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RASSEGNA STAMPA
martedì 17 giugno 2014
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SCUOLA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
L’UNITÀ
AVVENIRE
IL FATTO
REDATTORE SOCIALE
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Radio2-Miracolo Italiano del 16/06/14
UNA DONNA PRESIDENTE DELL'ARCI,
FRANCESCA CHIAVACCI
Link all’intervista http://www.radio2.rai.it/dl/portaleRadio/media/ContentItem-660c0e74b9ca-45ef-bc95-246708abfdc4.html#
Da Vita.it del 16/06/2014
Francesca Chiavacci, una donna all'Arci
Per la prima volta l'Arci ha eletto un presidente donna: Francesca
Chiavacci, per dieci anni presidente di Arci Firenze. Vice presidente
vicario Filippo Miraglia.
Trovata l’intesa che era mancata tre mesi fa, l’Arci ha eletto per la prima volta nella sua
storia una donna alla sua guida. A larghissima maggioranza (160 voti su 168 esponenti del
nuovo consiglio nazionale) sabato 14 giugno è stata eletta Francesca Chiavacci, per dieci
anni presidente di Arci Firenze, cinquantatreenne ex deputata e relatrice del ddl
sull’obiezione di coscienza.
«Abbiamo di fronte la sfida del cambiamento che vive il nostro Paese e intendiamo viverla
da protagonisti, cominciando dal nostro interno», ha spiegato Francesca Chiavacci subito
dopo la sua elezione. «Nei prossimi anni dovremo svolgere il nostro ruolo con un rinnovato
protagonismo, a cominciare dalla questione dei diritti civili e della promozione della cultura,
e per questo ci attende un profondo lavoro di riorganizzazione della nostra struttura
nazionale, a partire dalla valorizzazione dei territori, autentico punto di forza del nostro
associazionismo, e dalla relazione della presidenza nazionale con essi», ha aggiunto la
neo presidente. Francesca Chiavacci ha poi concluso: «Credo che la scelta di una donna
alla guida dell'Arci sia un passaggio davvero importante per noi e per la società italiana,
anche perchè è il risultato di una convergenza molto ampia all'interno della nostra
associazione». Vice presidente vicario, su proposta della stessa neo presidente è stato
eletto Filippo Miraglia, mentre l’assemblea congressuale per acclamazione ha nominato
Luciana Castellina presidente onorario di Arci.
Il sedicesimo congresso Arci, che si è tenuto a Bologna, si è chiuso con i ringraziamenti al
presidente uscente Paolo Beni che l’ha guidata per un decennio. Un applauso è stato
tributato alla memoria di Tom Benetollo, presidente fino al 2004 di cui il prossimo 20
giugno ricorre il decennale della morte.
http://www.vita.it/non-profit/promozione-sociale/francesca-chiavacci-una-donna-allarci.html
Da Radio Città del Capo del 16/06/2014
Battaglie sui diritti civili e taglio alle spese.
Così cambierà Arci
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Bologna, 16 giu. – Interventi sulle regole che scandiscono la vita associativa di Arci, tagli
alle spese di struttura e più grinta sul tema dei diritti civili, perché la “rottomazione della
politica”, da sola, non basta. Sono questi i cambiamenti immagiti per Arci da Francesca
Chiavacci, neo eletta presidente della più grande associazione italiana di promozione
sociale. E sulla convivenza con Filippo Miraglia, suo sfidante e alla fine eletto
vicepresidente, Chiavacci dice: “Dobbiamo far convivere in Arci anime differenti, in
Toscana e in Emilia-Romagna si parte da un patrimonio già acquisito, in altri luoghi Arci è
più militante, nata da poco e magari da battaglie specifiche”. “Anime differenti”, specifica
Chiavacci, “non correnti”.
I diritti civili. “La politica di sinistra e di centro sinistra soffre di uno scarso radicamento e
di poca partecipazione. Con i suoi circoli, Arci può trasformare la difesa dei diritti civili in
qualcosa di popolare, alimentato di giorno in giorno al di là delle mediazioni istituzionali.
Penso ad alcune questioni fondamentali, dalla fecondazione assistita alla libertà
dell’orientamente sessuale, fino alla presenza nelle cliniche di obiettori di coscienza sulla
questione dell’interruzione di gravidanza. Questi temi in Italia rappresentano
un’emergenza democratica. Porteremo nei circoli e nelle case del popolo, anche con una
funziona formativa e di crescita culturale ,queste tematiche, perché non sempre il
rinnovamento e la rottamazione che vediamo in politica sono accompagnate con
altrettanta forza dalla difesa di questi diritti”.
La struttura Arci. “Arci deve cambiare. Nella sua struttura l’associazione è rimasta antica,
con una forte struttura nazionale che forse può essere ridotta. C’è poi la necessità di uno
scambio maggiore e più veloce tra territorio e struttura nazionale. Le idee devono circolare
di più”.
Le regole dello statuto. “Bisogna cambiare alcune regole. Lo scontro di marzo è stata
un’assoluta novità. Non abbiamo regole che prevedano confronti tra posizioni differenti.
Siamo un’organizzazione ancora antica in questo senso, abituata di fatto a candidature
uniche. E questo ha portato alla polarizzazione dello scontro. Bisogna trovare il modo di
attivare la partecipazione, e di farlo non in maniera correntizia”.
Il debito.“I sindaci revisori ci dicono che abbiamo speso più di quanto abbiamo incassato.
C’è stato un calo del tesseramento mentre alcune spese sono rimaste invariate. Bisogna
ristrutturare le voci di spesa, immaginare come trovare nuove risorse e come dirottare i
soldi anche sui territori più deboli, per svilupparli e radicarli. Il bilancio preventivo di
quest’anno per i primi soli sei mesi prevederebbe, senza toccare le spese, un ammanco a
fine 2014 tra i 200mila e i 300mila euro. Sicuramente dovremo intervenire e diminuire le
spese, e molte sono spese di struttura, e cioè dirigenti e personale”.
Strumenti di verifica. “Servono strumenti manageriali di verifica concreta del lavoro
associativo. Fra due anni ci sarà una conferenza di programma per mettere a verifica
quello che siamo riusciti a fare e dovremo dotarci di metodi adeguati di verifica e
monitoraggio”.
“Siamo riusciti a ricomporre la frattura di marzo – racconta Filippo Miraglia,
vicepresidente di Arci – Abbiamo trovato questa soluzione perché era l’unica che ci
consentiva di ricomporre le divisioni, che esistono e che nei prossimi mesi e anni
andranno affrontate. Tutti anche se abbiamo idee diverse abbiamo a cuore l’associazione
e il suo sviluppo”. Per Miraglia Arci essere “un soggetto del cambiamento della società” e
deve fornire ragioni e strumenti alla “militanza civile” di chi ha voglia di politica e “non trova
risposte nei partiti”.
http://www.radiocittadelcapo.it/archives/tagli-alle-spese-e-battaglie-sui-diritti-civili-cosicambiera-arci-141878/
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Da Giornale Radio Sociale_edizione del 16/06/2014
Francesca Chiavacci eletta presidente dell’Arci nazionale
http://www.giornaleradiosociale.it/audio/16-06-2014/
Da Blitz Quotidiano del 16/06/14
Francesca Chiavacci, la prima donna a
guidare l’Arci
Scrive il Corriere della Sera: "Il Consiglio nazionale, su proposta della neo presidente, ha
inoltre eletto Filippo Miraglia vicepresidente, mentre l’assemblea congressuale ha scelto
per acclamazione Luciana Castellina come presidente onorario".
ROMA – “Sarà una donna – come scrive il Corriere della Sera – a guidare la più grande
associazione culturale italiana, l’Arci. Ed è la prima volta. Dopo aver trovato un’intesa che
mancava da tre mesi è stata eletta alla presidenza Francesca Chiavacci, che per dieci
anni ha guidato l’Arci Firenze”.
L’articolo completo:
Chiavacci, 53 anni, ex deputata e relatrice del ddl sull’obiezione di coscienza, è stata
votata da 160 dei 168 nuovi esponenti del Consiglio nazionale eletto dall’assemblea
congressuale, su proposta unitaria. Chiamata alla «sfida del cambiamento — commenta la
neo presidente — nei prossimi anni l’Arci dovrà avere un rinnovato protagonismo, a
cominciare dalla questione dei diritti civili e della promozione della cultura, e per questo ci
attende un profondo lavoro di riorganizzazione della nostra struttura nazionale, a partire
dalla valorizzazione dei territori, autentico punto di forza». La scelta di una donna, frutto di
«una convergenza molto ampia — ha aggiunto — è un passaggio importante per noi e la
società italiana». Il Consiglio nazionale, su proposta della neo presidente, ha inoltre eletto
Filippo Miraglia vicepresidente, mentre l’assemblea congressuale ha scelto per
acclamazione Luciana Castellina come presidente onorario.
http://www.blitzquotidiano.it/rassegna-stampa/francesca-chiavacci-prima-donna-guidarearci-1894112/
Da Radio Articolo 1 del 17/06/14
Oggi alle ore 15:05 - Elleesse
L'Arci e la sfida del cambiamento.
Interviene la neopresidente F. Chiavacci
Nella rassegna di domani il link all’intervista
Da Radio Città Futura del 17/06/14
Intervista alla presidente nazionale Arci Francesca Chiavacci all’interno del contenitore
“Tutti in campo”
Da Controradio del 16/06/14
Intervista alla presidente nazionale Arci Francesca Chiavacci
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Da Huffington Post del 17/06/2014
Schwabenkinder: i bambini sfruttati, ieri come
oggi
Di Alessandro Cobianchi coordinatore Carovana Antimafie
Schwabenkinder. A dispetto della parola, quasi impronunciabile per un profano, è una
delle storie rimaste maggiormente impresse nelle ultime tappe di Carovana del nord Italia.
Schwabenkinder sono i bambini di Svevia, figli di contadini, provenienti dal Tirolo, dall'Alto
Adige, dal Lichtenstein e dalla Svizzera che, a cavallo fra il XVII ed il XX secolo venivano
acquistati e impiegati in Svevia dai proprietari terrieri per lavori stagionali. Grazie a un
gruppo di bravi musicisti e all'Arci di Bolzano abbiamo conosciuto questa storia, ignota ai
più, in cui si racconta, attraverso un concept album, della povertà che caratterizzava quelle
zone e dello stato di necessità che come sempre antepone la sopravvivenza alla giustizia.
Noi carovanieri credevamo che queste storie appartenessero, per restare in Italia, alle
terre di Puglia, di Basilicata o di Sicilia, tutto al più della Toscana. La sorpresa è stata,
invece, nello scoprire che migliaia di bambini, fra i 5 e i 14 anni, venivano usati come
contadini o servi nelle campagne delle zone settentrionali dell'attuale Germania, quelle più
ricche. Insomma c'è sempre un nord di qualcosa. I bambini di Svevia erano figli di famiglie
poverissime e che non avevano possibilità di sopravvivenza con le proprie risorse. Il 19
marzo di ogni anno, i bambini venivano esposti in piazza dove i "compratori" li sceglievano
in base alle proprie esigenze. In seguito, iniziava un viaggio faticoso, attraverso i monti,in
condizioni climatiche ancora rigide. Una volta giunti a destinazione, in cambio di cibo o
indumenti, i bambini venivano impiegati soprattutto nelle campagne. Una storia
dimenticata e che sembra lontana, forse solo perché parla di un territorio che è
sicuramente trasformato in quanto a ricchezza. Ve lo immaginate un bambino
altoaltesinoo svizzero che oggi viene di fatto "ceduto" temporaneamente, che affronta un
viaggio faticoso che lo condurrà ad una lavoro altrettanto difficile? Quanto stupore si può
immaginare dalla lettura di questa storia. Noi, tuttavia, siamo gli stessi che si sono abituati
allo sfruttamento dei bambini cinesi, pakistani, bengalesi, non solo nei loro Paesi ma
anche nelle nostre città. Che strana la storia, il tempo e lo spazio battono l'orologio dei
diritti. Anche qui ed ora, però, possiamo spostare le lancette, leggendo ciò che è stato, ciò
che siamo stati. Solo comprendendo il nostro passato potremo davvero accompagnare i
nostri bambini verso viaggi più lievi e consoni alla loro età.
Da allInfo.it del 16/06/14
La Musica in Mezzo al Guado: l’Incontro
Mercoledì 18 giugno 2014 – Sala Convegni –
Senato della Repubblica
L’Arci, Amici della Musica, AudioCoop, in occasione della Festa Internazionale della
Musica del 21 giugno 2014, in collaborazione con il Mei – Meeting delle Etichette
Indipendenti e con il Cemat, Forum Nazionale per l’Educazione Musicale, I-Jazz, Rete dei
Festival, SmartIT organizzano:
La Musica in Mezzo al Guado
Il punto sui provvedimenti legislativi, le proposte di legge, gli strumenti per lo sviluppo del
mondo della musica
sarà l’oggetto dell’incontro di Mercoledì 18 giugno 2014 – dalle ore
10.30 alle ore 13.00 presso Sala Convegni – Senato della Repubblica – Piazza
Capranica 72 a Roma.
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Per l’occasione alle ore 12 si terra’ la presentazione del Mei 2.0 il Meeting delle Etichette
Indipendenti dei 20 Anni che si terrà a Faenza dal 26 al 28 settembre 2014
Anche quest’anno, dunque, per la Festa della Musica, nata a Parigi per promuovere in
ogni piazza e strada la pratica dello strumento musicale e l’ascolto di ogni tipo di musica si
festeggia.
Il mondo della musica più che mai soffre del periodo di crisi che sta attraversando l’Italia.
La fotografia del Paese fatta dall’Istat, presentata il 28 maggio 2014, certifica ancora una
volta una contrazione dei consumi e degli investimenti.
La musica è uno dei settori più interessanti del sistema culturale del nostro Paese. Settore
che cerca di trovare una sua sostenibilità economica e nuovi percorsi per sostenere la
pratica, la formazione musicale, l’aumento della partecipazione culturale delle persone.
Progetti innovativi e grande capacità di adattamento contrastano la debolezza dovuta a
gravi ritardi del settore e alla diminuzione del sostegno pubblico al settore.
Il governo, con il decreto legge “Valore Cultura”, ha posto le basi per nuove opportunità
come quella di usufruire di spazi demaniali per la nascita di luoghi dedicati alle arti,
performative e non solo, sgravi alle opere prime dei giovani musicisti, semplificazione dei
live di piccoli concerti, un rinnovamento del FUS capace di guardare alla musica popolare
contemporanea , un aggiornamento dell’equo compenso per la creatività, la
depenalizzazione del reato di disturbo di quiete pubblica.
Si registrano anche diverse iniziative legislative del parlamento per questo settore come
la proposte di legge sulla formazione musicale, sulla creatività giovanile, sui diritti ed altre
attivita’.
L’ ”Agenda digitale Italiana” potrebbe diventare uno dei volani per rafforzare il settore della
musica digitale, sia per la sua fruizione che per la possibilità di sviluppo di nuovi servizi per
progetti innovativi a sostegno del mondo della musica.
Una riflessione importante va fatta sulla musica e i media, sapendo che la musica italiana
è spesso poco valorizzata e che è in corso la definizione del nuovo contratto di servizio tra
RAI e Stato italiano che sarà adottato nel 2016 e avrà effetti importanti sulla cultura
musicale del nostro Paese.
Per questo l’Arci, AudioCoop e gli Amici della Musica, in collaborazione con il Mei –
Meeting delle Etichette Indipendenti e con il Cemat, Forum Nazionale per l’Educazione
Musicale, I-Jazz, Rete dei Festival, SmartIT e altri promuovono un incontro tra gli operatori
del settore e i parlamentari di Camera e Senato per fare il punto sulla legislazione in atto,
rafforzare percorsi legislativi e promuovere provvedimenti puntuali, sviluppare nuovi ambiti
di intervento.
L’apertura dei lavori sara’ alle ore 10.30 a cura di Carlo Testini, responsabile nazionale
delle politiche culturali dell’Arci, insieme a Roberto Pietrangeli, Coordinatore degli Amici
della Musica.
Alle ore 12 Giordano Sangiorgi del MEI presentera’ Mei 2.0 – Il Meeting delle Etichette
Indipendenti che festeggia i suoi 20 anni.
Il Mei 2.0 20 Anni si terra’ dal 26 al 28 settembre a Faenza per una tre giorni sulla nuova
musica indipendente ed emergente italiana con indies, festival e web e sara’ dedicato a
Roberto Freak Antoni.
Saranno presentate le schede di adesione per l’expo’ e le prime tracce del programma.
La manifestazione è supportata, tra gli altri, da Regione Emilia-Romagna, Provincia di
Ravenna, Comune di Faenza, Siae e Nuovo Imaie.
Durante la conferenza stampa sara’ presentato il doppio cd compilation edito dalla Sony
Music in collaborazione con AudioCoop a cura di Federico Guglielmi su Mei 20 Anni 19942014: Un Viaggio nel Miglior Rock Indipendente Italiano con ben 38 brani indie selezionati.
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Sono stati invitati rappresentanti di organizzazioni culturali, degli artisti, della Siae e Nuovo
Imaie, operatori culturali, produttori, giornalisti e promoter.
Sono stati invitati i parlamentari di Camera e Senato e i Presidenti delle commissioni
Cultura di Camera e Senato.
E’ possibile seguire l’evento in video streaming sui siti:
www.arci.it , www.meiweb.it e
sulla web radio Radio Cemat www.radiocemat.org
E’ necessario iscriversi all’evento inviando una mail a [email protected] . Si rammenta che
per accedere alle sale del Senato è obbligatoria la giacca e la cravatta per gli uomini.
http://www.allinfo.it/wp/2014/06/11/la-musica-in-mezzo-al-guado-lincontro-mercoledi-18giugno-2014-sala-convegni-senato-della-repubblica/
Altri link che hanno ripreso il comunicato stampa di invito all’evento del 18 giugno:
http://smart-it.org/blog/la-musica-mezzo-al-guado/
http://www.eventiesagre.it/Eventi_Feste/21040575_La+Musica+in+Mezzo+al+Guado.html
http://www.jaymag.it/2014/06/al-senato-si-parlera-anche-del-meeting-delle-etichetteindipendenti/
http://popsoap.it/in-occasione-de-la-musica-in-mezzo-al-guado-verra-presentato-il-mei-2-0/
http://www.musicletter.it/indienews/?x=entry:entry140522-164602
Da Dazebao.it del 17/06/14
Il 20 giugno la giornata mondiale del rifugiato.
Domani iniziativa a Palazzo Chigi
di Redazione
ROMA - In vista della Giornata mondiale del Rifugiato, domani, alle 12, presso la Sala
Verde di Palazzo Chigi, sarà presentata l'iniziativa «Da rifugiati a cittadini. Cronache di
quotidiana convivenza», promossa da Unar - Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali
del Dipartimento per le Pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri in
collaborazione con Anci -Servizio centrale dello SPRAR.
Un contest giornalistico rivolto ai giornalisti attivi nelle testate locali, sia cartacee che
online, premierà le storie che raccontano in maniera più efficace l'integrazione di rifugiati e
richiedenti asilo sui territori, destrutturando così stereotipi e pregiudizi che spesso si
associano al racconto su questi temi. Le storie, realizzate in collaborazione con i progetti
locali della rete Sprar, metteranno in evidenza il valore aggiunto della presenza dei rifugiati
sul territorio, raccontandone il ruolo sociale, le professionalità e le competenze esercitate
da chi ha scelto di stabilirsi nel contesto locale di accoglienza.
Promuovere un'informazione positiva che rappresenti al meglio il lavoro di accoglienza
integrata svolto sui territori dallo Sprar e il ruolo positivo delle persone accolte in numerosi
contesti locali sono gli obiettivi del concorso, che punta attraverso una stampa attenta e di
qualità a contrastare ogni forma di razzismo e discriminazione. Gli articoli saranno diffusi a
livello locale ed i migliori saranno pubblicati su Repubblica.it, media partner dell'iniziativa.
All'iniziativa, promossa in occasione della Giornata Mondiale che si celebra ogni anno il 20
giugno, hanno aderito l'Associazione Carta di Roma, l'UNHCR e il servizio specialistico
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gestito da ARCI, per conto di UNAR, sulle discriminazioni dei richiedenti asilo e rifugiati.
Alla conferenza stampa, moderata dal presidente dell'Associazione Carta di Roma,
Giovanni Maria Bellu, interverranno il sottosegretario all'Interno Domenico Manzione, il
sottosegretario al Lavoro e delle Politiche sociali con delega all'integrazione Franca
Biondelli, il capo Dipartimento per le Pari opportunità Ermenegilda Siniscalchi, il presidente
dell'Anci Piero Fassino, il portavoce dell'UNHCR per il Sud Europa Carlotta Sami, il
Rirettore dell'UNAR Marco De Giorgi, il direttore del Servizio centrale dello Sprar Daniela
di Capua, il giornalista di Repubblica.it Carlo Ciavoni e Filippo Miraglia del Servizio
specialistico sulle
Da Prima Pagine News del 17/06/14
Arci Forte Fanfulla, chiusura delle attività
Roma, 17 giu (Prima Pagina News) Nota stampa del Circolo Arci Forte Fanfulla: "Il circolo
Arci Forte Fanfulla di Roma comunica che sospende la propria attività. Questa decisione
deriva da una crescente difficoltà economica causata dall'impossibilità a sostenere gli
onerosi costi d'affitto. La storica associazione culturale, nata e radicatasi nel quartiere del
Pigneto, è attiva dal 2007 e conta un corpo sociale di quasi 20.000 tesserati. Nel corso di
questi anni abbiamo lavorato sul territorio attraverso lo sviluppo di attività aggregative
realizzando più di 1000 iniziative annuali (concerti, presentazioni, mostre, proiezioni,
spettacoli teatrali, corsi di lingua e servizi di assistenza sociale e fiscale). Abbiamo cercato
di mettere in atto una politica fruibile e popolare che, con il tempo, ha contribuito a una
riqualificazione del quartiere dal punto di vista sociale e culturale. Questo risultato è stato
raggiunto grazie alla partecipazione e all'impegno di tutti i soci che hanno messo a
disposizione le loro competenze professionali e artistiche e a tutti gli amici e i collettivi
della scena indipendente, italiana e internazionale, che hanno contribuito a rendere quella
del Fanfulla un'esperienza straordinaria. Rivendichiamo con orgoglio di aver portato avanti
in questi anni un progetto culturale fondato sull'idea di impresa sociale, da noi considerato
uno degli strumenti utili per l'auspicato rilancio delle politiche culturali nel nostro paese. Il
Fanfulla è una casa comune della sinistra, uno spazio che con fierezza ha ospitato e
supportato diversi rappresentanti delle realtà antagoniste romane ma anche del mondo
politico e istituzionale, pur nella totale assenza di un riconoscimento e di un sostegno
concreto da parte delle istituzioni. La nostra non è una resa ma una resistenza. Perciò
invitiamo tutti a sostenere la campagna #FATTIFORTEFANFULLA, che si svolge dal 23 al
30 giugno, una settimana ricca di iniziative all'insegna della musica, del teatro e della
creatività. Chiediamo a tutti di aiutarci a diffondere il più possibile questa comunicazione
per organizzare insieme e condividere la nostra esperienza. Il programma dettagliato delle
iniziative verrà diffuso nei prossimi giorni. Ringraziamo tutti dell'attenzione."
(PPN) 17 giu 2014 09:51
http://www.primapaginanews.it/dettaglio_news_hr.asp?ctg=6&id=240423
Da il Velino del 16/06/14
Napoli Film Festival, XVI edizione: deadline
per presentare opere per i concorsi
Entro il 30 giugno tutte le opere per le selezioni
Ultimi giorni per poter presentare le opere per i concorsi della XVI edizione del Napoli Film
Festival, che si terrà ad ottobre. Entro il 30 giugno, infatti, dovranno pervenire
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all’organizzazione della rassegna partenopea le opere che vorranno partecipare alla
selezione per i concorsi Schermo Napoli Cortometraggi e Schermo Napoli Documentari, le
due sezioni del Napoli Film Festival dedicate a opere girate da registi campani o che
abbiano per oggetto la Campania. Per i vincitori, oltre alla vetrina del Napoli Film Festival,
che negli ultimi anni ha accompagnato nei loro primi passi molti registi poi affermatisi sulla
scena nazionale, ci sarà il Vesuvio Award e il premio Asit News (un anno di rassegna
stampa gratuita offerta dalla società specializzata Asit).
Il miglior documentario autoprodotto e il miglior cortometraggio autoprodotto riceveranno
poi 16 ore di postproduzione gratuite per la loro opera successiva, offerte, per di “doc” da
FILMap, centro di formazione e produzione cinematografica dell’Arci Movie. Deadline in
scadenza anche per il concorso Europa-Mediterraneo, aperto a film europei e della
sponda sud del bacino: anch’essi dovranno essere presentati entro il 30 giugno per
entrare nella finestra che il festival napoletano apre ogni anno su piccole perle della
cinematografia internazionale, che restano fuori dalla grande distribuzione. Uno sguardo
che quest’anno si allargherà anche grazie alla collaborazione con Alto Fest, il progetto che
prevede delle residenze d’artista di registi e videomaker d’oltre frontiera in appartamenti
privati per realizzare un’opera filmica.
In palio, in questa sezione, c’è, oltre al Vesuvio Award, anche l’Augustus Color Award,
consistente in 5 copie in digitaleper la distribuzione sul mercato italiano e l’Asit News
Award, che permetterà al produttore vincitore un anno di rassegna stampa gratuita offerto
dalla società specializzata Asit. La rassegna napoletana diretta da Davide Azzolini e Mario
Violini proporrà poi ancora una volta il concorso Fotogrammi, la sezione del Napoli Film
Festival dedicata alla fotografia che darà la possibilità alle migliori opere di essere esposte
in mostra durante la settimana della rassegna napoletana. Le foto quest’anno dovranno
avere come tema il cinema di Michelangelo Antonioni a cui il Napoli Film Festival
dedicherà un’ampia retrospettiva: per essere ammesse alla selezione ufficiale, le
fotografie dovranno essere presentate entro l’1 settembre. Per tutte le informazioni in
dettaglio sulla partecipazione alla XVI edizione del Napoli Film Festival basta scaricare i
bandi dal rinnovato sito www.napolifilmfestival.com.
http://www.ilvelino.it/it/article/2014/06/16/napoli-film-festival-xvi-edizione-deadline-perpresentare-opere-per-i-concorsi/4bcec9fc-e12b-4e2d-91b3-37e7f1ade3d0/
Da Corriere del Mezzogiorno (corrieredelmezzogiorno.it) del 16/06/14
cinema
Napoli film festival, ultimi giorni per il bando
Scade il 30 per i concorsi Schermo Corti e Documentari. E a Ponticelli,
Filmap alza l'età di partecipazione al workshop
NAPOLI - Ultimi giorni per poter presentare le opere per i concorsi della XVI edizione del
Napoli Film Festival, che si terrà ad ottobre. Entro il 30 giugno, infatti, dovranno pervenire
all’organizzazione della rassegna partenopea le opere che vorranno partecipare alla
selezione per i concorsi Schermo Napoli Cortometraggi e Schermo Napoli Documentari, le
due sezioni del Napoli Film Festival dedicate a opere girate da registi campani o che
abbiano per oggetto la Campania. Per i vincitori, oltre alla vetrina del Napoli Film Festival,
che negli ultimi anni ha accompagnato nei loro primi passi molti registi poi affermatisi sulla
scena nazionale, ci sarà il Vesuvio Award e il premio Asit News (un anno di rassegna
stampa gratuita offerta dalla società specializzata Asit). Il miglior documentario
autoprodotto e il miglior cortometraggio autoprodotto riceveranno poi 16 ore di
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postproduzione gratuite per la loro opera successiva, offerte, per da FILMap, centro di
formazione e produzione cinematografica dell’Arci Movie.
