brano - Collegi

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brano - Collegi
Ho scritto questo brano per partecipare a un concorso indetto dal Teatro La Fenice di Venezia,
dal titolo “Effetto Carmen”, per combattere la violenza contro le donne. Ho deciso, poi, di
riproporlo in occasione dell’evento organizzato dal Collegio Ker Maria il 26 novembre 2013, in
collaborazione con Amnesty International, perché volevo venissero presi in considerazione anche
gli effetti psicologici che una violenza – in questo caso, di tipo domestico – ha sulla donna che la
subisce.
Valeria Epifani
«Era freddo, quel letto. Nonostante la temperatura fuori fosse più alta del normale, quel letto
era freddo. Gelido, oserei dire. Mi giravo e rigiravo tra le lenzuola, abbracciavo il cuscino, ci
affondavo il viso, mi mancava il respiro. Con gli occhi chiusi, provavo a lavare via quelle
sensazioni orribili che mi attraversavano il corpo. Sentivo ancora le sue mani su di me. Le sue
mani grandi, forti strozzavano le mie urla. E spalancavo gli occhi, per cancellare
quell’immagine. E più li spalancavo, più lo sentivo lì. Non c’era modo per non rivivere
quell’incubo. Ancora gli occhi chiusi. E poi apnea. Ancora. In un attimo sentii la sua mano che
mi afferrava il braccio e mi tirava a sé. E io mi dimenavo e lo spingevo e lo rifiutavo. E più
opponevo resistenza più lui mi tratteneva con forza.
Avevo sempre saputo quanto vigore si nascondesse in quelle apparentemente fragili
braccia. Portava sempre le buste della spesa su per le scale. Erano pesanti quelle, sì. E io
continuavo a ripetergli: “Quanta forza hai, amore!”.
Se solo l’avessi saputo. Se solo avessi immaginato che quella forza si sarebbe ritorta
contro di me. Lo aspettavo con ansia, quella sera. Era da un po’ che non lo vedevo e avevo così
bisogno che quelle braccia mi stringessero! Quando sentii le chiavi nella serratura andai verso
la porta, sorridente. Ma non appena i miei occhi incrociarono i suoi, vidi qualcosa che non gli
apparteneva. Era arrabbiato, diceva. Era stanco di me, diceva. Urlava, urlava forte. Supplicarlo
di smettere era totalmente inutile. Avevo paura.
Mi afferrò per la vita e spinse il suo bacino contro il mio. Cercavo con tutte le forze che
avevo di allontanarlo, invano. E lui, di risposta, a denti serrati, mi sussurrava di stare ferma, di
stare zitta, di non fiatare. Lacrime velenose mi rigavano le guance.
Riuscii a svincolarmi da quelle braccia per un secondo. Tentai di scappare, ma mi
riafferrò. Forte. Violento. Lasciò sul mio viso il segno delle sue dita. Uno schiaffo che mi
procurò un livido violaceo sullo zigomo destro. Finii per terra, sul pavimento glaciale. Capii di
non poter fare più nulla quando affondò le sue unghie nella mia pelle. Così lasciai che si
impadronisse del mio corpo, gli permisi di impossessarsi del mio profumo di donna, della
parte più intima di me. Della parte che mi apparteneva più di ogni altra cosa, di quella che, in
tutti quei mesi, io gli avevo regalato, non concesso. Il rumore di un pianto soffocato spariva
sotto il suo respiro affannoso. Mi attraversò la pelle in un secondo, con una crudeltà
disarmante. La sua mano si spostò dalla mia bocca per afferrarmi i fianchi e bloccarmi contro
il pavimento. Non si fermava, mi faceva male, non si fermava. Sentii le sue mani calde sotto la
maglietta, che in un attimo trovai arrotolata intorno al mio collo. Spostò in fretta il reggiseno e
mi addento. Continuò a lasciarmi lividi su tutto il corpo, continuò a rubarmi l’anima fino a
quando non si accasciò, soddisfatto, su di me. Mi toglieva il respiro, ancora. Non avevo più
lacrime, più forza per emettere un solo, flebile suono. Niente di niente. Ero totalmente vuota.
Lo vidi alzarsi, tirarsi su i pantaloni, prendere le chiavi che erano finite sul divano e sbattere la
porta dietro di lui.
Mi lasciò lì. Sul pavimento. Senza vestiti. Senza femminilità. Senza coraggio.
Tutto il mio profumo di donna, in un secondo, in un solo secondo, svanì».