamento del sindacato per evitarne la
cancellazione".
Poi Landini ha risposto indirettamente alle accuse di Roberto Speranza (Pd), che da
Bologna aveva affermato che la soluzione alla richiesta di una maggiore presenza di
sinistra nella politica italiana "non può essere una sinistra antagonista che nasce dalle urla
televisive di Landini, ma avere più sinistra nel Pd e più sinistra nella nostra azione di
governo". "Ho saputo di dichiarazioni relative a chi urla. Io mi concentro sul merito - ha
replicato Landini -. Ricordo che questo governo e in particolare il partito di maggioranza ha
cancellato i diritti dei lavoratori. Questo è peggio delle urla".
BERSANI A BOLOGNA - A Bologna si è riunita Area Riformista - convegno dal titolo 'La
sfida dei riformisti nel Pd, la sinistra, il governo, l'Italia' - e oltre a Speranza c'era anche l'ex
segretario del Pd Pierluigi Bersani. Che ha dichiarato: "Noi siamo sempre con l'idea di
stare con tutti i piedi nel Pd. A chi ci dice 'se non siete d'accordo andate fuori', io rispondo:
no, vai fuori tu, che questa è casa mia". E ancora: "Un'area di sinistra larga - ha detto - con
la radice ulivista non va dispersa, perché nel campo largo tendono a prevalere posizioni
riformiste".
"Nell'ipotesi che la legge elettorale rimanga tale e quale, io non sono in condizione di
votare quella legge così com'è fatta", ha ribadito Bersani, perché, ha spiegato, qui si tocca
"un tema di fondo, il tema della questione democratica in questo Paese: per questo - ha
detto ancora Bersani - sono assolutamente convinto che ci sarà la disponibilità a
ragionare".
Cosa succederà se si dovesse invece arrivare a una rottura su questo punto? "I nostri
statuti - ha risposto Bersani - mettono la famosa eccezione alla lealtà, la mettono sui temi
di rango costituzionale, come è anche ovvio... Però questa è una risposta anche un po'
burocratica. Ci fosse mai una rottura su questo punto io non sottovaluto - è stato l'allarme
dell'ex segretario Dem - anche elementi di incrinatura seria, profonda: per questo - ha
osservato - dico non succederà, si ragionerà. Questo voglio credere".
LA REPLICA DI GUERINI - "Sulla legge elettorale abbiamo discusso a lungo e credo che
la formulazione attuale sia equilibrata e funzioni bene. Ci confronteremo nel merito nelle
prossime settimane anche se per me va bene così perché coglie gli obiettivi prefissati", ha
detto Lorenzo Guerini, sottolineando che "gli ultimatum non fanno bene al Pd".
http://www.quotidiano.net/landini-cosa-rossa-1.757891
Da Globalist del 14/03/15
Landini con le associazioni per sfidare Renzi
Il numero uno della Fiom convoca le associazioni, dall'Arci a Libera, per
costruire un'alternativa alle politiche del governo.
Maurizio Landini lancia un'idea di coalizione sociale per difendere "i diritti di cittadinanza a
partire da quello del lavoro, non solo quello salariato, ma in tutte le forme". "Riunificare il
lavoro per estendere i diritti a tutti", questo l'obiettivo di Maurizio Landini, secondo il quale
"ciò porta al cambiamento anche del sindacato: il processo in atto sta portando alla
cancellazione del sindacato confederale perchè porta i sindacati alla competizione tra loro.
Per impedire questo processo bisogna unire tutto ciò che stanno dividendo" puntando "a
mettere insieme tutte le forme di lavoro, non solo quello salariato". "Sono abituato a
discutere di merito più che di decibel sono attento a quello che si dice: inviterei ad avere
rispetto delle proposte che si fanno senza dimenticare che il partito di maggioranza, non
tutti al suo interno, ha votato la cancellazione dello statuto dei lavoratori".
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La riunione a porte chiuse ha visto la partecipazione di diverse associazioni, da
Emergency ad Arci, da Libera ad Articolo 21. Presenti anche rappresentanti di alcune
categorie professionali come avvocati, farmacisti e dottorandi di ricerca. E non manca la
partecipazione di un rappresentante politico vero e proprio, impersonato dalla senatrice ex
M5s Maria Mussini. Tutti i partecipanti sono stati convocati da Landini presso la sede
nazionale della Fiom con una lettera di invito nella quale si chiede di dare forma a dei
"punti di programma condivisi nello spazio nazionale" che muovano da una certezza: "La
politica non è una proprietà privata".
http://www.globalist.it/Detail_News_Display?ID=70726&typeb=4&Landini-con-leassociazioni-per-sfidare-Renzi
Da AskaNews del 14/03/15
Landini e associazionismo di sinistra riunito
in sede Fiom
Roma, 14 mar. (askanews) - E' riunito nella sede della Fiom di corso Trieste a Roma il
mondo dell'associazionismo di sinistra, come Libera, Emergency, Articolo 21, Arci,
categorie professionali: hanno risposto all'appello del segretario del sindacato dei
metalmeccanici, Maurizio Landini, per fare il punto sulla possibilità di costruire l'alternativa
all'attuale governo, a Matteo Renzi.
"La politica non è una proprietà privata", è lo slogan di Landini, il quale, al termine della
riunione a porte chiuse farà sapere alla stampa l'esito dell'incontro.
Sinistra, Landini vara "coalizione sociale"
sinistre, lotta a scelte Renzi
Roma, 14 mar. (askanews) - Il leader della Fiom, Maurizio Landini, ha lanciato la
coalizione sociale nell'incontro con l'associazionismo di Libera, Emergency, Arci, Giustizia
e libertà, Articolo 21, delle categorie professionali e dei dottorandi di ricerca, ma è chiaro: "
Chi pensa che si tratti di una fase preparatoria per la costituzione di un partito può andare
a casa", non capisco la parola partito".In vista della manifestazione del sindacato dei
metalmeccanici della Cgli, il prossimo 28 marzo contro le politiche del lavoro del governo
Renzi, e, prima ancora, di quella di Libera, a Bologna mercoledì 18, Landini ha convocato
tutte le associazioni di sinistra - chiamata alla quale hanno risposto anche due senatori ex
M5s -, le quali hanno confermato la loro disponibilità a costituire un soggetto, nel rispetto
della Costituzione, che preveda un'azione per "la realizzazione dei diritti di cittadinanza, a
partire dal lavoro al centro di un processo di fortissima svalutazione".Nell'incontro con i
giornalisti al termine dell'assemblea di oggi nella sede Romana della Fiom, Landini non ha
mancato di rispondere al capogruppo del Pd, Roberto Speranza, il quale ha accusato il
leader delle tute blu di essere l'esponente di "una sinistra massimalista che urla": "Sono
abituato a parlare del merito più che dei decibel, di quello che si dice e si fa. Direi di non
scordare che parte del Pd ha votato per la cancellazione dello Statuto dei lavoratori. Si
può fare peggio di chi urla", ha detto il sindacalista, aggiungendo che "non è mai successo
che il Parlamento cancellasse i diritti conquistati senza confronto con i sindacati e le
persone interessate".La coalizione sociale, nelle intenzioni di Landini, dovrà servire a
"superare le divisioni, il frazionamento, le solitudini collettive e individuali e coalizzarsi
insieme" e agire "sui luoghi di lavoro per riconquistare i contratti": "Cambiare le leggi sottolinea il leader della Fiom - vuol dire fare proposte per costruire un consenso e se
necessario fare proposte di referendum abrogativi perché quando una legge non va bene
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si cambia. Siamo di fronte a un gioco al ribasso da ribaltare, unificando il lavoro ed
estendendo a tutti i diritti". Quindi fa sapere che il prossimo appuntamento è ad aprile, per
una due-giorni aperta a tutti coloro che condividono il progetto, per cominciare a decidere
contenuti, priorità, metodo e come organizzare la campagna. Infine Landini torna al suo
ruolo principale quando afferma "che c'è bisogno di rinnovare il sindacato contro chi lo
vuole cancellare". Parole che potrebbero fare da sponda a chi sostiene che per il leader
della Fiom sia iniziata la lunga corsa ala segreteria della Cgil.
Da Rassegna.it del 16/03/15
Umbria, scatta raccolta firme per difesa civile
non violenta
“Scatta anche in Umbria la Campagna nazionale “Un’altra difesa è possibile”, con
banchetti di raccolta firme a sostegno di una proposta di legge
“Scatta anche in Umbria la Campagna nazionale “Un’altra difesa è possibile”, con
banchetti di raccolta firme a sostegno di una proposta di legge da presentare al
Parlamento che chiede la realizzazione di una difesa civile alternativa alla difesa militare
che sia finanziata dal bilancio statale attraverso l’opzione fiscale (il 6 per mille) in sede di
dichiarazione dei redditi.
La proposta è stata presentata oggi, 16 marzo 2015, a Perugia dal Comitato Umbro della
Rete della Pace in una conferenza stampa alla quale hanno partecipato Margherita Belia
(Rete degli Studenti), Mario Bravi (Cgil Umbria), Paolo Tamiazzo (Arci Umbria), Antony
Xavier Ladis Kumar (Acli Perugia) e Alessandra Paciotto (Legambiente Umbria).
La proposta vuole dare piena attuazione all’articolo 52 della nostra Costituzione (la difesa
della patria) istituendo nel nostro ordinamento forme di Difesa civile, in coerenza con
l’articolo 11 (il ripudio della guerra). Nel concreto, la proposta di legge - che i cittadini
potranno sottoscrivere anche in Umbria presso tutte le sedi dei soggetti aderenti oltre che
nelle iniziative che saranno messe in campo nei prossimi due mesi - punta all’istituzione e
al finanziamento del Dipartimento per la Difesa civile non armata e nonviolenta che
comprenda i Corpi civili di pace e l’Istituto di ricerche sulla Pace e il Disarmo e che abbia
forme di interazione e collaborazione con il Dipartimento della Protezione civile, il
Dipartimento dei Vigili del Fuoco ed il Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile
Nazionale.
“Dunque – hanno sottolineato dal Comitato Umbro Rete della Pace - non un nuovo
calderone dal quale tirare fuori nuove poltrone o possibili carriere, ma una messa a
sistema di corpi già esistenti in uno spirito nuovo di collaborazione e sinergia”.
Il finanziamento della nuova Difesa civile sarebbe garantito, oltre che dallo spostamento di
risorse dalla spesa militare, sostanzialmente rimasta immutata nonostante la crisi, anche
dalla possibilità per i contribuenti di destinare a questo scopo il 6xmille dell’imposta sul
reddito delle persone fisiche.
“L’Umbria – hanno sottolineato i rappresentanti della Rete - ha una forte identità sulle
questioni della Pace, per una storia che tutti conosciamo da San Francesco ad Aldo
Capitini. Questa campagna , dunque, può essere un’occasione per rilanciare fortemente
l’identità dell’Umbria come terra di Pace”.
A livello nazionale la campagna è promossa da sei reti che raggruppano oltre 200
associazioni: chi volesse ulteriori informazioni può visitare il sito
www.difesacivilenonviolenta.org.
http://www.rassegna.it/articoli/2015/03/16/119828/umbria-scatta-raccolta-firme-per-difesacivile-non-violenta
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L’ARCI SUI MEDIA LOCALI
del 14/03/15, pag. IX (Palermo)
L’ANTIMAFIA CHE FATICA E NON FA AFFARI
SALVO LIPARI
DIECI ettari di terreno confiscati a Giovanni Marino, nipote di Luciano Liggio. È il 1999
quando l’allora sindaco di Corleone, Giuseppe Cipriani, decide di assegnarli alla
cooperativa “Lavoro e non solo” dell’Arci. Comincia allora un percorso di fatica, di risposta
ad attentati e intimidazioni e di lotte condivise con chi nel paese ha scelto di stare dall’altra
parte della barricata. E comincia un cammino che ha portato da tutta Italia a Corleone
migliaia di ragazzi che hanno imparato a “sudare”, a lavorare una terra tolta ai poteri
criminali e a riportare nei loro territori il senso di una battaglia concreta.
Estate 2013. A Librino, periferia di Catania, l’Arci decide di giocare una partita importante
in un quartiere segnato dal degrado ma anche da una grande voglia di riscatto. Lo fa
mettendo in piedi un campo estivo che punta al recupero di una struttura sportiva e lo fa
coinvolgendo i ragazzi di quel territorio. In questi decenni la Carovana antimafia dell’Arci e
di Libera ha toccato centinaia di località e coinvolto migliaia di persone. Decine e decine di
associazioni, movimenti, scuole, pezzi consistenti della società civile hanno lavorato e
continuano a lavorare per opporsi a mafia, corruzione e malaffare. Ogni giorno e quasi
sempre senza clamore. Realtà come quella del Centro Olimpo di Palermo, in cui 34
persone hanno deciso di sfidare tutto e tutti e, grazie a una collaborazione virtuosa con
istituzioni e associazioni, hanno fondato una cooperativa per riaprire il supermercato
confiscato in cui lavoravano, sono l’esempio che uno scenario diverso è possibile. Ma di
esempi così se ne possono fare centinaia.
L’arresto di Roberto Helg ha scatenato un dibattito anche aspro ma a tratti superficiale
sull’antimafia vera e quella di facciata. Un dibattito che torna ciclicamente, da Sciascia in
poi, e che rischia di confondere tutto, di riempire a caso un grande calderone. Negli ultimi
decenni c’è stato un proliferare di protocolli di legalità, accordi, intese. C’è chi, per fortuna
una minoranza, ha utilizzato l’etichetta di antimafioso per continuare a fare affari, a
mantenere rapporti, ad alimentare un sistema illegale. C’è un pezzo della politica che
dietro il paravento dell’antimafia prova, nel migliore dei casi, a nascondere la propria
incapacità di governare, di gestire i processi, di dare risposte, e nel peggiore a coprire i
propri rapporti con pezzi di potere quanto meno discussi.
Tutto questo può dare un colpo mortale al movimento antimafia ma può anche essere, al
contrario, una scossa più che positiva. Per fare autocritica, per capire dove si è sbagliato e
soprattutto per ritrovare una capacità di analisi e selezione che una volta apparteneva ai
soggetti organizzati della società. Non si può delegare solo alle forze dell’ordine e alla
magistratura il compito di individuare le mele marce. Abbiamo rinunciato a scavare nella
complessità, a esaminare a fondo e conoscere i territori. Ma abbiamo anche rinunciato a
fare i conti con un fatto assolutamente non nuovo. C’è da sempre un pezzo della
borghesia palermitana e siciliana che ha scelto da che parte stare e che tipo di potere
esercitare. Magari celando i propri comportamenti dietro un paravento di antimafiosità.
Fare finta di non saperlo è ipocrita.
Tutto questo però non può consentire di buttare il bambino con l’acqua sporca. Lo
dobbiamo a chi in questi anni ha provato a comporre un puzzle che diventa via via più
grande e che continua a farlo, seppure con limiti ed errori frutto anche di ingenuità. Un
esempio per tutti: non si può dare addosso a Addiopizzo per aver firmato il protocollo con
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Confcommercio e dimenticare un impegno paziente che in tutti questi anni ha dato
coraggio a moltissimi imprenditori e imprenditrici.
L’impegno dell’Arci e degli altri movimenti e associazioni che hanno condiviso e
condividono importanti pezzi di strada dovrà essere quello di non consentire
strumentalizzazioni e semplificazioni e di continuare ogni giorno a costruire quel puzzle,
con fatica, sacrifici e scelte di vita non semplici.
L’autore è presidente dell’Arci Sicilia
Da L’Arena dell’11/03/15
La prova di lettura per gli stranieri scatena le
proteste
Fasoli del Pd: «Gesto umiliante» L'Arci: «Non è affatto sensibilità»
Il sindaco Cristiano Zuliani finisce di nuovo nell'occhio del ciclone. Ha destato infatti
sconcerto ed indignazione la notizia apparsa ieri sul nostro quotidiano relativa all'originale
iniziativa del primo cittadino, che ha sottoposto alcuni stranieri residenti da tempo nel suo
Comune, e quindi ben integrati, ad un pre-esame di italiano in funzione dell'ottenimento
della cittadinanza. Il comitato territoriale Arci di Verona, con un comunicato, ha preso
immediatamente le distanze dal sindaco leghista del più piccolo centro della Bassa.
«Poiché Zuliani si è reso protagonista nel recente passato non per meriti derivanti dal suo
operato di amministratore, ma solo per aver pronunciato frasi chiaramente razziste»,
scrive Michela Faccioni, presidente del comitato Arci, «appare improbabile che ora egli
tenti di giustificare quest'altra trovata facendo leva sulla sua presunta sensibilità per le
sorti di queste persone e dichiarando che ha fatto tutto ciò nel loro interesse in modo da
evitare il blocco della pratica per altri sei mesi». Quindi, invita il sindaco «ad ad occuparsi
delle reali necessità che riguardano il governo del suo Comune e a non inseguire ribalte
mediatiche su temi che lo porterebbero forse alla bocciatura, perché, date le premesse, se
fosse lo stesso Zuliani a sottoporsi ad un esame di italiano e di cultura non
sorprenderebbe ne risultasse non idoneo». Il consigliere regionale del Pd Roberto Fasoli
rincara la dose: «Il sindaco non può ergersi a giudice del grado di conoscenza della lingua
italiana dei cittadini che hanno avuto il decreto dal ministero. È un gesto di maleducazione
che umilia le persone che si sono integrate e lavorano nel nostro territorio». «Condanno
questo comportamento», conclude Fasoli, «soprattutto perché fa fare brutta figura alla
nostra città che mostra così un volto inospitale verso le persone che nel tempo si sono
integrate». L.M.
http://www.larena.it/stories/397_basso_veronese/1089133_la_prova_di_lettura_per_gli_str
anieri_scatena_le_proteste/
Da Corriere di Maremma dell’11/03/15, pag. 7
Le fiamme hanno lambito la conduttura del metano.