FILMAP BANDO ANCHE PER I TRENTENNI - E in tema di Filmap, l'associazione segnala
che nel bando aperto inizialmente a 16 giovani dai 18 ai 28 anni, prevede adesso la
possibilità di partecipazione fino ai 32 anni. Lo stesso bando è stato prorogato fino al 30
giugno. L’Atelier, dopo le selezioni previste nel mese di luglio, inizierà a ottobre per
concludersi a luglio 2015. Le attività, che si svolgeranno presso la sede storica di Arci
Movie in via De Meis 221 a Ponticelli, sono completamente gratuite e prevedono degli
stage retribuiti.
http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/spettacoli/2014/16-giugno2014/napoli-film-festival-ultimi-giorni-il-bando-223405474180.shtml
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ESTERI
del 17/06/14, pag. 14
Iraq, Usa pronti ai raid
“I droni, un’opzione” Sì a colloqui con l’Iran
I jihadisti avanzano. L’Onu: “Crimini di guerra” Continua l’evacuazione
delle ambasciate
MARCO ANSALDO
DAL NOSTRO INVIATO
ERBIL (KURDISTAN IRACHENO) .
Gli Stati Uniti pensano a velivoli droni per un eventuale attacco sull’Iraq, «limitato nel
tempo», per fermare l’avanzata dei miliziani jihadisti. Di fronte a una situazione sempre più
drammatica sul terreno, il segretario di Stato americano, John Kerry, ha detto ieri che
l’ipotesi costituisce per gli Usa «un’opzione».
«Quando ci sono persone uccise e massacrate — ha spiegato il capo della diplomazia
americana in un’intervista a Yahoo! news — devi intervenire per fermare tutto questo. E fai
quello che devi fare, che sia fermarli dal cielo o in altro modo».
A proposito del nuovo «dialogo» con l’Iran, l’occasione per discuterne potrebbe essere
data dal nuovo round di colloqui sul nucleare in programma a Vienna. Il Pentagono ha
comunque fatto sapere che Washington non ha alcuna intenzione di cooperare con l’Iran
su una possibile azione militare congiunta. Il presidente statunitense Barack Obama
dovrebbe ricevere le diverse opzioni di un possibile intervento militare entro lunedì. Nelle
ultime ore gli Usa hanno inviato nel Golfo una nave da trasporto anfibio con a bordo 550
marine, che si è unita al gruppo navale guidato dalla portaerei USS George H. W. Bush.
L’Onu ha intanto condannato come «crimini di guerra» le esecuzioni compiute «a sangue
freddo» dai qaedisti sui militari iracheni disarmati. L’Alto commissariato e tutto lo staff delle
Nazioni Unite si preparano adesso a lasciare Bagdad verso la Giordania «per motivi di
sicurezza». La fuga degli occidentali è dunque cominciata. Stati Uniti e Australia hanno
annunciato domenica l’evacuazione di gran parte del personale «non essenziale» delle
loro rappresentanze diplomatiche. L’ambasciata italiana resta per ora operativa, ma la
Farnesina raccomanda «vivamente» ai connazionali «di rinviare viaggi a qualunque titolo
in Iraq».
Scontri tra miliziani e forze governative sono in corso nel nord ovest, nei pressi di Tal Afar,
cittadina mista sunno-sciita, ma strategica perché lungo la strada fra Mosul e il confine con
la Siria da cui provengono in parte i rifornimenti per i miliziani. Il centro sarebbe caduto
nelle mani dei fondamentalisti sunniti, che hanno distrutto due santuari sciiti. L’Isis si è
impadronito anche di altre località nella regione orientale di Diyala, mentre a sud la
controffensiva di Bagdad sembra portare i propri frutti. I media governativi affermano che
l’esercito ha ucciso poco meno di 300 qaedisti in varie località. E dall’ufficio del premier
Maliki annunciano di aver richiamato i riservisti.
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del 17/06/14, pag. 12
“Altro che successo, il disastro era
chiaro già nel 2010”
IL SOLDATO MANNING, GOLA PROFONDA DI WIKILEAKS, E I DATI
NASCOSTI SUL CAOS A BAGDAD
di Angela Vitaliano
New York
Quando ho deciso di rivelare delle informazioni riservate nel 2010, l’ho fatto come atto
d’amore nei confronti del mio paese e per un senso di dovere nei confronti degli altri. Ora
sto scontando una pena di 35 anni di carcere per queste rivelazioni non autorizzate.
Comprendo che con le mie azioni ho violato la legge”. Inizia così l’editoriale che Chelsea
Manning ha scritto per il New York Times di domenica, dal titolo “La macchina nebbiosa
della guerra”: la prima “uscita” pubblica dell’ex militare condannato per aver passato circa
750mila documenti segreti al sito WikiLeaks . Dopo aver annunciato di voler mantenere un
profilo privato, Manning che ha cambiato il nome da Bradley a Chelsea, rompe il silenzio
per attaccare gli Usa per aver mentito. E torna indietro con la memoria, a quel 2010 e alle
elezioni la cui cronaca riempiva la stampa “con storie che ne dichiaravano il successo,
arricchite da aneddoti e foto di donne che mostravano con orgoglio le dita sporche di
inchiostro. Il sottotesto era che le operazioni militari erano state un successo che aveva
permesso di creare un Iraq democratico e stabile”. La realtà che, invece, si trovava ad
affrontare il soldato Manning era ben diversa e raccontava di un potere che si stava
affermando grazie alla distruzione sistematica degli oppositori, spesso torturati senza
ragione. “Ero scioccato dalla complicità che i nostri soldati avevano con il sistema corrotto
alla base di quelle elezioni”. Parte della responsabilità di una spaccatura così profonda fra
la realtà è il “racconto della realtà”, è dovuta, secondo, Manning, al fatto che i giornalisti
non erano messi in condizione di fare il proprio mestiere: “I giornalisti ammessi a seguire
le azioni dei militari erano 12, in un paese con 31 milioni di abitanti e 117mila militari Usa”.
In più i reporter accreditati dovevano sottoscrivere delle regole di comportamento e non
era difficile venissero ritirate le credenziali per articoli controversi.
del 17/06/14, pag. 16
Mitra, croci e nostalgia di Saddam
I cristiani in fuga da Mosul
di Lorenzo Cremonesi
KARAKOSH – Pattuglie armate ad ogni angolo. Gli uomini di guardia sono visibili
dovunque: sui tetti delle case, attorno agli accessi sbarrati delle fabbriche, delle fattorie
agricole, presso le cliniche, di fronte agli edifici pubblici, ma soprattutto nei pressi delle
chiese e delle scuole religiose. Ai villaggi si accede solo dopo accurati controlli ai posti di
blocco. Mitra e croce: fa strano vedere giovani e meno giovani civili cristiani con i
Kalashnikov imbracciati, bandoliere cariche di proiettili e pistole alle cinture. «Siamo tutti
volontari. Abbiamo scelto di difendere le nostre comunità e i nostri villaggi dal pericolo
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degli estremisti islamici. Grazie a Dio siamo aiutati dai peshmerga, le forze armate curde,
che ci garantiscono sostegno e logistica. Da soli saremmo sicuramente spacciati»,
ammettono. Ma impera la paura. Una paura visibile, palpabile, onnipresente. Le
avanguardie dei radicali sunniti, in particolare dello «Stato Islamico in Iraq e del Levante»,
solo lunedì scorso sembrava potessero arrivare anche qui da loro. Avevano preso Mosul,
una trentina di chilometri più a sud. E i loro gipponi sfilavano veloci tra i campi di grano e
nubi di polvere in località ancora più prossime. Ma poi sono arrivati i rinforzi curdi e la
situazione si è stabilizzata.
Ieri ci siamo recati in uno dei centri tradizionali del cristianesimo iracheno. Karakosh,
anche conosciuto come Bakhdida o Hamdania, una regione famosa per le vigne, ma
soprattutto per i resti delle chiese antiche di 1.500 anni, cimiteri dalle croci scolpite nelle
pietre che precedono di uno o due secoli l’avvento dell’Islam, monasteri testimoni del
primo cenobitismo. In tempi diversi sarebbe eccitante raccontare questa culla della civiltà
cristiana orientale, dove le scritte sulle lapidi sono in aramaico, caldeo, greco. E i fedeli
parlano dei santi con genuino fervore come di presenze immanenti. «Le nostre chiese
sono state le uniche a non essere mai state sotto il controllo di un potere temporale
cristiano. Più a nord, in Turchia, Palestina, Egitto e Siria, le antiche comunità cristiane
vissero le parentesi della tradizione romana costantiniana e dei bizantini. Ma noi abbiamo
sempre dovuto fare i conti con autorità ostili, a partire dai persiani, i califfati sunniti e gli
stessi curdi», ricorda tra i tanti padre Paolo Thabib Habib, 37 anni, parroco nel villaggio di
Karmless. Purtroppo oggi siamo costretti a ripetere un mantra ormai tristemente
monotono: intere comunità che si riducono di anno in anno, chiese sempre più
evanescenti, ma soprattutto il terrore della persecuzione da parte dei fondamentalisti
islamici, ragazze costrette a mettere il velo, attentati e minacce continue. Un fenomeno
diffuso dall’Egitto alla Siria sino all’Iraq dell’era post Saddam Hussein. Qui la svolta verso il
peggio ha una data precisa: domenica 1° agosto 2004. Erano trascorsi 16 mesi dall’arrivo
delle truppe Usa a Bagdad. «A noi non piace affatto la dittatura di Saddam. Ma almeno
garantisce la difesa dei cristiani. Dopo di lui, per noi sarà la catastrofe», aveva predetto
l’ex patriarca caldeo Emmanuel Delly nel periodo concitato precedente la guerra del 2003.
E la serie di attentati contro le chiese gremite di fedeli a Mosul e Bagdad in quell’afosa
giornata di agosto costituì il tragico inveramento delle sue parole. Da allora il numero dei
cristiani iracheni è sceso da quasi un milione e mezzo a circa 450.000. La grande
maggioranza era concentrata a Bagdad. Ma poi sono emigrati all’estero, oppure scappati
qui, nella provincia di Ninive, a sud delle regioni autonome curde, presso Mosul e la fitta
rete di villaggi agricoli attorno a Karakosh. Si calcola che nell’area siano oggi circa
200.000. A Mosul da tempo subiscono gravi attacchi: erano 130.000 nel 2003, scesi a
10.000 un anno fa, pare precipitati a meno di 2.000 da lunedì scorso. E sta qui un altro
aspetto tragico della loro fuga nell’ultima settimana. «Siamo diventati profughi due volte.
Prima da Bagdad e adesso da Mosul», spiega il 61enne Imad Al Din Eliah, docente
all’università regionale, che da due giorni ha affittato una casetta a Karmless. «A ben
vedere, anche i jihadisti più fanatici adesso cercano di rassicurarci. Ci spiegano che loro
combattono contro i soldati sciiti del presidente Nouri al Maliki, che non hanno nulla contro
i cristiani. Addirittura hanno posto servizi di guardie alle basiliche di Mosul. Ma chi ci
assicura che non cambieranno? In passato hanno ucciso sacerdoti, minacciato le
ragazze». Sua figlia Samah, una timida 25enne impiegata alla municipalità di Mosul, è
molto più determinata: «Sino a qualche giorno fa ero certa che sarei morta qui, dove sono
nata. Ma quel che è troppo è troppo. Questi fanatici islamici rappresentano un pericolo
totale. Mi fanno sentire straniera in casa mia. Non penso più che alcuna ragazza cristiana
possa avere futuro in un Paese dominato dallo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, o dai
suoi simili».
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Mentre parla il padre riesce a far ripartire il generatore (nella zona elettricità ed acqua
arrivano a singhiozzo) e il canale della tv curda diffonde le ultime notizie. Ad una
cinquantina di chilometri da Karakosh la guerriglia sunnita ha conquistato l’ennesima città:
è Tal Afar, centro vitale per il controllo della provinciale che da Mosul porta al confine con
la Siria e tra i cui 200.000 abitanti si contano numerosi sciiti. Sono paventati massacri.
L’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani, Navi Pillay, ha confermato ieri le notizie di
centinaia di esecuzioni sommarie di civili sciiti che «quasi certamente costituiscono crimini
di guerra». Per contro, il regime trasmette video dei raid aerei contro posizioni sunnite a
Tikrit e ad ovest della capitale. I centri di reclutamento di Maliki segnalano lunghe code di
volontari, specie nelle città sciite del sud, a Bassora, Karbala e Najaf. A Karakosh i
comandi curdi hanno spostato altri mille peshmerga a sorvegliare la rete di stradine
conducenti a Tal Afar.
Del 17/06/2014, pag. 11
Iraq, cade un’altra città
La crisi avvicina Usa e Iran
I jihadisti a Tal Afar, vicina al confine siriano
Il Pentagono non esclude attacchi aerei con i droni
Via libera a colloqui tra Washington e Teheran
Tal Afar, città nord-irachena vicino al confine con la Siria, è caduta in mano ai guerriglieri
dello Stato Islamico di Iraq e Levante, diventando la terza importante preda, dopo Mosul e
Tikrit, nell’offensiva scatenata la settimana scorsa dai seguaci di Abu Bakr al-Baghdadi.
L’attacco è iniziato domenica con un martellante bombardamento a colpi di mortaio, che
ha spianato la via all’irruzione di ieri pomeriggio. Le bande qaediste sono penetrate nelle
strade di Tal Afar a bordo di pick-up, facendosi largo a raffiche di mitragliatrice. Testimoni
descrivono la fuga di migliaia di abitanti terrorizzati. «Vanno verso le aree controllate dai
peshmerga», racconta Hadir al-Abadi, mentre si prepara anche lui alla fuga insieme alla
famiglia. I peshmerga sono le unità armate dell’ormai semi-indipendente Kurdistan
iracheno, che in questi giorni cercano con molta più disciplina rispetto all’esercito
nazionale di arginare l’avanzata degli integralisti sunniti, e hanno già evitato che finisse
sotto il loro controllo la città petrolifera di Kirkuk. Tal Afar ha una popolazione mista di
sunniti e sciiti, oltre a una forte presenza di turkmeni. Ma in questa fase la sua conquista
da parte dello Stato Islamico di Iraq e Levante conta perché ora l’organizzazione è
padrona di un centro urbano collocato esattamente a mezza via tra le due aree in cui essa
è militarmente attiva: il nord dell’Iraq e l’area orientale della Siria. La resa di Tal Afar
aggiunge al quadro strategico un ulteriore drammatico elemento di instabilità. Che segue
la presa di Mosul, condotta con fulminea rapidità nonostante sia la seconda città del
Paese per numero di abitanti, e la capitolazione di Tikrit, ex-roccaforte saddamita, che
aveva suscitato allarme sia per la relativa vicinanza a Baghdad sia perché frutto di una
probabile intesa fra gli integralisti e le tribù sunnite locali nel nome dell’odio verso il
governo dello sciita Al Maliki. Agli improvvisi e imprevisti sconvolgimenti militari si
accompagnano manovre diplomatiche sino a pochi giorni fa, quasi impensabili. Oggi
vediamo gli Stati Uniti cercare un alleato nell’Iran pur di sventare la minaccia
dell’eversione integralista sunnita in Iraq. Il segretario di Stato John Kerry afferma che
Washington è «aperta alla discussione» con Teheran, se gli iraniani possono aiutare a
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mettere fine alle violenze. Il Pentagono respinge per ora un’azione militare coordinata con
il regime degli ayatollah. Da oltre 30 anni c’è un muro di sospetto e ostilità, i due Stati non
hanno relazioni diplomatiche normali. Nei momenti di particolare tensione Teheran ha
definito gli Usa il «grande Satana », ricevendo in cambio da parte americana l'iscrizione al
cosiddetto «asse del male».Ma ieri Kerry a chi gli chiedeva se fosse possibile una
collaborazione militare, ha risposto che «nessuna ipotesi costruttiva sarà scartata». La
musica è cambiata l’anno scorso con l’elezione del moderato Rohani alla presidenza
iraniana e l’avvio di un cauto dialogo soprattutto sui piani nucleari di Teheran che
l’Occidente teme abbiano scopi militari. Ora si profila un salto di qualità di portata enorme.
Kerry da un lato sostiene che i contatti con Teheran andranno avanti «passo dopo passo».
Rohani da parte sua si dice pronto, anche se aspetta che a fare la prima mossa siano gli
Stati Uniti. Con ogni probabilità di tutto ciò le due parti stanno parlando in queste ore a
Vienna, in margine al nuovo round di negoziati sul programma atomico iraniano, iniziato
ieri. Usa e Iran sono entrambi alleati di Baghdad. Sinora le ragioni del loro sostegno erano
diverse. Teheran puntava sulla debolezza dell’assetto istituzionale iracheno per estendere
la sua influenza oltre frontiera, giocando sull’appartenenza di entrambe le élites dirigenti al
ramo sciita dell’Islam. Washington cercava nel nuovo Stato cresciuto a fatica sulle rovine
della dittatura baathista una base per non lasciarsi sfuggire il controllo di un’area di
fondamentale rilievo strategico ed economico. Ora l’interesse nazionale dell’uno e
dell’altro governo trova un punto d’incontro nell’urgenza di scongiurare il tracollo del
comune amico al-Maliki. Intanto Barack Obama, pur escludendo l’invio di truppe di terra,
definisce «un’opzione» il ricorso a raid aerei - si parla di droni. Anonimi funzionari
dell’amministrazione ipotizzano che vengano prese di mira sia le linee avanzate, più vicino
a Baghdad, sia la retroguardia presso il confine siriano. Nelle acque del Golfo già
stazionano la portaerei George HW Bush e due navi da guerra. Ma Kerry ha sottolineato
ancora una volta ieri che l’assistenza bellica da sola non basterà, se Maliki non prenderà
iniziative politiche per includere la componente etnica sunnita nel governo. Da anni
l’esecutivo da lui guidato viene criticato dai partiti di marca sunnita per la parzialità delle
scelte amministrative a vantaggio della maggioranza sciita. Il partito del premier ha vinto
nuovamente le elezioni in aprile ma non è ancora riuscito a dar vita a un esecutivo di
coalizione.
Del 17/06/2014, pag. 1-9
Iraq, è in corso una catastrofe di prima
grandezza per l’umanità
Gian Paolo Calchi Novati
SE tutto è cominciato quell’11 settembre del 2001, il bilancio della reazione di ciò che
comunemente si chiama comunità internazionale è una catastrofe di prima grandezza per
l’umanità intera. Gli ultimi detriti della deriva sono i tremendi avvenimenti di questi giorni
fra Mosul, Baghdad e il confine siro-iracheno.
All’origine di una crisi di queste proporzioni ci sono ovviamente responsabilità multiple. Ma
l’egemonia implica con gli onori anche gli oneri. Nell’ultimo discorso di strategia internazionale, pronunciato davanti ai cadetti dell’Accademia militare di West Point il 28 maggio, il
presidente degli Stati uniti Barack Obama ha ricordato il merito di aver sloggiato Al Qaeda
dall’Afghanistan ma ha dovuto ammettere che il terrorismo jihadista è dilagato in tutto il
mondo dalla Siria alla Nigeria, alla Somalia, allo Yemen, al Mali e altrove (in Iraq appunto).
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«Noi», ha detto Obama, «abbiamo bisogno di alleati che combattano i terroristi accanto
a noi». Allo scopo ha chiesto al Congresso di stanziare 5 miliardi di dollari per finanziare
un Counterterrorism Partnership Fund destinato ad armare e addestrare. Non proprio un
passo verso un futuro diverso. Il presidente americano è stato elusivo su eventuali forniture militari ai ribelli siriani ma oggi si trova addirittura davanti al bivio se dare le armi agli
insorti o al regime di Assad, il vero bersaglio dell’Isil (lo Stato islamico dell’Iraq e del
Levante o della Siria), che ha trovato in Siria risorse economiche, armi, combattenti e una
base operativa. L’obiettivo dichiarato dell’offensiva militare contro Saddam decisa a freddo
nel 2003 da Bush e Blair (fra i tanti aspetti tragicomici della congiuntura europea mancava
solo l’idea di elevare l’ex–premier britannico a capo della Commissione di Bruxelles) era di
ridimensionare il peso dell’Iraq nel Grande Medio Oriente. Un passo necessario per il successo del progetto di acquisire l’area all’influenza americana attraverso la famosa esportazione della democrazia. Con la guerra in Iraq vennero distrutti in un colpo solo il regime, il
partito dominante, l’esercito, lo stato e la società.
L’unico fattore che si è dimostrato più forte della grande armata di coalizione è la posizione «centrale» nella regione dell’Iraq, che è anche al quarto posto nel mondo per riserve
di petrolio. Ora Obama prende di mira con durezza le cattive pratiche del capo del governo
iracheno per dare un senso al compito che lui, già oppositore della guerra dagli scranni del
Senato, si è assunto una volta insediato alla Casa Bianca, proponendosi di celebrare il
ritiro delle truppe dall’Iraq almeno con un mezzo successo per l’America dopo tanti sacrifici
e tante ignominie. Il vituperato Nouri al-Maliki si è trovato in effetti a gestire una situazione
fuori portata per i mezzi di un Iraq in piena tormenta: troppo facile giustificare tutto con le
sue tentazioni autoritarie e le discriminazioni nei confronti di tutti i rivali.
La contesa settaria è una costante in Iraq. Il regime di Saddam ne era parte integrante
e Maliki ha solo rovesciato i rapporti di forza. Frutto della contrapposizione fra fedi e culture diverse, il settarismo è sfruttato ampiamente a fini propri sia dalle élites locali che
dalle forze esterne. Dopo lo smantellamento dell’apparato messo in piedi dalla componente sunnita raccolta nel Baath, sono saltate le difese e le mediazioni.
La maggioranza sciita, tradizionalmente emarginata o perseguitata, ha visto davanti a sé
l’occasione da non perdere. Non era difficile capire che ciò avrebbe costituito un’occasione
anche per l’Iran, nemico di Saddam e dal 1979 arcinemico degli Stati Uniti. Si basa su
questo passaggio – complicità occulta fra Washington e Teheran o eterogenesi dei fini – la
lettura «complottista» della storia del Medio Oriente di questi ultimi anni, fatta di alcuni
buoni argomenti e molte forzature. È probabile che il disfacimento in cantoni comunitari
dell’Iraq, e della stessa Siria, fosse una variabile guardata con favore da molti degli attori
dentro il Big Game. Nessuno avrebbe immaginato però lo spettro del Nuovo Califfato che
l’Isis vorrebbe costruire a cavallo di Iraq e Siria, unendo idealmente contro l’eterodossia
sciita i due stati territoriali che hanno ospitato le capitali dei due califfati storici.
La frammentazione strisciante dell’Iraq è in corso dallo sconquasso del 2003. Una «linea
verde» corre persino dentro Baghdad. Il governo sciita ha dovuto giostrarsi fra l’appoggio
cercato o imposto, e comunque inevitabile, dell’Iran, senza essere completamente assimilato dal regime e dal modello degli ayatollah e la necessità di farsi coprire per un verso
dall’Arabia Saudita e per un altro dalla Turchia, l’una e l’altra a maggioranza sunnita. Il
solo rimedio sarebbe una forma di neutralità multifunzionale, ma essa è quasi impossibile
dopo lo scoppio della guerra in Siria che impegna un po’ tutti. Riad ha inviato il suo primo
ambasciatore (viaggiante) a Baghad dopo anni di vacanza solo nel 2012. Ankara è il protettore non dichiarato della semi-autonomia di cui gode il Curdistan iracheno, oggetto di
cure e di freni per non eccitare il separatismo dei curdi della Turchia.
La grande politica può ben dire di aver semplificato i suoi orizzonti e i suoi strumenti. È difficile tuttavia scambiare la monotona alternativa fra impotenza e guerra a seconda
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dell’utilità relativa dei Grandi per un progresso. Se l’unico metro di giudizio è rappresentato
dai «nostri interessi» (our interests), i diritti e le sofferenze delle nazioni, dei popoli e delle
persone restano alla mercé dei violenti senza differenza fra Bene e Male.
Del 17/06/2014, pag. 9
Iraq, battaglia decisiva per la spartizione
Iraq. Una svolta la conquista della città di confine Tal Afar. Così l’Isil
spacca il Paese in tre: qaedisti sunniti a nord ovest e nord est, curdi a
nord e governo iracheno a sud
Chiara Cruciati
LA battaglia per il controllo dell’Iraq si sposta a Nord: ieri lo Stato Islamico dell’Iraq e del
Levante e le truppe governative sono state protagoniste di duri scontri per il controllo della
città sciita e turkmena di Tal Afar, nella provincia di Ninawa, tra Mosul — già occupata
dagli islamisti — e il confine con la Siria. Abdulal Abbas, ufficiale locale, ha raccontato di
«martiri, feriti, caos e rifugiati»: la città, sebbene i generali iracheni lo neghino, sarebbe
caduta sotto il controllo qaedista e, mentre l’aviazione irachena bombarda dall’alto, sarebbero già decine di migliaia i civili in fuga.
