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il Foglio di Azzone
Vi vogliamo proporre un racconto dal titolo un po’ insolito, tratto dal libro “Il volo della Martora” di Mauro Corona.
L’autore è nato e vive a Erto, nella Valle del Vajont, e racconta nel suo libro di alberi, animali e gente di montagna. Nel pezzo
che segue è raccontato in modo minuzioso “l’evento” che nella realtà contadina era rappresentato dall’uccisione del maiale.
Le emozioni del fanciullo, si confondono nella magica atmosfera della casa dove: prima i preparativi, poi la macellazione e
quindi il ringraziamento, vengono descritti in modo mirabile, facendo rivivere sensazioni ed atmosfere ormai scomparse.
I
TI D
CON
C
A
R
VITA
Il Maiale
Nella storia dei paesi, per ricordare fatti o episodi lontani, ci si
riferisce ad avvenimenti particolari che hanno segnato il
periodo in cui sono accaduti. Ad esempio si dice: prima della
guerra, dopo la guerra, prima o dopo il terremoto eccetera.
In questo modo l’ascoltatore intuisce subito di che epoca si sta
parlando. Per noi, abitatori della valle, tra le date comuni purtroppo a tutti, come quelle delle guerre, ve n’è una che ha reciso
con un taglio netto il nostro vivere in un mondo arcaico e preciso guidato da antiche regole, per proiettarci di colpo in un universo caotico e confuso che non conoscevamo. Questa data
risale al giorno del disastro del Vajont.
Dopo il tragico fatto molte cose sono cambiate; tradizioni e vecchi riti sono scomparsi quasi del tutto. All’inizio del caos, usi e
costumi erano stati momentaneamente accantonati nell’illusione di poterli richiamare non appena si fossero sistemate le
cose. Invece non è stato così. Proprio perché sono antiche, le
tradizioni hanno un’ossatura delicata e una volta bastonate difficilmente trovano la forza di riprendersi.
È ben vero che quassù si continua a vivere perpetuando certe
usanze, ma ormai sono fredde ed essenziali, senza più il calore,
la magia e il fascino misterioso che le sostenevano prima del
Vajont. Ma forse siamo noi che non abbiamo più lo spirito di
quel tempo.
Una volta, i giorni che precedevano il Natale erano animati da
un’insolita eccitazione. Negli occhi dei ragazzi brillava muta la
domanda:
<<Quando sarà?>>
Quel periodo di feste infatti, veniva scelto per consumare un rito
di sangue e di morte e nello stesso tempo anche di vita: l’uccisione del maiale.
Il giorno della macellazione veniva stabilito in base a una fase
particolare nel calar della luna. Il maiale veniva allevato per
quasi un anno con cura e amore ed era considerato come uno
della famiglia. Non di rado lo si chiamava con un nome impostogli fin da piccolo. Per questo noi adolescenti non riuscivamo
a capire il comportamento dei grandi. Perché – ci chiedevamo –
all’improvviso, quando arrivava la festa di Natale, tutto l’amore
e il rispetto che avevano manifestato durante l’anno verso la
bestia sparivano di colpo? Ci prendeva allora il dubbio che gli
adulti avessero sempre finto, mentito, e che i loro veri volti fossero quelli duri, decisi e senza pietà degli attimi che precedevano la morte del nostro amico. Sì, perché il maiale era proprio
il nostro amico. Era cresciuto con noi e noi gli portavamo sempre il cibo nelle ore prestabilite. Andavamo a spasso tutti i giorni
con lui trascinandolo allegramente sulla strada erbosa della vecchia chiesa di San Rocco. Spesso lo pulivamo strigliandolo con
una ruvida spazzola.
Il maiale è un animale intelligente e sensibile e, se abituato fin
da piccolo, diventa fedele e giocherellone come il cane. Il nostro
si divertiva allegramente con noi nei lunghi mesi che precede-
vano la sua fine. Ogni tanto ci sfiorava qualche pausa di riflessione che ci faceva pensare al suo destino. Sapevamo quale sorte
lo aspettava e ci dispiaceva molto. Vedevamo in lui un martire e
un eroe e questo accresceva, durante la sua breve sosta terrena,
il nostro rispetto e la nostra premura verso di lui. Ma purtroppo
verso il 20 dicembre cominciavano a girare per casa le prime
voci che datavano la sua fine e noi ragazzi capivamo da segni
inequivocabili che era giunto il suo momento.
Fuori faceva buio e il giorno era ancora lontano quando, da sotto
i caldi piumoni, sentivamo spaccare legna giù al piano terra
della casa. Il rumore dei colpi rimbombava sulle lastre di pietra;
il crepitio del fuoco appena acceso trapassava le assi del solaio
e ci svegliava. Scendevamo ancora assonnati e notavamo,
appesa alla catena del focolare, l’enorme caldera piena d’acqua.
Sulla panca del caminetto stavano allineati su un panno una
ventina di coltelli di varie forme. Era la conferma.
Con la scusa di andare alla latrina, che era vicino alla stalla, tutti
imbacuccati, ci recavamo mogi mogi al porcile per l’ultimo
saluto al nostro amico. Dicono che il maiale, per chissà quale
misteriosa percezione, senta più di altre bestie quando è giunto
il momento della morte. Se questo è vero, il nostro morituro
mascherava molto bene la sua angoscia perché non ho mai
notato in li alcuna agitazione nei momenti fatali.
Durante la nostra breve visita d’addio si comportava come sempre: saltellava allegramente e, spingendo col muso contro i legni
del recinto, grufolava in segno di affetto. Forse mascherava la
paura per non rattristarci ulteriormente.
Nel frattempo nella casa riscaldata dal gran fuoco che faceva
bollire l’acqua del calderone, cominciavano ad arrivare gli
uomini esperti nell’arte dei salumi. Veniva offerto loro il caffè o
la grappa o tutti e due messi assieme. Noi stavamo zitti, assorti
nei nostri pensieri. Cercavamo di studiare quei volti dove non
apparivano mai pietà per la bestia da abbattere, né rimorso.
Anzi, gli uomini ridacchiavano allegramente. Avremmo voluto
vederli un po’ più seri, se non altro per rispetto verso l’amico
che stava per morire. Ricordo invece che sghignazzavano alle
battute scurrili e alee descrizioni volgari sull’allora per noi
misterioso corpo femminile, mentre ci rivelavano involontariamente e in modi grezzi e volgari i delicati meccanismi del sesso.
Quando il giorno era chiaro partivano in quattro, i più robusti, e
andavano a prelevare il maiale dalla stalla. In quei momenti a
noi ragazzetti prendeva un’angoscia sottile mista a paura ma
non potevamo darlo a vedere per non essere derisi. Mentre la
trascinavano verso il luogo del sacrificio con una corda stretta al
grifo, avevamo l’impressione che la bestia ci guardasse per
un’ultima volta con i suoi occhietti piccoli e vivaci.
Speravamo che finissero presto.
Mio nonno era l’accoltellatore ufficiale: ha fatto quel lavoro
fino alla sua morte, andando in giro a uccidere i maiali delle