Assalto incendiario alla Casa del Popolo
Sfiorata l'esplosione: "Poteva essere una
strage"
di Juliane Busch
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GAVORRANO - Sfiorata la tragedia lunedì sera alla Casa del Popolo dove i vandali hanno
dato fuoco a un pannello nelle prossimità della conduttura del gas che porta alla cucina.
Fortunatamente al momento dell'incendio si stava svolgendo un corso di danza all'interno
della struttura e i partecipanti, accorgendosi del fumo, hanno reagito subito e spento il
fuoco prima che potesse andare fuori controllo. Purtroppo questo è solo l'ultimo episodio
di una lunga serie di danni fatti alla struttura. Il vicesindaco Giulio Querci è intervenuto
subito e ha deciso l'immediata chiusura del parco. "Dopo l'ennesimo atto vandalico ho
deciso che da domani (oggi. ndr) il parco della Casa del Popolo sarà chiuso": così ha
annunciato sul suo profilo Facebook. "Ogni giorno viene tolto più di un sacchetto di
spazzatura gettato in terra dai figli incivili (età dai 10 ai 20 anni) di alcuni - racconta
amareggiato e arrabbiato il vicesindaco - Come se non bastasse, gli stessi causano
migliaia di curo di danni alla struttura spaccando vetri e vasi cementati, sfondando le porte
a calci, urinando ovunque e defecando negli angoli bui come le bestie. Sempre gli stessi
forzano le finestre per entrare nella sala del Black & White, sbarbano i lampioncini del
parco o li prendono a sassate, si arrampicano sul tetto della Casa del Popolo a fare chissà
cosa. Ma lunedì sera "...è stato toccato l'apice, hanno dato fuoco a una pannellatura (un
muro) causando danni ingenti alla struttura e rischiando di far saltare per aria tutto, visto
che a mezzo metro dalle fiamme c'erano le friggitrici della Festa dell'Unità alle quali
ovviamente è collegata la linea del metano".
Un testimone racconta: "Non si sono nemmeno resi conto che potevano fare una strage,
perché all'interno si trovavano persone che frequentavano una scuola di ballo e per pura
fortuna si sono accorte dell'incendio e lo hanno spento prima che raggiungesse le
tubazioni del gas. Dobbiamo dire grazie a loro se non è successo un disastro". Querci ha
riassunto l'accaduto con due parole, "amarezza infinita, e non ha potuto fare altro che
chiudere per il momento il parco e sporgere denuncia contro ignoti ai carabinieri. E' già la
quarta denuncia in due anni, ma per ora la situazione non è mai cambiata, tanto che il
Comune si è visto costretto a prendere una decisione irremovibile, quella della chiusura,
perché ci sono anche responsabilità personali in caso avvenissero incidenti, anche se la
volontà sarebbe il contrario, quella di far utilizzare il più possibile la struttura. Servirebbe
un sistema di sorveglianza. preferibilmente con un circuito di telecamere, ma è una spesa
troppo alta per le casse del partito che gestisce la struttura. La chiusura del parco non va
comunque a inferire sui corsi di cucito, cucina, computer, teatro o canto organizzati
dall'Arci che sono frequentati da decine di persone le quali poi vanno a mangiare in
pizzeria, a lezione di danza infrasettimanale o a ballare il sabato sera. Inoltre nella Casa
del Popolo trovano sede l'Arcicaccia Bagno di Gavorrano e l'associazione dei disoccupati
Progetto Lavoro. Anche molte altre associazioni locali usufruiscono della struttura per
iniziative, raccolta fondi, pranzi e cene di autofinanziamento.
Da il Tirreno del 10/03/15, pag. XIII (Pontedera-Empoli)
STASERA AL CIRCOLO
L’Arci contro le spese militari, iniziativa a
Petroio
"Bum bum..chi è che spara?" è il titolo provocatorio dell'iniziativa organizzata da Arci
Empolese Valdelsa e Arci servizio civile Empoli con l'adesione di Gees (Gruppo Empolese
Emisfero Sud) e Rete Lilliput, che si svolgerà oggi alle 21,15 al circolo Arci di Petroio.
«Saranno con noi Francesco Mancuso, dell'Università di Pisa e Cisp - spiegano gli
organizzatori - autore di vari libri sul tema degli armamenti e disarmo e Sara Bandecchi,
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presidente di Arci servizio civile Toscana. In questi tempi in cui venti di guerra soffiano
ormai da ogni parte, senza parlare dei conflitti di cui nemmeno si parla da parte dei media,
ci sembra giusto ed utile analizzare come il nostro Stato usi le risorse, che tipo di budget
sia destinato alle spese militari, che tipo di commercio venga fatto delle armi e soprattutto
se parlare di disarmo sia ancora possibile ».
Durante la serata verranno raccolte le firme per la campagna «Un'altra difesa è possibile »
a cui l'Arci aderisce. Questa sarà la seconda tappa di raccolta firme nel nostro territorio,
dopo quella del 22 febbraio al circolo di Pagnana e «quindi un'altra opportunità per tutti
coloro che credono nella pace, di firmare per questa importante campagna», si spiega
ancora. Obiettivo della campagna è «quello di dare uno strumento ai cittadini per chiedere
allo Stato l'istituzione della Difesa nonviolenta ovvero per la difesa della Costituzione e dei
diritti civili e sociali che in essa sono affermati; la preparazione di mezzi e strumenti non
armati di intervento nelle controversie internazionali; la difesa dell'integrità della vita, dei
beni e dell'ambiente dai danni che derivano dalle calarnità naturali, dal consumo di
territorio e dalla cattiva gestione dei beni comuni». L'obiettivo dell'Arci e degli altri
promotori è quello di dare finalmente piena attuazione all'art. 52 della Costituzione (sacro
dovere della difesa della patria) istituendo forme di Difesa civile e nonviolenta in coerenza
con l'art. i i (ripudio della guerra). In pratica si tratta di chiedere un dipartimento che
comprenda i corpi civili di pace e l'Istituto di ricerche sulla Pace e il disarmo e che abbia
forme di collaborazione con il dipartimento della protezione civile, quello dei vigili del fuoco
e col Dipartimento della gioventù e del servizio civile nazionale.
Da Ansa (Bologna) del 15/03/15
Fiori presso beni confiscati alla mafia
Bulbi di tulipano a creare il 'Giardino della Legalità'
(ANSA) - BOLOGNA, 15 MAR - Bulbi di tulipano piantati attorno ai 5 beni confiscati alla
mafia a Bologna. E' partita questa mattina da Piazza dei Martiri, alla presenza del sindaco
Virginio Merola, un'azione di 'guerrilla gardening', ribattezzata il 'Giardino della Legalità' e
organizzato dal Centro Antartide, Coop Adriatica, Arci Bologna, Il Cassero, Coop Avola e
Libera, in occasione della XX Giornata delle memoria in ricordo delle vittime innocenti
delle mafie, che sarà in programma a Bologna il 21 marzo.
Da Trentino Corriere Alpi dell’11/03/15
Torna “25 Music Contest”, il concorso
promosso dall’Arci
TRENTO. Serata all’insegna della musica live questo mercoledì di marzo dall’aria che si
tinge di preludio primaverile. Musica per tutti i gusti e palati. Sul fronte contest arriva alla
quarta e penultima data il “25 Music Contest”, concorso promosso da Arci del Trentino e
che premierà le due migliori band con la possibilità di suonare sul prestigioso palco della
Festa della Liberazione di Trento Oggi alle ore 21 al Chinaski di via degli Orbi a Trento si
sfidano a suon di note incrociando gli strumenti tre formazioni. Sul palco quindi il
cantautorato di Corrado Nascimbeni, il rock della band rivelazione 2015 L'Ira Di Giotto, e i
Supercanifradiciadespiaredosi, il trio sperimentale rock e molto altro reduce
dall'esperienza dell'Arezzo Wave 2014. Come sempre sarà presente la giuria scelta,
composta dai ragazzi delle associazioni Aguaz, Dodicimilawatt, Associazione Offset,
Associazione Megaras e Sanbaradio Trento. Tinte rock blues anche al Bar Fiorentina di
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via Calepina dove dalle 20,30 si esibisce il progetto The Blurred Shadows con un
repertorio ci cover di livello internazionali e nazionali. Serata jam session jazz invece per il
Ciclo Well in jazz con concerto d’apertura a cura del trio Wot ore 21 al Wellcafè presso
l’Auditorium S Chiara a Trento che poi si presteranno come open band stand per chiunque
voglia esibirsi. A disposizione microfono, basso, batteria, pianoforte e amplificatore. Folk
songwriting dal sapore western al Feeling Pub di Piazza Garzetti sempre a Trento con il
concerto di Tiziano Campagna e Daniele Valle che intrecciano un dialogo virtuoso fra le
loro chitarre dipingendo storie selvagge dal sapore del west americano. Live anche per il
Dela Cruz acoustic duo on stage al Tiki Lounge Bar di Piazza Duomo con musica
spagnola dalle ore 19,30. (k.c.)
http://trentinocorrierealpi.gelocal.it/tempo-libero/2015/03/11/news/torna-25-music-contestil-concorso-promosso-dall-arci-1.11028051
Da Cn24tv.it del 13/03/15
Policy pubbliche per lo sviluppo, l’Arci chiede
incontro a Oliverio
“Il nostro Paese è immerso in una crisi globale che non è più solo
economica. Si tratta di una crisi di sistema non più sostenibile.” È
quanto si legge in una nota della Presidenza di Arci Calabria.
“Il tema dell’Expo, ormai alle porte, Nutrire il Pianeta, Energie per la Vita, segnala un
grande problema emergenziale, quello dell’impossibilità di soddisfare i bisogni dell’umanità
continuando colpevolmente ad adottare un modello di sviluppo storicamente inadeguato e
che ha dimostrato tutte le sue drammatiche insufficienze. – Prosegue la nota - Emerge
forte la necessità di ripensare il rapporto tra economia e società, tra profit e non profit, tra
produzione e ambiente, rimettendo al centro l’uomo e la società. All’ideologia e alla
massimizzazione del profitto si contrappongono sempre più, e con rinnovata forza,
alternative di pensiero e stili di vita. All’egoismo fanno da contraltare fenomeni di
aggregazione sociale che sanno coniugare benessere individuale e responsabilità
collettiva. Reti di imprese e di comunità, insieme a nuove forme di cittadinanza organizzata
e a nuovi modelli di governance, provano a far ripartire i territori, sintetizzando e
coniugando impresa, produzione, valore, capitale sociale, capitale umano e patrimonio
comune. Un nuovo progetto di società, oggi non può prescindere dal rafforzamento di
processi di intrapresa, di intraprendenza, di autonomia della società civile organizzata dal
pubblico e dalla politica. Si può certamente uscire dalla crisi con un nuovo patto sul tema
dei diritti, dell’equità sociale, della democrazia, ma a patto di tessere alleanze virtuose e
positive tra soggetti di terzo settore, sindacati, movimenti e i diversi attori sociali portatori
di istanze di cambiamento.
Nel tempo della crisi affermiamo il valore e la necessità dell’associazionismo come
antidoto alla desertificazione sociale, culturale e democratica. Abbiamo bisogno ora più
che mai di promozione, tutela e pratica dei diritti, di luoghi collettivi alternativi ai modelli di
società che producono solitudine e isolamento, per la ricostruzione di comunità e relazioni
col territorio, per conquistare nuovi spazi di libertà e di benessere. Vogliamo farlo
declinando la promozione sociale come strumento di emancipazione e autoorganizzazione delle persone, rafforzando l’esercizio della cittadinanza attiva, che agisca
consapevolmente tanto i propri diritti quanto le proprie responsabilità, per ricostruire il
necessario e possibile equilibrio fra protagonismo individuale e dimensione collettiva.
Vogliamo farlo difendendo e affermando pienamente il diritto alla cultura e alla ricreazione
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che stanno alla base della nostra storia e nel nostro nome, e che in questi tempi sono
spesso considerati superflui o stravolti in senso consumistico.
Le pratiche diffuse delle nostre basi associative, dei circoli, fatte di democrazia,
partecipazione, auto-organizzazione non finalizzate al profitto ma al benessere e
all'interesse pubblico sono per loro natura pratiche di un mondo diverso. Per questo
crediamo che la loro tutela, la loro difesa, la loro qualificazione, il loro sviluppo, la loro
capacità di contare nella vita pubblica sia un contributo alla costruzione dell'alternativa
necessaria.
La legge sull’associazionismo di promozione sociale è stata approvata a livello nazionale
nel 2000 ma la Regione Calabria non l’ha mai recepita, per come avrebbe dovuto. Serve
con urgenza, per non compromettere l’apporto di una delle gambe del Terzo Settore
calabrese alla crescita sociale-sconomica e culturale del territorio, sviluppare e disciplinare
le attività ricreative come i servizi di somministrazione di alimenti e bevande, turismo, sport
e animazione culturale o musicale. Il tutto con l’obiettivo di valorizzare il ruolo ed il valore
aggiunto delle associazioni di promozione sociale. Troppo spesso, infatti, ci si dimentica di
quanto importante sia l’apporto alla nostra vita sociale di realtà che in regione coinvolgono
migliaia di tesserati e che sono in grado di proporre nuovi e importanti strumenti per
risolvere problemi complessi, che hanno bisogno di un impegno collettivo. Siamo
un’associazione che opera per la promozione dei diritti culturali, per il rafforzamento del
dialogo interculturale, per la rigenerazione e la riqualificazione degli spazi pubblici, per la
creazione di pratiche artistiche, per l’affermazione dei valori della pace e dei diritti umani
universali, per lo sviluppo di reti di cooperazione internazionale, pratichiamo la legalità e la
cittadinanza democratica, ci battiamo per i dirittti dei migranti, dei rifugiati e delle
minoranze contro ogni razzismo.
La nostra rete di associazioni, circoli e loro soci, diffusa capillarmente sul territorio
nazionale e regionale (circa 5.000 circolo e 1 milione di soci), può rappresentare un
importante laboratorio permanente di elaborazione politica e di partecipazione. Siamo,
insieme a molte altre organizzazioni e movimenti sociali, un’associazione che si fonda
sulla partecipazione popolare e sul radicamento territoriale, e pur ben consci dei nostri
limiti e difficoltà crediamo che questa caratteristica debba essere considerata un elemento
di interesse pubblico da riconoscere e valorizzare. Tanto più in un momento storico in cui
è evidente che la democrazia rappresentativa tradizionale, concentrata sul ruolo dei partiti
da sola non è più sufficiente e che è necessario sviluppare anche la democrazia
partecipativa per coinvolgere nelle decisioni pubbliche i corpi intermedi e i cittadini
organizzati per promuovere l’interesse generale.
Rivendichiamo con forza una legislazione che riconosca, promuova e difenda in modo
pieno il ruolo e il valore della complessità della nostra azione di associazione di
promozione sociale, al pari di quella di tanti altri soggetti del Terzo Settore. Soprattutto in
una fase delicata per il futuro della Calabria, che dovrà sfruttare al meglio il contributo e
l’apporto dei corpi intermedi e di tutte le componenti della società civile per elaborare
proposte di senso e traiettorie di sviluppo connesse al nuovo ciclo di programmazione, allo
scopo di raggiungere gli obiettivi strategici di inclusione e coesione sociale previsti dal
programma Europa 2020. – Conclude la nota- Sui temi dell’associazionismo di
promozione sociale, sulla legge 383 da recepire al più presto a livello regionale, colmando
un grave vuoto normativo, oltre che su temi strategici, politicamente rilevanti per il mondo
della cultura, del welfare, dell’ambiente, dell’agricoltura sociale l’Arci chiederà al
Presidente Oliverio un incontro per chiedere di impregnarsi ad accelerare i processi di
partecipazione delle organizzazioni di terzo settore e del partenariato socio-economico alle
scelte strategiche e alla definizione delle policy pubbliche per lo sviluppo della Calabria.”
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http://www.cn24tv.it/news/108024/policy-pubbliche-per-lo-sviluppo-l-arci-chiede-incontro-aoliverio.html
Da Strill.it del 12/03/15
Reggio – Convegno “Storie di ordinaria
resistenza a Reggio Calabria” organizzato da
Arci e Libera
Sabato 14 marzo 2015 alle ore 16,30 presso la Sala Biblioteca della Provincia di Reggio
Calabria a Piazza Italia si terrà il convegno “Storie di ordinaria resistenza a Reggio
Calabria” organizzato da Arci e Libera Reggio Calabria.
L’incontro sarà moderato da Davide Grilletto, Presidente Provinciale Arci Reggio Calabria.
Interverranno: Francesco Spanò, Coordinatore Libera Reggio Calabria; Mimmo Nasone,
Coordinatore Libera Calabria; Stefania Gurnari, Libera Memoria; Domenico Quattrone,
Arci Legalità; Tiberio Bentivoglio, Imprenditore; Giusi Nuri, Cooperativa Sole Insieme.
All’iniziativa prenderanno parte i 40 partecipanti al “Viaggio della Legalità” promosso da
Arci Solidale- Circolo Arci Ghezzi Lodi.