La conquista islamista di Tal Afar potrebbe segnare una svolta: corridoio strategico, permetterebbe all’Isil di radicare la propria presenza nelle 4 province a nord (Ninawa, Salaha-Din, Anbar e Diyala) e spaccherebbe il paese in tre: curdi a nord, qaedisti sunniti a nord
ovest e nord est e autorità irachene a sud. Questo lo scenario finale dell’Iraq postSaddam? Un paese difficilmente ricompattabile, con ciò che resta dello Stato iracheno
arroccato a difesa di Baghdad (da giorni teatro di attentati). Nelle ultime ore, il governo iracheno avrebbe riassunto il controllo di Al Ishaqi, al-Mutasin e Al Dhuluiya, provincia di
Salah-a-din, fa sapere il governatore Abid Kalaf, che ha riportato di accordi tra Baghdad
e le milizie tribali. E mentre l’esecutivo è impegnato nel reclutamento di civili sciiti nelle file
delle forze di sicurezza, l’esercito è allo sbando. A monte la decisione degli Usa di smantellare il sistema militare iracheno nell’obiettivo di ripulirlo da baathisti e fedeli di Saddam
Hussein. Oggi quello che resta dell’esercito è target dei qaedisti: video online mostrano
macabre immagini di esecuzioni; sarebbero 1.700 i soldati uccisi in una settimana.
A rafforzarsi sul campo non è solo la presenza qaedista, foraggiata dal denaro del Golfo
e dalla guerra civile siriana, ma anche la regione autonoma del Kurdistan, da decenni
impegnata in un braccio di ferro con Baghdad. Grazie all’intervento armato dei peshmerga,
i curdi stanno assumendo il controllo delle aree più ricche di petrolio, Kirkuk in testa. Gli
islamisti non sembrano voler intervenire – c’è chi parla di accordi segreti tra le due compagini per la divisione del nord Iraq – e il Kurdistan ne approfitta per proseguire nella terza
vendita di greggio senza il beneplacito di Baghdad: il cargo partirà tra una settimana, direzione Turchia, alleato dell’ultima ora dei curdi iracheni. Sul piano politico, dopo la storica
apertura del presidente iraniano Rowhani, funzionari Usa hanno parlato dell’intenzione di
Obama di utilizzare il dialogo sul nucleare –lunedì prossimo a Vienna — per trattare un
possibile intervento congiunto. Ieri il segretario di Stato Kerry si è detto pronto a discutere
con l’Iran e ha aggiunto che l’utilizzo dei droni «potrebbe essere una buona opzione».
L’Iran si sta già muovendo – seppur non siano confermate le voci sulla presenza di
2milapasdaran in territorio iracheno – e in un simile scenario l’apertura degli Usa è volta
non solo a ricacciare indietro i qaedisti (che operano invece in Siria pressoché indistur-
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bati), ma anche a controllare Teheran, nel timore che un suo intervento nella crisi possa
tradursi nella trasformazione di Baghdad in uno Stato satellite iraniano.
La tensione monta a ritmi incontrollabili: «instabilità crescente», così la portavoce del
Dipartimento di Stato Usa, Jen Psaki, ha definito ieri la situazione irachena. Un modo per
descrivere una guerra civile in fieri in un Iraq devastato dall’occupazione statunitense
e lasciato in preda ai propri settarismi interni. E se oggi il presidente Obama e Hillary Clinton puntano il dito contro il figlioccio Maliki, sarebbe bene che ricordassero chi impose nel
2006 lo sciita come premier. Al suo terzo mandato, rinnovato solo poche settimane fa,
Maliki ha lavorato negli ultimi otto anni con l’obiettivo di centralizzare ulteriormente il
potere guadagnato, forte del sostegno di Washington e di una rete clientelare e nepotista
che ha tagliato fuori le istanze politiche ed economiche della comunità sunnita, relegando
in un angolo le reali necessità di un paese che doveva ricostruire le proprie basi istituzionali, infrastrutturali e socio-economiche.
Del 17/06/2014, pag. 14
RUBRICHE
La balcanizzazione dell’Iraq
Manlio Dinucci
Se fosse vero quanto stanno raccontando a Washington, che gli Stati uniti sono stati colti
di sorpresa dall’offensiva irachena dei jihadisti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante
(Isis), il presidente Barack Obama dovrebbe destituire immediatamente i vertici della
Comunità di intelligence, formata dalla Cia e da molte altre agenzie federali che spiano
e conducono operazioni americane segrete su scala globale.
Sicuramente essi sono stati invece lodati, in privato, dal presidente. L’Isis è infatti funzionale alla strategia statunitense di demolizione degli stati attraverso la guerra coperta.
Diversi suoi capi provengono dalle formazioni islamiche libiche che, prima classificate
come terroriste, sono state armate, addestrate e finanziate dai servizi segreti statunitensi
per rovesciare Gheddafi.
Lo conferma l’Isis stesso, commemorando due suoi comandanti libici: Abu Abdullah al Libi,
che ha combattuto in Libia prima di essere ucciso da un gruppo rivale in Siria il 22 settembre 2013; Abu Dajana che, dopo aver combattutto anche lui in Libia, è stato ucciso l’8 febbraio 2014 in Siria in uno scontro con un gruppo di Al Qaeda, prima suo alleato. Quando
è iniziata la guerra coperta per abbattere il presidente Assad, molti militanti sono passati
dalla Libia alla Siria, unendosi a quelli, in maggioranza non-siriani, provenienti da Afghanistan, Bosnia, Cecenia e altri paesi. L’Isis ha costruito gran parte della sua forza proprio in
Siria, dove i «ribelli», infiltrati da Turchia e Giordania, sono stati riforniti di armi, provenienti
anche dalla Croazia, attraverso una rete organizzata dalla Cia (la cui esistenza è stata
documentata anche da un’inchiesta del New York Times il 26 marzo 2013).
È possibile che la Cia e le altre agenzie statunitensi – dotate di una fitta rete di spie, di efficienti droni e satelliti militari – fossero all’oscuro che l’Isis preparava una massiccia offensiva contro Baghdad, preannunciata da una serie di attentati? Evidentemente no. Perché
allora Washington non ha lanciato l’allarme prima che essa iniziasse? Perché il suo obiettivo strategico non è la difesa, ma il controllo dello stato iracheno.
Dopo aver speso nella seconda guerra in Iraq oltre 800 miliardi di dollari per le operazioni
militari, che salgono a 3mila miliardi considerando tutti i costi compresi quelli sanitari, gli
Stati uniti vedono ora la Cina sempre più presente in Iraq: essa compra circa la metà della
sua produzione petrolifera, fortemente aumentata, ed effettua grossi investimenti nella sua
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industria estrattiva. Non solo. In febbraio, durante la visita del ministro degli esteri Wang Yi
a Baghdad, i due governi hanno firmato accordi che prevedono anche forniture militari da
parte della Cina. In maggio il premier iracheno Nouri al-Maliki ha partecipato, a Shanghai,
alla Conferenza sulle misure di interazione e rafforzamento della fiducia in Asia, insieme
a Hassan Rouhani, presidente dell’Iran. Paese con cui il governo al-Maliki ha firmato lo
scorso novembre un accordo che, sfidando l’embargo voluto da Washington, prevede
l’acquisto di armi iraniane per l’ammontare di 195 milioni di dollari. Su questo sfondo si colloca l’offensiva dell’Isis, che incendia l’Iraq trovando materia infiammabile nella rivalità
sunniti-sciiti acuita dalla politica di al-Maliki.
Ciò permette agli Stati uniti di rilanciare la loro strategia per il controllo dell’Iraq. In tale
quadro non va perso di vista il piano, fatto passare al Senato nel 2007 dall’attuale vicepresidente Joe Biden, che prevede «il decentramento dell’Iraq in tre regioni semi-autonome:
curda, sunnita e sciita», con un «limitato governo centrale a Baghdad».
Del 17/06/2014, pag. 11
Strage di Al Shabab in Kenya: «Stranieri
andatevene»
Attaccata una città costiera durante la partita dei Mondiali: l’assalto
durato cinque ore
Un attacco in grande stile, un’azione di guerra di fatto incontrastata. Miliziani somali hanno
fanno irruzione sparando all’impazzata nei locali della città costiera di Mpeketoni, in
Kenya. Secondo la Croce Rossa kenyana, l’attacco è durato diverse ore. All’alba la
situazione a Mpeketoni si era calmata e qualche ora più tardi è arrivata la rivendicazione
delle milizie somale di Al Shabab che hanno minacciato turisti e stranieri, intimando di
stare alla larga dal Paese diventato «zona di guerra». Sul terreno sono rimasti 48 corpi. E
gli inevitabili interrogativi sull’incapacità delle forze di sicurezza di fermare la carneficina
andata avanti per almeno cinque ore. Il ministero dell’Interno kenyano ha fatto sapere che
poco dopo le 20 di domenica sera tre furgoncini con i militanti sono entrati in città. «Erano
armati fino ai denti: erano circa 50 assalitori, pesantemente armati su tre veicoli, e
sventolavano la bandiera degli Shabab. Urlavano in somalo “Allah Akbar” (Dio è grande)»,
ha fatto sapere il vice commissario del distretto, Benson Maisori. Il comandante della
polizia kenyana, David Kimaiyo, ha riferito che gli assalitori hanno sparato con armi
automatiche, dato fuoco a due alberghi, ristoranti, strutture governative, e attaccato la
stazione di polizia e una banca. Un altro ufficiale ha riferito che gli assalitori si sono poi
diretti nel Breeze View Hotel, dove i residenti stavano guardando la partita dei Mondiali di
calcio. I militanti hanno separato gli uomini dalle donne, ordinando a queste ultime di
guardare mentre uccidevano i maschi. Gli insorti, ha riferito il poliziotto, hanno detto alle
donne che è la stessa cosa che soldati kenyani fanno in Somalia. I miliziani sono poi
passati di casa in casa. Gli assalitori, hanno riferito testimoni, hanno sottoposto i residenti
a domande su religione e lingua: sparavano a coloro che non erano musulmani o non
parlavano il somalo. La stessa cosa era avvenuta quando i militanti di Al Shabab
attaccarono l’anno scorso il centro commerciale Westgate a Nairobi, uccidendo 67
persone. Anne Gathigi, un’abitante di Mpeketoni, ha raccontato che alcuni assalitori le
sono entrati in casa e hanno ucciso suo marito dopo che l’uomo gli ha detto che la famiglia
è cristiana. Un altro residente della città, John Waweru, ha detto che i suoi due fratelli
sono stati uccisi perché ai militanti non piaceva che gli uomini non parlassero somalo.
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Secondo il sito del quotidiano locale Standard, i miliziani hanno rubato anche alcune armi
e diversi mezzi dalla stazione di polizia. Il capo della polizia locale, Hamaton Mwaliko, ha
detto a Reuters che gli uomini armati hanno compiuto l’attacco usando furgoni rubati nella
vicina città di Witu. Dopo le violenze, il gruppo è fuggito a bordo degli stessi veicoli,
sparando in aria e cantando slogan in somalo. In totale, durante il raid sono stati distrutti o
dati alle fiamme una ventina di edifici e una ventina di autovetture. Il bilancio di sangue,
già pesantissimo, potrebbe aggravarsi secondo un poliziotto sul posto perché «continuano
le ricerche di altri corpi». Tra le vittime, anche alcuni poliziotti che hanno tentato invano di
contrastare l’assalto degli uomini armati. Non ci sono notizie di vittime straniere. A
Mpeketoni il turismo è per lo più locale e ci sono pochi visitatori stranieri, anche se la
località costiera non è lontana dalla popolare isola di Lamu e dal confine con la Somalia.
«La sicurezza è stata rafforzata in tutto il Paese », ha detto il ministro dell’Interno Joseph
Ole Lenku, soprattutto nelle ore in cui si giocano le partite della Coppa del mondo. Il
Centro per la gestione dei disastri nazionali ha annunciato che sono stati dispiegati aerei
per la sorveglianza del confine con la Somalia.
LA RIVENDICAZIONE Al Shabab ha scritto in un comunicato che l’aggressione è stata
una vendetta per la «brutale oppressione del governo del Kenya contro i musulmani e
contro l’intimidazione e le uccisioni di studenti musulmani». Il gruppo ha condannato la
«continua invasione e occupazione delle nostre terre da parte dell’esercito» di Nairobi. «Ai
turisti che visitano il Kenya diciamo: il Paese ora è ufficialmente una zona di guerra e
visitandolo sareste in pericolo», ha aggiunto. «State lontani dal Kenya o pagherete le
conseguenze della vostra follia. Siete avvertiti».
Del 17/06/2014, pag. 8
Abdullah e Ghani al ballottaggio tra
promesse, favori e nervosismi
Afghanistan. Il 2 luglio le prime proiezioni e il 22 i risultati finali
ufficiali
Emanuele Giordana
Lontani dagli occhi e soprattutto dal cuore di un pianeta che per più di dieci anni ha
seguito le peripezie di un Paese ormai entrato nella categoria dell’oblio, 7 milioni di afgani
sono andati sabato a votare al secondo turno delle presidenziali per scegliere chi sostituirà
l’inossidabile Hamid Karzai, giunto forse al termine della sua perigliosa avventura politica.
La capitale appariva più deserta che in un giorno di festa: vietata la circolazione, negozi
serrati e, sorprendentemente, una corsa di primo mattino alle urne per intingere l’indice
nell’inchiostro indelebile e firmare così la scheda. «Per le presidenziali non c’è un limite di
seggio – spiega Timur, uno dei protagonisti della scena culturale locale – e quindi, per evitare lunghe code, tutti di buon’ora sono andati al seggio più vicino». Le notizie
sull’affluenza restano vaghe: chi dice che era fisiologicamente inferiore al primo turno, chi
sostiene un pareggio, chi azzarda un sorpasso di quel 60% che aveva fatto del voto di
aprile un primo successo con tanto di indice esibito per dire: «L’ho fatto».
Si dovrà attendere il 2 luglio per le prime proiezioni e il 22 – se non più in là – per sapere
se la sfida è stata vinta dal medico di Ahmad Shah Massud, Abdullah Abdullah, o dal raffinato Ashraf Ghani, un passato di buone letture e una permanenza alla Banca mondiale.
Le ipotesi si sprecano. Non mi dice per chi ha votato la giovane Sahar, certo è che «al
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primo turno ho scelto Abdullah perché, anche se rifiuto le divisioni etniche, mi pareva giusto che per una volta il potere passasse dai soliti pashtun ai tagichi». Ghani è convincente
e meno nervoso di Abdullah che, quasi certo della vittoria, ora mostra segni di irrequietezza. Lo dimostra la sua richiesta di far fuori Zia-ul Haq Amarkhel, primo segretario alla
Commissione elettorale (Iec) retta da Ahmad Nuristani che ha subito respinto al mittente le
accuse di frode mosse dal candidato di quella che era l’Alleanza del Nord, che diede manforte agli americani nell’invasione del 2001.
Alla Commissione che vaglia le rimostranze (Ecc) sono già arrivate oltre 550 contesta
zioni. Si vedrà, un lungo lavoro per dimostrare – agli afgani e alla comunità internazionale
– che questa volta le elezioni sono state una cosa seria. Vero, non vero? Un analista
locale sogghigna: «Ricordate le percentuali di Rassoul (ex ministro di Karzai e suo
«cavallo» elettorale) al primo turno? Di quell’11%, almeno il 5% eran voti fraudolenti. Il che
dimostra che Karzai gode di un consenso del 6%». Vero e non vero, molti si chiedono
cosa farà Karzai, vinca uno o vinca l’altro. Ahmad Joyenda, ex parlamentare e ascoltato
analista politico è sicuro: «L’epoca di Karzai è chiusa». I maligni dicono che l’appoggio
a Ghani si volesse barattare con la chiusura del dossier Kabul Bank (scandalo finanziario
che ha coinvolto uno dei fratelli del presidente) e lo scranno della Camera di commercio.
Ashraf avrebbe detto no.
Abdullah, chissà, forse è stato più propenso a promettere «come ha fatto con altre centi
naia di persone cui ha ventilato un posto al sole», chiosa un afgano ben introdotto nelle
cose di palazzo. Ashraf Ghani nervosismo non ne mostra. Abile nel passare da un abito
all’altro, incarna meglio la possibilità di un cambio di passo: «Se vince– aggiunge Joyenda
— sceglierà dei professionisti. E farà subito tre cose: metterà mano al Bsa (l’accordo di
partenariato strategico con gli Usa che Karzai non ha firmato ndr) e studierà come negoziare coi talebani, scegliendo un afgano rispettato che sia però percepito come super partes. Infine l’economia.
Può farcela anche perché Ghani piace a voi occidentali. Piace a chi chiede trasparenza».
Chiunque vinca dovrà pagare dazio a diversi convitati. Abdullah ha come vicepresidente
Mohaqeq, mullah oltranzista con un passato funesto durante la guerra civile. Poi ci sono i
«suoi» del Nord e Sayyaf, altro mullah con passato insanguinato, che potrebbe avergli
passato il 7% dei voti al primo turno. E Ghani? Con lui c’è il generale Dostum, che quanto
a record criminali durante la guerra è uno dei più quotati anche se si è pubblicamente scusato. C’è anche un dazio «buono» da pagare ai secolaristi, agli ex comunisti, alla sinistra.
Che ha scelto Ghani anche se ufficialmente non si può dire.
Del 17/06/2014, pag. 8
Sequestro israeliani. Hebron circondata,
ucciso un ragazzo palestinese a Jalazon
Israele/Territori Occupati. Israele minaccia di deportare a Gaza tutti i
leader di Hamas che Netanyahu considera responsabile del rapimento
dei tre adolescenti. Abu Mazen condanna il sequestro ma denuncia le
punizioni collettive attuate dall'esercito israeliano nei centri abitati
palestinesi
Michele Giorgio
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Non si scorgono mezzi corazzati e armi pesanti in movimento ma percorrendo la superstrada che dalla colonia di Gilo (Gerusalemme) arriva fino a Hebron si ha comunque
l’impressione di andare al fronte. Ovunque, a piedi o a bordo delle jeep blindate, ci sono
soldati israeliani con l’equipaggiamento da combattimento. E i posti di blocco militari sigillano gli ingressi di molti centri abitati palestinesi. Senza l’accredito stampa e una targa
gialla sull’auto è difficile arrivare a Hebron. Nella città e nei villaggi vicini, verso le colline
della Cisgiordania meridionale si concentrano le ricerche dei tre adolescenti israeliani
scomparsi giovedì sera nei pressi del blocco di colonie di Etzion. L’Esercito israeliano usa
il pugno di ferro. Nella zona H1 di Hebron, che pure è formalmente sotto il controllo
dell’Autorità nazionale palestinese, da venerdì non si cessano i raid nelle abitazioni, seguiti
quasi sempre da scontri tra i soldati e gruppi di giovani palestinesi, come ieri a Bab
Zawiye. Scene che si ripetono in altre zone della Cisgiordania e, ieri all’alba, Ammar Arafat, un giovane di 19 anni è stato ucciso da un colpo al petto sparato dai militari durante le
proteste divampate dopo i rastrellamenti nel campo profughi di Jalazon, non lontano da
Ramallah. «La situazione è grave – ci dice Isa Amro, noto attivista palestinese di Hebron –
i raid proseguono e i nostri giovani affrontano con i sassi i soldati israeliani nel tentativo di
fermarli. Temo il peggio da un momento all’altro». Negli ultimi quattro giorni a Hebron sono
state arrestate circa 150 persone, riferiscono i palestinesi, 40 dei quali solo nella notte tra
domenica e lunedì. Sabato in manette sono finiti anche i parenti stretti e le mogli di Amr
Abu Eisha e di Marwan Kawasme, i due militanti di Hamas dei quali non si sa più nulla da
giovedì e che l’intelligence israeliana considera coinvolti nel sequestro di tre adolescenti.
La moglie di Kawasme ieri è stata liberata mentre quella di Abu Eisha è sotto interrogatorio. Israele è certo che dietro al rapimento ci sia l’ala militare del movimento islamico
Hamas che, da parte sua, continua con forza a negare ogni coinvolgimento. Nelle ultime
72 ore l’esercito israeliano ha arrestato, di fatto, tutta la leadership islamista in Cisgiordania (oltre 80 persone), inclusi il presidente del parlamento Aziz Dweik e l’ideologo Hassan
Yusef. Il governo Netanyahu minaccia di deportarli tutti a Gaza. Minaccia anche di demolire le loro abitazioni e quelle di altri attivisti di movimento islamico. E ipotizza misure più
dure nei confronti dei detenuti di Hamas in carcere in Israele. Pressioni, dicono gli israeliani, per costringere i palestinesi a liberare i tre rapiti. Sul terreno però colpiscono l’intera
popolazione palestinese, manifestandosi come una punizione collettiva. Il premier Netanyahu, il ministro della difesa Yaalon e altri rappresentanti del governo ripetono che esercito e polizia hanno carta bianca per ritrovare i ragazzi spariti. E il ministro degli esteri Lieberman mette in chiaro che, in ogni caso, non ci sarà uno scambio di prigionieri. E proprio
dei detenuti politici parlano, e tanto, tutti i palestinesi. Con rabbia verso il resto del mondo
che, spiegano, ignora la condizione di migliaia di prigionieri politici e lo sciopero della fame
che oltre 200 detenuti stanno facendo da settimane contro il carcere senza processo praticato da Israele (la detenzione “amministrativa”). In un’intervista con l’agenzia Maan
l’autore satirico palestinese Ali Qaraqe ha chiesto «Cosa sono mai tre dispersi rispetto alle
migliaia di prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane? I prigionieri non hanno forse famiglie? E’ come se gli israeliani fossero umani e noi invece di un altro pianeta».
Cosa accadrà nei prossimi giorni? Se gli sviluppi del sequestro dei tre adolescenti saranno
drammatici, è prevedibile una pesante rappresaglia militare da parte di Israele. Ma
saranno importanti anche i riflessi politici, non solo nei rapporti tra Netanyahu e Abu
Mazen ma anche tra il presidente palestinese e Hamas. Messo nell’angolo dalla campagna mediatica e diplomatica lanciata dal governo israeliano, pressato dal Segretario di
stato John Kerry, Abu Mazen ieri per la prima volta da venerdì ha condannato il sequestro.
Parole che non pochi hanno interpretato come un indice puntato contro Hamas. Formato
ai primi di giugno, l’esecutivo palestinese di consenso nazionale, frutto dell’accordo di
riconciliazione Fatah-Hamas del 23 aprile, forse è già giunto al capolinea.
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Del 17/06/2014, pag. 12
A Gaza dove l’amore nasce anche su Skype
Intervista. La fotografa e il suo progetto «Occupied Pleasures»: «I media
propongono immagini standard dell’occupazione. Io volevo spiegare le
ragioni di una resistenza e stimolare una riflessione»
“I media propongono immagini standard dell’occupazione. Io volevo
spiegare le ragioni di una resistenza e stimolare una riflessione”
Linda Chiaramonte
Quando la leggerezza ha il sapore della libertà. Accade in Palestina, dove ogni semplice
gesto quotidiano, apparentemente comune, assume un valore più alto, come quello di ritagliarsi una fetta di normalità in un territorio difficile, duro, conteso. È su questo aspetto che
ha puntato il suo obiettivo la fotografa Tanya Habjouqa, nata in Giordania da padre di origini caucasiche e madre texana, vissuta fra la Giordania e gli Stati uniti finché nel 2009 si
è trasferita a Gerusalemme est dopo aver sposato un uomo palestinese.
Una formazione da antropologa e un master in global media e politica in Medio Oriente,
i suoi scatti ironici, quasi divertiti, colgono i piccoli piaceri che i palestinesi riescono a conquistarsi ogni giorno. Ciò che per noi è banale lì ha quasi un significato di rivalsa e sfida,
rappresenta una forma di resistenza pacifica e silenziosa.
Il progetto, dal titolo Occupied Pleasures, ha vinto il World Press Photo 2014 nella categoria Daily Life e ricevuto il Magnum Foundation 2013 Emergency Fund. Scorrendo le fotografie dai colori accesi, per la prima volta in mostra in Italia all’ARIA art gallery di Firenze
e ora allestita nell’ambito della rassegna FotoLeggendo presso l’Istituto superiore Antincendi di Roma (fino a fine giugno), vediamo in primo piano alcune studentesse nel campus
universitario lambito dal muro di separazione israeliano che si esercitano con la lancia. Il
gesto rimanda immediatamente alle pietre scagliate dai giovani contro i militari israeliani
durante l’Intifada. La cittadella universitaria, vicina a Gerusalemme est, soffre di continue
incursioni dell’esercito ed è molto politicizzato.
Fra i più belli e affollati, la sola area all’aperto è il campo sportivo che corre lungo il muro.
«Queste donne sembravano lottatrici, antiche amazzoni greche» dice la Habjouqa che
descrive con grande energia il suo lavoro «mi è piaciuto rimpiazzare l’immagine stereotipata della resistenza dei ragazzi che lanciano le pietre, il gesto è lo stesso. I media propongono spesso immagini standard senza inserirle nel contesto e spiegare le ragioni della
loro resistenza. Ho voluto uscire da quello schema per stimolare una riflessione, giocare con alcuni stereotipi per proporli in maniera diversa».
Nel campo di Kahn Younis, fra le zone più povere di Gaza, le acrobazie dei ragazzini della
squadra di parkour. Hanno sedici anni e nessun mezzo per promuoversi, fanno pratica in
un’area controllata.
Fra le storie preferite della Habjouqa il tentativo di ridare vita allo zoo di Gaza nonostante
le restrizioni «si usano i tunnel anche per trasportare cuccioli di alligatori, tutto passa attra
verso i sotterranei». Uno degli scatti più seri è il ritratto di una famiglia sfrattata «ho sentito
una responsabilità politica, non volevo si pensasse che stavo banalizzando l’occupazione
lanciando il messaggio che va tutto bene. Ho voluto occuparmi di questioni cruciali come
quella dei prigionieri palestinesi (ogni famiglia ha un membro in carcere) e delle demolizioni. Alle spalle c’è una delle aree in cui gli israeliani stanno occupando più terreno. Ho
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ritratto un operaio con le sue cinque bambine e i resti della casa, gli oggetti ammucchiati.
Ora vivono in una piccola stalla destinata all’asino e agli altri animali. Non ha altre possibilità. Dopo la demolizione ha piantato la bandiera palestinese per affermare che non
lascerà quel posto». È l’unica fotografia priva di umorismo. «Volevo includere nei miei
scatti anche Gerusalemme est, l’area più politicizzata, dove è molto difficile lavorare. Lì
regna uno stato di paranoia, non si accettano domande e fotografie. Vicino al check point
ci sono gli insediamenti dall’altra parte c’è Beit Hanina, lì alcuni artigiani di mobili aspettano i clienti seduti sulle loro poltrone fumando narghilè e bevendo caffè, sullo sfondo
hanno il muro. Vendono anche ai coloni vicini perché i prodotti sono meno costosi.