- See more at: http://www.strill.it/citta/2015/03/reggio-convegno-storie-di-ordinariaresistenza-a-reggio-calabria-organizzato-da-arci-e-libera/#sthash.31hywNZd.dpuf
Da il Vostro Giornale dell’11/03/15
A Savona l’evento “Mapas2″, per far
conoscere il progetto di cooperazione
internazionale
Savona. Giovedì 12 marzo Arci Savona e Arci Liguria organizzano – in collaborazione con
l’associazione Itala – Cuba ed il Patrocinio del Comune di Savona – l’evento “Mapas2 a
Savona”, evento per far conoscere il progetto di cooperazione internazionale realizzato da
Arci Liguria con il contributo della Regione Liguria.
Mapas2 è parte del progetto internazionale “Santa Fé: Rafforzamento dei servizi socioculturali per lo sviluppo comunitario”, che affronta l’esclusione di parte della popolazione
dalla vita culturale. Santa Fé è un quartiere periferico de L’Avana, un villaggio di pescatori,
che non riesce a fruire della ricchezza culturale che da sempre caratterizza la città; inoltre,
soffre una condizione sociale complessa, recentemente aggravata dal disastroso
danneggiamento del Cinema Oasis e della Casa della Cultura, i due centri identitari e
aggregativi d’eccellenza della comunità. Il progetto internazionale lavora alla ricostruzione
di questi luoghi e prevede la messa in atto di processi partecipativi che rompano
l’isolamento della popolazione locale e dei giovani in particolare.
Il calendario di giovedì 12 marzo prevede una serie di incontri nel pomeriggio – sera:
ore 17:30 Incontro presso la Sala Rossa del Comune di Savona con la partecipazione di
Claudia Gonzales Rosado (Direttrice della Casa della Cultura di Santa Fé), Lorena
Rambaudi (Assessore Cooperazione Internazionale Regione Liguria), Jorg Costantino
(Assessore Cooperazione Internazionale Comune di Savona) Walter Massa (Presidente
Arci Liguria) e Giuditta Nelli (Responsabile Cooperazione Internazionale Arci Liguria ed
ideatrice del progetto)
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Ore 19:00 Visita delle Officine Solimano
Ore 20:00 Cena presso la SMS San Bernardo (per info e prenotazioni 349/3816057 o
[email protected]). Parte del ricavato sarà devoluto realizzazione di progetti
artistici, culturali, sociali a Santa Fé – L’Avana (Cuba)
“Il Comitato Arci Savona ha fortemente un appuntamento di restituzione pubblica di
quanto è stato fatto a Cuba nell’ambito del progetto Mapas2 in quanto siamo convinti che,
pur in tempi di tagli alle risorse per la solidarietà e la cooperazione internazionale, sia
fondamentale proseguire l’azione della nostra associazione per sostenere la cultura e
l’inclusione sociale sia nel nostro Paese che all’estero” afferma Alessio Artico, Presidente
Provinciale Arci.
http://www.ivg.it/2015/03/savona-levento-mapas2-per-far-conoscere-il-progetto-dicooperazione-internazionale/
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ESTERI
Del 16/03/2015, pag. 23
Europa, un esercito comune per stare al
centro della storia
Nei giorni scorsi il presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, ha
proposto di procedere con la costituzione di un esercito europeo per far vedere alla Russia
che l’Europa è «seria nel difendere i propri valori» e «credibile nel reagire a minacce alla
pace in uno Stato membro o in uno Stato vicino».
Non serviva un indovino per sapere che gli inglesi avrebbero subito alzato un fuoco di
sbarramento. «La nostra posizione è chiarissima: la difesa è responsabilità nazionale e
non europea»: così, senza mezzi termini, il governo. «Un esercito europeo sarebbe una
tragedia per il Regno Unito»: così, più brutali ancora, gli antieuropei dell’UK Independence
Party. Una risposta favorevole, seppure con meno passione, alla proposta di Juncker è
venuta, invece, dal governo di Berlino, a nome del quale la ministra della Difesa, Ursula
von der Leyen, ha detto che «un esercito europeo è il futuro».
Nel complesso, tuttavia, la proposta di Juncker è caduta, Italia compresa, quasi nel vuoto.
Non lo meritava. Per più di una ragione. Perché essa corrisponde a uno dei temi della sua
campagna elettorale per la nomina a presidente della Commissione Europea, tanto che
l’averla ripresa ora è un atto di responsabilità politica nei confronti degli elettori che
dovrebbe essere apprezzato da tutti coloro che auspicano e chiedono un rapporto più
diretto tra cittadini e istituzioni europee. Perché con l’avanzare una proposta di stampo
così apertamente europea e proiettata nel futuro, Juncker ha dimostrato di voler restituire
alla Commissione l’orgoglio e il ruolo di rappresentante dell’interesse comune europeo,
smettendo i panni — indossati durante i dieci, timidi anni del suo predecessore — di mero
esecutore dei voleri dei governi nazionali. Perché l’Europa non può pensare (Russia e crisi
ucraina insegnano) che l’elemento della forza abbia perduto ogni peso nelle relazioni
internazionali, né che i suoi interessi coincidano sempre e comunque con quelli della Nato,
cioè degli Stati Uniti. Perché la costituzione di un esercito europeo consentirebbe una
razionalizzazione delle spese militari e degli armamenti, oggi suddivisi e frammentati tra le
diverse difese e industrie nazionali. Molta strada resta da fare perché la proposta di un
esercito europeo, la cui natura dovrà in ogni caso tener conto della neutralità di quattro
Paesi membri (Austria, Finlandia, Irlanda, Svezia), possa essere tradotta in pratica. Per
quanto gli eserciti nazionali abbiano già sviluppato una notevole esperienza nel lavoro in
comune e per quanto l’ultima revisione dei trattati europei espressamente preveda la
possibilità che anche nel campo della difesa i Paesi che lo vogliano possano procedere a
collaborazioni più strette, il cammino verso un esercito comune europeo non sarà agevole.
La già ricordata neutralità di Austria, Finlandia, Irlanda e Svezia, gli arsenali nucleari del
Regno Unito e della Francia, i rapporti con la Nato e gli Stati Uniti saranno tra i tanti nodi
che si dovranno sciogliere.
Insieme alla moneta, la spada è da sempre il simbolo più forte e diretto della sovranità.
Con l’euro e la Banca centrale europea, gli stati europei hanno messo in comune la
potestà di battere e governare la moneta. Condividere con altri anche il potere di decidere
sull’uso della forza militare sarà un passo sostanzialmente definitivo e, per questo, ancora
più difficile. Tanto più difficile in quanto a favore di un soggetto come l’Unione Europea, a
tutt’oggi formalmente privo persino di una propria bandiera e di un proprio inno dopo che
alcuni governi hanno impedito al drappo azzurro con le dodici stelle d’oro e all’Inno alla
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Gioia di Beethoven di essere riconosciuti come i suoi simboli ufficiali. E che esercito si può
dare se non può neppure sfilare dietro a una bandiera e rendere gli onori militari al suono
di un inno? Sulla strada che porta a un esercito comune, l’Unione si troverà, come Cesare,
di fronte a un Rubicone. In un mondo e in un tempo nei quali dalla sicurezza alla finanza,
dall’energia all’ambiente, dalla ricerca all’immigrazione, la dimensione nazionale non basta
più, l’Europa dovrà decidere se essere coesa anche nell’uso della forza facendo il passo
finale verso l’unione politica o essere ai margini della storia. Si può dire che Juncker abbia
lanciato la palla in avanti? Sì. E ha fatto bene. È là che si deciderà se quello di Mario
Draghi dovrà restare il solo numero utile da chiamare per parlare con l’Europa.
del 16/03/15, pag. 1/6
Europa, ascolta le parole di Atene
MARIANA MAZZUCATO
IL PRINCIPALE problema dell’Europa, si sente spesso ripetere, è che l’unificazione
monetaria non è stata accompagnata da una vera politica fiscale comunitaria. E che senza
una vera “unione fiscale” sarà impossibile uscire dalla crisi. Per “unione fiscale” si intende
però soprattutto la necessità di correggere le differenze tra i Paesi.
OVVERO tra quei Paesi (fiscalmente irresponsabili) a cui è stato consentito di spendere
troppo, finire nei guai e incrementare il rapporto tra debito e Pil e gli altri Paesi (fiscalmente
prudenti) che si sono comportati in maniera responsabile, stringendo la cinghia e
rendendosi più competitivi. “Unione fiscale” vorrebbe dunque dire che i Paesi deboli (Italia,
Grecia, e via dicendo) oggi dovrebbero tagliare le spese … e naturalmente i salari dei
lavoratori. Una soluzione, come è stato spiegato questa settimana a Cernobbio da Richard
Koo (capo economista di Nomura ndr), Yanis Varoufakis e dalla sottoscritta, molto lontana
dalla realtà. Per diventare competitivi servono investimenti intelligenti, non tagli.
Senza violare le regole di confidenzialità della conferenza di Cernobbio, quelle che gli
anglosassoni chiamano Chatham House rules , permettetemi di elencare alcuni dei
ragionamenti che abbiamo ripetuto nei nostri lavori ed interventi degli ultimi anni prima di
incontrarci nella magnifica Villa d’Este sul lago di Como. Le posizioni convergono sull’idea
che quando il settore pubblico “stringe la cinghia” peggiora la crisi invece che risolverla sia
nel breve periodo (quando le imprese ed i consumatori privati stanno risparmiando) che
nel lungo periodo (quando la vera crescita ha bisogno di investimenti strategici in nuove
tecnologie e capitale umano). Quello che fa la differenza è il modo e la intelligenza con cui
i soldi vengono spesi.
Cominciamo dal breve periodo. Richard Koo afferma da tempo nei suoi scritti che l’Europa
ha confuso i propri problemi strutturali con i suoi, ben più urgenti problemi di contabilità in
bilancio. Koo si riferisce al fatto che, come accade puntualmente durante le crisi
determinate da un eccessivo debito privato, le imprese tentano di ridurre la propria
esposizione finanziaria e, per quanto i tassi di interesse scendano si rifiutano di investire.
È quanto vediamo succedere oggi: nonostante tassi di interesse pari a zero gli
investimenti e la domanda non crescono e tutto ciò genera deflazione. Se,
contemporaneamente al settore privato, anche quello pubblico inizia a comportarsi prociclicamente, cioè a “stringere la cinghia”, si trasforma una recessione in una vera e
propria depressione. Ed è proprio ciò che è accaduto.
Koo sostiene da vari anni che l’Europa dovrebbe imparare dagli errori compiuti dal
Giappone, durante la crisi degli anni ‘90, quando il governo, ha aumentato le tasse e
tagliato le spese; così il deficit, a causa dell’imponente calo negli investimenti e nella
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domanda, invece di ridursi è cresciuto del 70%. Purtroppo l’Europa non ha ancora
imparato la lezione: i governi nazionali continuano a tagliare e il piano di investimenti
“Juncker” della UE si basa sulla speranza ridicola che 21 miliardi possano produrre un
coefficiente di leva pari a quindici, trasformando come per magia la cifra iniziale in un
investimento di oltre 300 miliardi di euro.
Invece gli Usa la lezione giapponese l’hanno un po’ imparata, subito dopo la crisi, accanto
al quantitative easing, hanno anche speso 800 miliardi di dollari in un piano di investimenti
e di innovazione nel campo dell’energia rinnovabile di cui ci ha parlato a Cernobbio il
brillante economista di Princeton Alan Kruegher che è stato il consigliere economico di
Obama durante quegli anni. Una scelta anticiclica che nell’immediato ha fatto crescere il
loro deficit del 10% (e noi ci mettiamo a litigare per un aumento del 3%!) ma che oggi
produce risultati: il Pil cresce, il rapporto fra debito e Pil cala e la divergenza tra la crescita
americana e quella dell’Unione Europea continua ad aumentare.
Veniamo al lungo periodo. Oggi in Europa i Paesi che se la passano bene non sono quelli
che hanno stretto la cinghia, bensì quelli che hanno investito e invefakis maggiormente in
tutti quei settori ed aree in grado di determinare un incremento della produttività, come
formazione del capitale umano, istruzione, ricerca e sviluppo, nonché nelle banche
pubbliche e nelle agenzie che favoriscono le sinergie tra settori diversi ad esempio le
collaborazioni tra mondo scientifico e imprese. Il problema dell’Italia non è il deficit
eccessivo ma la mancata crescita, perché da almeno venti anni non si fanno investimenti
di questo genere. Ciò che è mancato all’Europa quindi non è un piano comune di tagli ma
un piano comune di innovazione e di investimenti. Che è ben diverso dal litigare sul fiscal
compact.
È lo stesso piano di investimenti che Yanis Varoufakis teorizzava, prima di prestare la sua
competenza di economista come ministro del governo greco. Varou- viene spesso
accusato di essere un ministro troppo accademico e non abbastanza “politico” e concreto.
Niente di più lontano dalla realtà. Ciò di cui oggi abbiamo bisogno sono proprio i politici in
grado di coniugare delle prospettive di ampio respiro con gli strumenti di intervento nel
breve periodo. Varoufakis lavora dal 2010 a quella che chiama una «modesta proposta
per l’Europa» un piano di investimenti che ponga fine alle divergenze competitive che
impediscono di uscire dall’attuale crisi. Se fosse stato ascoltato 5 anni fa, non saremmo di
nuovo nei guai con i vari possibili “exit” dei prossimi anni (e non solo quello greco!). La sua
proposta mirava alla creazione di denaro da destinare all’attività produttiva. L’idea era
favorire una crescita trainata dalla Banca europea degli investimenti attraverso l’emissione
di bond destinati all’investimento produttivo — con la Bce pronta ad acquistare quei bond,
che avendo un rating tripla A sarebbero stati molto meno rischiosi dei bond nazionali.
Finalmente l’Europa ha approvato un piano importante di quantitative easing, ma questo
non basta, perché occorre dare una direzione al nuovo denaro creato, per evitare che
finisca soltanto nelle casse delle banche le quali non necessariamente prestano denaro
all’economia reale. Purtroppo, sino a quando la Germania non ammetterà che le
differenze tra paesi forstono ti e paesi deboli sono dovute ai mancati investimenti
strategici, finché non smetterà di proporre unicamente tagli ai bilanci nazionali, sarà
difficile articolare una vera soluzione.
Per quante riforme strutturali si possano architettare, l’Europa non andrà da nessuna parte
se non inizierà a programmare un futuro nuovo. Un futuro nel quale sia il settore pubblico
che quello privato spendono di più nelle aree che favoriscono la crescita di breve e lungo
termine. Proprio come su scala nazionale la Germania fa con il suo programma
energiewende , che cerca di ottenere una vera trasformazione verde basata su nuove
tecnologie e nuovi modelli di consumo e distribuzione. Insomma l’Europa dovrebbe fare
come la Germania fa e non come la Germania predica ai Paesi europei in difficoltà. La
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«stagnazione secolare» non è affatto inevitabile, è un prodotto degli investimenti che
decidiamo di fare o non fare. È ora di cambiare direzione, progettare, e creare, un progetto
veramente comune.
( Traduzione di Marzia Porta)
del 16/03/15, pag. 1/9
Il dilemma dei due stati nelle urne di Israele
BERNARDO VALLI
GERUSALEMME
È COME la morte. Tutti ammettono che esiste e che è inevitabile. Ma si spera che arrivi il
più tardi possibile. Non ci si pensa quindi troppo o la si ignora. È un modo un po’ brutale,
me ne rendo conto, per affrontare il problema di cui, malgrado l’importanza, non si è
parlato direttamente durante la campagna elettorale israeliana appena conclusa. Mi porta
a questa azzardata immagine Amos Oz, uno dei maggiori scrittori viventi. Assente dal
dibattito in vista del voto di domani, ma ben presente nelle menti e negli scritti, la
questione è in realtà un dilemma: è meglio arrivare a uno Stato binazionale o a due Stati
divisi, uno israeliano e l’altro palestinese? Oppure lasciare le cose così come sono,
moltiplicando gli insediamenti israeliani nei territori occupati (o contesi)?
I partiti di estrema destra, quello di Nafali Bennet (Habayt Hayeudi) o di Avigdor Liberman
(Yisrael Beiteinu), archiviano tutti gli interrogativi. Per loro la sovranità o il controllo di
Israele sull’intera Palestina, con formule diverse, non sono in discussione. Sono un
dogma. E nel corso della campagna elettorale gli altri partiti, in particolare quelli
concorrenti di destra, per recuperare o non perdere voti si sono discostati con cautela da
quelle posizioni estreme o addirittura le hanno appoggiate.
IL TEMA della sicurezza è uno dei più sentiti e attraversa in diagonale la società.
Dice Amos Oz che in generale ci si adagia da anni in una specie di violenta e incosciente
routine, «una gestione del conflitto», pur di rinviare la grande decisione dei due Stati.
L’appuntamento inevitabile in un futuro imprecisato, da rinviare il più possibile, sorge
puntuale nella mente degli israeliani. Per gli uni è una rinuncia al Grande Israele. Per altri
un incubo. Per altri ancora l’unica soluzione. Una soluzione obbligata; o razionale; o
dovuta, trattandosi di un vitale adeguamento alla realtà, che certo travolge convinzioni, ma
salva dal peggio.
La letteratura contemporanea israeliana ha l’affascinante peculiarità di esprimersi in
un’antichissima lingua restaurata e ammodernata: l’ebraico. E gli scrittori che l’alimentano
(come i registi e gli attori nel cinema, altrettanto vivo e critico della società) sono spesso le
indispensabili coscienze di un paese in preda ad ansie e passioni. Nel pieno della
campagna elettorale, quando nessuno affrontava il futuro assetto della terra contesa da
due popoli, Amos Oz ha detto, in due conferenze, che quel trascurato problema è una
questione di vita o di morte per Israele.