Durante l’ultima coppa del mondo a Betlemme il muro è stato usato come parete su cui
proiettare le partite, un modo creativo di convivere con una barriera di separazione».
Un’immagine forse più di altre l’ha ispirata: alcune donne che praticano yoga all’aperto
sulla collina di un villaggio vicino a Betlemme. «A Ramallah un centro di yoga è uscito
dalle palestre per andare nei campi profughi e nei villaggi. Ora a praticarlo sono anche
donne modeste di villaggi lontani dalla città. Le ho ritratte in una posizione che ricorda la
preghiera, mi hanno confessato di provare la stessa emozione. Il corso è molto affollato,
spesso si esercitano all’aperto, vicino alle rovine romane e ai coloni. Vogliono continuare,
è la loro forma di resistenza interiore». La difficile realtà di Gaza trova un piccolo spiraglio
di speranza nel mare, una madre e le sue due figlie lo osservano dalla spiaggia. «È l’unica
cosa che si possono permettere, non potendo uscire. Spesso gli studenti fanno gite in
barca esaltati dalla sola idea di navigare per un breve tratto. È il loro solo modo di uscire
da Gaza, la loro via di fuga». E proprio a Gaza la Habjouqa ha ritratto l’unica ragazzina
surfista, ha 14 anni e sa che presto per lei sarà ’inappropriato’ continuare.
«Da freelance nel 2009, quando ho lavorato alla serie sulle donne di Gaza, dopo l’orribile
operazione piombo fuso» spiega la fotografa «non potevo accedere a Gaza, sono riuscita
grazie al supporto di una Ong. In quel periodo i media raccontavano tutti le stesse storie
sui diritti delle donne sotto il controllo di Hamas. Avevo una grande responsabilità a lavorare con una popolazione traumatizzata dalla violenza. Ho scelto di raccontare un altro
aspetto. Ho incontrato una donna che attraverso i tunnel è andata incontro a quello che
poi è diventato suo marito, si sono innamorati su skype, i social media sono un’altra scappatoia. Il mare e internet sono le uniche evasioni. Il loro incontro è avvenuto nei tunnel, lei
indossava l’abito da sposa. Il marito mi ha confessato che nonostante l’occupazione troveranno sempre il modo di vivere. Questa storia è stata alla base del mio progetto. Nel 2013
documentando la Palestina non si poteva fare a meno di occuparsi dei prigionieri, delle
demolizioni e dell’economia attraverso i tunnel di Gaza. Ora i tunnel sono diventati una
realtà istituzionale, nel 2009 ci si scendeva con molte difficoltà, ora s’incontrano donne con
bouquet di fiori che salutano e dicono di andare in Egitto come se fosse la cosa più naturale. Nei miei scatti ho voluto mostrare anche la bellezza dei paesaggi palestinesi» continua la Habjouqa «molti parchi naturali sono controllati dagli israeliani, i palestinesi possono accedervi, ma ci sono ingressi e uscite diverse e molte tensioni con i coloni vicini».
Fra le immagini anche Banana Land, un parco di divertimenti a Gerico meta di molti rifugiati che vivono nei campi, unica opportunità per vedere una realtà tropicale. Oppure la
teleferica che sale fino alla montagna delle tentazioni citata nella Bibbia, rara infrastruttura
turistica palestinese e meta molto popolare.
Fra i volti ritratti anche quello di una giovane donna laureata, fidanzata a un uomo che vive
in Libia, «felice» (sic!) perché finalmente lascerà il paese. «Solo pochi anni fa nella società
palestinese le ragazze non si sposavano troppo giovani, ora per mancanza di opportunità
si tende a trovare un uomo per fuggire dalla realtà».
Sorprende un progetto che mostra i piaceri di un popolo oppresso, «c’è la convinzione che
si debba parlare solo di resistenza, sofferenza, battaglie, ma ritagliarsi dei piaceri quoti24
diani è già una forma di resistenza. Ho cercato storie diverse per spiegare l’occupazione,
spesso si rischia di essere attaccati per questo. Quando ho avuto il primo figlio questa
è diventata immediatamente la mia storia, ora ho il permesso di narrarla, mi appartiene.
Ho sempre presente la mia etica di giornalista e documentarista, ma sento che sono in
grado di andare un passo più in là nel raccontare. Come mi spiegava un’amica non si può
solo vivere sulle prime pagine dei giornali raccontando gli attacchi e le guerre a Gaza perché anche quando le famiglie rischiano la demolizione delle case devono sforzarsi di rendere la vita tollerabile per i loro figli, devono semplicemente vivere!».
del 17/06/14, pag. 17
Telefonata tra il premier israeliano e il leader Anp In bilico il governo
Fatah-Hamas, tensione altissima
Netanyahu ad Abu Mazen “Adesso dovete
aiutarci a trovare i ragazzi rapiti”
FABIO SCUTO
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
GERUSALEMME .
«Siamo nel pieno di un’operazione complessa che prenderà del tempo ». Così il premier
Benjamin Netanyahu ha riassunto ieri sera in tv gli sviluppi sul rapimento di Eyal, Gilad e
Naftali, i tre ragazzi scomparsi da giovedì sera mentre facevano l’autostop fuori di un
insediamento ebraico a poca distanza dalla città palestinese di Hebron. La città centro di
commerci per tutta la Cisgiordania è fortemente pattugliata, proseguono le perquisizioni
nelle case, le scaramucce fra soldati e gruppi di adolescenti ma anche le sparatorie,
assalti ad abitazioni sospette o possibili covi: magazzini abbandonati, cave in disuso,
cantine, scuole, case, negozi, caffè. Ma dei tre ragazzi ancora nessuna traccia.
Secondo lo Shin Bet, il servizio segreto interno di Israele, i ragazzi israeliani sono ancora
«nell’ambito della città». Militari e servizi segreti sperano di cavare qualche informazione
— magari involontaria — da qualcuno degli arrestati, siamo a quota 155 nelle ultime 48
ore. Esponenti in vista di Hamas — che Netanyahu ha accusato di essere dietro il
rapimento — sono finiti in manette a Hebron, a Jenin, Nablus e altri piccoli centri
palestinesi, fra loro dieci ex-deputati del movimento integralista.
Ieri, dopo due anni di silenzio, il primo ministro superati i toni duri del primo momento, ha
telefonato al presidente palestinese Abu Mazen. «Mi aspetto», gli ha detto il premier, «il
suo intervento per far tornare a casa i ragazzi rapiti e per catturare i rapitori». Il presidente
palestinese fin da sabato ha ordinato alla Preventive Security — i servizi segreti dell’Anp
— di collaborare con i colleghi israeliani per una rapida e positiva soluzione del caso. «I
rapitori di Hamas — ha sostenuto Netanyahu — sono partiti da aeree che si trovano
sotto controllo dell’Anp, e là sono rientrati». A questo Abu Mazen ha replicato che la strada
dove sono stati visti l’ultima volta i tre studenti «è sotto il completo controllo civile e militare
di Israele». Ma su una cosa certamente i due concordano: dietro il rapimento, nonostante
le smentite di rito da Gaza, ci sono uomini di Hamas. All’appello degli arrestati mancano
ancora sei-otto attivisti, scomparsi nel nulla — e forse già tornati nella clandestinità — che
potrebbero essere coinvolti nel rapimento.
In una lunga riunione ieri pomeriggio il premier, il ministro della Giustizia Tzipi Livni, il capo
della Difesa Moshe Yaalon e esperti di diritto internazionale hanno valutato la possibilità di
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espellere i dirigenti islamisti arrestati verso la Striscia. Una misura però che non avrebbe
trovato d’accordo i capi dei servizi segreti.
Anche il presidente Abu Mazen ieri ha riunito i suoi consiglieri e ministri. Il presidente
palestinese si è reso conto che la “riconciliazione” con Hamas è morta nel momento in cui
i ragazzi sono stati rapiti. I presenti alla riunione raccontano di un presidente amareggiato,
ha annunciato con toni duri che «Hamas pagherà un prezzo altissimo per questo
rapimento, al di là della massiccia operazione militare israeliana ».
Nella Striscia non si vede in giro un dirigente di Hamas da tre giorni. I “ministeri”, ossia gli
uffici del governo integralista sono vuoti, gli agenti della polizia la sera chiudono i
commissariati e vanno casa. Nessuno vuole essere il bersaglio di un raid mirato.
Ieri sera non c’era un posto libero nei ristoranti sulla spiaggia con il maxischermo
sintonizzato sul mondiale di calcio. Nessuno si è alzato nemmeno quando si è sentito l’eco
delle bombe di un raid aereo israeliano in risposta al lancio di un paio di missili. Ma se i tre
ragazzi della yeshiva “Mekor Haim” non torneranno presto a casa sani salvi a Gaza non ci
sarà più tempo per guardare il mondiale di calcio.
del 17/06/14, pag. 19
Guerra sul debito ucraino. Il colosso dell’energia Gazprom: d’ora in poi
solo forniture dietro pagamento anticipato Mosca: a rischio il flusso
verso l’Europa se Kiev “ruberà” dalle condutture nel suo territorio.
Ancora violenze nell’Est
La Russia taglia il gas. E la Ue trema
NICOLA LOMBARDOZZI
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
MOSCA .
L’antica collaudata minaccia di una imminente “guerra del gas” sembra l’unica possibilità
di sbloccare la sanguinosa crisi ucraina. Una crisi che Europa e Usa cominciavano, se non
a dimenticare, quantomeno a rubricare come routine. Ieri mattina, mentre come ogni
giorno infuriavano i combattimenti nella parte orientale del Paese, la Gazprom — il colosso
energetico russo — ha spaventato la Ue bloccando le forniture di gas destinate a Kiev e
adombrando la possibilità di un’interruzione totale dei flussi che alimentano il 15% delle
industrie e dei sistemi di riscaldamento europei. La decisione di Gazprom, minacciata da
settimane durante un’estenuante trattativa con gli ucraini sul prezzo, ha una sua
spiegazione logica: l’Ucraina non ha ancora pagato il suo debito di 5 miliardi di dollari,
pertanto la Russia ha deciso di fornire d’ora in poi solo il gas che verrà pagato in anticipo.
Ma perché l’Europa è a rischio? Perché, come avverte un minuzioso memorandum della
stessa Gazprom, l’Ucraina che dipende totalmente dall’energia che le arriva da Mosca,
potrebbe trovarsi in gravissime difficoltà già prima dell’autunno. E in quel caso, come ha
già fatto nel 2006 e nel 2009, potrebbe “rubare” il gas destinato all’Europa attraverso le
condutture
che passano dal suo territorio e che riforniscono Italia, Austria, Slovenia e Bulgaria. La
Naftogaz, la compagnia ucraina che gestisce le condutture, prova a rilasciare dichiarazioni
tranquillizzanti («i nostri serbatoi sono pieni») ma l’Europa non si fida. Il commissario Ue
all’Energia Guenther Oettinger teme che vi possano essere problemi già a inizio inverno.
L’unica strada sembra quella di riprendere al più presto una trattativa nella quale entrambe
le parti, per motivi diversi, sono sembrate decise alla rottura. L’Ucraina, per sollecitare alla
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Ue quegli aiuti promessi, fermi per ora a pochi spiccioli. La Russia, per coinvolgere
l’Occidente in quella che ritiene un’aggressione di Kiev alle minoranze russe dell’Ucraina
orientale. L’emergenza energetica sembra infatti risvegliare l’interesse e le preoccupazioni
internazionali per una guerra civile che si combatte senza soste ormai da due mesi. Il neo
eletto presidente ucraino Poroshenko parla di
un possibile cessate il fuoco nei prossimi giorni ma si ripromette prima di «mettere sotto
controllo » le frontiere con la Russia. Un proposito che non sembra realizzabile senza
un’ulteriore escalation del conflitto.
A peggiorare le cose ci si è messo il ministro degli Esteri ucraino Andriy Deshchytsia,
sorpreso a cantare a braccetto con i neonazisti di Pravj Sektor
che manifestavano davanti alla ambasciata russa: «Putin è una testa di c..». «Come si può
discutere con un personaggio simile? », commentava il suo omologo russo Sergej Lavrov.
Ma la chiave resta il gas. Il premier Medvedev indicava l’unica strada possibile: «Kiev
paghi i debiti e torniamo subito a discutere ».
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INTERNI
del 17/06/14, pag. 1/6
IL RETROSCENA
Il patto del Nazareno resta la via maestra
FRANCESCO BEI
AL MOMENTO «il “contratto” con Berlusconi resta in vigore ». Per Renzi è ancora quella
«la via maestra» per le riforme, nonostante l’improvvisa inversione a U dei 5Stelle. Certo,
complice anche il colloquio mattutino con il capo dello Stato, il premier non può chiudere la
porta a chi si offre di dialogare.
PER questo da palazzo Chigi filtra una valutazione di Renzi che non collima con quella
maggioritaria nel Pd. Nel senso che il presidente del Consiglio semmai proverà a
ingaggiare i grillini, senza considerare preventivamente «un bluff» o «un espediente per
uscire dall’angolo » la richiesta di un incontro sulla legge elettorale. Ma da qui a mollare
l’accordo con Forza Italia sull’Italicum ce ne corre.
Anzi, benché non ancora fissato, sembra che l’ora di un nuovo faccia a faccia con
Berlusconi stia per scoccare. Ci sono infatti alcune cose da mettere definitivamente a
punto, prima tra tutte il nuovo sistema di elezione/ designazione dei futuri senatori. Anna
Finocchiaro e Roberto Calderoli ci hanno lavorato, hanno buttato giù un ventaglio di
soluzioni possibili in vista dell’inizio delle votazioni in commissione. «Ferma restando
l’elezione di secondo grado — spiega il senatore renziano Andrea Marcucci — c’è da
parte del governo e del Pd un’ampia disponibilità a trovare la formula che raccolga la
maggiore adesione tra le forze politiche». Insomma, a Renzi basta che sia scritta la parola
«fine» sul Senato elettivo, i dettagli tecnici contano meno. «Però è giunta l’ora che
Berlusconi si decida», ammoniscono i renziani, forti dell’accordo con la Lega. In effetti,
trovata l’intesa con il Carroccio sul Titolo V e sostituiti i senatori recalcitranti della
maggioranza, Renzi oggi si gode «il clima mutato dopo aver spianato la strada in
commissione». Il patto con la Lega regge, a Vicenza lo stesso governatore Zaia l’ha
confermato al premier a margine dell’assemblea di Confindustria, ma anche per il
Carroccio molto dipende dall’atteggiamento di Berlusconi. Il problema è che il leader
forzista appare una sfinge impenetrabile da giorni, mentre i suoi spaziano tra i guastatori
che vorrebbero far saltare tutto e chi scommette su un ingresso di Forza Italia nella
maggioranza.
La gestione dell’incontro con i cinquestelle è comunque la partita più delicata. Renzi, come
anticipato ieri da Repubblica, non prenderà parte alla riunione che potrebbe tenersi la
prossima settimana, forse mercoledì. Il format è ancora da decidere, ma sembra che il
quartetto designato sarà composto dal ministro Maria Elena Boschi, dal vicesegretario
Guerini e dai capigruppo Zanda e Speranza. Da parte grillina l’investimento politico è
enorme: «Noi — confida Carlo Sibilia, un deputato tra i più ascoltati del gruppo — abbiamo
preso atto del 40% conquistato da Renzi e quindi vogliamo entrare nel merito. Mi auguro
comprendano tutti, renziani compresi, l’importanza della cosa».
E tuttavia, nonostante il premier voglia incoraggiare con il suo atteggiamento quella parte
dei grillini che si spendono per il dialogo con il governo, il timore di un «trappolone» è
forte. La guardia resta alta. «Se la loro fosse un’effettiva volontà di concorrere alle riforme
— riflette a voce alta il sottosegretario Angelo Rughetti, renziano di ferro — si sarebbero
presentati dicendo: ecco le nostre proposte di modifica all’Italicum, discutiamone. Invece
arrivano con un proporzionale puro con le preferenze, che è l’opposto della legge già
approvata dalla Camera, e pretendono che sul tavolo ci sia solo la loro proposta». E se
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invece fosse soltanto tattica? Se cioè la proposta del “democratellum” nascondesse la
vera mossa da scacco matto? Il sospetto che si sta facendo strada in queste
ore tra i renziani è infatti quello di una manovra a sorpresa dei cinque stelle. Che una volta
incassato il prevedibile rifiuto del Pd sul “democratellum”, sarebbero pronti a gettare sul
tavolo la vera proposta avvelenata: il ritorno al Mattarellum. «E a quel punto — ammette
un renziano — per noi potrebbero essere dolori ». La vecchia legge Mattarella — 75%
maggioritario uninominale, 25% di proporzionale — è infatti molto rimpianta dai nostalgici
dell’Ulivo e dalla stessa nuova leva renziana. Nell’assemblea del gruppo Pd della Camera,
al tempo della discussione sulla mozione Giachetti (che appunto prevedeva il Mattarellum
come legge di salvaguardia nel caso si fosse tornati al voto anticipato), tutti i renziani si
schierarono a favore, salvo poi votare “no” in aula in obbedienza all’ordine impartito dal
governo Letta. Cosa accadrebbe domani se Grillo e Casaleggio riesumassero il
Mattarellum? Il timore degli uomini del premier è che non solo potrebbe saltare l’Italicum,
ma si riprodurrebbe una spaccatura interna alla maggioranza e allo stesso Pd. Come
avvenne appunto sulla mozione Giachetti. Per questo la regia della trattativa con i grillini è
stata avocata dal premier in prima persona. Non sono ammessi errori.
Del 17/06/2014, pag. 3
Caso Mineo, Zanda prova a ricucire
Più vicino il rientro degli autosospesi
Tre ore di confronto serrato e alla fine il clima sembra leggermente più sereno,
dichiarazioni di cauto ottimismo e probabilmente stamattina una decisione su cosa faranno
i quattordici senatori che si sono autosospesi dal gruppo Pddopo la sostituzione in Affari
costituzionali di Corradino Mineo e Vannino Chiti, i più critici verso la riforma del Senato. È
probabile che lo strappo si ricucia, che l’autosospensione rientri, questo l’orientamento ieri
sera,mal’ultima parola si saprà soltanto stamattina quando le consultazioni tra i quattordici
saranno completate, visto che ieri pomeriggio quando il capogruppo Luigi Zanda li ha
incontrati insieme ai vicepresidenti Tonini, Lepri e Martini, non erano tutti presenti. «Le
decisioni prese dalla presidenza del gruppo sulla composizione della commissione, ferma
restando la più assoluta stima nei confronti di tutti i senatori, rimangono quelle deliberate
nei giorni scorsi», annuncia Zanda al termine dell’incontro, lanciando un appello affinché
«nei tempi più rapidi possibili l’autospensione cessi e tornino nella normalità delle attività
del gruppo». Chiti apre una porticina, spiega che il gesto eclatante dell’autospensione è
nato dall’esigenza di «sottolineare che l’articolo 67 (che prevede la libertà di mandato,
ndr), non poteva essere interpretato in modo discrezionale»,ma definisce positivo
l’incontro di ieri e aggiunge che è servito a fare chiarezza. A dire, cioè, come hanno fatto a
rotazione tutti i presenti (Chiti, Corsini, D'Adda, Dirindin, Gatti, Lo Giudice, Micheloni,
Mineo, Mucchetti, Ricchiuti,Tocci, Guerino Turano, assenti Casson, che è in missione e
Giacobbe) che non vogliono essere considerati come coloro che bloccano il processo
delle riforme, né tantomeno accettano i toni ultimativi usati in questi giorni. Hanno chiesto
rispetto per la loro autonomia, che a loro detta vale in Aula come in Commissione, e per le
loro posizioni. È lo stesso Chiti a dire che «l’articolo 67 della Costituzione non è abrogato
né rimesso alla discrezionalità di un partito né alla presidenza di un gruppo, perché
altrimenti le commissioni parlamentari diventerebbero sezioni di partito». Poco
convincente, inoltre, per i dissidenti, la spiegazione sulla sostituzione dei due colleghi in
Commissione, «ci è stato detto che le decisioni che riguardano la commissione Affari
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costituzionali, la sostituzione di Mineo e anche mia, non dipendono da una violazione
dell'articolo 67 della Costituzione ma obbediscono ad altre logiche di funzionalità: a noi
questo sembra francamente meno convincente ». Sgombrato il campo dell’ipotesi di uno
strappo definitivo, dunque, «nessuno di noi ha mai pensato di cercare casa fuori. Noi
siamo nel Pd e le nostre battaglie le vogliamo portare avanti nel Pd», ma sul ruolo dei
senatori in commissione la storia non finirà qui. Tanto che Luigi Zanda durante la riunione
ha preso l’impegno di indire un’assemblea ad hoc sul tema con tanto di documento da
votare su articolo 67 e regolamento del gruppo, con interpretazioni annesse, ovviamente,
proprio per evitare che si creino episodi analoghi in futuro e per ribadire che ci sono sì i
diritti della minoranza ma anche quelli della maggioranza e che un partito se vuole andare
avanti deve darsi delle regole e rispettarle. Un gruppo parlamentare anche. Lo stesso
capogruppo, d’altra parte, durante l’incontro è stato chiaro: il Pd non può permettersi
spaccature né tantomeno può rischiare di andare sotto in commissione e vedersi bocciare
quella che è la posizione della maggioranza stessa del partito. Zanda ha ammesso che i
toni sono usciti di controllo da parte di tutti, ribadisce che l’autonomia del gruppo non è in
discussione, che sarà possibile presentare emendamenti al testo a cui stanno lavorando i
due relatori della riforma costituzionale, ma il processo delle riforme non può subire battute
d’arresto. Walter Tocci ha ascoltato, non è intervenuto e poi è andato via prima della fine
dell’incontro. Ricchiuti, che l’altro giorno è intervenuta durante l’Assemblea nazionale del
partito, ieri ha preferito restare in silenzio. Ma Chiti, parlando con i giornalisti, ribadisce:
«Non siamo una palude, non siamo sabotatori». Mineo sceglie una linea più soft, più
defilata, soprattutto dopo le sue dichiarazioni contro Matteo Renzi che hanno provocato
non solo l’ira del premier ma dei suoi stessi compagni di battaglia. Quel «bambino autistico
» detto all’indirizzo del premier, malgrado la richiesta di scuse pubblica, pesano ancora
parecchio. E per mandare un segnale distensivo dalla presidenza del gruppo fanno sapere
che l’Assemblea prevista per stamattina non ci sarà, anche alla luce dell’esito dell’incontro
di ieri sera che dovrebbe rendere più vicina la fine della protesta, senza precedenti nel Pd,
dei quattordici senatori. Si incontreranno loro, invece, per la decisione finale. Matteo Renzi
dal canto suo, pur nel rispetto dell’autonomia dei gruppi parlamentari, sul punto ha fatto
sapere senza troppi giri di parole come la pensa. Non intende far rallentare il percorso
delle riforme e quindi sulla sostituzione di Mineo e Chiti non intende tornare indietro.
Del 17/06/2014, pag. 3
I dissidenti: restiamo nel Pd
Democrack. Zanda incontra i senatori, schiarita. Ma Chiti e Mineo
restano fuori. Renzi: «Senato, questa è la settimana decisiva. Prendo
sul serio Grillo». Il premier sale al Colle, ora anche Lega e M5S sono
pronti a discutere. Ma tutto dipende da Berlusconi. Che ora parla di
presidenzialismo
Daniela Preziosi
L’Ufficio di presidenza del Pd del senato non cambia di una virgola la sua posizione sui
due ’destituiti’ dalla commissione affari costituzionali. I membri ’supplenti’ Chiti e Mineo
restano fuori. Lo ha comunicato il presidente Luigi Zanda direttamente ai 14 ’ribelli’; ieri
pomeriggio alla riunione erano in dodici in realtà, Casson aveva un impegno e Tocci
è andato via quasi subito. Ma ha ribadito che l’art. 67 della Costituzione («senza vincolo di
mandato») vale in aula come in commissione — del resto diversamente non avrebbe
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potuto fare — e i 14 alla fine si dichiarano abbastanza soddisfatti da revocare la loro ’autosospensione’ dal Pd. Il Pd non fa nessun passo indietro, visto che la richiesta di sbattere
fuori i due era era arrivata direttamente dal premier Renzi, dalla Cina: per il futuro, è la
promessa, casi simili non si ripeteranno.
Si chiude qui, almeno per ora, il caso dei senatori dissidenti. Con la loro promessa di dare
battaglia in aula. La riunione del gruppo di palazzo Madama, convocata per stamattina,
non si farà: è lo stesso Zanda a sconvocarla, per sfiammare la situazione ed evitare la
replica dello scontro già andato in scena all’assemblea di sabato. Fra i quattordici restano
i dubbi: «Ci è stato detto che le decisioni sulla commissione obbediscono ad altre logiche
di funzionalità: a noi questo sembra francamente meno convincente», spiega Vannino
Chiti. «È incoerente», per Nerina Dirindin. La «logica di funzionalità» è solo un calcolo politico, in realtà. Renzi vuole togliere a Berlusconi l’alibi dei dissensi interni al Pd per non dire
una parola chiara sulle riforme. Lo farà nei prossimi giorni, forse nelle prossime ore,
nell’incontro con Renzi che dovrebbe rinnovare il ’patto del Nazareno’.
I quattordici non escono, almeno per ora. «Nessuno di noi ha mai pensato di cercare casa
fuori. Siamo nel Pd e le nostre battaglie le vogliamo portare avanti nel Pd», dice Chiti.
«Passiamo dalla guerra di movimento alla guerra di posizione», Massimo Mucchetti, «Non
siamo un’area politica. Facciamo una battaglia. E poi siamo seri: ci chiedono obbedienza
su un testo che non c’è, che ha almeno tre varianti». Ancora Chiti: «Zanda ci ha dato un
attestato di stima, ed è importante visto che in questi giorni ci hanno definito in ogni modo.