Se non si creano al più presto due Stati può nascere il timore di vedere deli- nearsi tra il
mare e il fiume Giordano uno Stato arabo. L’autore di Giuda, l’ultimo suo romanzo, scarta
l’idea di uno Stato binazionale, come quello spagnolo o belga. Per lui non è possibile in
Medio Oriente. E pensa che la paura di uno Stato arabo possa portare a una temporanea
dittatura di fanatici israeliani che opprimerebbe entrambi, gli arabi e gli stessi oppositori
ebrei con una mano di ferro. La dittatura avrebbe una vita breve. È difficile infatti nella
nostra epoca, secondo Amos Oz, che la dittatura di una minoranza, in tal caso israeliana,
riesca a sopravvivere a lungo e non venga schiacciata dalla maggioranza. Da qui l’urgente
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necessità di creare due Stati ben divisi, perché una convivenza oggi è impossibile. Lo
sanno bene entrambi i popoli. Ma adagiarsi in «una gestione del conflitto» come accade
da anni, vale a dire continuando a usare il bastone in Cisgiordania, i missili a Gaza,
affrontando puntuali intifade, scontrandosi con Hamas e con gli hezbollah, e aspettando o
subendo altrettanto puntuali ventate di terrorismo, ritarda soltanto l’inevitabile
appuntamento della divisione. Quella di Amos Oz può essere presa come una visione
romanzesca, se non si tiene conto della situazione mediorientale, e delle giustificate
apprensioni che essa suscita in chi vi è immerso. Ce l’ha sotto gli occhi.
Durante la campagna elettorale non si è parlato, è vero, di quel che Amos Oz chiama una
questione di vita o di morte per Israele, e che la stragrande maggioranza dei paesi del
pianeta, Stati Uniti in testa, chiede, cioè la nascita di uno Stato palestinese. Benyamin
Netanyahu ha dimenticato da un pezzo il discorso pronunciato a Bar Ilan nel 2009 in cui
accettò il concetto di due Stati e precisò di non avere l’intenzione «di costruire nuove
colonie o di espropriare terre per quelle esistenti». I coloni nei territori occupati sono 350
mila, non sono mai stati tanti, e ce ne sono inoltre 300mila a Gerusalemme Est, che
Israele ha conquistato nel 1967 e che ha annesso in seguito, con una decisione giudicata
illegale da larga parte del mondo. Infatti quasi tutte le ambasciate, comprese l’americana e
l’italiana, sono a Tel Aviv, nonostante la Knesset abbia dichiarato Gerusalemme capitale di
Israele.
Penso che a Gerusalemme gli israeliani abbiano diritto alla precedenza, sul piano
religioso. Per gli ebrei è il centro dell’universo, è la prefigurazione della Gerusalemme
celeste. Mentre per i cristiani quel che conta non è tanto il luogo quanto la figura di Cristo.
E per i musulmani prima di Gerusalemme vengono la Mecca e Medina. Sul piano politico
capita tuttavia, come sabato sera, durante un breve dibattito televisivo con il laburista
Isaac Herzog, che Benyamin Netanyahu si comporti con spavalderia. Ha detto spazientito:
«Se gli ebrei non hanno il diritto di costruire a Gerusalemme, dove possono farlo? ». In
realtà costruiscono da tempo a valle e sulle alture, dove vogliono, nonostante gli inviti a
non farlo dell’Onu e degli Stati Uniti. Ma in quel contesto e con quel tono l’affermazione
significava anche scartare l’idea dei due Stati, poiché Gerusalemme dovrebbe essere la
capitale condivisa, sia pure in una sempre più vaga prospettiva. I palestinesi si stanno
abituando alla vicina Ramallah, loro capitale provvisoria in espansione?
Netanyahu si è rivolto agli elettori del Likud e a quelli degli altri partiti di destra, la cui base
popolare è spesso di origine orientale (sefardita). Ma in generale anche agli israeliani per i
quali è impensabile una rinuncia sia pure parziale alla città per millenni punto di riferimento
per gli ebrei sparsi nel mondo, e da anni annessa definitivamente allo Stato ebraico. Ma
nella battuta su Gerusalemme c’era una frecciata anche per il presidente americano.
Attraverso John Kerry, il segretario di Stato, Barack Obama aveva ribadito poche ore
prima, la necessità di uno Stato palestinese, di cui parte di Gerusalemme potrebbe
appunto essere la capitale.
La polemica con la Casa Bianca sul nucleare iraniano, portata da Netanyahu al Congresso
di Washington, potrebbe essere almeno in parte disinnescata se gli Stati Uniti non
arrivassero, entro fine mese come stabilito, a un accordo con Teheran. E non è scontato.
L’estensione delle colonie in Cisgiordania, e il continuo aumento della loro popolazione,
creano invece una netta e permanente divergenza con Obama sul problema palestinese.
Problema destinato a ritornare in primo piano perché in aprile Abu Mazen, presidente
dell’Autorità di Ramallah, il più mite e conciliante capo palestinese, dovrebbe presentare
una denuncia contro Israele al Tribunale criminale internazionale per l’occupazione della
Cisgiordania. Gli Stati Uniti l’hanno ritardata a lungo, minacciando anche di sospendere gli
aiuti alla Palestina.
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Non pochi intellettuali, tra i quali lo storico Zeev Sternhell, sostengono che la vittoria
dell’Unione sionista, la coalizione di centrosinistra, non cambierebbe nulla. O molto poco.
Isaac Herzog e la sua alleata Tzipi Livni non si sarebbero impegnati molto nel precisare il
loro progetto sul problema palestinese. Si sono limitati a esprimere la vaga intenzione di
rianimare il processo di pace. Per Herzog e Livni, in caso di vittoria primi ministri a turno,
sarebbe comunque più agevole normalizzare i rapporti con il vasto mondo che, come
Amos Oz, considera i due Stati affiancati una questione essenziale.
del 16/03/15, pag. 10
Taliban in due chiese è strage di cristiani
Il Papa: “Noi perseguitati”
Almeno 15 morti e 70 feriti negli attentati a Lahore Il dolore di
Francesco: “Colpiti per la loro fede”
GIAMPAOLO CADALANU
NULLA
è così efficace come la responsabilità di un massacro per chi vuole rivendicare il primato
del fanatismo, alzando mani insanguinate. Questo hanno fatto i Taliban pachistani,
insidiati nel loro primato nell’integralismo dall’avanzata del sedicente Stato Islamico: hanno
voluto dimostrare nel modo più atroce possibile che, quando si tratta di violenza, non si
sentono secondi a nessuno. E hanno mandato attentatori suicidi a farsi esplodere fra i
cristiani davanti a due chiese a Lahore, la città considerata “capitale culturale” del paese,
per poi rivendicare con orgoglio la strage a nome del Tehriki- Taliban Pakistan (TTP).
Secondo i resoconti diffusi dalle agenzie stampa, entrambi gli attentatori sono stati fermati
da agenti della sicurezza, sia davanti alla chiesa cattolica di St. John che alla protestante
Christ Church, ma si sono subito fatti saltare in aria facendo strage di fedeli. I morti sono
almeno 15, i feriti una settantina. Le immagini della St. John sembrano indicare che il
kamikaze si sia fatto saltare proprio davanti al cancello d’ingresso, tanto che persino la
scritta che sovrasta l’entrata è danneggiata. La zona è quella di Youhanabad, che ospita
almeno centomila cristiani.
Se l’intenzione dei Taliban, oltre alla rivendicazione del primato integralista, era quella di
rilanciare l’odio religioso, gli attentati sono riusciti nell’intento: oltre quattromila cristiani di
Lahore sono scesi in piazza per protestare, a volte con sassi e bastoni. Alla fine due
persone, presunti militanti islamici, sono state linciate e poi arse vive dalla folla. I cristiani
— una minoranza che vale il due per cento dell’intera popolazione pachistana, 180 milioni
di persone — hanno inscenato altre manifestazioni anche a Peshawar, Quetta e Multan,
con bus rovesciati e pneumatici dati alle fiamme.
Ha richiamato i fedeli alla pace, invece, papa Francesco: durante l’Angelus il pontefice ha
espresso il dolore per i cristiani uccisi, sottolineando che «il mondo cerca di nascondere
questa persecuzione». Secondo i rapporti dell’organizzazione “Aiuto alla Chiesa che
soffre”, sono 150 milioni i cristiani perseguitati nel mondo, e non solo nei paesi a
maggioranza musulmana, ma anche indù o buddista.
Nel Pakistan, però, la situazione appare particolarmente preoccupante. L’attacco contro le
due chiese di Lahore è il più grave dal 2013, quando due bombe in una chiesa di
Peshawar uccisero 82 persone. Nello scorso novembre in un villaggio del Punjab la folla
ha pestato a sangue e poi bruciato vivi due giovani sposi cristiani, accusati di blasfemia. E
resta ancora aperta la vicenda di Asia Bibi, cristiana e madre di cinque bambini,
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condannata a morte nella stessa regione per un gesto blasfemo, che lei nega. Nel 2011
almeno due politici pachistani — Shahbaz Bhatti, ex ministro per le minoranze, e Salman
Taseer, ex governatore del Punjab — sono stati uccisi per aver preso posizione a favore
della donna.
Ma la preoccupazione aumenta se i cristiani diventano obiettivo di una campagna
destinata a “tenere la testa” del fondamentalismo, come sembrano dimostrare gli attentati
di ieri. Il TTP, decapitato nel 2013 con l’uccisione del leader Hakimullah Mehsud con
l’attacco di un drone Usa e in difficoltà per gli attacchi delle forze governative di Islamabad
e per la defezione di importanti esponenti Taliban verso il gruppo di Abubakar Al
Baghdadi, sembra voler riguadagnare con il sangue il terreno perduto.
Del 16/03/2015, pag. 3
Africa, Medio Oriente, Nord Corea
Quel massacro silenzioso di fedeli
In due anni il numero di cristiani ammazzati è quadruplicato
Francesca Paci
C’era una volta «Aguirre furore di Dio», ossia quando il cristianesimo evocava lo spettro
dei conquistadores armati di spada, croce e bandiera spagnola, la quintessenza del
colonialismo. Oggi i cristiani bianchi sono una minoranza e gli altri hanno spesso a mala
pena il potere di difendersi, ma tutti scontano l’antico peccato originale evocato
dall’Aguirre del film di Herzog in un mondo mai stato così poco occidente-centrico e anche
per questo pronto a prendersi la rivincita sui più deboli.
«Gli ebrei del XXI secolo»
L’ultimo rapporto di «Open Doors International» disegna la ramificata persecuzione di una
comunità religiosa che lo scorso anno l’ambasciatore israeliano all’Onu Ron Prosor definì
«gli ebrei del nuovo millennio». Prosor additava i Paesi musulmani, che di fatto occupano
8 dei primi 10 posti della lista nera. Ma, laddove secondo il think tank Pew i cristiani
costituiscono il 70% delle vittime dell’odio religioso (in due anni il numero di morti è
quadruplicato passando da 1201 nel 2012 a 4344 nel 2014), non c’è solo la Mezzaluna. In
pole position per il 13° anno consecutivo c’è la Corea del Nord con i suoi almeno 50 mila
cristiani rinchiusi in lager degni di Primo Levi.
L’esodo dal Medioriente
Per quanto incalzato da Pyongyang, il Medioriente, terra dei primi cristiani, vede il loro
numero assottigliarsi da almeno mezzo secolo. Il Center for American Progress ne calcola
tra 7 e 15 milioni (5% della regione) concentrati tra Egitto, Siria e Libano. Ma se i copti
egiziani (10%) si sono rifugiati tra le braccia del presidente Sisi (ancor più dopo
l’esecuzione di 21 di loro da parte degli jihadisti libici) gli altri fanno le valigie. Il milione e
mezzo di cristiani iracheni del 2000 è ormai un terzo (il 40% degli ospiti dei campi profughi
iracheni è battezzato) mentre in Siria i killer del Califfato braccano come animali gli epigoni
d’una comunità che si sentiva tra le più tutelate dell’area (e rimpiange Assad).
In realtà oggi se ne parla. Ma passate le breaking news i cristiani del Medioriente tendono
a tornare «nell’angolo cieco della nostra visuale del mondo», come ebbe a dire
l’intellettuale francese amico di Che Guevera Régis Debray, «troppo» cristiani per i
terzomondisti e «troppo» esotici per l’Occidente.
La sfida islamista
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Le radici della neopersecuzione dei cristiani sono sempre, sotto sotto, più economiche o
etniche che religiose. L’islam inoltre, Corano alla mano, ritaglia un posto privilegiato a
cristiani e ebrei, le Genti del Libro. Eppure, anche allontanandosi dal Medioriente sono i
Paesi musulmani quelli che rendono la vita più difficile ai fratelli maggiori. Come le
Maldive, paradiso di turisti in cui la croce va tenuta nascostissima. Come l’Iran, l’Arabia
Saudita, la Libia. Come la Nigeria terrorizzata da Boko Haram. Come il Pakistan, dove i
cristiani sono appena il 2% e, incalzati anche giuridicamente dalle condanne per blasfemia
(vedi Asia Bibi, in carcere da oltre 5 anni), si sentono braccati (a onor del vero il Pakistan
ha attentati ogni giorno e non solo contro le chiese).
In problema in molti di questi Paesi è il divieto del proselitismo, ma se i cattolici adottano
un profilo invisibile anche i più agguerriti gruppi evangelici o neocatecumenali si guardano
bene dallo sfidare le autorità come i profeti armati di Cortés.
Le vittime più ignote
Potrà sembrare un paradosso ma da qualche anno i cristiani martirizzati in nome di Allah
godono almeno di un’attenzione mediatica negata ad altri (in alcuni casi sono target anche
perché più appetibili per chi cerca visibilità). Oltre che nei lager nord-coreani in cui si
sconta la devozione a un Dio diverso da Kim Il-sung o nei villaggi poverissimi dell’Orissa
indiana, i cristiani vengono ammazzati in Messico e in Colombia, dove magari gli assassini
ostentano pesanti croci d’oro al collo ma non tollerano il richiamo alla legalità dei sacerdoti
vicini ai più poveri. La Cina comunista sta sperimentando una lievissima apertura verso il
«culto del male» ma resta saldamente a metà della classifica dei Paesi peggiori in cui
vivere per un cristiano.
del 16/03/15, pag. 10
IL CASO. SPUNTA UNA BANDIERA AL COLOSSEO
Siria, più di 215 mila vittime in quattro anni di
guerra
ROMA .
In quattro anni, la guerra in Siria ha ucciso più di 215mila persone. È il bilancio presentato
dall’osservatorio siriano per i diritti umani. «Abbiamo contato 215.518 morti, di cui 66.109
civili», ha affermato Rami Abdel Rahmane, direttore dell’ong. Fra le vittime civili, 10.808
sono bambini. E il numero di sfollati è vicino ai 4 milioni. Ieri l’ennesimo massacro alla
periferia di Damasco. I caccia governativi, secondo i ribelli, avrebbero bombardato Douma,
causando 18 morti e oltre 100 feriti, inclusi bambini e donne. Una tragedia senza fine che
ieri ha convinto il segretario di Stato Usa John Kerry ad ammettere nel corso di
un’intervista: «Dobbiamo negoziare con il presidente Assad per mettere fine alla guerra
civile in Siria».
E proprio nel quarto anniversario dall’inizio del conflitto, allarme sicurezza ieri al Colosseo:
sul primo anello è comparsa una bandiera siriana lunga 8metri. E’ stata esposta sulla
facciata esterna, verso l’ingresso della metro.
Ad accorgersene, sebbene l’intera zona sia sotto controllo di polizia e carabinieri, sono
stati alcuni vigili in servizio che passando hanno notato la bandiera appesa. Secondo una
prima ricostruzione, sarebbero almeno tre gli autori del gesto, entrati pagando il regolare
ticket di ingresso dopo aver nascosto la bandiera in uno zainetto. Una volta entrati
avrebbero quindi raggiunto l’area esterna e, indisturbati, l’avrebbero stesa verso l’ingresso
della metro. Gli uomini della Digos hanno subito ascoltato il personale di sicurezza in
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servizio e sono stati già richiesti i nastri dei video di sorveglianza interni ed esterni. Una
delle telecamere potrebbe infatti aver ripreso l’intera scena.
( flaminia savelli)
del 16/03/15, pag. 12
Dall’Islam all’Apocalisse anatomia del
Califfato
Ecco cos’è, cosa vuole e come si può
sconfiggere
GRAEME WOOD
COS’È lo Stato islamico? Da dove viene, e che intenzioni ha? La semplicità di queste
domande può trarre in inganno, eppure pochi leader occidentali sembrano conoscere la
risposta.
Dopo aver conquistato Mosul, in Iraq, lo scorso giugno, oggi il gruppo controlla un territorio
più esteso del Regno Unito. Il suo leader dal maggio del 2010 è Abu Bakr Al Baghdadi, di
cui sino all’estate scorsa circolava una sola immagine: una foto segnaletica sfocata
risalente all’occupazione dell’Iraq, quando Al Baghadi fu detenuto dagli Usa a Camp
Bucca. Poi, il 5 luglio 2014, Al Baghdadi è salito sul pulpito della Grande Moschea Al Nuri
di Mosul per pronunciare un sermone del Ramadan. In quel discorso, il primo del genere
tenuto da un Califfo da molte generazioni, Al Baghdadi ha messo a fuoco i suoi propositi,
non più sfocati ma ad alta definizione, e la propria posizione, che non era più quella di un
combattente ricercato bensì di comandante di tutti i musulmani. Da allora l’arrivo dei
jihadisti provenienti da ogni parte del modo procede con ritmi e numeri senza precedenti.