Non siamo ’palude’, ’sabotatori’, ’ostacolo’ per la riforma». Il gruppo si vede stamattina per
stendere un documento, ma la crisi rientra. «Tutto è bene quel che finisce bene», chiosa
con ironia il renziano Marcucci. Ma la chiusura della crisi interna non chiarisce la strada
della riforma del senato, come volevasi dimostrare. Ieri mattina Matteo Renzi ha incontrato
il presidente della Repubblica per fare un punto, ufficialmente «un ampio giro di orizzonte»
sulla riforma e sul «possibile coinvolgimento del più ampio arco di forze politiche» in vista
del voto del senato. Il presidente è preoccupato. La disponibilità a discutere delle riforme,
per la prima volta, da parte di Lega e M5S, sarebbe un buon segnale, fosse vera. Renzi
ieri ai suoi ha detto: «Prendo sul serio l’apertura di Grillo». Così vuole far pesare a Berlusconi il fatto di avere a disposizione altri ’forni’: il Carroccio, i grillini. La verità è che fra
i renziani di palazzo Chigi lo scetticismo è totale, soprattutto sull’M5S che annuncia la sua
disponibilità al dialogo con un comunicato che arriva direttamente dalla
Casaleggi&Associati. All’incontro in diretta streaming non ci sarà Grillo quindi il premier
non andrà: manderà i presidenti del Pd di camera e senato Speranza e Zanda, e il vicesegretario Guerini. Come prima più di prima il vero partner delle riforme resta Berlusconi. Il
patto deve essere rinnovato: gli sherpa stanno lavorando, in commissione e fuori. Ma la
parola finale spetta solo all’ex Cavaliere. Il quale però, con buona pace di tutti quelli che se
la prendono con il dissenti del Pd, domani si avvia a rilanciare l’elezione diretta del capo
dello stato. Un bluff, oppure una mossa destinata a fare saltare tutto il piatto? Nell’attesa,
a Renzi non restano che gli annunci di sempre: «Questa è una settimana decisiva», dice
davanti agli industriali a Gambellara, in provincia di Vicenza. Sulle riforme non molla «di
mezzo centimetro. Andiamo avanti a testa alta. Abbiamo ingolfato il sistema che serve
a fare le leggi, ora noi il Senato lo cambiamo, non lo facciamo solo per cambiare il procedimento legislativo. Lo facciamo perché l’Italia ce la può fare, ma dobbiamo essere operativi
subito». Sempreché Berlusconi permetta.
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Del 17/06/2014, pag. 3
In difesa di un’idea democratica del
parlamento
L'appello. Costituzionalisti e politici in solidarietà con i 14 senatori del
Pd
Come cittadini e cittadine vogliamo esprimere tutta la nostra convinta solidarietà nei confronti dei 14 senatori del Pd che, rivendicando, in materia costituzionale, la libertà dei parlamentari e l’autonomia del parlamento dall’esecutivo, si sono autosospesi dal loro gruppo
contro lo scandalo della rimozione d’autorità dei senatori Mauro, Mineo e Chiti dalla commissione affari costituzionali del senato. Con il loro gesto, i senatori autosospesi hanno
difeso non solo il loro sacrosanto diritto costituzionale a esprimere liberamente le loro opinioni e ad agire, come recita l’articolo 67 della Costituzione, svincolati da ogni ordine di
partito, ma una idea democratica di parlamento come luogo di confronto e di coinvolgimento delle minoranze nel processo decisionale. Tanto più se si tratta di revisioni della
Costituzione che, contro ogni logica di futurismo legislativo, hanno bisogno non di fretta
ma di seria ponderazione e di dialogo. Colpisce, invece, la totale indifferenza
e l’insofferenza con la quale il governo affronta, non i veti, ma le proposte concrete di
superamento del bicameralismo perfetto e di riduzione del numero dei parlamentari di
camera e senato avanzate dai 14 senatori e da un arco ampio di studiosi di tutte le aree
politiche. L’eliminazione da questo processo delle voci fuori dal coro, corrisponde invece
a una concezione autoritaria della democrazia e del parlamento.
Invocare il consenso elettorale, come faceva in passato Silvio Berlusconi, per giustificare
scelte e comportamenti in contrasto con la Carta costituzionale, significa avere una idea di
democrazia che riduce tutto all’investitura del capo, senza più i bilanciamenti e i contrappesi, che caratterizzano ogni vera democrazia. Come cittadini e cittadine auspichiamo che
il presidente del gruppo del Pd al senato e la presidente della commissione affari costituzionali, che avevano definito in passato illegittima e molto scandalosa, la sostituzione
d’imperio da parte dell’allora presidente del senato di un membro della commissione di
vigilanza Rai che si rifiutava di votare un componente del cda della Rai secondo le indicazioni di Berlusconi, ripensino a quella loro battaglia e ritornino sulle loro posizioni.
Alessandro Pace, Paolo Maddalena, Gianni Ferrara, Massimo Villone, Cesare Salvi,
Raniero la Valle, Claudio de Fiores, Lorenza Carlassare, Luigi Ferrajoli, Guido Liguori,
Alberto Burgio, Anna Falcone, Felice Roberto Pizzuti, Paolo Ferrero, Antonio Ingroia,
Alfonso Gianni, Antonia Sani, Antonello Falomi, Giulia Rodano, Mario Sai, Roberto
Musacchio, Amedeo Borzillo, Marisa Agnesina, Antonio Di Luca
Del 17/06/2014, pag. 7
Niente critiche online
Caso Pd a Piacenza
Il nuovo regolamento vieta di esprimere sui social network commenti
negativi sui vertici locali
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Basta critiche su Twitter, Facebook ma anche sui giornali. Il Pd di Piacenza passa alle
maniere forti è approva un articolo, il 29, del regolamento provinciale che obbliga gli iscritti
a non pubblicare «commenti negativi» sul partito. «Gli iscritti al Partito Democratico della
Federazione Provinciale di Piacenza - è scritto al paragrafo “norme speciali” - debbono
astenersi da commenti negativi e acostruttivi rivolti al Partito Democratico stesso nella
persona dei singoli Segretari di Circolo, di Unione di Vallata, di Unioni d’Area o del
Segretario/a Provinciale tramite social network o altri mezzi di informazione telematica e/o
mediatica in generale se non hanno prima richiesto idonea convocazione del Circolo di
riferimento e affrontato, in tale sede, e discusso le tematiche e gli argomenti che lo
pongono in conflitto comil Partito stesso». «Nocumento acostruttivo» questa l’espressione
usata nel regolamento, che tanto sta facendo discutere e non solo a Piacenza, città di Pier
Luigi Bersani. Secondo la norma, gli iscritti «responsabili di tali atteggiamenti» saranno
deferiti alla commissione di garanzia provinciale (che deve ancora nascere). Naturalmente
la vicenda non è passata sotto silenzio, una sfilza di commenti apparsi sui vari social
network parlano di deriva grillina del Pd piacentino. Il provvedimento è stato approvato
dalla direzione provinciale lo scorso 9 giugno dopo una riunione che è andata avanti fino a
notte fonda e l’ultimo punto in discussione era proprio la votazione di questo regolamento,
che secondo qualcuno è restrittivo della libertà di esprimere opinioni anche di critica verso
i vertici del partito locale. Durante il dibattito, a tratti molto acceso, la minoranza ha chiesto
di inserire una serie di modifiche, in parte accettate. Ma quando si è trattato di modificare
l’articolo 29 l’attuale gruppo dirigente renziano si è fortemente opposto, anzi ha preteso
che l’articolo contestato rimanesse tale. Alla fine alla minoranza non è restato che votare
contro o astenersi. Nel partito c’è chi sottolinea le inutili intimidazioni di questo articolo,
visto che esiste già il codice etico, e chi salvaguardia il diritto di critica, anche sui social.
L’ideatore di questo regolamento, il segretario provinciale del Pd Gianluigi Molinari, a
questo punto è il difensore d’ufficio del provvedimento. «Con questo regolamento
semplicemente noi abbiamo ricordato e sottolineato che gli attacchi, molto frequenti qui a
Piacenza, e le esternazioni continue, a volte molto antipatiche, fatte dagli iscritti e a volte
anche dai dirigenti saranno di fatto spostate alla commissione di garanzia, che avrà come
riferimento il codice etico» precisa Molinari. Chi ritiene inutile e inapplicabile questa norma
è il capogruppo Pd in Provincia, Marco Bergonzi: «Non capiamo perché un organismo
provinciale, in una delle 100 e passa province in Italia, senta il bisogno di inserire una
norma così restrittiva, peraltro inapplicabile ed insanzionabile perché non c’è ancora la
commissione di garanzia » dice. La battaglia ora si sposta nell’assemblea provinciale
appena sarà convocata, sarà la prima volta dopo il congresso di novembre. E forse è
questa la vera anomalia.
Del 17/06/2014, pag. 1-15
Matteo Renzi un politico postdemocratico
Renzi, Grillo, Berlusconi. Il 17-18 per cento è quanto valgono, nei
rispettivi partiti, i leader che ne sono, fin dalle origini, i padroni. La
sfiducia nella democrazia diventa formidabile strumento di consenso
con la macchina mediatica schierata al gran completo. In Italia non
esiste oggi una forza di sinistra. Per questo renzismo, grillismo,
berlusconismo hanno dilagato. Bisognerebbe iniziare a costruirla
Alberto Asor Rosa
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IL dato più rilevante di questa breve ma intensissima fase storica resta, senza ombra di
dubbio, l’affermazione elettorale (soprattutto in termini percentuali) di Matteo Renzi. Il giovane leader è arrivato a questa affermazione, come non mi stanco di ripetere, senza nessuna delle tradizionali investiture “democratiche” in uso nel sistema politico italiano dal
1945 in poi. Renzi ha iniziato la sua conquista del potere arrivando con le primarie dell’8
dicembre 2013, d’un balzo solo, alla segreteria del Pd. Da lì spicca la sua rapida ascesa al
governo, con mezzi (e forzature) parlamentari, anche in questo caso fondamentalmente
fuori della consuetudine e ampiamente discutibili.
Tutto ciò, però, ha ricevuto subito dopo il consenso, che suona approvativo, di un numero
(percentualmente) impensabile di elettori fino a qualsiasi consultazione precedente. Questo cursus e queste coincidenze andrebbero interpretati meglio di quanto finora non sia
stato fatto. Un’ipotesi possibile (del resto tutt’altro che sorprendente): Renzi “carica” di
aspettative il vecchio elettorato “democratico”, fino a prospettargli la concreta possibilità di
una vittoria, considerata generalmente fino a quel momento del tutto irraggiungibile (questa porzione più tradizionale dell’elettorato Pd pensa: «almeno una volta voglio vincere»);
e vi aggiunge un quoziente piuttosto elevato di elettori provenienti da altre aree (centrodestra, grillini, centro democratico…). Mettendo insieme i due fattori, si spiega perché le
avanzate più consistenti si siano verificate nelle ex regioni rosse (Toscana, Emilia,
Umbria). Insomma, il vecchio elettorato, invece di sciogliersi nell’astensionismo, si consolida presumibilmente intorno al 23–24%; di suo Renzi vale il resto, ossia il 17–18%, più
o meno quanto valgono nei rispettivi partiti quelli che ne sono fin dalle loro origini i
“padroni” (Berlusconi e Grillo), così come Renzi innegabilmente lo è diventato del suo
dopo questo successo elettorale. Dunque il conflitto politico in Italia diventa sempre di più,
non solo come ho scritto altre volte, una gara talvolta molto accanita, ma non fra “avversari” bensì fra “concorrenti”, data la crescente omogeneità dei loro comportamenti e delle
loro parole, ma più esattamente fra “concorrenti” che sono i veri e propri “padroni” dei partiti che si sono trovati, con modalità diverse, a guidare.
E cioè: non solo Renzi è diventato extra legem segretario del proprio partito, e poi, subito
dopo, con modalità alquanto discutibili, Presidente del Consiglio: ma, vincendo con un
risultato indubitabile le elezioni, ha posto le premesse (di cui già si scorgono gli svolgimenti) perché le gare interne a quella formazione politica e in quell’area di governo in cui
ha scelto di correre fossero rapidamente e per sempre liquidate.
Cercare di capire perché abbia scelto di correre in questa formazione e non in una delle
altre in cui, verosimilmente, considerando il suo profilo politico-culturale, avrebbe potuto
tranquillamente farlo, sarebbe un altro interessante discorso, che però si potrebbe affrontare solo con una migliore conoscenza dei fattori in causa. Com’è riuscito a farlo?
La risposta a questa domanda sarebbe essenziale per impiantare il “che fare”, di cui, con
un minimo di chiarezza, avremmo bisogno. Io avanzo due ipotesi, strettamente collegate
fra loro. La prima è che Renzi non smette di promettere urbi et orbi di avere in mano
(oppure di essere in grado di avere, prima o poi, ma la differenza fra il “certo” e il “probabile” non è mai avvertibile nel suo eloquio sommario) gli strumenti per far fronte alla crisi
economico-sociale del paese: da questo punto di vista non risparmia le rassicurazioni e,
come anticipo, allunga un po’ di soldi alla povera gente.
La seconda, meno visibile ma più profonda, è che Renzi, non meno di Grillo e di Berlusconi, ma in questo momento più credibilmente degli altri due, punta sull’innegabile crisi di
tenuta democratica del paese, — lo scarso funzionamento degli organismi rappresentativi,
il degrado dei vecchi partiti e del vecchio ceto politico, la corruzione dilagante, ecc., — per
dire: con i miei metodi, che vanno e promettono di andare sempre di più nella direzione di
un radicale superamento dell’antiquato, ormai inservibile macinino democratico, si andrà
avanti molto meglio. Così lui trasforma la sfiducia e talvolta la rabbia nei confronti della
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“democrazia”, che è un dato reale, diffuso ovunque in questo paese, in un formidabile strumento di consenso. Lui è già di per sé un politico post-democratico: basta che lo dica
o anche si limiti a farlo capire, per suscitare un moto di simpatia anche da parte di quelli
che sono stati educati ad un rispetto sacrale nei confronti della democrazia.
Il gioco per ora funziona benissimo, anche perché tutta la macchina dei media è schierata
come un sol uomo dietro questa prospettiva (e anche questo sarebbe da interpretare
meglio e da capire). Del resto, non è la prima volta, in Italia e altrove, che un’investitura di
tipo autoritario s’impone registrando un consenso plebiscitario di massa. Quando lui ipotizza e propugna, al posto di un onesto, magari mediocre, partito di centro-sinistra, che
rappresenta una parte per armonizzarla con il tutto (ovvero, per armonizzarla con il tutto,
restando però a rappresentare quella parte), il cosiddetto Partito della Nazione, a nessuno
viene in mente che un obiettivo e una definizione di tale natura avrebbero potuto confarsi
anche al Partito Nazionale Fascista o al Partito (appunto) Nazionalsocialista. Certo, non
è la stessa cosa, ma ogni qualvolta si evoca la Nazione (con la maiuscola, per giunta),
sarebbe d’obbligo che i precedenti vengano alla mente.
Ma veniamo alla pratica spicciola, quella che fa vedere meglio le cose come sono:
l’obiettivo principale, comunque chiarissimo, consiste nell’assoggettare al nuovo meccanismo di potere quanto, politicamente e strutturalmente, gli può risultare incongruo o resistente. Per cui facile previsione: il pubblico, anzi il Pubblico, nella sua accezione più vasta,
e cioè burocrazia, magistratura, scuola, università, sanità, beni culturali, sovrintendenze,
ecc. ecc., e cioè quanto è stato costruito nel corso di decenni per avere una sua propria
autonomia nel concerto generale degli organi dello Stato, verrà sottoposto ad un attacco
senza esclusione di colpi. Non a caso, anche in questo caso, organi di stampa e media
sono impegnati in una vibrante campagna di moralizzazione per cogliere e sanzionare le
colpe dei “sistemati”: guadagnano troppo, lavorano poco, sono lenti, rallentano, si oppongono al “fare”, ecc. Il fatto che in molti casi, ovviamente, questo sia anche vero non toglie
rilevanza la fatto che l’obiettivo della campagna non sia far funzionare meglio il sistema,
ma assoggettarlo del tutto al comando del Sovrano.
Ho seguito con grande attenzione, — ma forse un po’ troppo da lontano, le vicende della
lista Tsipras, la cui affermazione, pur con molti limiti, dimostra che un punto di partenza
ancora esiste. Ho polemizzato con Barbara Spinelli prima del voto, perché essa, in
un’intervista al manifesto (14 maggio) additava nei grillini il punto di riferimento fondamentale post votum della nuova esperienza («ci sono molte posizioni di Grillo completamente
condivisibili e fra l’altro simili se non identiche alle nostre»). La posizione, profondamente
erronea, è stata portata avanti fino a un momento prima che il Movimento 5 Stelle siglasse
l’accordo con gli xenofobi e parafascisti di Nigel Farage. La scelta della Spinelli di andare
a Bruxelles in barba alle dichiarazioni precedenti, chiude un po’ malinconicamente la questione, e ne riapre una grande come una casa. Ora, infatti, sappiamo con assoluta chiarezza che Grillo e il grillismo sono avversari nostri non meno, e forse più, di Matteo Renzi
(il che non esclude, che fra i grillini ce ne siano molti per bene e con cui si può combinare
qualcosa insieme). E allora? In Italia, altra grande anomalia nazionale, — non esiste,
e dopo la definitiva (ripeto: definitiva) uscita di scena in questo senso del Pd non esiste
più, una decente formazione di centro-sinistra, — magari la più moderata che si possa
immaginare, la meno virulenta, ben radicata formazione di estrema sinistra. Non esiste
neanche, — si potrebbe dire così, — una seria, decente, responsabile formazione di sinistra. Per questo berlusconismo, grillismo e ora renzismo hanno dilagato e dilagano.
Hic Rhodus, hic salta. Ossia: se non si prova ad affrontare questo problema, meglio dedicarsi alle parole crociate. Quando la definisco, provvisoriamente, una seria, decente, ben
radicata formazione di sinistra, non intendo la spontanea convergenza di una serie di formazioni spontanee, come in fondo è stata, — e per la parte migliore che ha rappresentato
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e rappresenta, — la lista Tsipras. Sono l’unico appena professore, certo, di sicuro non professorone, che ha avuto contatti diretti con la realtà vivente dei Comitati (gli altri, sovente,
ne hanno parlato per sentito dire). Sono stato coordinatore per molti anni della “Rete dei
Comitati per la difesa del territorio”. Insieme con altre preziose esperienze, ne ho ricavato
questo convincimento: nessuna realtà politica nuova potrà fare a meno della linfa vitale
che i Comitati sprigionano; ma nessun insieme di Comitati, — una Rete, ad esempio, —
potrà mai da sè, e spontaneamente, mettere in piedi una realtà politica generale. Questo
soggetto politico una volta si chiamava partito. Possiamo cambiargli nome. Ma la sostanza
è quella. Detto così, può sembrare un appello a fare ricorso non alla cabala ma alla Lampada di Aladino. Faccio una proposta. Da dove si comincia per cominciare la costruzione
di una realtà politica nuova? Dall’alto, dal basso, dall’esistente o dal futuribile, dagli spezzoni residui del grande disastro o da quelli, più immaginati che reali, della rete in via di
costruzione? Io comincerei dal programma. Dieci, dodici punti che spieghino perché si sta
insieme, e si sta insieme qui e non altrove. Aspettare che la riforma renziana della politica,
dello stato e dell’economia vada avanti è profondamente autolesionistico. Chi non ci sta, lo
dica ed esca allo scoperto. E lavori perché le idee, se non le membra, tutte le membra,
emergano finalmente dal guazzabuglio universale. Non so se la proposta abbia un senso.
Ma so che è così che si fa se si vuole che ne abbia uno. In fondo, all’inizio, non si tratta
che di fare una cosa semplicissima e alla portata di tutti: pensare.
del 17/06/14, pag. 10
Il Democratellum dei 5 Stelle «Noi facciamo
sul serio»
«Facciamo sul serio ». Beppe Grillo ci mette la faccia e il blog. E dà continuità
all’improvvisa apertura a Matteo Renzi chiedendo ufficialmente un incontro al presidente
del Consiglio per parlare di legge elettorale. Incontro che potrebbe esserci già la prossima
settimana. «Vogliamo uscire dal limbo», certifica Luigi Di Maio. Qualunque siano le
motivazioni, l’offerta di disponibilità smuove le acque e rimette in discussione il vecchio
patto sull’Italicum, già traballante, siglato tra Renzi e Silvio Berlusconi. Sul blog Grillo
pubblica una «lettera aperta» firmata «M5S Camera e Senato». Rivolgendosi a Renzi con
un rispettoso «Lei» che prende il posto di sberleffi e insulti, i 5 Stelle descrivono la loro
proposta di legge elettorale, definita «Democratellum». Si tratta, scrivono, di «un sistema
proporzionale in circoscrizioni di dimensioni intermedie che, pur essendo sensibilmente
selettivo, consente l’accesso al Parlamento anche alle forze politiche piccole». Un sistema
che «favorisce la governabilità, senza presentare profili di incostituzionalità. Il suo impianto
limita la frammentazione dei partiti e avvantaggia le forze politiche maggiori». Tra le
novità, la possibilità di dare «preferenze negative», per penalizzare i cosiddetti
«impresentabili». Il sistema è proporzionale, ma corretto e consente di dare la
maggioranza dei seggi anche a un singolo partito che ottiene il 40-41 per cento dei voti.
Nulla di più lontano dall’Italicum, apparentemente. Ma a partire da questo, Grillo e i suoi
vogliono un confronto con Renzi, «naturalmente in streaming». Secondo i maligni, la
svolta non è altro che un grimaldello per aprire una crepa nel Partito democratico e
insinuarsi tra le pieghe di un già difficile accordo con Forza Italia. Comunque sia, per reale
volontà politica o per mero espediente tattico, i 5 Stelle sono usciti dall’impasse nella quale
erano caduti da mesi. E si sono messi a fare politica, prendendo atto del fallimento dei
proclami di vittoria, #vinciamonoi, incautamente lanciati prima del voto. «Il tentativo di far
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cadere il governo Renzi è fallito — spiega Di Maio — La vita della legislatura si configura
più lunga e la nostra vuole essere una risposta con i fatti alle Europee ». Per questo,
aggiunge il capogruppo alla Camera Giuseppe Brescia, «abbiamo deciso di essere più
propositivi ». A costo anche di prendersi le legittime ironie degli espulsi, trattati come
appestati per aver chiesto proprio questo, il dialogo: «I prodi e proni capigruppo — scrive
l’ex Francesco Campanella — obbediscono ai Capi Supremi e come un sol uomo
dichiarano: credere, obbedire, dibattere!». Allusione al repentino cambio di parola d’ordine,
accolto senza fiatare anche dai pasdaran dell’isolazionismo. Ma sia chiaro, aggiungono i
dirigenti dei 5 Stelle, «questa è un’apertura di merito sui singoli provvedimenti, non sul
governo». E fanno esempi di altri atteggiamenti simili: l’anticorruzione, i nomi sulla Corte
costituzionale, lo stop ai vitalizi ai mafiosi. In realtà è la prima volta che, con relativo
annuncio dall’alto, si decide una trattativa diretta con il presidente del Consiglio. Di Maio
assicura che non si tratta di una presa in giro: «Non andiamo a vendere un prodotto a
scatola chiusa. Vedremo cosa verrà e cosa ci sarà da discutere». E se viene o non viene
Renzi in persona non è un problema: «A noi interessa il risultato, non ci impicchiamo su
una presenza o meno»
Al. T.
Del 17/06/2014, pag. 3
Un «patto padano», senza irritare troppo il
Cavaliere
Riforme. Renzi tratta con la Lega sul Titolo V. Possibile incontro con
Salvini, ma prima il presidente del consiglio vuole incontrare Berlusconi
Andrea Colombo
Nella «settimana in cui sulle riforme si decide» come giustamente ha detto ieri Renzi,
l’accordo destinato a sbloccare la situazione non è quello con Berlusconi (che si potrebbe
tenere giovedì) e tanto meno quello con Grillo. E’ quello con l’omonimo padano, Matteo
Salvini. Il Pd, ieri, dava per certo un incontro entro la settimana. Salvini smentisce, ma si
tratta di un particolare. I due Mattei non devono cercare un’intesa ma ratificare un trattato
già steso da Roberto Calderoli. L’ultima parola ancora non è detta, ma al momento nulla
sembra ostacolare davvero l’intesa, in base alla quale il Carroccio si impegnerà a sottoscrivere sostanzialmente il Senato disegnato da Renzi, con tanto di elezione di secondo
livello e di plotone di sindaci.
A Berlusconi questa storia dei sindaci si sa che proprio non va giù. Su quel fronte il suo
esercito è da sempre debole. Ma con il cambio di fronte dei 14 senatori leghisti, sommato
al probabile ritorno all’ovile di una parte dei ribelli del Pd, il peso del sostegno azzurro scemerà vertiginosamente, anche se Renzi si sta dando da fare per presentare l’intesa con la
Lega nella maniera più diplomatica possibile per non irritare troppo Berlusconi, che resta
un socio prezioso. E’ questa la carta sulla quale ha puntato da subito dopo le elezioni
Renzi, affidando alla neofedelissima Anna Finocchiaro il compito di trattare con Calderoli.
Tutto a gonfie vele dunque? In realtà fino a un certo punto. La politica italiana vanta una
folta casistica di accordi basati sulla compravendita di fumo e spacciati poi per magnifiche
vittorie, quel che in gergo si chiama «salvare a tutti la faccia». Ma con la Lega questo giochino non ha mai funzionato: Silvio Berlusconi lo imparò a sue spese nel 1994 e per questo, in seguito, privilegiò sempre l’intesa con il Carroccio rispetto a tutti gli altri partner,
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e persino al suo stesso partito. La Lega bisogna pagarla sul serio, e in moneta sonante.
Nel patto stilato dall’astuto Calderoli il prezzo è salatissimo.
Il Titolo V della Costituzione, quello che ha instaurato la disastrosa via italiana al federalismo, avrebbe dovuto essere, se non proprio cancellato, almeno drasticamente ridimensionato. Dopo un decennio di rallentamenti peggio che su un’autostrada il primo di agosto
dovuti al pasticcio della “legislazione concorrente”, grazie alla quale nessuno sa più chi
debba decidere su cosa, se lo Stato centrale o le amministrazioni locali o tutti e due,
buona parte delle competenze sarebbero dovute tornare al centro. Resteranno invece alle
Regioni: quasi certamente non si andrà oltre un ritocco di facciata e anzi il dilemma sarà
spesso risolto a favore delle Regioni. Non che Calderoli e Salvini si accontentino di questo. Chiedono che si lasci non uno spiraglio socchiuso ma una porta spalancata per
l’introduzione a breve di «ulteriori elementi di devolution».
Il punto dolente è che, se il bicameralismo perfetto è un impaccio limitato, che rallenta sì le
cose ma di poco e i cui costi non sono iperbolici (peraltro resterebbero quasi invariati dopo
la riforma), il Titolo V voluto dal centrosinistra è invece devastante. I costi della politica si
sono moltiplicati per la necessità di mantenere le clientele locali. Per la corruzione, poi, il
federalismo è stato quel che le paludi sono per la malaria e quanto a rallentamenti burocratici la legislazione concorrente non teme rivali. Alla fine, salvo possibili ma improbabili
intoppi, Renzi otterrà grazie al patto padano il suo Senato riformato: i vantaggi in termini di
propaganda spiccia saranno notevoli. Ma il prezzo pagato da tutti con il mantenimento del
Titolo V sarà da bancarotta.
del 17/06/14, pag. 1/13
Il Gotha delle toghe a casa per decreto
LIANA MILELLA
BEN 445 toghe su 9.410 oggi in servizio. Tante, con il decreto Renzi sul taglio dell’età
pensionabile, se ne andranno a casa in tre anni. Quasi il 5 per cento, numero certamente
significativo. È il Gotha della magistratura. I capi più prestigiosi degli uffici.
I VERTICI più famosi di Milano, Torino, Venezia, Bologna, Firenze, Genova, Napoli, Bari,
Palermo. I nomi? Uno più noto dell’altro: Maddalena (Torino), Canzio con Minale,
Pomodoro e Bruti Liberati (Milano), Calogero (Venezia), Lucentini e Branca (Bologna),
Drago e Tindari Baglione (Firenze), Bonajuto (Napoli), Savino (Bari), Guarnotta (Palermo).
Ma via anche famosi magistrati di sorveglianza, l’uscente del Dap Tamburino, il giudice
dell’esecuzione di Berlusconi Nobile De Santis, quello del caso Franzoni Maisto. E tanti
altri in città più piccole.
Poi un colpo alla Suprema Corte che ha fatto gridare alla decapitazione il sempre prudente
e ovattato presidente Santacroce. Lì, i freddi numeri del Csm, che da ieri figurano in
bell’ordine nelle tabelle dell’ufficio statistica di palazzo dei Marescialli, dicono
che solo quest’anno vanno a casa 42 super toghe con funzioni direttive, parliamo
praticamente di quasi tutti i presidenti di sezione, quelli che oggi decidono sentenze che
segnano la giurisprudenza in Italia. Non basta, sempre in Cassazione, ci sono anche 26
giudici col piede sulla porta. E nei prossimi due anni, se il tetto resta a 70 anni senza
deroghe per chi non è un capo, vanno in pensione altri 30 magistrati del “palazzaccio”. Per
la Corte, se le sostituzioni tardano come inevitabilmente tarderanno ad arrivare, potrebbe
essere la paralisi. Per gli altri uffici italiani c’è il rischio serio di vederli senza dirigenti per
un bel po’.
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I numeri, innanzitutto. Oggi, in Italia, i palazzi di giustizia sono “comandati” da 427
magistrati con funzioni direttive e 730 vice. Bene. Con il decreto Renzi — stop all’ingresso
in pensione a 75 anni, ci si va a 70, unica deroga per i capi attuali fino al dicembre 2015 —
sono costretti a lasciare la toga, tra chi compie 70 anni quest’anno, 142 capi e 68 vice,
oltre a 96 giudici con funzioni ordinarie. Ovviamente, bisogna guardare anche a chi
compie 70 anni il prossimo anno e quello successivo. Nel 2015 arrivano al tetto della
nuova età pensionabile 23 capi e 20 vice (27 gli ordinari). L’anno successivo ecco altri 26
capi, 16 vice, 23 magistrati ordinari. Che sommati ai primi 308 ci porta alla cifra totale di
445. Di questi solo 210 potranno usufruire della speciale per rimanere in servizio
l’anno prossimo.
Ma, per la magistratura, non è solo una questione di numeri, ma soprattutto di facce. E di
procedure complesse non solo per diventare una toga, ma per essere promosso. Per
questo la categoria è in profondo allarme. La speranza delle toghe è che il decreto,
durante la fase di conversione alla Camere, sia cambiato. Il primo referente è il
Guardasigilli Andrea Orlando che, durante la fase di discussione sul decreto, si è
dimostrato una colomba rispetto ai falchi. Lui ipotizzava quella gradualità nell’entrata in
vigore — ogni anno, da qui in avanti, ne aumentava uno dell’età pensionabile — che
avrebbe evitato «la brusca decapitazione ». Di questo parlano al Csm, mentre guardano le
tabelle fresche degli uffici, i presidenti della commissione per gli incarichi direttivi Roberto
Rossi e di quella per le riforme Riccardo Fuzio. Dice il primo: «Il principio è giusto, ma
realizzato così pone dei problemi organizzativi che rischiano di paralizzare il Csm e la
stessa macchina della giustizia ». Rossi si è concentrato soprattutto sui capi delle città più
importanti e il prospetto che ha sotto mano è desolante. Città come Torino, Milano,
Bologna, vedono cadere d’un colpo presidente di corte di appello, procuratore generale,
presidente del tribunale, capo della procura. Nel decreto è scritto che la sostituzione deve
essere accelerata.
Rossi lo ritiene impossibile: «Innanzitutto ho già dovuto bloccare concorsi in attesa che il
decreto sia convertito. Poi questo consiglio sta per scadere e dovrà arrivare quello nuovo.
E poi, con una norma del genere il contenzioso amministrativo salirà alle stelle».
L’unica speranza è che il decreto “ammazza uffici”, com’è ormai stato ribattezzato qui al
Consiglio, venga cambiato. Il presidente della Cassazione Giorgio Santacroce, che di
diritto fa parte del Csm, ha già avviato un monitoraggio. Una mano importante potrebbe
arrivare dal Quirinale, visto che il presidente della Repubblica è il capo del Csm e che al
Colle lavorano toghe che conoscono bene sia la Cassazione, come l’ex presidente
Ernesto Lupo, oggi consigliere giuridico del capo dello Stato, e Stefano Erbani, ex
dell’ufficio studi del Csm. Dove il battage anti- decreto è molto forte. Si è mosso Fuzio, che
ha chiesto e ottenuto di poter esprimere subito un giudizio tecnico sul decreto. Lui è di
Unicost, ma lo appoggia tutta la sinistra di Area (Cassano, Borraccetti, Carfì, Vigorito,
Rossi)che ieri ha sollecitato una discussione rapidissima del decreto, visti anche i tempi
ormai stretti che restano al Consiglio. Da Milano, una toga esperta di organizzazione
giudiziaria come Claudio Castelli, per anni in via Arenula e ora al vertice dell’ufficio dei gip,
scrive nelle mailing list che «un obiettivo in astratto condivisibile viene perseguito
in modo gravemente sbagliato». Lui vede solo conseguenze negative, le stesse che a
Roma enuclea Rossi, «l’improvvisa scopertura degli organici dove già oggi c’è un deficit
del 12,4%, un concorso accelerato che non consentirebbe una seria selezione, comunque
una pensione che resta un miraggio per le giovani toghe». Per questo, a Roma, Fuzio non
dà tregua sul decreto: «Devono cambiarlo, non può restare così, c’è anche il rischio di una
ricaduta sui processi in corso». Una frecciata alla politica e a Renzi che, in questa veste,
sarebbe un normalizzatore.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 17/06/14, pag. 18
L’Anticorruzione con le mani legate
Bruno Tinti
L’anticorruzione e la sorveglianza sulle amministrazioni pubbliche non le ha inventate
Renzi. L’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici esisteva dal 1994 e la Commissione per
la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche dal 2009. Averle
unificate nella nuova Autorità affidata a Raffaele Cantone è la dimostrazione della loro
inutilità (d’altra parte, con quello che la magistratura ha scoperchiato…); e dell’inefficacia
del controllo attribuito a persone provenienti dal mondo della politica o della pubblica
dirigenza. Era necessaria, si è capito, una personalità esterna al mondo da controllare: un
Cincinnato o, se volete, un Ambrosoli. Un buon inizio dunque. Naturalmente non si va alla
guerra senza armi. E la creatura di Cantone, l’Anac, ne ha ricevute due importanti. 1) Può
ricevere notizie e segnalazioni di illeciti, il che sembra ovvio e in effetti lo è; ma il
denunciante può essere mantenuto anonimo e, nei casi in cui sia assolutamente
indispensabile farlo venire allo scoperto, non può essere licenziato dalla società
denunciata. Una sorta di testimone della regina che sarebbe bellissimo esportare in
ambito penale, magari con l’“immunizzazione” del corruttore o del corrotto che denuncia
per primo il reato. Nessuno ci proverebbe più sapendo che, al primo accenno di indagine,
scatterebbe la gara a chi denuncia l’altro. Va da sé che, se la denuncia è calunniosa, 10
anni di prigione non glieli leva nessuno. 2) Propone la procedura di commissariamento per
le imprese i cui amministratori siano indagati per corruzione, concussione e turbativa
d’asta. Ma non tutte, e questo è il primo punto critico. Solo quelle che hanno avuto appalti
per l’Expo. Il Mose non è degno di altrettanta attenzione? E altri grandi appalti (magari da
limitare con una soglia di rilevanza economica)? E poi proporre non vuol dire ottenere: non
è l’Anac che adotta il provvedimento, è il Prefetto a cui l’Anac lo propone. Però la nuova
legge dice che il Prefetto “può” nominare il commissario, “valutata la particolare gravità dei
fatti oggetto dell’indagine”. E qui si aprono molti buchi neri.
SE C’È UN’INDAGINE penale la “proposta” dell’Anac è obbligata, non discrezionale: la
legge dice “propone”, non “può proporre”. Ma la decisione del Prefetto è discrezionale:
dispone il commissariamento “valutata la particolare gravità dei fatti oggetto dell’indagine”.
Quindi chi deciderà di commissariare questa o quella impresa non sarà Cantone ma
qualche sconosciuto Prefetto. Al di là del dato formale, i Prefetti dipendono dal Ministro
degli interni e l’Anac da quello dei trasporti, si può essere certi che Cantone non dipende
da nessuno e che lo stesso non può dirsi con sicurezza per ogni Prefetto. Certo, un
conflitto Anac-Prefettura sarebbe imbarazzante per il Governo; ma di Autorità – ma - gari
senza Cantone – finite come reggicoda della politica (vi ricordate le conversazioni tra B e
Innocenzi dell’Agcom?) ce ne sono state molte. E poi c’è il problema Tar. Il provvedimento
del Prefetto è ricorribile in via amministrativa. I presupposti del ricorso sarebbero: la qualità
di indagato dell’amministratore, e qui c’è poco da discutere; e “la particolare gravità dei
fatti”. E qui ogni avvocato potrà riempire volumi. Al ricorso può seguire la sospensiva: il
commissario potrà essere messo in stand-by fino alla sentenza. E poi comunque c’è il
Consiglio di Stato.
INSOMMA,questo inciso puzza tanto di sistemi ben conosciuti dalla politica: si fa finta di
costruire e si apprestano i sistemi per distruggere. Era molto meglio condizionare il
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commissariamento alla sola iscrizione nel registro degli indagati; così com’è si rischia una
tela di Penelope. Infine c’è un altro problema non da poco. Sarebbe meglio parlare di
amministratori dell’impresa e non dei “componenti degli organi di amministrazione”. In
questo modo il commissariamento potrebbe scattare anche se indagato è l’amministratore
di fatto e non il semplice prestanome sbattuto in CdA e che non sa nulla di nulla. Si sa
bene che i “padroni” di una società spesso non hanno nulla a che fare con gli “organi di
rappresentanza legale o di amministrazione”. Detto questo, l’Anac potrebbe essere una
buona cosa. Perché c’è Cantone. Ci avessero messo il solito grand commis, si può esser
certi che sarebbe stato fumo negli occhi. Il che ci riporta al grande pensiero di Snoopy
sdraiato sul tetto della sua cuccia: “Se la mente del giudice funziona, la legge è sempre
buona”
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
Da la Stampa del 17/06/14, pag. 14
Guardie Ue per pattugliare il Mediterraneo
Bruxelles pensa alla creazione di un’agenzia che difenda i confini
comuni
Marco Zatterin
corrispondente da Bruxelles
Chi ama gettare il cuore oltre l’ostacolo, già la vede come un’agenzia dal profilo simile a
quello dell’Interpol, una forza integrata di gendarmi e poliziotti che difendano i confini
comuni dell’Unione europea. Ci vorrà tempo, se mai si farà. Eppure l’intenzione del vertice
a Ventotto in programma fra Ypres e Bruxelles la prossima settimana è proprio quella di
apporre un sigillo politico sulla «possibilità di esplorare la costituzione di un Sistema di
guardie di frontiera che rafforzi il controllo e la capacità di sorveglianza europee». Un
punto di partenza importante per la riforma auspicata della lacunosa strategia a dodici
stelle per la gestione dell’immigrazione. Soprattutto, una mossa che troverà pieno
sostegno nell’Italia che fra due settimane prende le redini di presidente di turno dell’Ue.
La prima bozza di conclusioni in vista del Consiglio europeo del 26-27 giugno dedica 5
pagine ai problemi della Sicurezza e della Giustizia. È il minimo alla luce delle spesso
tragiche cronache degli sbarchi di disperati sulle coste del Mediterraneo. Un morto e 2300
arrivi sono il bilancio della sola giornata di ieri. «Renzi ha avuto un altro contatto telefonico
con il presidente (della Commissione Ue) Barroso», ha dichiarato il ministro degli Interni
Alfano: «L’Italia ha bisogno di una risposta: o l'Europa si fa carico di presidiare le frontiere
del Mediterraneo, o non continueremo a farlo da soli».
Gli «aut aut» non piacciono a Bruxelles e ai paesi del Nord che pongono la questione
dell’accoglienza dei rifugiati davanti ai salvataggi in mare. Il summit Ue prova a mediare,
chiede alle capitali «politiche coerenti» con la natura di un’Europa che sia «terra di libertà,
sicurezza e giustizia, senza confini interni». Parla di solidarietà diffusa. Facile che il tema
sia preso in ostaggio dalla partita delle nomine - le ultime danno il lussemburghese
Juncker in fuga verso il vertice della Commissione. Così mancheranno magari i titoli, non il
lavoro per i tecnici.
In principio, secondo la bozza vista da la Stampa, c’è «un approccio complessivo che
ottimizzi i benefici dell’immigrazione legale, offra protezione a chi ne ha bisogno, combatta
risolutamente gli irregolari». Per l’inserimento di chi arriva si auspica un dialogo con le
imprese, mentre «l’Ue dovrebbe sostenere gli sforzi nazionali per politiche attive di
integrazione». Con fondi e programmi, spiega una fonte, contraltare all’azione per
«intensificare la cooperazione» coi paesi di transito e origine, laddove possibile, nella
sponda Sud del Mediterraneo e nel Corno d’Africa. Finanziamenti, dunque. Prima di
«colpire più duramente i trafficanti» e rendere più efficace gli accordi di riammissione.
Quanto alla gestione integrata delle frontiere comuni, le conclusioni spingono per «il
rafforzamento di Frontex in termini di assistenza operativa» e «l’aumento della sua
capacità reattiva alle rapide evoluzioni dei flussi migratori». Qui torna il Sistema di guardie
di frontiera di cui si parla da tempo senza successo. «All’inizio si tratterebbe di mettere
forze in comune con un comando unico - spiega una fonte Ue - poi potrebbe divenire
qualcosa come l’Interpol». Mica semplice. «È un sistema complementare agli esistenti», si
fa notare, e la presidenza italiana è pronta a prenderlo a balzo. L’operazione Mare
Nostrum, che sposa polizia, guardia di finanza e di frontiera, potrebbe essere un modello
su cui cominciare a discutere.
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Da Avvenire del 17/06/14, pag. 6
Palermo, migranti accolti dalle parrocchie di
periferia
ALESSANDRA TURRISI
PALERMO
Emanuel è pronto a giurare che su quel gommone c'erano 120 persone e 86 di loro non ce
l'hanno fatta. Lo dice, lo ripete in continuazione, mentre in inglese cerca di spiegare che su
quel gommone mezzo sgonfio c'erano tre suoi amici, del Ghana come lui, che sono
annegati, mentre lui ce l'ha fatta. Attorno tanti ragazzi del Mali, della Costa d'Avorio, del
Senegal, della Nigeria, che hanno trovato casa in un luogo simbolo della Chiesa
palermitana: la sede storica del Centro Padre Nostro aperta nel 1991 dal beato don Pino
Puglisi. Sono 25 i giovani migranti ospitati a Brancaccio, dalla parrocchia San Gaetano,
nelle stesse stanze in cui il sacerdote ucciso dalla mafia nel '93 accoglieva i bambini e le
donne, li sottraeva alle subdole sirene della criminalità, faceva sognare loro un futuro. Le
fotografie e i pensieri di "3 P" campeggiano come tanti capezzali sui letti bianchi dove i
ragazzi africani fra i 20 e i 30 anni cercano di trovare un po' di ristoro, dopo «sei giorni
passati in mare, senza acqua e senza cibo», conferma Kofi Eannem, anche lui del Ghana,
mentre don Charles Ghukwudi Onyenemerem, diacono nigeriano in forza alla chiesa di
Brancaccio, cerca di fare da mediatore. Mille dollari è il biglietto per l'Europa che ciascuno
di loro ha pagato, dopo aver lavorato in Libia come muratore, giardiniere, manovale. «Non
mi sarei mai aspettato che il centro avrebbe potuto ospitare migranti - confessa il parroco
don Maurizio Francoforte, che ha deciso di dormire con loro -, ma mi fa molto piacere, è
un segno importante. La parrocchia impara a dedicarsi a nuove sfide, anche se non so se
il territorio è pronto per un continuo flusso di migranti». Perché questa ospitalità
sperimentale è destinata a diventare quotidianità, se i flussi di arrivi dalla Libia resteranno
così massicci. La Chiesa di Palermo, guidata dal cardinale Paolo Romeo, si è messa in
gioco. Periferie che accolgono altre periferie. La Chiesa offre quello che ha di più caro e
prezioso per accogliere in questo momento oltre 550 migranti giunti domenica sulla nave
militare Etna. Portano sul corpo e nell'anima i segni1 della paura, del dolore, del naufragio.
Nella parrocchia di San Giovanni Maria Vianney Curato d'Ars, a Falsomiele, don Sergio
Mattaliano, che è anche il direttore della Caritas diocesana, e i volontari hanno svuotato
l'aula liturgica dalle panche e l'hanno riempita di letti, così come il salone e le stanze del
piano terra: 225 ragazzi africani hanno trovato rifugio sotto le braccia del crocifisso. Il
quartiere, periferico anch'esso, si è mobilitato in massa. È un continuo viavai di persone
che portano sacchi pieni di magliette e pantaloni, scarpe e viveri. I ragazzini, ormai che la
scuola è finita, portano il pallone per tirare quattro calci con i tanti ragazzi migranti
appassionati di sport. Con loro guardano anche le partite dei mondiali, nel maxischermo
montato in cortile. Anche lì c'è un sacerdote immigrato, don Privai, della Costa d'Avorio,
che aiuta a fare da mediatore alle mille storie di sofferenza e morte. Lori, ventenne del
Mali, è sconvolto. Nel naufragio ha perso il fratello e alcuni amici. Don Sergio Mattaliano
gli ha ceduto la sua stanza, per farlo riposare tranquillo, e se lo porta in giro negli altri
centri Caritas, il San Carlo, il Santa Rosalia, quello di Padre Messina e di Giacalone, per
farlo distrarre e rasserenare. «I parrocchiani sono stati molto sensibili - dice Daniela
Adelfio, una delle tante volontarie del Curato d'Ars -, Stanno portando di tutto».
«Domenica hanno voluto pregare tutti insieme - dice Marianna Greco, studentessa di
Teologia - È stato un momento molto intenso». Altri 200 ragazzi sono andati nei locali
annessi alla parrocchia Santissima Maria Consolatrice, al Villaggio Ruffini. «Stiamo
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cercando di fornire un modello di accoglienza-aggiunge don Sergio - che possa essere
una risposta immediata a questo grido di dolore e sofferenza»
Da Avvenire del 17/06/14, pag. 6
Altri 2.300 arrivi in un solo giorno
Delrio: «Renzi si farà sentire con File»
NELLO SCAVO
MILANO
Nella giornata in cui altri 12.300 sono arrivati sulle coste italiane, tornano le voci su un
naufragio ancora avvolto nel mistèro. «Siamo partiti in 190 dalle coste della Libia.
Eravamo a bordo di due gommoni. Un centinaio sono finiti in mare. Alcuni sono stati
salvati dalle navi della marina. Ma di molti non abbiamo saputo più nulla», ha raccontato
Maxwell Yeboah, originario del Ghana. L'uomo è uno degli oltre 200 profughi arrivati
domenica a Palermo con la nave della marina militare Etna. Degli oltre 2.300 salvati ieri lo
sbarco più numeroso è avvenuto a Taranto con la nave San Giorgio, che ha soccorso,
complessivamente, 1.205 persone. Un natante in legno, con 315 extracomunitari è
approdato direttamente nel porto di Lampedusa, mentre in quello di Trapani, con una nave
della marina militare, sono scesi i 311 profughi intercettati in acque maltesi. Altri 536
migranti, quasi tutti eritrei e siriani, erano stati individuati da una nave cisterna del Kuwait,
la Al Sami, con a bordo un profugo morto di stenti. Un'altra vita sacrificata in mare alla
ricerca di un sogno che si aggiunge ai 10 corpi recuperati nei giorni scorsi al largo della
Libia e ai circa circa 40 dispersi, secondo le testimonianze di operatori intervenuti in zona.
Da sabato però sì rincorrono voci su un'altro affondamento, che sembra confermato dal
giovane ghanese ospitato a Palermo. Non passa giorno che dalla Libia non vengano
messi in mare altri natanti carichi di migranti. Ieri una petroliera battente bandiera del
Kuwait, diretta a Milazzo, nel Messinese, è stata dirottata dal Comando Generale delle
Capitanerie di Porto per prestare soccorso nel Canale di Sicilia ad un vecchio
peschereccio su cui i marinai hanno trovato 534 persone, disumanamente stipate. Nelle
stesse ore altri 300 immigrati sono stati soccorsi dalla Marina. Già quella di domenica era
stata una giornata campale: 1.812 migranti salvati. La fregata Scirocco era intervenuta in
soccorso ad un natante con 104 persone a bordo, tutti uomini. Il pattugliatore Orione
aveva abbordato un barcone con a bordo 104 migranti, 92 uomini e 12 donne, trasbordati
poi su Nave San Giorgio. Sempre il pattugliatore Orione insieme a due motovedette delle
Capitanerie di Porto ha poi soccorso 317 migranti (208 uomini, 84 donne e 25 minori di cui
4 neonati) trasbordati sulla motonave Dinasty, battente bandiera liberiana. Una giornata
senza tregua, con la corvetta "Chimera" che è riuscita a trarre a bordo 592 persone partite
con un vecchio scafo in legno: 437 uomini, 67 donne e 88 minorenni. «Matteo Renzi farà
sentire alta la voce dell'Italia», riguardo alla necessità che tutta la Uè sia coinvolta
nell'emergenza degli sbarchi. Lo afferma il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio,
Graziano Delrio, intervistato da Famiglia Cristiana dopo il recupero delle vittime del
naufragio del gommone al largo del Canale di Sicilia avvenuto la scorsa settimana.
Ribadendo la propria fiducia «nella bontà dell'operazione Mare Nostrum », di cui continua
a sentirsi «orgoglioso», il sottosegretario conferma ottimismo «sulla forza con cui il nostro
presidente del consiglio porrà la questione durante il semestre di presidenza italiana
all'Unione Europea. Su questo non ho dubbi», dice ancora Delrio, che concorda con il
ministro dell'Interno, Angelino Alfano, sul fatto che «Mare Nostrum in queste condizioni
non può andare avanti all'infinito». La missione di soccorso «è un'operazione
emergenziale che ci ha consentito di salvare 40mila persone e di cui l'Italia deve andare
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fiera, ma deve essere assolutamente ripensata per trasformarsi in un'operazione
strategica di controllo delle coste». «Senza l'intervento dell'Europa la mia proposta sarà
quella di non proseguire con "Mare nostrum" e attivare una operatività in mare nuova», ha
scritto Alfano sul sito di Ned. «Non faremo morire le persone in mare - spiega - ma non
sarà più possibile stare vicini alle coste libiche. L'Europa su Mare Nostrum deve dare una
risposta forte e concreta perché così non si può andare avanti». E proprio Alfano ha
svelato che «il presidente Matteo Renzi anche stamattina (ieri, ndr) ha avuto una
telefonata con il presidente Barroso: il nostro obiettivo è realizzare una grande azione che
permetta all'Italia di avere risposte certe e efficaci perché la frontiere del Mediterraneo è
quella dell'Europa e non dell'Italia)). Lavoro domestico
Del 17/06/2014, pag. 6
La Lega fa pace con il Sud: guerra solo agli
immigrati
La prova del nove potrebbe fornirla solo Lucia Massarotto, che ogni anno esponeva il
tricolore al suo davanzale, sventolandolo davanti ai leghisti che nel venezianissimo
Sestiere di Castello concludevano il rito dell’ampolla, versandone il contenuto in acque
salse. Mala signora Massarotto ha cambiato casa e, nel 2013, il fondatore Umberto Bossi
ha pensato bene di trasformare in comizio e “polentata” il prelievo sul Monviso del sacro
liquido padano, rendendo superflua la trasferta in laguna. La liturgia è cambiata e diventa
difficile testare sul campo eventuali reazioni della base leghista di fronte al vessillo
nazionale, a suo tempo definito «carta igienica» da un Senatur non ancora sfiorato da
storie di famiglia (e “cerchi magici”) che certo non hanno reso irresistibile la sua immagine.