Per certi versi la nostra ignoranza sull’Is è comprensibile: si tratta di un regno eremita;
pochi sono andati e tornati; Al Baghdadi ha parlato a una telecamera solo una volta. Ma
quel discorso, e tutti gli innumerevoli altri video propagandistici, sono reperibili online. Se
ne può dedurre che l’Is rifiuta la pace per principio; che è assetato di genocidio; che le sue
opinioni religiose lo rendono strutturalmente incapace di operare modifiche, anche se da
esse dipendesse la sua stessa sopravvivenza; e che si considera foriero della fine del
mondo.
Lo Stato Islamico, noto anche con il nome di Stato Islamico dell’Iraq e Al Sham (Isis),
s’ispira a una caratteristica varietà di Islam la cui strategia è determinata da particolari
convinzioni riguardo alla strada che porta al Giorno del Giudizio. Convinzioni che possono
aiutare l’Occidente a imparare a conoscere il proprio nemico e a prevederne il
comportamento.
Abbiamo frainteso la natura dello Stato Islamico in almeno due modi. Innanzitutto,
tendiamo a considerare il jihadismo monolitico e ad applicare la logica di Al Qaeda a
un’organizzazione che l’ha eclissata. I sostenitori dello Stato Islamico con cui ho parlato
attribuiscono ancora ad Osama bin Laden il titolo onorifico di “sceicco”. Dai tempi d’oro di
Al Qaeda (1998-2003 circa) il jihadismo però si è evoluto, e molti jihadisti disdegnano le
priorità del gruppo e la sua attuale dirigenza. Bin Laden considerava il suo terrorismo il
preludio a un Califfato che pensava non avrebbe mai visto durante la propria vita. La sua
organizzazione era flessibile e operava come una rete geograficamente diffusa di celle
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autonome. L’Is esige invece un territorio riconosciuto e una struttura che lo governi
dall’alto.
Siamo vittime anche di un altro equivoco, frutto di una campagna dalle buone intenzioni
ma ingannevole che nega la natura medievale della religiosità dello Stato Islamico. Peter
Bergen, che nel 1997 intervistò per primo Bin Laden, intitolò il suo primo libro Holy War
Inc. in parte per sottolineare l’appartenenza di Bin Laden al mondo secolare moderno. Bin
Laden ha dato al terrore una struttura aziendale e ne ha fatto un franchising. Richiedeva
specifiche concessioni politiche: come il ritiro delle forze Usa dall’Arabia Saudita. I suoi
uomini si muovevano nel mondo moderno con piglio sicuro. Il giorno prima di morire,
Mohammed Atta fece acquisti da Walmart e cenò da Pizza Hut.
Quasi tutte le decisioni dell’Is aderiscono a ciò che esso definisce, sui manifesti, sulle
targhe e sulle monete, “la metodologia profetica”. La maggior parte delle iniziative del
gruppo appaiono infatti prive di senso se non le si osserva alla luce di un impegno volto a
riportare la civiltà al settimo secolo e, in definitiva, a scatenare l’Apocalisse. La realtà è
che lo Stato Islamico è islamico. Molto islamico. La religione predicata dai suoi seguaci più
ferventi deriva da interpretazioni coerenti e addirittura colte dell’Islam. Quasi tutte le sue
leggi aderiscono alla “metodologia profetica”, il che significa attenersi meticolosamente
alla profezia e all’esempio di Maometto. I musulmani possono rifiutare lo Stato Islamico, e
quasi tutti lo fanno. Ma fingere che non si tratti di un gruppo religioso e millenario di cui, se
lo si vuole combattere, occorre comprendere la teologia ha già indotto gli Stati Uniti a
sottovalutarlo e ad appoggiare iniziative insensate per contrastarlo. Dobbiamo conoscere
la genealogia intellettuale dell’Is se vogliamo agire in modo da non rafforzarlo, ma semmai
aiutarlo ad autoimmolarsi nel suo eccessivo fervore.
I. DEVOZIONE
Lo scorso novembre lo Stato Islamico ha diffuso un video in stile telepromozione che
faceva risalire le sue origini a Bin Laden. Riconosceva Abu Musab Al Zarqawi, spietato
capo di Al-Qaeda in Iraq dal 2003 alla sua uccisione nel 2006, come suo più immediato
progenitore, seguito nell’ordine da altri due leader guerriglieri che hanno preceduto Al
Baghdadi. Dalla lista era assente Ayman Al Zawahiri, successore di Bin Laden: il chirurgo
oftalmico egiziano che attualmente dirige Al-Qaeda. Al Zawahiri non ha giurato fedeltà ad
Al Baghdadi ed è sempre più odiato dai suoi compagni jihadisti.
Nel dimenticatoio, insieme ad Al Zawahiri, è stato relegato anche un religioso giordano di
55 anni: Abu Muhammad Al Maqdisi, considerato a ragione l’architetto intellettuale di Al
Qaeda nonché il più importante dei jihadisti sconosciuti ai comuni lettori. Nella maggior
parte delle questioni dottrinali, Al Maqdisi e lo Stato Islamico sono d’accordo. Entrambi
sono strettamente identificati con l’ala jihadista di un ramo del sunnismo chiamato
salafismo dall’arabo “al salaf al salih”, i “pii antenati”. Questi antenati sono il Profeta in
persona e i suoi primi seguaci, che i salafiti onorano ed emulano come modelli in ogni
ambito: guerra, abbigliamento, vita familiare e persino igiene dentale.
Al Maqdisi è stato maestro di Al Zarqawi, che ha combattuto in Iraq tenendo a mente i suoi
consigli. Con il tempo però Al Zarqawi ha superato il suo mentore in fanatismo, sino a
meritarsi il suo rimprovero. Punto del contendere tra i due era la propensione di Al Zarqawi
per lo spargimento di sangue e, in fatto di dottrina, il suo odio verso gli altri musulmani, al
punto di scomunicarli ed ucciderli. La punizione per l’apostasia è la morte e Al Zarqawi
aveva ampliato sconsideratamente l’elenco di comportamenti che potevano fare di un
musulmano un infedele. Seguendo la dottrina del takfiri, l’Is è votato alla purificazione del
mondo tramite l’uccisione di un gran numero di individui. La mancanza di resoconti
obiettivi dai suoi territori rende impossibile determinare la reale portata del massacro, ma i
social media lasciano intendere che le esecuzioni individuali si succedano continuamente
e le uccisioni di massa a distanza di poche settimane. Gli “apostati” musulmani sono le
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vittime più frequenti. Risparmiati dall’esecuzione automatica sembra siano i cristiani che
non si oppongono al nuovo governo: Al Baghdadi consente loro di restare in vita a patto di
versare un’imposta speciale, detta jizya, e riconoscere la propria sottomissione. L’autorità
coranica per questa pratica non è messa in discussione.
Senza conoscere questi fattori, nessuna spiegazione dell’ascesa dello Stato Islamico può
dirsi completa, ma focalizzarsi su di essi escludendo l’ideologia riflette un altro pregiudizio
occidentale: che, se a Washington o a Berlino l’ideologia religiosa non ha un gran peso, lo
stesso debba essere vero a Raqqa o a Mosul. Quando un carnefice dal volto coperto
esclama “Allahu Akbar” nel decapitare un apostata, talvolta lo fa per motivi religiosi.
Molte delle organizzazioni musulmane più convenzionali si sono spinte a dire che lo Stato
Islamico sia, in realtà, non-islamico. È rassicurante sapere che la grande maggioranza dei
musulmani non ha alcun interesse a sostituire le pubbliche condanne a morte ai film di
Hollywood. Ma i musulmani che considerano lo Stato Islamico non-islamico sono, come mi
ha spiegato Bernard Haykel, studioso di Princeton nonché maggiore esperto della teologia
del gruppo, «a disagio e politicamente corretti, con una visione edulcorata della propria
religione » che trascura «ciò che la loro religione storicamente e legalmente prevede».
Molte smentite della natura religiosa dell’Is affondano e proprie radici in una «tradizioneinterconfessionale- cristiana-priva di fondamento», ha detto.
Stando ad Haykel, gli appartenenti allo Stato Islamico sono profondamente intrisi di
fervore religioso. Le citazioni coraniche sono onnipresenti, e «persino i combattenti
snocciolano di continuo questa roba». «Si mettono in posa di fronte all’obiettivo e ripetono
i loro precetti base con tono monotono, e lo fanno inin- terrottamente». Haykel considera
l’idea che lo Stato Islamico abbia distorto i testi dell’Islam insensata e sostenibile solo
grazie a una deliberata ignoranza. «Le persone vogliono assolvere l’Islam», dice. «È come
un mantra: “l’Islam è una religione di pace”. Come se si potesse parlare di “Islam”! L’Islam
è ciò che i musulmani fanno e il modo in cui interpretano i loro testi». Testi comuni a tutti i
musulmani sunniti, non solo all’Is. «Questi tipi hanno la stessa legittimazione degli altri».
Tutti i musulmani ammettono che le prime conquiste di Maometto non furono una
faccenda pulita e che le leggi di guerra tramandate dal Corano e nei racconti del Profeta
erano pensate per un’epoca violenta. Secondo Haykel, i combattenti dell’Is si rifanno del
tutto al primo Islam e ne riproducono fedelmente le norme belliche. Tale comportamento
include diverse pratiche che i musulmani moderni preferiscono non riconoscere come
parte integrante dei loro testi sacri. «Schiavitù, crocifissioni e decapitazioni non sono
pratiche che degli squilibrati [i jihadisti] scelgono selettivamente dalla tradizione
medievale», dichiara Haykel. I combattenti dell’Is «si pongono al centro della tradizione
medievale, e la smerciano all’ingrosso».
La nostra incapacità di apprezzare le essenziali differenze tra Is e Al Qaeda ha portato a
compiere decisioni pericolose.
II. TERRITORIO
Decine di migliaia di musulmani stranieri sono immigrati nello Stato Islamico. Le nuove
reclute provengono da Francia, Regno Unito, Belgio, Germania, Olanda, Australia,
Indonesia, Stati Uniti e molti luoghi ancora. Molti vengono a combattere e molti intendono
morire.
Lo scorso novembre ho incontrato in Australia Musa Cerantonio, un trentenne che
Neumann e altri ricercatori identificano come una delle due “nuove autorità spirituali” che
inducono gli stranieri a unirsi all’Is. È stato per tre anni il televangelista della tv cairota
Iqraan . L’ha dovuta lasciare perché invitava a fondare un Califfato. Adesso predica
attraverso Facebook e Twitter.
Cerantonio mi ha raccontato la gioia che ha provata quando il 29 giugno Al Baghdadi è
stato dichiarato Califfo e l’improvvisa e magnetica attrazione che la Mesopotamia ha
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iniziato a esercitare su di lui e i suoi amici. «Mi trovavo in un hotel [nelle Filippine] e,
mentre guardavo la tv, mi sono domandato: Che ci faccio in questa fottuta camera?».
L’ultimo Califfato è stato l’impero ottomano, che raggiunse il proprio apice nel XVI secolo
per poi avviarsi a un lungo declino, sino a quando il fondatore della Repubblica di Turchia,
Mustafa Kemal Atatürk, lo sconfisse nel 1924. Tuttavia Cerantonio, così come molti
sostenitori dell’Is, non considera il Califfato legittimo perché non applica appieno la legge
islamica, che prevede lapidazioni, schiavitù e amputazioni, e perché i suoi califfi non
discendono dalla Quraysh, la tribù del Profeta.
Il Califfato, mi ha detto Cerantonio, non è solo un’entità politica ma anche un veicolo di
salvezza. La propaganda dello Stato islamico diffonde a scadenze regolari i giuramenti di
baya’a , fedeltà, che giungono da gruppi jihadisti di tutto il mondo musulmano. Cerantonio
ha citato un detto profetico secondo il quale morire senza giurare fedeltà equivale a morire
jahil , nell’ignoranza, e quindi a “morire nel dubbio”. Considerate quale sorte i musulmani
(o i cristiani) immaginano che Dio riservi alle anime di coloro che muoiono senza aver
riconosciuto l’unica vera religione: non vengono né salvate né condannate definitivamente.
Analogamente, ha aggiunto Cerantonio, il musulmano che riconosce un Dio onnipotente e
prega, ma che muore senza giurare fedeltà a un legittimo Califfo e senza sostenere gli
obblighi che derivano da quel giuramento, non ha vissuto una vita pienamente islamica.
III. L’APOCALISSE
Tutti i musulmani riconoscono che Dio è l’unico a conoscere il futuro. Ma sono anche
concordi nel ritenere che ci ha concesso di scorgerne un lembo nel Corano e nei racconti
del Profeta. Lo Stato Islamico si discosta da quasi ogni altro movimento jihadista in quanto
crede che le scritture di Dio gli affidino un ruolo centrale. Questo ruolo rappresenta la più
netta distinzione tra l’Is e i movimenti che lo hanno preceduto, nonché la più esplicita
definizione della natura religiosa della sua missione.
Al Qaeda si comporta grosso modo come un movimento politico clandestino i cui obiettivi
concreti rimangono sempre chiari: l’espulsione dei non-musulmani dalla Penisola araba,
l’abolizione dello Stato di Israele, la fine del sostegno alle dittature nei territori musulmani.
Anche lo Stato Islamico ha alcuni interessi concreti, ma la Fine dei Giorni è un leitmotif
della sua propaganda. Bin Laden raramente ha parlato di Apocalisse.
Durante gli ultimi anni dell’occupazione Usa dell’Iraq, gli immediati padri fondatori dello
Stato Islamico scorsero ovunque segni della fine del mondo. Lo Stato Islamico attribuisce
una grande importanza alla città siriana di Dabiq, nei pressi di Aleppo. A essa ha intitolato
la sua rivista di propaganda e ha celebrato follemente la conquista assai faticosa delle sue
pianure, prive di importanza strategica. Il Profeta avrebbe detto che è proprio qui che si
accamperanno gli eserciti di Roma. Gli eserciti dell’Islam verranno loro incontro e Dabiq
per Roma sarà una Waterloo. I propagandisti dello Stato Islamico fremono di impazienza
all’idea di un simile evento e implicano costantemente che si avvererà presto.
Nella narrazione profetica che preannuncia la battaglia di Dabiq, il nemico viene
identificato in Roma. A cosa possa corrispondere “Roma” adesso che il Papa non ha più
un esercito rimane oggetto di dibattito. Cerantonio suggerisce che Roma rappresentasse
l’Impero romano di Oriente, la cui capitale era l’attuale Istanbul. Dovremmo dunque
considerare Roma la Turchia, la stessa che novant’anni fa pose fine all’ultimo
autoproclamato Califfato. Altre fonti dello Stato Islamico suggeriscono che qualsiasi
esercito di infedeli, americani in primis , potrebbe rappresentare Roma.
IV. LA LOTTA
La purezza ideologica dello Stato Islamico contiene una virtù che la controbilancia: quella
che ci permette di prevedere alcune iniziative del gruppo. Raramente Osama bin Laden
era prevedibile. Lo Stato Islamico invece ostenta apertamente le proprie mire: non tutte,
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ma abbastanza perché, ascoltando attentamente, si possa capire come intende governare
ed espandersi.
Puniti per la nostra iniziale indifferenza, oggi affrontiamo indirettamente l’Is attraverso i
curdi e gli iracheni sul campo di battaglia e con regolari attacchi aerei. Queste strategie
non hanno cacciato l’Is da nessuno dei suoi principali territori, sebbene gli abbiano
impedito di attaccare direttamente Baghdad ed Erbil e di massacrare gli sciiti e i curdi che
vi abitano.
Alcuni osservatori, tra cui alcuni prevedibili esponenti della destra interventista, hanno
chiesto a gran voce un inasprimento dell’offensiva e reclamato il dispiegamento di decine
di migliaia di soldati americani. Simili esortazioni non dovrebbero essere sminuite troppo
frettolosamente: un’organizzazione dichiaratamente genocida si trova alle porte delle sue
potenziali vittime e commette ogni giorno atrocità nei territori che già controlla.
Un modo per annullare il sortilegio che lo Stato Islamico esercita sui propri sostenitori
sarebbe quello di sopraffarlo militarmente e occupare le zone della Siria e dell’Iraq
attualmente in mano al Califfato. Al Qaeda non può essere sradicata perché è in grado di
vivere sottoterra, come uno scarafaggio. Lo Stato Islamico no. Se perde la propria presa
sul suo territorio in Siria e in Iraq cesserà di essere un Califfato. I Califfati non possono
esistere sotto forma di movimenti clandestini, perché richiedono un’autorità territoriale. L’Is
potrebbe non riprendersi più se tutte le sue forze raccolte a Dabiq venissero sconfitte.
Debitamente contenuto, lo Stato Islamico è probabilmente destinato a causare la propria
fine. Nessun Paese gli è alleato e la sua ideologia garantisce che ciò non cambi. Le terre
che controlla, benché vaste, sono perlopiù disabitate e povere. Mentre langue o si
rimpicciolisce lentamente, la sua convinzione di essere motore della volontà di Dio e
agente dell’Apocalisse perderanno vigore e i fedeli che si uniscono alle sua fila saranno
sempre meno. Con il diffondersi di nuove testimonianze di infelicità dal suo interno, anche
gli altri movimenti islamisti radicali saranno screditati: nessuno ha cercato con maggiore
determinazione di implementare con la violenza la stretta osservanza della Sharia. Ed
ecco i risultati.
Anche se le cose andassero in questo modo è improbabile che la morte dello Stato
Islamico avvenga rapidamente e non è detto che le cose non possano prendere
comunque una piega disastrosa. Se Al Qaeda giurasse fedeltà allo Stato Islamico,
incrementando ad un tratto l’unità della sua base, potrebbe trasformarsi nel nostro peggior
nemico. In mancanza di una simile catastrofe, o forse della minaccia che Stato Islamico
attacchi Erbil, una vasta invasione di terra peggiorerebbe di certo la situazione.
V. DISSUASIONE
Definire il problema dello Stato Islamico “un problema con l’Islam” sarebbe facile,
addirittura scagionatorio. La religione consente molte interpretazioni e i sostenitori dell’Is
sono moralmente responsabili per quella da loro scelta. Tuttavia, limitarsi a denunciare lo
Stato Islamico come non-islamico può essere controproducente, soprattutto se coloro a
cui giunge tale messaggio hanno letto i testi sacri e visto come questi giustificano
chiaramente molte delle pratiche del Califfato.
I musulmani possono dire che la schiavitù oggi non è legale e che nel nostro contesto
storico la crocifissione è sbagliata. Molti di loro affermano precisamente questo. Tuttavia
non possono condannare esplicitamente la schiavitù o la crocifissione senza entrare in
contraddizione con il Corano e l’esempio del Profeta. «L’unica posizione fondata che gli
oppositori dello Stato Islamico potrebbero adottare — afferma Bernard Haykel — è quella
di dire che alcuni testi fondamentali e alcuni insegnamenti tradizionali dell’Islam non sono
più attuali». E quello sarebbe davvero un atto di apostasia.
I funzionari occidentali farebbero probabilmente meglio a trattenersi del tutto dal
commentare su aspetti relativi al dibattito teologico islamico. Lo stesso Barack Obama ha
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lambito il tema del takfiri quando ha affermato che lo Stato Islamico è «non-islamico».
Sospetto che la maggior parte dei musulmani concordino con Obama: il presidente ha
preso le loro parti sia contro Al Baghdadi che contro i nonmusulmani sciovinisti che
tentano di addossare loro gesti criminosi. I musulmani però, nella maggior parte, non sono
inclini a unirsi alla jihad. E coloro che invece lo sono, vedranno semplicemente confermati
i loro sospetti: ovvero, che gli Stati Uniti mentono sulla religione per propri scopi.
Nel ristretto ambito della propria ideologia, lo Stato Islamico ferve di energia e persino di
creatività. Ma al di fuori da esso difficilmente potrebbe essere più arido e silenzioso: una
visione della vita come obbedienza, ordine, e destino. Musa Cerantonio potrebbe
mentalmente passare dal contemplare le uccisioni di massa e la tortura eterna a discutere
le virtù del caffè vietnamita o dei dolci al miele. Potrei godere della sua compagnia come di
un vizioso esercizio intellettuale, ma solo sino a un certo punto. Quando recensì Mein
Kampf nel marzo del 1940, George Orwell confessò di «non essere mai riuscito a
detestare Hitler»; qualcosa in quell’uomo emanava un’aria da perdente, anche quando le
sue mire erano vili o aberranti. «Se stesse uccidendo un topolino, saprebbe come farlo
sembrare un drago». I partigiani dello Stato Islamico condividono in parte quello stesso
atteggiamento: credono di essere coinvolti in una lotta che va oltre la propria vita e che
essere risucchiati dalla tragedia stando dalla parte della virtù sia un privilegio e un piacere,
soprattutto quando è al tempo stesso un peso. ( © 2-015 the Atlantic Media co.
Distribuito da Tribune Content Agency. Traduzione di Marzia Porta)
Del 16/03/2015, pag. 4
Il sogno di Herzog è realizzare la “speranza”
di Ben Gurion
Il laburista ora favorito per la vittoria: includerò gli arabi
Erede di una famiglia protagonista della formazione d’Israele, educato nella scuola ebraica
più esigente di New York, ufficiale nell’unità più segreta di Tzhaal e leader politico quasi
per caso, sottovalutato da avversari che riesce a sorprendere: Isaac Herzog può riportare i
laburisti a guidare il governo dopo 15 anni perché incarna un’idea di sionismo basato sulla
democrazia auspicata da David Ben Gurion, capace di includere tutti, arabi compresi.
Come i Kennedy
Se gli Herzog vengono considerati i «Kennedy d’Israele» è per un albero genealogico che
assomiglia a quello dello Stato: il nonno Isaac Halevi fu rabbino capo ashkenazita nella
Palestina mandataria e quindi d’Israele, il padre Chaim fu capo dello Stato per dieci anni,
governatore di Gerusalemme dopo la riunificazione, ambasciatore all’Onu e capo
dell’intelligence militare, per zio ha avuto il ministro degli Esteri Abba Eban, fra i fratelli ha
l’ex generale Michael consigliere sul negoziato con i palestinesi di quattro premier e la
madre Aura, francofona d’origine egiziana, ha fondato il Concorso biblico nazionale e il
Consiglio di «Beautiful Israel» per promuovere il legame delle nuove generazioni tanto con
il Vecchio Testamento che con la natura. Aggiungendo il lontano cugino Sidney Hillman,
consigliere di Franklin D. Roosevelt, e la moglie Bessie, che affiancò Eleanore Roosevelt,
si arriva a comprendere perché gli analisti adoperano l’espressione «sangue blu» per
descrivere il mondo da cui proviene Isaac, nato nel 1960. Non a caso quando Shimon
Peres ha chiesto agli elettori di votarlo, ha esordito così: «Conosco la sua famiglia da
anni».
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Alle radici laburiste, Herzog somma esperienze che ne descrivono il carattere. Quando il
padre è ambasciatore all’Onu, a New York, studia nella scuola «Ramaz» dell’Upper East
Side, una roccaforte «modern orthodox» fra le più esigenti e difficili di Manhattan.
Nei corpi di élite
Al momento di vestire la divisa enra nell’«Unità 8200» - l’intelligence elettronica - di cui
allora nessuno conosceva l’esistenza e ne diventa ufficiale. Studia l’arabo e secondo
alcuni «lo padroneggia». Avvocato nello studio di Tel Aviv che fu del padre, entra in
politica con i laburisti nel 1999, quando il premier Ehud Barak, ultimo premier laburista, lo
vuole come consigliere. Diventerà deputato e poi ministro ma sempre accompagnato da
scarsa considerazione, degli alleati come degli avversari, per un’espressione mite ed una
voce che lo fanno sembrare una «bambolina» ovvero proprio ciò che suggerisce il
soprannome «Bougie», inventato dalla mamma quando era piccolo sommando il termine
francese per bambola - «poupee» - con quello ebraico «buba». Ma lui è tutt’altro che
docile. Nel 2013 sfida nella corsa alla leadership del partito Shelly Yachimovich, eroina
delle proteste contro il carovita. Nessuno crede che possa farcela ma lui alle primarie
prevale 58 a 41 per cento, diventa il volto del Labour e comincia a rigenerarlo. Dice di
«voler andare al governo» ma nessuno gli crede. C’è chi chiede a Yachimovich di tornare
ma «Bougie» tiene duro perché ha in mente un «sogno». «I miei modelli sono Obama e de
Blasio - afferma - voglio realizzare i sogni di Israele» ovvero, «più solidarietà e speranza».
La «solidarietà» è per chi soffre puntando a ridurre le differenze sociali ricchi-poveri
ereditate da Netayahu. La «speranza» ha invece a che vedere con i palestinesi di Abu
Mazen, a cui manda a dire «a Ramallah c’è un interlocutore nella pace», suggerendo
«creatività per superare lo stallo». Ma ciò a cui più tiene è la «coesione interna» - da cui il
termine «Campo sionista» per il patto elettorale con Tzipi Livni - per tornare alle origini di
un sionismo inteso come «società democratica» ovvero «inclusiva di tutti». Anche degli
arabi. Da qui l’ipotesi, ventilata da Herzog, di nominare un «ministro arabo nel mio
governo». Per far capire che il progetto di Ben Gurion può riprendere la sua strada.
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INTERNI
del 16/03/15, pag. 3
Democrazia nei partiti e burocrazie sindacali
Renzi prepara l’affondo
Allo studio ddl sull’articolo 49 della Costituzione Taddei: “Presto un
incontro con le parti sociali”
FRANCESCO BEI
ROMA .
Dicono sia stato un fallo di reazione. Dopo aver ascoltato Bersani due giorni fa a Bologna
scagliarsi contro «le soluzioni leaderistiche » e le «organizzazioni liquide», Matteo Renzi è
sbottato: «Bene, è ora di aprire il capitolo di come devono funzionare i partiti. Con le
maggioranze e le minoranze». Da qui parte l’idea di una legge per attuare il neglettissimo
articolo 49 della Costituzione, quello che vorrebbe i partiti «concorrere con metodo
democratico a determinare la politica nazionale». Il problema è proprio quel «metodo
democratico». La monocrazia di Berlusconi vi corrisponde? E le espulsioni dei dissidenti
cinque stelle sarebbero compatibili con uno Statuto pubblicato in Gazzetta ufficiale? La
materia è incandescente e il premier, peraltro, non ha ancora pronto un disegno di legge.
Vorrebbe che prima se ne discutesse nel Pd. Ma certo lancia oggi la sua «sfida culturale a
chi lamenta la mancanza di democrazia nei partiti».
Il fatto è che di questi temi si discute praticamente da sempre, dai tempi della Costituente
e di Costantino Mortati. «Poi non se ne fece nulla - ricorda Pino Pisicchio, firmatario di una
delle numerose proposte di legge sul tema - perché il Pci aveva paura che uno Scelba
mettesse il becco negli affari interni di Botteghe Oscure. In seguito continuarono tutti a far
finta di niente perché faceva comodo ai partiti continuare a fare quello che a loro pareva».
La «sfida culturale» di Renzi è rivolta anzitutto al Pd, l’unico in fondo ad avere uno Statuto
che già prevede una complessa e articolata vita interna. Del problema se ne sta
occupando il vicesegretario Lorenzo Guerini, che in settimana dovrebbe ultimare la
stesura di una bozza da presentare in direzione. Ma basta fare un salto all’archivio della
Camera per constatare che molto è già stato fatto: lo stesso Pierluigi Bersani, nella scorsa
legislatura, aveva depositato una pdl «per l’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione in
materia di democrazia interna dei partiti». E Ugo Sposetti, poche settimane fa, fece
approvare quasi all’unanimità in Senato un emendamento all’Italicum che impone ai partiti
di dotarsi di uno Statuto se vogliono presentarsi alle elezioni. I tempi insomma sono
maturi. Lo stesso Sposetti anticipa l’intenzione di «ripresentare presto in parlamento un
articolato preciso per dare personalità giuridica ai partiti».
L’altra grande «sfida culturale» per Renzi è la legge sulla rappresentanza sindacale. Un
argomento in apparenza tecnico, ma che sottende una gigantesca questione politica: cosa
devono fare i sindacati, a nome di chi firmano contratti validi erga omnes? In giorni di
acceso scontro con Maurizio Landini, va da sé che il primo pensiero è quello di una
ritorsione contro il leader Fiom. «Landini entra in politica perché il sindacato lo ha
abbandonato », disse il premier alcune settimane fa. In realtà, paradossalmente, la riforma
della rappresentanza sindacale potrebbe essere l’unico punto di congiunzione tra Landini
e il capo del governo. Che non a caso ne discussero nel loro ultimo incontro a palazzo
Chigi, trovandosi d'accordo sull'idea di una legge per «smontare le burocrazie sindacali e
ridare potere di scelta ai lavoratori». Un po’ quello che il segretario vorrebbe fare nel suo
partito. La novità l’annuncia Filippo Taddei, il consigliere economico del premier: «Entro
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poche settimane organizzeremo un incontro a palazzo Chigi perché su una discussione
così importante non possiamo tagliare fuori le parti sociali». In attesa di questa “sala verde
2”, i maligni sospettano che aprire a Landini una strada per farsi largo al vertice della Cgil
sia anche un modo per tenerlo lontano dalla politica. E aiutarlo a far fuori un’avversaria
che lui e Renzi hanno in comune: Susanna Camusso.
del 16/03/15, pag. 16
Primarie Pd a Casson così Venezia ha votato
per dimenticare il Mose
Il senatore oltre il 55%, battuti i renziani Pellicani e Molina. 13 mila alle
urne dopo gli scandali. Alle elezioni di maggio probabile sfida con una
leghista
MATTEO PUCCIARELLI
DAL NOSTRO INVIATO
VENEZIA .
Se non è un trionfo poco ci manca, i seggi sono chiusi da poco più di un’ora e Felice
Casson stappa già lo spumante alla «Casa Fortuna », a Mestre. Dieci anni dopo la
sconfitta alle elezioni contro Massimo Cacciari, l’ex pm si prende un pezzo di rivincita alle
primarie: un civatiano che spazza via due renziani, e così sarà lui il candidato sindaco di
Venezia il prossimo 31 maggio. Con il 55,6 per cento dei voti ha battuto il giornalista della
Nuova Venezia Nicola Pellicani, appoggiato dal Pd renziano (24,4 per cento); e l’ex
consigliere comunale e avvocato Jacopo Molina (20%), renziano pure lui ma senza il
grosso del partito alle spalle.
Per il senatore, 61 anni, era sì una vittoria attesa, con i sondaggi degli ultimi giorni (tutti
ufficiosi) che lo davano in vantaggio, ma non con uno stacco così netto. L’impostazione
legalitaria della sua campagna elettorale, in contrapposizione al cosiddetto «apparato», lo
hanno premiato in una città ancora scossa dall’arresto, nel giugno scorso, del sindaco pd
Giorgio Orsoni, rimasto invischiato nello scandalo legato al Mose. «Quella vicenda ha
pesato molto sul voto — spiega un deluso Pellicani — un voto che comunque ha dato una
indicazione netta. Peccato perché ho avuto poco tempo per far conoscere la mia proposta,
adesso però guardiamo avanti, le nostre idee restano valide». E’ un voto che potrebbe
dare un segnale anche a livello nazionale, visto che Casson (area Civati) ha avuto spesso
una posizione di dissenso verso il governo di Matteo Renzi. E visto che a livello locale la
sua candidatura ha trovato l’adesione di Sel, Rifondazione e ambientalisti, in antitesi
rispetto alle dinamiche romane.
Scontri interni a parte, il centrosinistra può comunque dirsi soddisfatto: nonostante gli
scandali dei mesi passati, la partecipazione è stata buona. Nei 36 seggi dislocati tra
Venezia, Mestre e Marghera sono andati a votare circa 13mila cittadini, addirittura qualche
decina in più rispetto al precedente del 2010, quello in cui prevalse proprio Orsoni. Le
votazioni erano aperte anche agli stranieri (trecento elettori in tutto) e agli under 18: ma
solo diciotto minorenni si sono recati alle urne, numero abbastanza deludente. Nessun
problema ai seggi, al massimo un po’ di fila nel centro storico della laguna. Unica nota
movimentata di una giornata sonnacchiosa e di attesa, le Sentinelle in piedi in piazza a
Mestre; una cinquantina di persone scortate dai carabinieri, con i militanti dei centri sociali
a fronteggiarli.
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Adesso lo sguardo è proiettato alle elezioni vere e proprie, e Casson potrebbe vedersela
con Francesca Zaccariotto, ex leghista ed ex presidente della Provincia. Ma con il
centrodestra diviso in più rivoli e il M5S in via di implosione, in una città storicamente
«rossa», il risultato potrebbe sembrare a portata di mano. Lo stesso Casson ostenta
sicurezza. Anche se nessuno può sapere se davvero per il centrosinistra i postumi
dell’affare Mose siano finiti qui.
del 16/03/15, pag. 4
“Cambiamo o siamo finiti”
Landini sferza il sindacato Gelo Cgil: si
muove da solo
Il capo Fiom sfida Renzi: falso il suo consenso, cambieremo più noi il
Paese Apertura sulla legge della rappresentanza. “Ma vediamo cosa
vogliono fare”
PAOLO GRISERI
ROMA .
Il dado è tratto: «La Fiom e i lavoratori cambieranno il paese più di Renzi». Maurizio
Landini lancia il guanto di sfida al governo di centrosinistra «che ha scelto di cancellare lo
Statuto dei lavoratori e di schierarsi dalla parte delle imprese». Per questo la coalizione
sociale lanciata dal segretario della Fiom «non è un’operazione partitica » ma «una
proposta di riforma radicale del sindacato che rischia di scomparire sotto i colpi delle leggi
del governo Renzi». Landini nega di voler fare un partito: «Chi lo dice lo fa per denigrarci».
Non sarebbe la prima volta: l’accusa alla Fiom di voler fare politica è stata un refrain della
Fiat negli ultimi anni.