Ma che un nuovo gene stia modificando il Dna della Lega non ci sono dubbi. Un partito
meno padano e più nazionale o forse, come ha spiegato Ilvo Diamanti, addirittura
nazionalista. Sedotto dalla sirena di Marie Le Pen, che in Francia detta la linea, sparando
prima di tutto sull’immigrazione: «Non è in nome della tradizione che possiamo accogliere
tutte le miserie del mondo. ...Non dovremmo neanche prendere in considerazione le
direttive europee. È bello essere generosi ma quando se ne hanno i mezzi... Quando si
hanno cinque milioni di disoccupati e nove milioni di poveri, la priorità è rispondere alle
urgenze del proprio popolo». Il messaggio, lanciato in una bottiglia nel 2013, viene
raccolto da Matteo Salvini, che ha ereditato da Roberto Maroni la guida della Lega. Non
più un partito padano, anche perché dal 25 maggio scorso, dopo la vittoria del
centrosinistra alle regionali piemontesi, è venuta meno un’ampia porzione della
macroregione che avrebbe dovuto unificare il settentrione italiano, da est a ovest. Ma un
partito che la consolidata foga antieuropeista ha paradossalmente trasformato in una
formazione con ambizioni e orizzonte nazionali. I recenti risultati elettorali non indicano
trionfi, ma dicono che la Lega ha trovato l’humus ideale in cui cercare e far crescere
consensi. È infatti risalita oltre il 6%, due punti in più rispetto alle politiche del 2013,
accumulando circa300 mila voti in più rispetto alla sfortunata consultazione di un anno
prima. Il partito di Salvini rimane sempre radicato al centro Nord (“l’unico partito di massa”,
lo definisce Diamanti), ma si è trovata di fronte a una serie di possibilità definitivamente
tramontate. La prima, e forse la più importante, era la prospettiva di governare insieme a
Silvio Berlusconi, venuta meno con la decadenza dell’ex cav e le convulsioni di quello che
una volta era il Pdl. Forse è anche per questo che la Lega sta progressivamente facendo
pace con il Tricolore. Scelta indotta,ma profondamente sentita come testimoniano le
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frequenti trasferte a Napoli e in Sicilia del neosegretario Salvini. E premiata da un lento ma
sensibile superamento di vecchi confini geografici. Nelle regioni del Centro-Sud e nelle
Isole, infatti, ha ottenuto oltre 106 mila voti. Non molto ma, sottolineano gli osservatori, 4
volte più del 2013. Un successo celebrato ieri a Pozzallo, dallo stesso Salvini: «Mi sono
impegnato a tornare, sono tornato, e tornerò a luglio, perché penso che le emergenze
siano la disoccupazione e l'immigrazione. E penso che le risposte che possiamo dare noi
vadano bene a Brescia, come a Ragusa e a Catania. Certo anche per la Lega deve
essere una scommessa, nel senso che dobbiamo andare oltre, avanti, rispetto a quello
che abbiamo fatto fino a ieri», ha detto ieri il leader della Lega. Naturalmente il
cambiamento di pelle non incide direttamente sulla cultura del partito, che ha
semplicemente sostituito la tradizionale xenofobia con argomentazioni di natura
apparentemente più pacato. L’immigrato semplicemente non conviene. Gianluca
Buonanno, sindaco di Borgosesia, piccolo comune di montagna, ex parlamentare in
viaggio per Strasburgo dopo le europee, parla dell’operazione Mare nostrum definendola
un “suicidio economico e umano”. E minacciando di presentarsi a Strasburgo “vestito da
africano”, se la prende con Papa Bergoglio: «Non mi sono piaciute le sue parole su
immigrati e zingari...Il giorno che il Papa accoglierà immigrati e zingari nella Cappella
Sistina, io farò altrettanto a casa mia». E Massimo Bitonci, da pochi giorni sindaco di
Padova, fa sapere che forse un giorno si trasferirà in quella città ma solo quando
«l’avremo ripulita e la sentirò più sicura per i miei figli». Per il momento resta a Cittadella,
comune di cui è stato primo cittadino. Sembra la Lega di sempre. Sicuramente ad essere
cambiato è il Paese.
Da repubblica.it sezione mondo solidale del 17/06/2014
Da rifugiati a cittadini, cronache di quotidiana
convivenza
E' la prima gara tra i media rivolta ai giornalisti delle testate locali,
cartacee e online, lanciato dall'UNAR - Ufficio Nazionale
Antidiscriminazioni Razziali - presso il Dipartimento per le Pari
Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri e dall'AnciServizio centrale dello SPRAR. Repubblica. it è media partner del bando
e pubblicherà gli articoli premiati e non solo
ROMA - "Da rifugiati a cittadini. Cronache di quotidiana convivenza". E' la prima gara tra i
media rivolta ai giornalisti attivi nelle testate locali, sia cartacee che online, lanciato
dall'UNAR - Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali - presso il Dipartimento per le
Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri e dall'Anci- Servizio centrale
dello SPRAR. La Repubblica. it è media partner del bando di concorso che premierà le
storie raccontate in modo più efficace, relative all'integrazione di rifugiati e dei richiedenti
asilo sui territori, tentando di destrutturare stereotipi e pregiudizi, che spesso si associano
al racconto su questi temi.
Il valore aggiunto dei rifugiati. Le storie, realizzate in collaborazione con i progetti locali
della rete Sprar, metteranno in evidenza il valore aggiunto della presenza dei rifugiati sul
territorio, raccontandone il ruolo sociale, le professionalità e le competenze esercitate da
chi ha scelto di stabilirsi nel contesto locale di accoglienza. Promuovere un'informazione
positiva che rappresenti al meglio il lavoro di accoglienza integrata svolto sui territori dallo
Sprar e il ruolo positivo delle persone accolte in numerosi contesti locali sono gli obiettivi
del concorso, che punta a contrastare ogni forma di razzismo e discriminazione.
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La pubblicazione su Repubblica.it .Gli articoli saranno diffusi a livello locale ed i migliori
saranno pubblicati su Repubblica.it. Inoltre, i migliori articoli (vincitori e non) saranno
selezionati e diffusi nell'ambito di campagne informative e di sensibilizzazione elaborate
dal Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri e
dall'Anci-Servizio Centrale dello SPRAR, oltre ad essere pubblicate in un libro.
Oggetto del bando. Il concorso si rivolge a giornalisti di cronaca locale (anche on line)
che sono invitati a contattare i progetti territoriali dello SPRAR (enti locali e realtà del terzo
settore) del loro territorio per conoscere e raccontare storie di rifugiati che, alla fine del
soggiorno nel centro di accoglienza, abbiano deciso di rimanere sul territorio, avendo
trovato un lavoro o una casa o entrambi. La storia dovrebbe anche mettere in evidenza il
ruolo sociale e la professionalità che aveva il rifugiato nel proprio Paese d'origine, perché
spesso viene percepito in Italia solo come membro della categoria dei rifugiati, perdendo
qualsiasi individualità.
Requisiti di partecipazione. La partecipazione al concorso è aperta ai giornalisti iscritti
all'Albo "Professionisti" o "Pubblicisti" dell'Ordine dei Giornalisti italiano. Saranno ammessi
al concorso articoli e servizi in lingua italiana pubblicati nel periodo 20 giugno - 30
settembre 2014. Per quanto concerne gli articoli pubblicati a mezzo stampa, saranno presi
in considerazione quelli comparsi su quotidiani o riviste effettivamente distribuiti e diffusi
entro il 30 settembre 2014. Ciascun concorrente potrà partecipare con un massimo di due
elaborati. L'iscrizione al Premio giornalistico è gratuita.
Termine di presentazione. La domanda di partecipazione da redigere in carta semplice
secondo il modello scaricabile dal sito dell' UNAR e da quello del Dipartimento per le Pari
Opportunità, deve pervenire, tramite raccomandata A/R o recapitate a mano, entro e non
oltre il il 30 settembre 2014, pena esclusione, al seguente indirizzo: Presidenza del
Consiglio dei Ministri - Dipartimento per le Pari Opportunità Ufficio Nazionale
Antidiscriminazioni Razziali - Largo Chigi 19 - 00187 Roma indicando sulla busta
"Concorso Giornalistico Da Rifugiati a cittadini. Cronache di quotidiana convivenza".
Da allegare alla domanda. Alla domanda di partecipazione il candidato dovrà allegare,
pena esclusione, la seguente documentazione:
- la domanda di partecipazione contenente il proprio nome e cognome, luogo e data della
redazione e della pubblicazione dell'articolo;
- una fotocopia non autenticata di un documento di identità valido e del codice fiscale;
- L'articolo realizzato in formato A4 sul cui retro dovrà indicare il proprio nome e cognome,
luogo, e data di redazione e di pubblicazione e categoria;
- una copia originale della testata sulla quale è stato pubblicato l'articolo firmato (o siglato)
con specificato nome e cognome dell'autore, nome della testata, numero e data di
pubblicazione, numero di pagina dell'articolo.
- la lettera di liberatoria per la diffusione dell'articolo in campagne di comunicazione
dell'UNAR e del Servizio centrale dello SPRAR (modello allegato).
Ulteriori Specifiche. L'articolo dovrà essere dalle 9.000 alle 15.000 battute. Tutti gli
articoli, dovranno essere scritti rispettando le indicazioni della Carta di Roma ed essere
pubblicati su una testata locale e/o on line entro il 28 settembre 2014.
Commissione giudicatrice. Una commissione, appositamente costituita da membri
dell'Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali, del Servizio centrale dello SPRAR, del
servizio specialistico ARCI-UNAR, di Repubblica.it, provvederà a determinare i criteri di
valutazione degli articoli.
Selezione dei vincitori. La Commissione, dopo aver esaminato la documentazione
trasmessa da ciascun candidato, premierà i 3 articoli ritenuti migliori secondo il criterio di
valutazione basato sull'originalità e sui valori comunicativi, funzionali all'area tematica
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oggetto del bando. In particolare saranno valutati la completezza dell'informazione, la sua
rigorosità scientifica, la capacità divulgativa e lo stile dell'esposizione.
La commissione terrà in considerazione anche il rispetto delle indicazioni della Carta di
Roma.
I vincitori saranno selezionati secondo l'insindacabile giudizio della Commissione
giudicatrice
Premi di concorso. I tre articoli, ritenuti vincitori ex-equo dalla Commissione giudicatrice,
saranno premiate con la pubblicazione su Repubblica.it. Inoltre, i migliori articoli saranno
selezionati e diffusi nell'ambito di campagne informative e di sensibilizzazione elaborate
dal Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, oltre
ad essere pubblicate in un libro.
Elenco Vincitori e Assegnazione Premi. L'elenco dei vincitori sarà pubblicato on line sui
siti dell'UNAR e del Dipartimento per le Pari Opportunità. Ai singoli vincitori sarà trasmessa
specifica comunicazione scritta a mezzo email con congruo anticipo rispetto alla cerimonia
di premiazione che avverrà durante una conferenza stampa organizzata nel mese di
ottobre. La presenza alla cerimonia di presentazione è condizione necessaria per il
ricevimento del premio.
Pubblicità del bando. Il presente bando di concorso e i relativi moduli per la domanda di
partecipazione sono disponibili on line sul sito del Dipartimento per le Pari Opportunità
della Presidenza del Consiglio dei Ministri e
sul sito dell'UNAR all'indirizzo e sul sito del Servizio centrale dello SPRAR.
Ulteriori Informazioni. Per ulteriori informazioni, i candidati potranno rivolgersi al
responsabile del concorso giornalistico al numero 06-67792267 oppure all'indirizzo e-mail:
[email protected].
Trattamento dei dati personali. Con riferimento alle disposizioni di cui al decreto
legislativo n. 196/2003 e successive modificazioni ed integrazioni, si informa che il
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alla gestione dell'attività inerenti il concorso e che lo stesso avverrà con utilizzo di
procedure informatiche ed archiviazione cartacea dei relativi atti. Si precisa che è
obbligatorio comunicare i dati richiesti pena l'esclusione dalla selezione in caso di rifiuto. I
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SOCIETA’
del 17/06/14, pag. 23
Renzi: a settembre inizia la discussione in Parlamento. “I diritti saranno
gli stessi delle coppie etero sposate” Al partner pensione di reversibilità
e garanzie sull’eredità. L’unica differenza riguarda le adozioni
“Unioni gay come le nozze”, via alla legge
MARIA NOVELLA DE LUCA
ROMA .
Chiamatela se volete “rivoluzione Arcobaleno”, visto che qui si parla di coppie e famiglie
omosessuali, e l’associazione che porta quel nome ne riunisce diverse centinaia. Sì,
perché in Italia (se non ci saranno barricate) a settembre approderà in aula la legge che
istituisce nel nostro paese le unioni civili per le coppie gay. Unioni che garantiranno alle
persone dello stesso sesso gli stessi diritti delle coppie eterosessuali sposate, dalla
reversibilità della pensione alla facoltà di adottare il figlio del partner, dalla
certezza di potersi assistere reciprocamente in ospedale, ai diritti di successione e di
eredità. Unica differenza con le coppie eterosessuali: nelle unioni omosex non è
consentita l’adozione di bambini, al di fuori appunto della “stepchild adoption”, che è forse
la norma più attesa dalle famiglie omogenitoriali. Oggi infatti nelle coppie gay i bambini
non hanno alcun legame giuridico con la compagna della madre o con il compagno del
padre. Quindi se venisse a mancare il genitore biologico si ritroverebbero soli davanti alla
legge... Ecco con la nuova legge i figli “arcobaleno” avranno due genitori resi tali
dall’unione
civile.
Il modello a cui si ispira il progetto già annunciato dal premier Renzi è la “civil partnership”,
nata in Inghilterra, e tuttora in vigore in Germania. Una sorta cioè di equiparazione al
matrimonio, stessi diritti, stessi doveri: chi vorrà “sposarsi” dovrà iscriversi in un apposito
registro. E se davvero la legge verrà approvata, per l’Italia sarà un passo storico.
«Abbiamo riunito le diverse proposte in due testi già pronti per andare in aula», spiega
Monica Cirinnà, senatrice del Pd e relatrice in commissione Giustizia del Senato. La nostra
Costituzione — aggiunge Cirinnà — non definisce mai il genere dei coniugi,
ma si limita a riconoscere i diritti della famiglia come società naturale fondata sul
matrimonio. Per questo ritengo di assoluta priorità l’introduzione di nuove norme che
regolino le diverse forme di famiglia». I testi di legge in discussione infatti non prevedono
soltanto l’istituzione delle unioni civili omosex, ma anche i “patti di convivenza” per le
coppie di fatto eterosessuali. Qualcosa di molto diverso però. Gli eterosessuali che
scelgono di convivere e di non sposarsi potranno contare soltanto su alcuni diritti garantiti.
Visto infatti che per loro è possibile il matrimonio, è la filosofia della legge, è evidente
che chi non si sposa non vuole nemmeno essere tutelato dai diritti-doveri previsti dalle
nozze.
Ivan Scalfarotto, sottosegretario alla presidenza del Consiglio non nasconde la sua
soddisfazione. «In un mondo perfetto vorrei che in Italia ci fosse il matrimonio gay, ma
preferisco avere le unioni civili subito che il nulla fino a data da destinarsi. Ritengo però
che insieme alle unioni civili si debba tornare a discutere dell’omofobia, e che tutti i
matrimoni di coppie omosessuali celebrati all’estero siano direttamente registrati in Italia
come unioni civili». Non è detto però che
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l’iter di questa “civil partnership” abbia vita facile. Già la parte cattolica della maggioranza
ha annunciato battaglia. Ma non solo. Un punto nascosto nel testo potrebbe creare non
pochi ostacoli. La legge prevede che in una coppia gay sia prevista anche l’adozione, da
parte del partner, non solo di un figlio naturale, ma anche di un figlio precedentemente
adottato da uno dei due componenti. E molti paesi da cui arrivano i bambini adottabili
potrebbero decidere, proprio per questa clausola, di non accettare più pratiche con l’Italia.
E non è un problema da poco.
Del 17/06/2014, pag. 7
Unioni civili, corsa contro il tempo
Le Famiglie Arcobaleno: «Continuerà la lotta per il matrimonio
omosessuale ma la proposta di Renzi risolverà problemi enormi come
quelli in caso di separazione»
Sia chiaro, la nostra battaglia continuerà per avere l’estensione del matrimonio civile. Ma
non possiamo negare che quella di Renzi sulle Unioni civili e soprattutto sull’adozione
parziale è una proposta avanzata, per noi sarà una svolta che risolverà nell’immediato
problemi enormi». Prudenza e speranza, così l’associazione di genitori omosessuali
Famiglie Arcobaleno accoglie il rilancio del premier e segretario Pd su una forma di tutela
per le coppie non etero. Un intervento legislativo atteso da decenni per sanare la
discriminazione di una fetta consistente di italiani - si stima che in genere il 4-5% della
popolazione sia omosessuale ricorda Marco Gattuso, giudice del Tribunale di Bologna e
direttore del portale Articolo 29. La presidente delle Famiglie Arcobaleno Giuseppina La
Delfa dunque non ha dubbi, il cuore delle nuove norme deve essere la «stepchild
adoption» che Renzi aveva già nel programma per le primarie, «questo rimane il nostro
obiettivo primario». Mancano stime certe ma potrebbe interessare «alcune decine di
migliaia di minori, in Francia ad esempio erano 40 mila nel 2005». Bambini e ragazzi,
ricorda La Delfa, che «pur vivendo con due genitori oggi risultano legalmente figli di uno
solo dei due». E questo li lascia esposti in moltissime situazioni. Senza andare a quelle più
gravi, «penso al caso recente di due donne che si stanno lasciando dopo dieci anni
insieme e due figli, come spesso accade ci sono gelosie e incomprensioni e la madre
biologica ha deciso che la compagna non può più vedere i figli». Un dramma più comune
di quel che si pensi, «visto che non siamo diversi dalle altre coppie, né migliori né
peggiori»: i “divorzi” crescono anche nelle famiglie Lgbt e a farne le spese sono in prima
battuta i minori, privi di ogni tutela, «c’è il rischio concreto che uno dei due genitori si veda
del tutto tagliato fuori dalla loro vita». A tutto questo dovrebbe porre rimedio appunto
«l’adozione per gradi» importata dal modello tedesco, con la possibilità per il partner di
adottare il figlio/a del genitore già riconosciuto come tale. A cui si accompagnerebbe il
riconoscimento degli stessi diritti garantiti dal matrimonio civile: successione, assistenza
ma anche appunto l’obbligo di sostenere il “coniuge” più debole in caso di separazione, e
via dicendo. Chiarita la volontà politica, il traguardo sembra finalmente a portata di mano,
Renzi ha fissato a settembre la riapertura della discussione sul tema e «l’intervento
normativo risulta semplice - osserva ancora Gattuso - proprio perché si tratta di inserire
nel Codice civile norme che non si pongono in concorrenza al matrimonio civile. Certo si
tratta di un compromesso politico, ma avanzato». Il senatore Pd Sergio Lo giudice, autore
di alcune delle proposte di legge su cui ha lavorato la relatrice Daniela Cirinnà ci scherza
su, «sono trent’anni che porto avanti questa battaglia quindi non riesco a vedere una
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strada in discesa. Diciamo che mi pare meno in salita». Anche lui avrebbe preferito si
discutesse dell’estensione del matrimonio civile, «senza non avremo una vera
uguaglianza», ma ora che il Pd ha trovato questa linea è per l’avanti tutta. Lo Giudice ha
sposato il compagno a Oslo tre anni fa e da poco è diventato papà grazie a una
«gestazione per altri» negli Stati Uniti. Si è autospeso contro la sostituzione di Mineo e ora
si trova protagonista dell’accelerazione del premier sul nodo dei diritti civili («sono due
piani assolutamente diversi »). Con qualche speranza in più, questa volta, «l’impegno di
Renzi lo voglio prendere sul serio». Resta da vedere se il Pd seguirà il segretario senza
mal di pancia ma per Lo Giudice i tempi dell’opposizione interna ai Pacs sono lontani:
«Ormai all’interno del Pd la discussione non è più se fare una legge ma che contenuti
darle - osserva -. Nel partito c’è una consapevolezza diversa. Ecomunque ci sono state
due sentenze della Corte Costituzionale sulla mancata tutela per le coppie omosessuali
(l’ultima pochi giorni fa ha annullato la cancellazione delle nozze di un uomo diventato
donna, perché non le si offriva nessuna forma di riconoscimento giuridico alternativo ndr),
se non legiferiamo rischiamo una sentenza vincolante della Consulta».
MA RIMANIAMO ULTIMI IN EUROPA O peggio ancora, se i tempi delle Unioni civili non
saranno davvero stretti «rischiamo un intervento di censura (e possibili sanzioni)
dall’Europa, come già accaduto per le carceri - avverte il magistrato Gattuso - : con la
Grecia siamo l’unico Paese della vecchia Europa a non prevedere alcuna tutela per le
coppie omosessuali, una situazione miserabile e indifendibile». A chi si volesse mettere di
traverso, come magari l’alleato di governo Ncd, si può insomma ricordare che siamo già
fuori tempo massimo. La cronologia è impietosa: la Germania a cui ora ci ispiriamo si è
mossa già nel 2001, anche Paesi molto cattolici come Spagna e Portogallo sono arrivati
prima di noi e prevedono il matrimonio omosessuale tout court. Da qui le disparità ora
studiate da Genius, la prima rivista di studi giuridici su orientamento sessuale e identità di
genere (nella direzione scientifica Stefano Rodotà e Robert Wintemute, il primo numero è
on line su articolo29.it).
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 17/06/14, pag. 11
Il favore del governo agli inquinatori
NELL’ULTIMO DECRETO ARRIVA IL SILENZIO ASSENSO PER LE
BONIFICHE A BENEFICIO DI IMPRESE COME L’ILVA
di Stefani Feltri
Bonifiche più rapide e disinvolte a tutto beneficio delle imprese che hanno inquinato, un
po' di nomine ministeriali, qualche favore ai militari e un misterioso riferimento a Expo
2015. I provvedimenti adottati dal governo nel Consiglio dei ministri di venerdì ancora non
sono ufficialmente consultabili: come spesso accade, anche con l'esecutivo di Matteo
Renzi, passano giorni o settimane tra gli annunci e la presentazione delle norme concrete.
Ma il Fatto ha potuto leggere l'ultima versione del decreto legge sulla Pubblica
amministrazione, dedicato alle “Misure urgenti per l'efficientamento della Pa e per il
sostegno dell'occupazione”, datato “12 giugno ore 24”. La parte dedicata all'ambiente ha
suscitato parecchie perplessità in Angelo Bonelli, il segretario del Verdi. Prendiamo
l'articolo 116: in nome del “contenimento della spesa pubblica e dell'incremento
dell'efficienza procedimentale”, il numero dei membri della Commissione tecnica di verifica
dell'impatto ambientale (la “commissione Via) scende da 50 a 40. La Commissione,
guidata oggi dall'ingegnere Guido Monteforte Specchi, si occupa di determinare l'impatto
ambientale delle opere, piccole e grandi, prima che si aprano i cantieri. Il governo
risparmierà qualcosa sui gettoni di presenza, ma l'effetto più immediato è che bisognerà
rinominare tutti i membri, un'opportunità di spoils system in un organismo in cui in teoria la
pratica non era consentita. Ma è l'articolo 117 quello critico che riguarda i terreni inquinati
da bonificare, quelli di interesse nazionale più quelli locali, dall'Ilva di Taranto alla Saras di
Sarroch. La disciplina introdotta dal governo Renzi funzionerà così: l'impresa che è stata
obbligata per legge a bonificare, cioè a farsi carico dei costi necessari a rimediare ai danni
da inquinamento che ha prodotto, presenta il piano di bonifica all'Arpa, l'autorità
ambientale regionale. Se l'Arpa non risponde entro 45 giorni, vale la regola del silenzioassenso. Tradotto: basta qualche lungaggine burocratica e chi ha causato gravi danni se
la caverà alle proprie condizioni. “In Italia il principio del chi inquina paga non viene mai
applicato e c'è sempre il tentativo di rendere meno costoso l'intervento per l'impresa”, dice
il leader dei Verdi Bonelli. Non solo: se l'Arpa risponde con un giudizio negativo, poi
l'impresa ha 45 giorni per presentare le integrazioni al piano giudicato carente. E se
l'azienda non rispetta la scadenza? Nessuna sanzione.
Sempre nell’articolo 117 vengono fissati requisiti più blandi di quelli normali per le aree
inquinate dai militari, tipo il poligono di Quirra in Sardegna. Poi c’è un riferimento
misterioso all’Expo 2015. All’articolo 68 c’è un rimando alla legge 98 del 2013 che parla
dell’assegnazione delle risorse ad alcune grandi opere. Il decreto di Renzi prevede di
rafforzare il fondo della legge 98 con 1 o 2 miliardi di euro e la possibilità di aggiungere a
questo elenco. Nell’ipotesi B (stanziamento da 1 miliardo) parte delle risorse andranno a
non meglio precisati “ulteriori risorse completamento interventi Expo”. Non è necessario
fornire dettagli, tanto l’idrovora del grande evento milanese non ha di sicuro finito di
inghiottire denaro pubblico.
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Del 17/06/2014, pag. 14
«Decine di milioni di danni all’agricoltura
italiana»
L’allarme: Rovinate le colture da Nord a Sud
Caos a Napoli strade allagate e alberi caduti
I nubifragi, il vento, la grandine: non si ferma l’ondata di maltempo in Italia e nelle
campagne aumentano danni e disagi. Dalla Toscana al Lazio alla Puglia, migliaia di ettari
di terreno coltivati sono sommersi o ridotti a un cumulo di fango, ci sono serre divelte e
magazzini allagati e sale la preoccupazione per le condizioni della prima ortofrutta estiva e
del grano duro, soprattutto a Sud, dove la grandine rischia di compromettere la produzione
alla vigilia della raccolta e la pioggia torrenziale può pregiudicarne la qualità. A lanciare
l’allarme è la Confederazione italiana agricoltori secondo cui le perdite «ammontano già a
diversi milioni di euro».Ascontare gli effetti degli allagamenti, «soprattutto nei terreni poco
permeabili, sono gli orticoli coltivati in campo aperto, come meloni, patate, melanzane,
zucchine e insalate - sottolinea la Cia - mentre la grandine e i temporali violenti
danneggiano i tanti frutteti in maturazione che rischiano di perdere più del 10% del
prodotto ». Spaventa, poi, «il caos viabilita che rallenta la logistica e i trasporti legati
all’attività aziendale - evidenzia la Cia - quindi la distribuzione dei prodotti, soprattutto
quelli freschi, e l’approvvigionamento di mangimi e concimi». Particolarmente complicata,
ieri, la situazione in Campania dove le precipitazioni sono state violentissime. Caos a
Napoli fra strade trasformate in fiumi, alberi sradicati, rami spezzati dal vento, che si sono
abbattuti su vetture in sosta, motorini trascinati dall’acqua, cartelloni pubblicitari divelti e
negozi allagati. La bomba d’acqua mista alla grandine e la tromba d’aria intorno alle 13.30
abbattutesi su Napoli e sul suo hinterland hanno mandato in tilt la viabilità, sorprendendo
centinaia di automobilisti costretti a fermare la marcia. In città, sul lungomare, un albero è
stato abbattuto dalle forte raffiche di vento in via Caracciolo, mentre alcuni pali della
segnaletica viaria sono caduti in piazza Vittoria. Un altro albero è caduto su un’auto ad
Agnano. A crollare anche cornicioni e mattoni da muri. In alcuni quartieri, la pioggia ha
fatto saltare numerosi tombini, come a piazza Bernini, con getti d'acqua in strada. La
stazione metropolitana Garibaldi, allagatasi, è stata chiusa, e infiltrazioni ci sono anche a
quelle di Medaglie d'Oro, Policlinico e Museo. Disagi nel porto, dove un fulmine ha fatto
crollare il soffitto di un capannone, mentre si sono rotti decine di ormeggi. Nel Palazzo di
Giustizia, piazza Cenni, cuore del nuovo tribunale, si è allagata, ed anche i locali
dell'Ordine degli avvocati, dove l'acqua gocciola dal soffitto. A San Giorgio a Cremano un
albero si è abbattuto su un'auto in sosta, mentre una pompa di benzina ha subito danni,
con una fuoriuscita di carburante. Acqua mista a fango è scesa giù dai cavalcavia tra
Torre Annunziata e Napoli sull'autostrada Napoli-Salerno, provocando code di auto
chilometriche. A Pozzuoli si è allagato il lungomare di via Napoli, così come la stazione
Trencia della Sepsa. Treni bloccati anche alla stazione del quartiere di Napoli di Soccavo.