Ma anche se la “coalizione sociale” non è l’embrione di un partito, il nuovo modello
sindacale proposto da Landini crea sussulti e irritazione. La più clamorosa è quella dei
vertici della Cgil che, con una nota hanno smentito le affermazioni del leader della Fiom a
«In mezz’ora »: «Né il segretario Susanna Camusso, nè la segreteria della Cgil erano stati
informati dell’iniziativa organizzata dalla Fiom per l’avvio di una ‘coalizione sociale’, né
tantomeno hanno espresso appoggio». La Camusso non interviene direttamente. Dopo i
mesi del dialogo diretto tra Landini e Renzi, rapporto che tendeva a saltare i vertici di
Corso d’Italia, il silenzio del segretario generale della confederazione è un messaggio
indiretto a entrambi. Che l’operazione lanciata da Landini possa cambiare la natura del
sindacato è dimostrato dalla curiosità con cui dai partiti si guardava ieri all’iniziativa della
Fiom di chiedere incontri a tutti i gruppi parlamentari in vista della manifestazione del 28
marzo per i diritti del lavoro. Landini fa le consultazioni? «Ma quali consultazioni? La Fiom
ha incontrato tutti prima delle manifestazioni importanti ».
Eppure, il governo lascia filtrare una mossa che finirebbe per andare incontro alle proposte
della Fiom, quella di regolamentare per legge la rappresentanza sindacale. Cavallo di
battaglia di Landini perché certificare quanti iscritti ha davvero un sindacato significa dare
il diritto di trattare con le controparti a chi è rappresentativo e non a chi firma accordi più o
meno graditi alle aziende. «Ma bisogna vedere quale legge sulla rappresentanza vuole
varare il governo», risponde guardingo il leader della Fiom. Un accordo tra Cgil, Cisl e Uil
con Confindustria era stato firmato a gennaio 2014. E ieri la Cgil ha ripetuto che
quell’intesa «potrebbe essere la base per la nuova legge». A suo tempo la Fiom aveva
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criticato quell’accordo. Contraria a regolamentare la rappresentanza per legge è la Uil,
come ripete il segretario Barbagallo.
Al di là degli aspetti tecnici, una legge sulla rappresentanza finirebbe per favorire quel
sindacato di movimento, basato sulla democrazia diretta, che la Fiom propone da tempo.
E che avrebbe conseguenze anche nella maggiore delle tre organizzazioni sindacali:
«Immagino una Cgil in cui il segretario generale sia eletto direttamente dai delegati degli
uffici e delle fabbriche — dice Landini — penso a un sindacato che confronti le sue
piattaforme con la coalizione sociale che proponiamo di formare. Perché la piattaforma
degli edili non deve essere discussa insieme alle organizzazioni ambientaliste o a chi
vigila sulla legalità negli appalti? ». Perché il sindacato deve modificare a tal punto la sua
natura? «Perché quella natura è già cambiata. Abolire il ruolo dei contratti nazionali, come
si sta facendo consentendo alle aziende ogni sorta di deroga, significa far prevalere il
modello di un sindacato d’azienda, frantumato in tante realtà diverse. La coalizione sociale
dovrebbe sopperire a quella frammentazione, rimettere insieme associazioni, lavoratori e
disoccupati », risponde Landini. Che annuncia per aprile «due giorni di discussione con le
associazioni della coalizione». Una Leopolda della Fiom? «Non diciamo stupidaggini ».
Per ora l’unico appuntamento è quello del 21 marzo con le minoranze del Pd, a cui
andranno anche esponenti di Sel. Ma in quell’occasione per il sindacato ci sarà la Cgil,
non la Fiom.
del 16/03/15, pag. 1/27
Una nuova sinistra extra-parlamentare
ILVO DIAMANTI
MAURIZIO Landini ha annunciato la sua prossima “discesa in piazza”. A capo di un
movimento di opposizione, che ha già previsto una prima occasione per mobilitarsi. La
manifestazione del 28 marzo contro le politiche economiche e sul lavoro del governo
Renzi. Per primo: il Jobs Act. Non un partito, dunque.
NON una lista in prospettiva elettorale. Perché Maurizio Landini non è uno sprovveduto. E
sa che, a sinistra, in Italia non c’è spazio. Oggi. Anche perché, fino a ieri, gran parte di
questo spazio è stato occupato dal Partito Comunista e dai suoi eredi. Il Partito
Comunista, prima e dopo Berlinguer, ha presidiato il campo dell’opposizione. In modo
permanente e senza possibilità di alternativa. Fino alla caduta del Muro. Berlinguer lo
teorizzò apertamente. Unica soluzione possibile: l’intesa con la Dc, pre-destinata a
governare. Tradotta nel “compromesso storico”, promosso negli anni Settanta da Enrico
Berlinguer e da Aldo Moro. Sancito — e concluso — dal tragico (e non casuale) rapimento
di Moro. A sinistra del Pci, allora, non c’era spazio. Se non per soggetti — temporanei —
destinati a svolgere un ruolo di denuncia e testimonianza. La sinistra, cosiddetta, extraparlamentare. Perché, per quanto la legge elettorale (ultra-proporzionale) permettesse loro
una presenza (molto limitata) in Parlamento, la loro azione si svolgeva all’esterno. Nelle
piazze, nelle fabbriche e nelle scuole. Fra gli operai e gli studenti. Proprio ciò che si
propone di fare oggi — meglio, domani — Maurizio Landini. Intercettando — e
alimentando — il clima di insoddisfazione sociale che pervade il Paese. E coinvolge il
governo. Che attualmente dispone, secondo diversi sondaggi (oltre a Demos, anche
Ipsos), di un consenso ancora elevato, ma non più maggioritario. Intorno al 40%. Ciò
significa che il clima di insoddisfazione verso il governo è divenuto molto ampio. Tuttavia,
Renzi resta ancora il leader, di gran lunga, più “stimato” nel Paese. Apprezzato da oltre 4
italiani su 10. Mentre il grado di fiducia nei confronti di Maurizio Landini è intorno al 25%.
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Superato, largamente, da Matteo Salvini, sopra il 30%. Ma anche da Giorgia Meloni (vicina
al 30%).
Per imporsi come riferimento dell’opposizione, la soluzione obbligata, per Landini, è,
dunque, restare fuori dalla competizione partitica. Fuori dal Parlamento. Dove, peraltro,
anche volendo, non potrebbe essere presente, per un periodo non breve, visto che il
ritorno alle urne non sembra vicino.
Fuori dal Parlamento e dai partiti, però, ci sono due spazi, due luoghi, dove Landini può
agire, per mobilitare l’opposizione e l’opinione pubblica. Il primo è, appunto, la società. In
particolar modo, l’area dei lavoratori. Dove, però, il suo consenso appare ampio non tanto
fra gli operai, quanto, secondo i sondaggi, fra gli impiegati e i tecnici privati. Ma ancor più,
tra gli “intellettuali”, che operano nel mondo della scuola. Oltre ai pensionati. Perché
Landini non attrae tanto i giovani, ma le persone di età centrale e medio-alta (fra 45 e 65
anni) e gli anziani. Insomma, raccoglie la base tradizionale della Sinistra. Sfidata e
indebolita, fra i giovani e gli studenti, dal M5s. E, fra i lavoratori dipendenti, dalla Lega Il
secondo terreno di azione, per Landini, è la “comunic-azione”. In particolare, la televisione.
Dove il segretario generale della Fiom-Cgil è una presenza fissa. Invitato dovunque. Nei
principali talk politici di tutte le reti nazionali. Come Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Perché
garantiscono ascolti. La loro apparizione alza lo share di 1 punto percentuale e anche di
più. Un contributo importante, anzi, irrinunciabile per i programmi di dibattito e
approfondimento politico, in tempi di declino degli ascolti.
Così Landini — come, soprattutto, Salvini — alterna la piazza e la televisione. Ma ciò ne
limita le possibilità di affermazione. Anzitutto, come leader dell’opposizione. Perché la
“questione sociale”, per ora, è riassunta da altre rivendicazioni, “rappresentate” da altri
soggetti politici di successo. L’antieuropeismo e, in particolare, l’opposizione all’euro. Che
la Lega di Salvini agita, insieme alla paura degli immigrati. E il M5s associa al sentimento
anti-politico. Alimentato contro i privilegi dei “politici” e dei partiti. Mentre, sulla questione
della rappresentanza del lavoro, Landini e la Fiom incrociano, inevitabilmente, il loro
percorso con l’azione del sindacato. In particolare, della Cgil. Non a caso, intervistato da
Lucia Annunziata, proprio ieri, Landini ha sostenuto che «il sindacato deve essere un
soggetto politico». Perché «se non fa politica è aziendale». Mentre la segreteria della Cgil
ha preso, apertamente, le distanze dall’iniziativa del segretario Fiom. Per questo, nel
discorso politico di Landini, echeggia, di continuo, il richiamo a Renzi e al PdR. Il Pd di
Renzi. Il Partito di Renzi. Alleato di Confindustria nel progetto di cancellare i diritti dei
lavoratori. E, quindi, un nemico, anzi, “il” nemico da contrastare.
Così, la sfida di Maurizio Landini evoca una “coalizione sociale” e del lavoro. Per ora. Ma è
inevitabile, in prospettiva, leggerla sul piano politico. Ed elettorale. Perché è chiaro il
riferimento a Syriza, in Grecia, e Podemos, in Spagna. Se valutiamo la fiducia nei confronti
di Landini, sul piano politico, è, d’altronde, evidente la sua caratterizzazione a Sinistra. Ma
anche una certa trasversalità. È, infatti, elevata non solo fra gli elettori di Sel (intorno al
50%), ma anche del Pd (35% circa) e del M5s (32%).
La “coalizione sociale” evocata da Landini, dunque, mira a divenire coalizione “politica”,
che attrae le liste a Sinistra del Pd e l’area del disagio interna al Pd. Magari non un partito
— almeno per ora: domani si vedrà. Anche se c’è da sospettare che il più interessato alla
costruzione del nuovo soggetto partitico di Landini sia proprio Renzi. Che
“neutralizzerebbe” l’opposizione di sinistra in uno spazio, presumibilmente, circoscritto.
Intorno al 5% (o qualcosa di più). E allargherebbe ulteriormente lo spazio di influenza del
suo PdR verso il centro. Assorbendo quel che resta dell’elettorato berlusconiano. Così
resterebbero fuori solo Salvini (e Meloni), il M5s. Insieme a Landini. L’opposizione che
piace al premier.
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Del 16/03/2015, pag. 8
Salvini ora insegue Forza Italia
“L’alleanza è un mio auspicio”
Andrà da Berlusconi per chiedere l’appoggio a Zaia. FI insiste: insieme
ovunque o niente
Marco Bresolin
È passato meno di un mese da quando Matteo Salvini diceva che «in Veneto prendiamo
più voti se corriamo da soli». Un mese in cui si è consumata la traumatica uscita di Flavio
Tosi, con tutto ciò che ne consegue e ne conseguirà. E così il segretario leghista è
passato dalla spavalderia di chi ha già la vittoria in tasca («Forza Italia? Non mi
interessano alchimie o capriole» diceva dieci giorni fa) a dichiarazioni più caute.
«L’alleanza con Forza Italia è un mio auspicio - ha detto ieri durante il suo tour in Veneto a
sostegno di Luca Zaia - perché insieme abbiamo ben governato e mi piacerebbe tornare a
governare». Un’alleanza che il leader del Carroccio si è addirittura spinto a definire
«naturale».
Ritorno da Silvio
Evidentemente le notizie lasciate trapelare da Arcore nei giorni scorsi hanno messo un po’
di agitazione in casa Lega. Berlusconi non ha dato per scontato l’appoggio a Zaia e ha
fatto capire di non aver gradito le recenti uscite sul suo conto del segretario leghista. Tre
giorni fa «avere Berlusconi leader del centrodestra sarebbe come tornare indietro». Ieri, a
precisa domanda in un’intervista sul sito «Affaritaliani», ha glissato: «Non parlo più di
persone, ma solo di progetti». Questo perché tra domani e mercoledì i due si rivedranno.
L’intesa sulle Regionali va chiusa «al più presto»: Salvini chiederà pieno appoggio al
candidato Edoardo Rixi in Liguria, ma soprattutto a Zaia in Veneto. Berlusconi gli ricorderà
che questo potrebbe costare a Forza Italia l’alleanza con Ncd in Campania (che è
corteggiato dal Pd). E dunque chiederà come minimo di togliere di mezzo la candidatura di
Claudio Borghi, responsabile economia della Lega, che però ha già iniziato la campagna
elettorale in Toscana. Poi c’è il discorso al Sud: il leghista ha confermato che presenterà il
suo movimento Noi Con Salvini in Puglia e Campania. Berlusconi gli darà il via libera solo
se questo non ostacolerà i suoi candidati. Per ora la linea è ufficiale di Forza Italia è quella
di Altero Matteoli, presidente del comitato per le elezioni regionali: «Appoggeremo Zaia
solo se si raggiungerà un accordo a livello nazionale». Il coordinatore veneto di FI, Marco
Marin, è decisamente più possibilista: «Siamo per continuare l’esperienza del buon
governo in Veneto». Ma in regione ci sono i fittiani che frenano: la senatrice Cinzia
Bonfrisco vuole evitare «un cedimento totale alla Lega» perché «determinerebbe una
prevedibile fuga di esponenti di Forza Italia verso la Lista Tosi o la Lista Zaia». Opinioni,
perché alla fine la quadra la troveranno solo Salvini e Berlusconi.
La dieta televisiva
Intanto ieri si è conclusa la prima settimana senza Matteo Salvini in tv. Un record. Zero
presenze nei salotti dei talk politici, neanche un collegamento esterno. Una decisione dicono dal suo staff - presa da tempo per «tirare un po’ il fiato». Ma certo non sfuggirà che
questa è stata la settimana della cacciata di Tosi. Il segretario ha preferito evitare dibattiti
in tv per lanciare messaggi quotidiani via Radio Padania: una strategia per ricompattare la
base. Il digiuno, comunque, è già finito: stamattina sarà in collegamento dalla Sicilia a
«L’Aria che tira», domani si replica con Agorà e in serata a «Otto e Mezzo». La routine è
ricominciata.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 16/03/15, pag. 22
Si uccide il giudice che si vantava col boss
“Dovevo fare il mafioso”
Giusti, ex gip di Palmi, viveva da solo e con l’obbligo di dimora
Arrestato due volte, aveva avuto una prima condanna a quattro anni
GIUSEPPE BALDESSARRO
MONTEPAONE (CATANZARO) .
Si è tolto la vita impiccandosi. Lo hanno trovato appeso ad un finestrone, morto da diverse
ore. Giancarlo Giusti, 48 anni, ex giudice reggino, aveva già tentato di uccidersi. Nel
carcere di Opera lo avevano salvato i secondini. Nella sua villetta di Montepaone, dove
aveva l’obbligo di dimora, nessuno invece ha avuto la possibilità di soccorrerlo. Viveva da
solo, con il peso di una condanna definitiva a quattro anni di reclusione che gli era stata
inflitta dalla magistratura milanese e l’angoscia di una nuova inchiesta catanzarese. Un
magistrato che, secondo i magistrati lombardi e calabresi era al soldo dei clan della
‘ndrangheta. Uno che, dicono le accuse, si faceva pagare a suon di decine di migliaia di
euro oppure con escort e cene in hotel di lusso.
Giusti si è impiccato da semi libero, beneficio che gli era stato concesso proprio per le sue
condizioni psicologiche, legate a un primo tentativo di suicidio del settembre del 2012. È
stato trovato morto ieri mattina da un parente, allarmato per il fatto che non lo sentiva da
alcuni giorni. Sarà l’autopsia a stabilire esattamente data e ora del decesso. A
Montepaone vive anche una sorella di Giusti, dalla quale era stato accolto per il periodo in
cui era agli arresti domiciliari e dopo che si era separato dalla moglie. Chiamati a
intervenire nella prima mattinata, i carabinieri del Reparto operativo di Catanzaro e della
Compagnia di Soverato non hanno potuto che constatare il decesso. Giusti non ha
lasciato alcun biglietto per spiegare i motivi del suicidio e, tuttavia, era noto come le
inchieste sul suo conto lo avessero letteralmente sconvolto.
Era stato arrestato una prima volta nel 2012 nell’ambito di un’inchiesta condotta dalla Dda
di Milano sul clan dei Lampada. L’antimafia aveva scoperto che veniva utilizzato per avere
informazioni su eventuali inchieste in corso. Dopo l’arresto venne immediatamente
sospeso dalle sue funzioni per decisione del Csm. Da quella prima indagine emersero, in
particolare, i presunti rapporti tra Giusti e il boss Giulio Lampada che organizzava per lui
festini a base di sesso. Fu proprio durante un colloquio telefonico, intercettato dagli
inquirenti che Giusti pronunciò una delle frasi che lo inchiodarono poi al processo: «Tu non
hai capito — disse — chi sono io. .. sono una tomba, peggio di. .. ma io dovevo fare il
mafioso, non il giudice».
Dopo l’arresto e la condanna a quattro anni di reclusione in primo grado, divenuta
definitiva la scorsa settimana, Giusti tentò di suicidarsi nel carcere di Opera dove venne
salvato miracolosamente. Non si è mai detto colpevole. Durante un’intervista a Klaus Davi
ammise solo di «essere stato leggero». Spiegò così il suo rapporto con il boss: «Mi pento
di aver infangato la toga, ma non sono un corrotto. Con Lampada c’era un rapporto
affettivo, amicale. Gli volevo bene, lo consideravo una persona da abbracciare, un
confidente. Ho sbagliato ad accettare donne e cene, ma non gli ho mai concesso nulla in
cambio». E ancora: «La mia è stata una debolezza dovuta al momento terribile che stavo
attraversando per la mia separazione. Sono stato stupido. Anche se presi informazioni per
mezzo delle forze dell’ordine e di persone vicine ai servizi citate nel processo con nome e
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cognome, nessuno mi disse mai nulla. È stato un errore molto grave il mio, ma sono stato
condannato ingiustamente».
Nel febbraio del 2014 a carico di Giusti fu emessa una nuova ordinanza di custodia
cautelare, questa volta su richiesta della Dda di Catanzaro. In questo caso l’accusa a
carico di Giusti era quella di avere ricevuto 120mila euro per favorire, nella qualità di
giudice del Tribunale del riesame di Reggio Calabria, la scarcerazione di tre elementi di
spicco della cosca Bellocco della ‘ndrangheta. Fatto che gli era costata l’accusa di
corruzione in atti giudiziari, aggravata dal fatto di avere agevolato una cosca di
‘ndrangheta. Per l’inchiesta che aveva portato al secondo arresto di Giusti si attendeva
adesso la sentenza da parte del Tribunale di Catanzaro. Sentenza che non sarà più
emessa.
del 16/03/15, pag. 10
Contro il racket lavoro paziente non
chiacchiere
Da alcune settimane, si rincorrono interrogativi sullo stato di salute dell’antimafia in Sicilia,
ma non solo.
Come distinguere l’impegno per la legalità dagli sbandieramenti di convenienza e dalle
parole ispirate, ma inutili? Come riconoscere – in sostanza – le iniziative che modificano la
realtà, dagli slogan che “bucano” i media, ma non spostano gli equilibri consolidati del
malaffare?
Un primo criterio per tentare una risposta, è quello che individua i fatti distinguendoli dalle
chiacchiere.
Ad esempio, per le imprese che hanno ottenuto il rating di legalità, le chiacchiere “stanno a
zero”. Il sito dell’Antitrust ne indica 391, il che significa che già oggi è possibile contare
migliaia tra imprenditori, manager e dipendenti che praticano (non predicano) un’idea di
azienda moderna e strategica, che hanno scelto come operare nel mercato e si sono
assunti l’impegno volontario di conservare le tre stellette oppure di migliorare la
valutazione indipendente della loro solidità, biennio dopo biennio.
Altri fatti di cui pochissimo (giustamente) si parla, sono quelli ascrivibili al lavoro quotidiano
delle associazioni antiracket. Forse non tutti hanno un’idea esatta di cosa significhi portare
un commerciante o un imprenditore a denunciare un’estorsione.
È un percorso che inizia avvicinando con cautela una persona sfinita, sfiduciata, che non
dorme la notte per paura di non farcela o che succeda qualcosa alla sua famiglia. Questa
persona va convinta che ha di fronte non ragazzini volenterosi ma interlocutori fidati, a loro
volta ascoltati dalle istituzioni pronte ad agire senza esporre inutilmente (magari in forma
di eroe) chi denuncia.
La fiducia non si compra: il lavoro sotterraneo può durare mesi e non è detto che produca
il coraggio per il passo finale, che si concretizza in un’aula di tribunale piena di persone
che affiancano l’imprenditore che dovrà puntare il dito e far condannare l’estorsore.
Il tutto – attenzione – non nella comoda Milano (dove il silenzio è la regola) ma nelle zone
più controllate dalle cosche in Calabria, Sicilia, Campania. Se di questi fatti i media non
parlano fino agli arresti, significa che il meccanismo ha funzionato: se invece finiscono sui
giornali, vuol dire che c’è scappato il morto.
Ci sono poi i fatti dell’Associazione costruttori, che ha applicato per la prima volta il nuovo
Codice etico, dichiarando decaduto il presidente di una sede provinciale del Sud, già
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sospeso perché rinviato a giudizio per bancarotta. Una decisione netta dei probiviri
nazionali dell’Ance, che ha trasportato dalle buone intenzioni scritte sulla carta alla realtà
un confine reputazionale severo, non mancando di suscitare reazioni molto forti (anche di
tipo legale) da parte dell’interessato e dei suoi sodali.
Si potrebbe continuare con altri fatti, tutti ben distinguibili dalle chiacchiere.
Ma c’è un ulteriore discrimine utile a rispondere alla domanda iniziale: quello che invita a
distinguere le pagliuzze dalle travi di evangelica memoria (Luca 6,41).
Anche nel fronte schierato per la legalità esistono persone, enti, associazioni, categorie
professionali, onestamente impegnati a riflettere sui propri risultati e i propri limiti; poi ci
sono quelli che si limitano a lamenti e critiche – anche non fondate, a volte feroci – su tutto
ciò che non derivi dal proprio impegno.
Un atteggiamento manicheo, furbesco, purtroppo diffuso. Lo stesso che auto-giustificava
pratiche a dir poco opache con vibranti richiami allo “Stato assente” perché “facesse la sua
parte”. Ci sono voluti decenni per riportare ciascuno al suo, anche se è ovvio che nei
momenti di crisi si riaffaccino vecchie abitudini non del tutto debellate: così i giornalisti
infilzano imprenditori e politici, questi se la prendono con giornalisti e magistrati, i quali
ultimi scuotendo il capo ribadiscono che la categoria “società civile” è un’invenzione (loro
esclusi, ovviamente).
Fatti, umiltà, tenacia, spirito autocritico: la risposta è dentro questo perimetro.
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WELFARE E SOCIETA’
del 16/03/15, pag. 10
DEMOGRAFIA
Italiani in retromarcia
di Rossella Cadeo
Una società sempre più anziana, con figli che si temporeggia a mettere al mondo e i
residenti giovani che se ne vanno senza che il conteggio finale sia pareggiato da arrivi e
rientri. In compenso, nella speranza di vita, si è accorciato il divario di genere e gli
orizzonti di sopravvivenza si sono spostati più in là. Non è incoraggiante l’ultima foto
demografica scattata dall’Istat. Una tendenza all’invecchiamento del capitale umano che
va tenuta (e per tempo) in adeguata considerazione nella pianificazione del bilancio
pubblico e nei progetti di rilancio del Paese. Tanto più che la spesa sanitaria e
assistenziale è già sotto pressione, il mercato del lavoro è in contrazione e il sistema
previdenziale è costantemente sotto revisione e in fragile equilibrio.
Il record più allarmante segnato nel 2014 riguarda le nascite: poco più di mezzo milione i
neonati (-5mila rispetto al 2013), il dato più basso dall’Unità (in Italia nel 1861 c’erano
infatti circa 26 milioni di abitanti, ai confini attuali, e i nati allora si aggiravano sul milione). I
decessi invece sono stati quasi 600mila nel 2014 (-4mila rispetto al 2013), cosicché il
saldo naturale ha chiuso ancora una volta con il segno negativo (-1,4 per mille) e ha
allargato la forbice tra nati e morti (da -7mila unità del 2007 a -86mila nel 2014).
Anche le straniere (diversamente dal passato) non hanno dato una mano alle culle,
benché procreino in media quasi un figlio in più rispetto alle italiane (il loro tasso di
fecondità totale è pari a 1,97 contro 1,31 ma si attestava su 2,65 nel 2008). «Va sfatata
l’idea che la popolazione immigrata possa magicamente risolvere il problema della bassa
natalità - osserva Gian Carlo Blangiardo, professore di Demografia dell’Università di
Milano Bicocca -. Il suo comportamento riproduttivo si sta allineando a quello della
componente italiana e la soglia dei due figli a coppia (in media) non è più garantita
neppure dagli stranieri». E pure l’innalzamento dell’età media al parto non contribuisce a
dare nuova linfa alla popolazione: dai 30 anni del 1999 ora siamo a 31,5.
Un paese di vecchi, più che per vecchi? La conferma viene anche dagli indici sulla
speranza di vita e dai rapporti tra fasce d’età. Un bambino che nasceva nel 1974 aveva di
fronte a sé un orizzonte medio di sopravvivenza di 69,6 anni, una bambina sei anni in più,
75,9. Uomini e donne nati nel 2014 procedono più lontano (ma anche più “vicini”) nel
processo di allungamento della sopravvivenza: per gli uomini si è superata la soglia degli
80 anni di vita “attesa” e per le donne siamo quasi a 85.
Quanto alla composizione della popolazione, ecco che l’indice di vecchiaia (il rapporto
percentuale tra over 65 e under 15) è salito di oltre 30 punti, da 126,6 del 2000 a 157,3:
ogni cento giovani ci sono quasi 160 anziani. Non meglio è andato l’indice di dipendenza,
che rapporta la popolazione in età non attiva (under 15 e over 65) a quella in età lavorativa
(15-64 anni): in tre lustri è salito di sette punti, da 48 a 55,2, a indicare un peggioramento
del carico sociale fortemente spinto dalla crescita della componente più anziana.
I dati statistici aggiungono che l’Italia perde smalto anche nei flussi internazionali. Nel
2014 - complice la difficile congiuntura - se ne sono andati 48mila stranieri e 91mila
italiani, in totale circa 140mila persone (un 10% in più rispetto al 2013). Gli arrivi di
stranieri sono stati 255mila (-9% rispetto al 2013), mentre i rientri di italiani in patria
appena 26mila (-7,3% rispetto a un anno prima). Se il saldo migratorio con l’estero resta
quindi positivo per circa 142mila unità è grazie soprattutto alla componente straniera, e in
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particolare al fenomeno dei ricongiungimenti familiari. Un risultato che non impedisce
comunque al tasso migratorio di scendere al 2,3 per mille, il livello minimo degli ultimi
cinque anni.
«Al di là del dibattito sugli sbarchi - commenta Blangiardo - oggi l’immigrazione dal punto
di vista della mobilità tradizionale, dettata cioè da motivi di lavoro, è meno rilevante
rispetto al passato. L’Italia non si presenta più come un Paese attraente per chi cerca
un’occupazione e gli stranieri tendono a ridistribuirsi sul territorio europeo se non
addirittura a tornare nei Paesi d’origine. Ma quel che è più preoccupante è la forza
espulsiva nei confronti di giovani italiani, i quali in genere sono dotati di un alto livello di
formazione e spesso si vedono costretti a cercarsi un futuro altrove. C’è un’incapacità
allarmante di valorizzare un patrimonio di risorse rispetto al quale si è investito, anche
molto, in formazione».
Alla fine - tra scarse nascite, minori decessi, allungamento della vita, calo dell’appeal nella foto 2015 dell’Italia si contano più o meno gli stessi residenti dell’anno prima: 60
milioni e 808mila persone (+0,04%, il livello di crescita più basso degli ultimi dieci anni),
ma con una decisa tendenza all’invecchiamento. «Senza contare l’onda di piena che,
originatasi negli anni 60, tra 10-15 anni andrà a ingrossare la platea degli over 65 osserva ancora Blangiardo -. A questi si aggiungeranno gli “anziani importati”, la
componente degli stranieri nati altrove ma residenti in Italia e destinati a invecchiare
presso di noi: è impensabile che tornino nei Paesi d’origine proprio nell’età in cui
maggiormente avranno bisogno di un sistema assistenziale e sanitario che è e sarà
comunque più efficiente che altrove».
Per evitare che peggiorino le conseguenze della mancata crescita demografica occorre
dunque una terapia d’urgenza. «Due sono le possibili linee di intervento. Da un lato è
necessario ringiovanire la popolazione dal basso della piramide dell’età: occorrono almeno
250mila nascite aggiuntive all’anno per mantenere il Paese stabile sui 60 milioni di
abitanti. Il rilancio della natalità significa aiutare i progetti di fecondità di chi vuol fare figli.
Occorre di fatto avviare le misure di quel Piano per la famiglia che pure esiste e che, da
anni, attende attuazione concreta - conclude Blangiardo -. Dall’altro lato occorre gestire la
situazione attuale, ossia contenere gli effetti problematici derivanti dall’invecchiamento,
favorire la potenzialità delle persone anziane, creare le condizioni perché i meno giovani
siano ancora disponibili a essere produttivi, magari attraverso incentivi di gratificazione,
come già avviene nel “sentirsi utile” per chi opera nel volontariato, ma anche con interventi
di incentivazione di tipo economico, ad esempio sul fronte della tassazione e dei
contributi».
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SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
del 16/03/15, pag. 25
Nancie, la prof più brava del mondo: i miei
ragazzi leggono quaranta libri l’anno
All’insegnante Usa che ha vinto il “Nobel della Scuola” un premio da un
milione di dollari da spendere in 10 anni
RICCARDO LUNA
DUBAI .
L’insegnante più brava del mondo è una signora con i lunghi capelli bianchi, gli occhi blu, il
sorriso dolce di una nonna e un determinazione feroce: «Ho cambiato il modo di
insegnare, ho fatto innovazione senza chiedere il permesso a nessuno» aveva detto fra gli
applausi al mattino, quando ancora non sapeva che di lì a poche ore avrebbe vinto la
prima edizione di quello che viene già chiamato “il premio Nobel della Scuola”. Si chiama
Global Teacher Prize, vale un milione di dollari a rate per dieci anni (a patto di insegnare
per almeno altri cinque, però), e lo ha voluto un imprenditore sociale di origini indiane,
Sunny Varkey, attraverso la fondazione che porta il suo nome. Si è svolto a Dubai in uno
di quegli hotel da sogno che fanno impazzire i turisti. Per due giorni qui si sono dati
appuntamento un migliaio di persone per assistere sì alla finale del premio, ma soprattutto
per celebrare un mestiere spesso dimenticato eppure così importante: il mestiere di
insegnante. «Il vero scopo del premio è risvegliare l’attenzione del mondo verso il ruolo
degli insegnanti» ha detto poco prima dell’annuncio del vincitore l’ex presidente degli Stati
Uniti Bill Clinton, che ha ricordato i suoi professori, «senza i quali non sarei mai arrivato
alla Casa Bianca », e ha finito indicando solennemente i dieci finalisti sul palco: «Voi siete
bellissimi ».
Il Global Teacher è partito appena un anno fa. Cinquemila candidature da più di cento
paesi, e a ottobre la prima lista dei migliori 50 (anche due italiani, Daniele Manni e Daniela
Boscolo). E già lì si è intuito che questo non sarebbe stato un premio qualsiasi, perché
portava alla luce persone meravigliose con delle storie bellissime. Qualche settimana fa la
lista dei migliori 10. Tre dagli Stati Uniti, uno dal Regno Unito, uno da Haiti e il resto da
Africa e Asia. Si può dire, senza mancare di rispetto alla vincitrice, che alcuni degli altri
finalisti sono dei veri giganti del nostro tempo: su tutti forse Phalla Neang, la più votata sul
web, che ha inventato un metodo che combina musica e computer per insegnare l’inglese
e la matematica ai ragazzi ciechi in un paese, la Cambogia, in cui la disabilità viene
spesso vista come la punizione per i peccati commessi in una vita precedente. Ma hanno
destato grande emozione anche le storie di Azizullah Royesh, che ha fatto avanti e
indietro più volte dall’Afghanistan per le guerre, fino a quando ha fondato una scuola che
gli è costata la condanna a morte dei taliban perché le sue studentesse avevano lanciato
una campagna contro lo stupro; e di Stephen Ritz, che in uno delle zone più degradate
degli Stati Uniti, il Bronx meridionale, ha trasformato la scuola in un orto e attraverso il cibo
insegna a ragazzi altrimenti perduti il rispetto, il lavoro e un futuro possibile (si contano un
centinaio di orti con il suo metodo).
Ma ha vinto Nancie Atwell, 63 anni, una superstar del mondo dell’istruzione (i suoi libri, in
cui spiega il suo metodo didattico, sono acclamati best seller). Anche se fino a ieri sera
non aveva ancora una voce che la racconti su Wikipedia e non usa il profilo Twitter da un
anno. Non un caso: la storia di Nancie e quella degli altri nove finalisti è stata la
celebrazione degli insegnanti come persone, la loro rivincita sulla tecnologia. Solo qualche
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anno fa si sarebbe parlato di portare i tablet nei paesi in via di sviluppo (ricordate l’OLPc di
Nicholas Negroponte?) e di software e lavagne multimediali come supporti essenziali. E
invece qui i dieci finalisti avevano tutti in comune solo una grande passione: una passione
per l’insegnamento e un vero amore per gli studenti. E non importa se non ci sono risorse,
non importa se in qualche caso c’è la guerra alle porte, non importa se il ministro di turno
non fa la riforma che tutti aspettano. «Facciamo innovazione senza permesso» ha ripetuto
più volte Nancie Atwell. La sua ha un sapore antico e profuma di carta. Il suo metodo,
consacrato da un centro per l’insegnamento e l’apprendimento che ha fondato nel 1990
nel Maine, si basa sui libri. «I miei ragazzi ne leggono almeno 40 l’anno». Quali? È qui la
novità: «Li scelgono loro. Da una libreria che aggiorniamo continuamente con più di
diecimila titoli. Sono loro a dirmi cosa vogliono leggere, di cosa vogliono scrivere e
imparano a farlo ». Così molti dei suoi allievi sono diventati scrittori, e gli altri hanno
comunque avuto ottimi voti. Sono cresciuti. Con il milione di dollari del premio anche la
scuola crescerà: «Possiamo andare avanti altri dieci anni». Il suo messaggio è tutto nelle
parole che ha detto dal palco: «I giorni in cui siamo felici ci fanno saggi e qui dentro dieci
persone sanno cosa vuol dire. Oggi con me hanno vinto tutti gli insegnanti del mondo».
Che cosa ha ancora da insegnare?, le ha chiesto un giornalista. «Io? Io sto ancora
imparando come trasformare la scuola, ogni scuola, in un luogo di felicità e saggezza».
Felicità, ecco, se c’è una sola parola che unisce tutte queste storie è felicità. Per noi, che
ascoltiamo queste storie, invece ce n’è un’altra: gratitudine.
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