A Portici, nel centro, un passante è stato colpito alla testa da alcune pietre cadute dal
cornicione di un balcone. In viale Rossini, poi, la tromba d’aria ha portato via una parete
dell’appartamento di un palazzo, sventrandolo. Situazione molto complicata anche a
Benevento, con i carabinieri che sono dovuti intervenire per prestare assistenza e
soccorso ad automobilisti e cittadini in difficoltà. «L' ondata di maltempo sta attraversando
la penisola nel momento più importante per l'agricoltura in cui si raccolgono i frutti di un
intero anno di lavoro che migliaia di aziende si vedono purtroppo sfumare con pesanti
effetti sul piano economico ed occupazionale», commentava ieri Coldiretti che quantificava
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in decine di milioni di euro i di danni sono provocati alle coltivazioni agricole dal maltempo
che non ha risparmiato produzioni di pregio dai pomodori San Marzano Dop in Campania
ai vigneti di Negroamaro in Puglia.
Del 17/06/2014, pag. 4
La maxi diga di Belo Monte, un’ecobomba
contro i nativi
Amazzonia. Lontano dai riflettori del Mondiale, la lotta contro un
progetto dall'impatto sociale e ambientale devastante
Tancredi Tarantino
Mentre il Brasile prova in tutti i modi ad agghindarsi dando la caccia a barboni, tossici e meninhos da rua che rischiano di rovinare lo scenario da cartolina del Mondiale, le
comunità indigene e contadine dello stato del Parà continuano a protestare contro quella
che sarà la terza diga più grande al mondo.
Lontano dai riflettori calcistici, nel cuore della foresta amazzonica, Belo Monte è un progetto faraonico composto da 24 turbine, 2 bacini idrici, un canale di derivazione largo oltre
500 metri e lungo 20 chilometri e una potenza installata di 11.300 megawatt.
Esorbitante il costo complessivo dell’opera: 12 miliardi di euro. La Banca brasiliana di sviluppo Bndes finanzia l’80%, mentre il consorzio incaricato di costruire l’infrastruttura
è capitanato dal colosso carioca Odebrecht, già sotto accusa per altri progetti energetici in
America latina. Belo Monte dovrebbe iniziare a operare nel 2015. I suoi impatti saranno
devastanti, con la deviazione del fiume Xingu, affluente del Rio delle Amazzoni,
e l’inondazione di oltre 500 chilometri di terre fertili, che vuol dire spostamento forzoso di
oltre 30mila persone. A rischio è anche la sopravvivenza di circa mille indigeni Kayapó,
Juruna e Arara, che da secoli vivono in riva alla «grande curva» del fiume, in prossimità di
Altamira. «Non vogliamo combattere, ma siamo pronti a difendere con ogni mezzo le
nostre terre», furono le parole che nel 2009 il leader indigeno José Carlos Arara rivolse
all’allora presidente Lula da Silva. Il bacino dello Xingu è la casa di oltre 25mila nativi,
appartenenti a diciotto diverse etnie, un patrimonio inestimabile della diversità culturale
brasiliana. Dalla savana centrale dello stato di Mato Grosso, il fiume percorre oltre 2mila
chilometri prima di sfociare sul Rio delle Amazzoni, attraverso alcune delle aree protette
più importanti del gigante sudamericano. L’idea di costruire una centrale idroelettrica nello
stato del Pará risale agli anni ’70, ma soltanto alla fine degli anni ’80 il progetto prese
forma. Inizialmente, il mega sbarramento sul fiume Xingu avrebbe dovuto essere composto da cinque dighe in grado di generare fino a 20mila megawatt di energia l’anno.
L’impianto avrebbe comportato l’inondazione di 18mila chilometri, mettendo a rischio la
sopravvivenza di decine di migliaia di persone. Le proteste fecero ben presto cambiare
idea al governo, che nel 2002 presentò il nuovo progetto, il quale riduceva l’ampiezza del
bacino idrico. Nella sostanza però gli impatti socio-ambientali rimanevano allarmanti. Ciò
nonostante, l’agenzia brasiliana per l’ambiente – Ibama – concesse la licenza ambientale
nel giugno del 2011. Un mese dopo Odebrecht ha iniziato i lavori di costruzione, mentre il
governo rifiniva un piano di spostamenti forzati e compensazioni per cancellare con un
tratto di penna la presenza di comunità indigene e contadine nella zona. Dall’apertura del
cantiere, i lavori sono stati interrotti in più occasioni, soprattutto per le proteste dei nativi
che chiedevano di essere consultati, come previsto dalla normativa nazionale e internazionale. Nell’agosto 2012 il tribunale superiore del Parà diede loro ragione, disponendo il
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blocco immediato del cantiere e obbligando il governo a realizzare una consultazione preventiva dei nativi che «devono dare il loro parere su opere infrastrutturali da realizzarsi nei
loro territori». Ma la sentenza rimase sulla carta e i lavori dovranno concludersi a febbraio 2015. Secondo quanto indicato dall’attuale governo, una volta a regime l’impianto
dovrebbe produrre fino a 9mila megawatt di energia l’anno. Una mare di energia che servirà per alimentare l’industria mineraria e le grandi città del sud, soprattutto nello stato di
Minas Gerais, sarà veicolata tramite un potente elettrodotto di 2.100 chilometri. Un
sistema di tralicci e cavi da 800mila volt che attraverserà mezzo Brasile, invadendo aree
protette e territori indigeni. Nei fatti però l’energia media prodotta non supererà i 5mila
megawatt, considerando che nella stagione secca i livelli di acqua saranno così bassi che
la diga sarà praticamente ferma. Proprio per questo motivo, si sta già prevedendo un
sistema di sbarramenti più piccoli per portare acqua a Belo Monte e permetterle così di
produrre energia durante tutto l’anno. Un’operazione questa che non farà che aumentare
la devastazione ambientale e i pericoli per le popolazioni locali che, peraltro, non avranno
mai accesso all’energia prodotta sui loro territori. Ufficialmente il numero di persone che
dovranno abbandonare le loro case è di circa 20mila, ma in realtà gli impattati dalla grande
opera saranno molti di più. I livelli dello Xingu si ridurranno sensibilmente in prossimità
della “grande curva”, con conseguenze gravi per la pesca e l’agricoltura che rappresentano le principali attività di sussistenza della zona. Il fiume non sarà più navigabile in quel
tratto e i collegamenti fluviali tra i villaggi e le città saranno interrotti. Gli indigeni non
potranno più raggiungere Altamira per andare a vendere i loro prodotti al mercato
e saranno quindi costretti a trasferirsi in città.
* Re:Common
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ECONOMIA E LAVORO
del 17/06/14, pag. 11
Secondo Eurostat la nostra pressione fiscale è salita fino al 44% “Sono
soprattutto le imposte sul lavoro a pesare eccessivamente”
Tasse ai massimi in Italia 4 punti sopra
l’Eurozona aumento record nel 2012
ANDREA BONANNI
BRUXELLES .
L’Italia è, con l’Ungheria, il Paese europeo in cui la pressione fiscale è aumentata di più:
tendenza che risulta comunque comune a tutta la Ue. Secondo i dati pubblicati ieri dalla
Commissione, e riferiti al periodo 2011-2012, il peso delle tasse sui contribuenti italiani è
salito dal 42,4 al 44 per cento del Pil. Nell’Unione europea la pressione fiscale è salita
mediamente dal 38,8 al 39,4 per cento e, secondo le stime di Bruxelles, è destinata a
crescere ancora nei prossimi anni. Gli unici Paesi che in quel periodo hanno ridotto il peso
delle tasse sono stati la Gran Bretagna, il Portogallo e la Slovacchia.
Nella graduatoria del carico fiscale, che però non prende in considerazione la qualità e la
quantità dei servizi erogati come corrispettivo delle tasse prelevate, l’Italia è tra i sei Paesi
europei che hanno il fisco più esoso. In testa a tutti c’è la Danimarca, con una imposizione
pari al 48,1 per cento del Pil.
Seguono il Belgio (45,4%), la Francia (45%), la Svezia (44,2%), la Finlandia (44,1%) e
l’Italia con il 44,0 per cento. I Paesi che fanno pagare meno tasse sono tutti nell’Est
europeo: Lituania (27,2%), Bulgaria e Lettonia (27,9%), Romania e Slovacchia (28,3%).
Nel periodo preso in considerazione, i governi che hanno aumentato le tasse di più
dell’uno per cento, e dunque più della media comunitaria, sono stati, oltre all’Ungheria e
all’Italia, la Francia, la Grecia, il Belgio e il Lussemburgo.
Se lo studio presentato ieri dalla Commissione sulla base dei dati forniti dall’ufficio
statistico europeo non
prende in considerazione la qualità dei servizi pagati con le tasse dei contribuenti, analizza
tuttavia il tipo di fiscalità praticato dai vari governi. E giunge alla sconsolante conclusione
che l’attività maggiormente tassata continua ad essere il lavoro. Nonostante Bruxelles
continui ad insistere sulla necessità di trasferire il carico fiscale dal lavoro al capitale e ai
consumi, nella media Ue il 51 per cento degli introiti fiscali deriva dall’imposizione sul
lavoro. Le tasse sui consumi hanno rappresentato il 28,5 per cento degli introiti e quelle
sul capitale solo il 20,8 per cento. «La tassazione del lavoro continua ad essere troppo
elevata, mentre basi fiscali più favorevoli alla crescita, come le tasse sull’inquinamento
ambientale, sono insufficientemente utilizzate in molti Paesi. Questi dati confermano le
preoccupazioni della Commissione », ha commentato il commissario alla fiscalità, Algirdas
Semeta, nel presentare i risultati dello studio.
Anche l’Italia presenta una elevata imposizione sul lavoro in linea con la media europea
(51,1 per cento), mentre le tasse sui consumi sono tra le più basse d’Europa (24,7 per
cento), e quelle sui capitali arrivano al 24,2 per cento. Le tasse sul lavoro più elevate (oltre
il 55 per cento) vengono praticate da Svezia, Germania, Olanda e Austria. Le tasse sui
consumi hanno rappresentato il principale introito fiscale solo in Bulgaria e in Croazia.
Paradossalmente le imposte sui capitali risultano relativamente più elevate proprio nei
Paesi considerati un rifugio ideale per gli investitori: Lussemburgo, Regno Unito, Malta e
Cipro hanno tutti una imposizione che supera il 25 per cento.
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del 17/06/14, pag. 11
RITARDI E NORME FOLLI
IL CAOS DEL TAX DAY È SOLO
L’ANTEPRIMA
di Giulia Merlo
Quello di ieri è stato solo l’antipasto, il dramma per contribuenti, Caf e commercialisti sarà
a ottobre, quando tutti e 8000 i comuni presenteranno le loro delibere in materia di Tasi.
“Non ci sono state file infinite ai Caf, anche perchè ricevono su appuntamento – spiega
Valerio Canepari, del coordinamento nazionale Caf –. Solo un po' di attesa in più rispetto
al normale nei giorni scorsi e ieri, ma noi abbiamo appuntamenti fissati e comunque
continuiamo a lavorare fino a fine mese anche per il calcolo della Tasi”, l’imposta sui
servizi indivisibili. Anche se entro ieri la Tasi non è stata saldata, infatti, il cittadino ha
tempo entro il 30 giugno per versare il dovuto, con una mini sanzione dello 0,2 per ogni
giorno di ritardo. Se invece il ritardo arriva fino al 1 luglio, la sanzione è ridotta del 3 per
cento.
LA TASSA VIENE pagata solo nei Comuni che hanno deliberato l’aliquota entro il termine
previsto dal governo. A farlo sono stati 2.200 Comuni, circa un terzo del totale. Ognuno ha
utilizzato criteri diversi per decidere come calcolare l’aliquota, con esiti anche paradossali.
Un piccolo centro di 2700 persone in provincia di Cagliari “ha deliberato una tabella con 70
fasce, in base alla rendita catastale”, spiega Franco Galvanini, del coordinamento
nazionale dei Caf. Ogni 20 euro in più di rendita, è prevista una diminuzione della
detrazione sulla Tasi di 1,70 euro. E i Caf, che avevano previsto 50 righe disponibili per
inserire i valori nel loro sistema di calcolo informatizzato, hanno dovuto modificare il
programma. Un altro Comune, invece, ha legato le detrazioni sulla Tasi al reddito del
nucleo familiare. Peccato che le dichiarazioni dei redditi per pagare le imposte siano
personali. Con il risultato che, “in questo caso bisogna sommare il reddito del figlio ancora
membro del nucleo familiare, la pensione del nonno e chissà cos’altro”. E i calcoli si
complicano “quando il cliente ha immobili sparsi in più comuni, che hanno deliberato
l'aliquota Tasi in base a criteri diversi” spiega Alessandro Cotto, commercialista del centro
studi Eutekne.
IL GROVIGLIO delle delibere comunali rischia di diventare ingestibile a ottobre, quando
arriveranno anche le quasi 6000 mancanti. Secondo quanto previsto dal governo, la
scadenza ultima per presentarle è il 18 settembre e i Caf avranno meno di 20 giorni per
interpretarle, prima del tax day del 16 ottobre. “Il problema è che queste delibere spesso
sono poco chiare e si prestano a interpretazioni diverse – dice Galvanini – ed è probabile
che un commercialista le applichi in modo diverso dall’altro”. Poi ci sono casi di delibere
incomprensibili anche per chi le ha redatte. “È capitato a un collega - racconta il
commercialista Cotto - di ricevere informazioni diverse e contrastanti da parte dello stesso
ufficio comunale”. Nel caso di errori, è il contribuente a pagare la sanzione. Poi può
provare a rivalersi su chi ha fatto il calcolo errato. Per evitare la beffa ai danni dei cittadini,
i Caf hanno chiesto al governo di non prevedere penali in caso di ritardi o errori nel
pagamento della Tasi e che l'ammanco possa essere conguagliato con il saldo finale,
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previsto per il 16 dicembre. Il sottosegretario del Tesoro Enrico Zanetti, durante un
question time, ha assicurato che lo spazio per evitare ai cittadini ulteriori salassi a causa di
incolpevoli errori di calcolo c'è. Manca ancora, però, un provvedimento concreto.
I PROBLEMI DI CALCOLO e le eventuali sanzioni, però, sono solo uno delle conseguenze
della nuova imposta. “A fronte di un'aliquota comunale tutto sommato abbastanza bassa, dice Cotto – i calcoli sono talmente complicati che a pesare sul contribuente, più della
tassa stessa, sono i costi di adempimento per i commercialisti”. Visto che è impossibile
fare tutto da soli, oltre a una tassa di poche decine di euro, il cittadino deve anche pagare
la tariffa del commercialista il quale, spesso, arriva a rimetterci. “È difficile spiegare ai
clienti che, a fronte di una tassa di 50 euro, il costo del nostro lavoro è di 80, anche
applicando una tariffa media di 30 euro l'ora - spiega Cotto – Pe tutelare il rapporto col
cliente, spesso si fa pagare una cifra forfettaria, senza calcolare realmente quanto ci costa
la Tasi in ore effettive di lavoro”. E così la Tasi diventa una tassa occulta anche per i
commercialisti.
del 17/06/14, pag. 11
Artigiani e professionisti, obbligo di Pos ma
non c’è sanzione per chi si rifiuta
ROMA
Dal 30 giugno commercianti, artigiani, liberi professionisti, chiunque offra beni e servizi è
costretto — per decreto — a fornirsi di Pos, ovvero di quel dispositivo elettronico che
permette al cliente di pagare con bancomat, carta di credito o prepagata. Però se non
assolve all’obbligo non succede niente: il decreto non prevede sanzione. Fatta la legge,
per non rispettarla, questa volta non serve nemmeno trovare l’inganno.
Dalla fine del mese in base ad un decreto interministeriale del 24 gennaio scorso, chi
vende prodotti o prestazioni di servizi, é tenuto ad accettare pagamenti con «card» per
importi superiori ai 30 euro. Il cliente che non vuole pagare in moneta sonante deve
essere messo nelle condizioni di poterlo fare. L’obiettivo della norma è nobile: dissuadere
dall’utilizzo del contante (secondo gli ultimi dati della Banca d’Italia i pagamenti pro capite
via card sono 74 l’anno contro i 194 della media Eurozona) e rendere la vita più difficile a
chi vuole evadere. Ma l’arma che dovrebbe difendere l’intento è spuntata: al cliente viene
riconosciuto un diritto che non potrà esercitare. La norma, in realtà, viene da lontano e non
è detto che da qui alla fine del mese il governo non intenda porre correttivi alla mancata
sanzione. Era inserita nel decreto “crescita” del 2012, che ne prevedeva la decorrenza dal
primo gennaio di quest’anno, successivamente spostata alla fine di giugno. Associazioni e
ordini professionali — appellandosi al fatto che dotarsi di un Pos costa caro — nelle
scorse settimane si sono attivate per ottenere un ulteriore rinvio o per strappare
un’esenzione (inizialmente prevista — in via transitoria — per fatturati inferiori ai 200 mila
euro), ma il fatto che nulla succeda se l’obbligo non viene rispettato ha sopito le proteste.
«La sanzione non c’è — conferma il sottosegretario all’Economia Enrico Zanetti — la
norma avvia un percorso riconoscendo un diritto al consumatore, ma non possiamo
scaricare interamente il costo di questo diritto sulle piccole imprese. Il ministero dello
Sviluppo economico avvierà un tavolo con le associazioni bancarie per individuare
convenzioni che minimizzino l’onere, e in seguito a ciò si potrà integrare il testo
specificando la sanzione». Di fatto l’impegno a individuare convenzioni è contenuto in un
decreto dello Sviluppo economico (51 del 14 febbraio scorso che entrerebbe però in vigore
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a fine luglio, un mese dopo l’introduzione «obbligatoria » del Pos). E per quanto riguarda
le sanzioni — rispondendo ad un’interrogazione parlamentare dell’onorevole Marco Causi
(Pd) — è stato fatto riferimento a quelle previste dalla normativa anti riciclaggio. Al
momento però niente potrà succedere a chi non si doterà di Pos. Per chi volesse farlo —
calcola il Centro studi della Cgia di Mestre — il costo netto (considerato un fatturato medio
di 100 mila euro) varierà, a seconda della tipologia del Pos e considerati canoni e
commissioni, dai 1.183 ai 1.240 euro annui. Facile prevedere il flop di adesioni. «Non è
accettabile che le imprese debbano farsi carico di ulteriori costi burocratici» commenta
Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia Meste. «Ma la cosa più grave — precisa
Ernesto Ghidinelli, responsabile credito per la Confcommercio — è la mancanza di norme
chiare: il governo ci dica cosa dobbiamo fare. Non siamo contrari al pagamento
elettronico, anche per noi rappresenta una formula più sicura, ma non vogliamo che gli alti
costi si scarichino su chi è già soffocato dalla crisi». Mauro Bussoni, segretario generale
Confesercenti, suggerisce di abbandonare l’approccio coercitivo: «Prevediamo un punto in
meno di Iva a carico del consumatore che paga via card e diamo la possibilità
all’esercente di ottenere sgravi in credito d’imposta: il Pos decollerà. In Corea del Sud e
Argentina hanno fatto così, ha funzionato».
del 17/06/14, pag. 34
L’EUROPA E IL FALLIMENTO
DELL’AUSTERITÀ
GIORGIO RUFFOLO
STEFANO SYLOS LABINI
LE ELEZIONI europee hanno certificato il fallimento dell’austerità che ha fatto aumentare i
disoccupati e ha prodotto nuovi poveri alimentando rabbia e disperazione nella maggior
parte dei Paesi dell’Euro.
I Partiti Socialisti europei non hanno sfondato poiché si sono appiattiti sulla politica del
rigore promossa dal Partito Popolare, che ha subito un netto ridimensionamento. E così
sono cresciute, anche se molto al di sotto delle clamorose previsioni, le forze nazionaliste
e le forze favorevoli a un’altra Europa federale e solidale. I gruppi fortemente critici
dell’Europa dell’austerità a guida tedesca hanno ottenuto quasi il 20 percento dei seggi,
contro il 9 percento del 2009, e, sebbene non riusciranno mai a costruire un fronte unico,
hanno, però, la possibilità di sabotare le politiche economiche del blocco di maggioranza
costituito da popolari e socialisti. Questi due grandi partiti ora dovranno governare insieme
come accade in Germania, e bisognerà vedere se i rapporti di forza cambieranno e se il
Partito Popolare Europeo sarà costretto a promuovere nuove politiche economiche per lo
sviluppo e l’occupazione.
Il crollo del Partito Socialista francese è impressionante, ma non è affatto sorprendente: la
Francia si trova da anni in una crisi da cui non accenna a riprendersi. Hollande ha tradito
tutte le promesse che aveva fatto nella campagna elettorale del 2012 e cioè la riforma
della Banca Centrale Europea sul modello della Federal Reserve americana e il lancio
degli Eurobond. All’epoca Hollande aveva dichiarato: «È inverosimile — che la Bce inondi
il mercato di liquidità, con le banche che si finanziano all’1 percento e poi prestano agli
Stati al 6 percento. A un certo punto simili posizioni di rendita non sono più accettabili.
Sarebbe più giudizioso, più efficace, più rapido che la Bce diventi prestatore di prima e
ultima istanza. Com’è peraltro il caso negli Stati Uniti e in Gran Bretagna». E ancora,
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Hollande era a favore della mutualizzazione del debito pubblico mediante obbligazioni
europee considerate come l’unico modo per sostenere i Paesi in difficoltà e per far tornare
la fiducia degli investitori internazionali negli Stati più a rischio. Nulla di tutto questo si è
realizzato, ma, fatto ancora più grave, non c’è stato neppure l’impegno a sostenere una
battaglia su questi fronti.
Ora l’Europa si trova di fronte ad un bivio: o diventa uno Stato realmente federale e adotta
politiche espansive con l’obiettivo di una piena occupazione equamente retribuita oppure
le forze antieuropeiste sono destinate a crescere mettendo a rischio la sopravvivenza della
moneta unica.
Per questo motivo il semestre di Presidenza italiana rappresenta una grande occasione: il
successo delle forze critiche dell’Europa dell’austerità potrebbe rappresentare uno stimolo
prezioso se sarà utilizzato per attuare una svolta radicale nella politica del Vecchio
Continente.
Del 17/06/2014, pag. 4
Ttip, il governo: «I negoziati sul commercio
non sono trasparenti al 100%»
Partenariato transatlantico su commercio e Investimenti. Il
sottosegretario Calenda risponde sul partenariato Usa-Ue. L’ex M5S
Zaccagnini: «Più informazione, rischiamo storture neoliberiste»
IL governo ha promesso di rendere noto il mandato negozionale del partenariato transatlantico su commercio e Investimenti, il Transatlantic trade and investment partnership (Ttip), sul quale sono in corso trattative segrete tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti.
«Ma il negoziato non può essere trasparente al 100% — ha precisato il sottosegretario allo
Sviluppo economico Carlo Calenda rispondendo a un’interpellanza presentata dal deputato ex movimento 5 Stelle (oggi nel gruppo misto alla Camera) Adriano Zaccagnini —
Perché altrimenti la controparte potrebbe venire a conoscenza di tutte le strategie che vengono messe in campo per ottenere quello che si vuole. Con la pubblicazione del mandato
negoziale, invece, vengono informati i cittadini di qual è il limite delle proposte, cioè su
quello in cui non si può trattare».
Calenda ha ammesso che le pubblicazione comporterebbe comunque alcuni rischi: «Equivarrebbe ad un precedente — ha aggiunto — imponendo la pubblicazione di tale mandato
per tutti gli accordi di libero scambio e scoprendo la posizione negoziale». Nel semestre di
presidenza dell’Unione Europea il governo italiano «ritornerà sull’esigenza di rendere pubblico il mandato negoziale del Ttip». Il sottosegretario ha sostenuto che la convergenza dei
regolamenti del settore commerciale tra Europa e Stati Uniti «non mette in discussione gli
standard sociali, ma si cerca invece l’omologazione dei prodotti» e all’eliminazione di
quelle che sono state definite «difficoltà burocratiche nelle esportazioni», in particolare
delle piccole e medie imprese. Per Calenda, il negoziato tra Ue e Usa «non riguarderà gli
Ogm nè i mercati finanziari, perché gli Usa ritengono la loro normativa più stringente
rispetto alla nostra». «Il Ttip — ha precisato — non è un accordo al ribasso ma al rialzo.
È un modo diverso di vedere la globalizzazione». La risposta del governo non ha soddisfatto Zaccagnini che, tra gli altri, ha aderito all’appello rivolto ai parlamentari italiani da 60
organizzazioni, sindacati, movimenti, associazioni, vertenze locali che aderiscono alla
campagna nazionale «Stop Ttip Italia». «Quella del governo è una difesa scontata del Ttip
— afferma — Devono essere innalzati gli standard qualitativi anche nelle modalità di con61
trattazione e questo lo si può fare dando più voce e partecipazione ai cittadini. Il mandato
negoziale che ha la Commissione è un mandato non legittimato da una votazione democratica. Per Zaccagnini «l’uniformazione dei regolamenti commerciali tra Usa e Ue produrrà tendenzialmente una uniformazione al ribasso. Una stortura tipica del modello liberista». Sul sito stop-ttip-italia.net, Monica Di Sisto (Fairwatch) haraccontato gli esiti
dell’ultimo round negoziale Usa-Ue tenutosi a Arlington in Virginia. Gli Usa hanno presentato le prime offerte di liberalizzazione di servizi, tariffe e appalti pubblici. L’Ue è rimasta
immobile. Da quel poco che si sa, l’Europa avrebbe proposto l’abbattimento del 95% delle
sue tasse solo sulle importazioni di servizi dagli Usa, gli Usa avrebbero concesso appena
il 69%.
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