DefconX-word _1_ - Compagnia Fantasma

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DefconX-word _1_ - Compagnia Fantasma
Collana Teatro
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ISBN 978-88-96254-16-5
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Defcon X
un racconto a due voci
Daniele Bergonzi e Andrea Giovannucci
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Premessa
Defcon X non è esattamente un romanzo breve, né un saggio o una dimostrazione di lavoro o una
drammaturgia teatrale, o almeno non è una sola di queste forme.
Defcon X è un ibrido che nasce sul confine tra letteratura e teatro, quella sottile linea in cui la
parola parlata, pronunciata, germina da quella scritta. E’ proprio su questo margine che la
Compagnia Fantasma “abita” ed è proprio qui, in questo spazio incerto, che ci sembrava più giusto
incontrare il lettore-narratore.
Perché se è vero che il teatro è sempre letteratura, vale a dire produce letteratura, è più raro che
avvenga il contrario.
Abbiamo scritto questo testo come conseguenza del nostro modo di percepire e di fare narrazione.
Defcon X può essere letto anche su un palcoscenico. E’ un testo che al moltiplicarsi delle frontiere
cerca di usufruire di più cittadinanze: teatro, letteratura, musica.
L’idea di Defcon X nasce da un fatto di cronaca realmente accaduto il 22 marzo 2004, ampiamente
riletto, stravolto e travisato:
È accaduto in Francia, a Montpellier. Un artigiano di 35 anni di nome Pierre era alla guida
dell’auto quando ha visto Bin Laden per strada. Non ci ha pensato su molto e ha cercato di
investirlo. Si dà pero’ il caso che il malcapitato non fosse Bin Laden. Denunciato, e’ stato
condannato a 3 mesi con la condizionale e 500 euro di risarcimento danni. Il giudice gli ha infatti
riconosciuto un’attenuante “emozionale”. L’uomo avrebbe avuto un attacco di delirio, causato
anche dalla recente tragedia di Madrid.
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Defcon X
La Paura mangia l’Anima
proverbio arabo
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Ogni anno, quando il Natale è vicino, mi prende uno speciale stato d’animo. Un misto di malinconia
e agitazione che non riesco a scrollarmi di dosso fino a quando il vecchio anno non scavalla. E così
resto solo nel mio appartamento ingombro di scartoffie, a guardare la pila dei piatti da lavare che
cresce.
- Pronto, Francesco?
Anche se è periodo di feste, regali e biglietti di auguri ne ricevo pochi, a farne non ci penso
neanche. Non che non abbia amici, parenti o conoscenti, non che sia burbero o cose di questo tipo, è
che non sono quel genere di persona.
- No, gli auguri non c’entrano niente.
O forse non lo sono più. Era Elena a occuparsi di quelle cose. Alle volte l’accompagnavo per i
negozi a scegliere i regali tra la folla impazzita dalla furia dell’acquisto, mi pare perfino di ricordare
che la cosa fosse divertente.
- Sta zitto un attimo e ascolta.
Certi giorni ho la sensazione che una parte di me si sia staccata e sia appassita. Ora è come se
queste faccende non mi riguardassero più, appartengono alla vita di altri, come lei d’altronde.
- È successa una cosa.
Per il resto ho un lavoro niente male anzi, si potrebbe dire che ho il lavoro che ho sempre
desiderato, quello per cui ho fatto le scuole prima, l’università e le specializzazioni poi. Mi occupo
di psicologia criminale. Passo il mio tempo a parlare con delinquenti di ogni risma, a cercare di
capire le loro motivazioni. Ci sono lavori peggiori, eccome.
- Non so come dirtelo.
La storia che sto per raccontare comincia lo scorso 25 dicembre.
- Francesco.
Comincia con una telefonata di mia madre, parlava con una voce che non le riconoscevo.
- Stanotte.
Questa storia comincia il giorno della morte di mio padre.
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- Ciao Francesco.
- Ehi, Nicola.
- Disturbo?
- No, no. Vieni, accomodati.
- Grazie. Come ti senti?
- Abbastanza bene.
- Ho saputo. Mi dispiace tanto.
- Sì, bè grazie. Vuoi un caffè? L’ho appena fatto.
- Sì, volentieri.
- Vieni in cucina. Siediti. Ecco il caffè.
- Grazie. Mi hanno telefonato i miei dal paese un’ora fa. Mia madre stava piangendo, erano
amici da così tanti anni. Sapevo che tuo padre aveva qualche problema di cuore, ma chi
poteva immaginarlo. Quando si dice il destino.
- Già.
- Io l’ho visto neanche un mese fa e mi sembrava in forma, insomma è sempre stato una
roccia. Mi ricordo che quando eravamo piccoli ci portava in spalla tutt’e due assieme, su per i
sentieri. Un uomo forte, voglio dire, e ancora giovane. Quanti anni aveva?
- Sessantatré.
- Cavolo, non sono mica tanti. Il mio ne ha quattro di meno, ma sembra dieci anni più vecchio,
con tutte le sigarette che fuma... glielo dico in continuazione ma ha la testa dura come un
sasso. Va bè, fatti suoi. Il funerale lo fanno venerdì alla chiesetta, giusto?
- Sì.
- Se vuoi andiamo insieme con la mia macchina, oppure prendiamo la tua, per me è uguale.
- Io non ci vado, Nicola.
- Ma che dici Francesco?
- No, senti, non ho proprio voglia di parlarne, ok?
- Ma...
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- Ok?
- D’accordo, come vuoi.
- Un goccio di whisky?
- No, ti ringrazio. Anzi devo andare, ho a casa la famiglia che mi aspetta per cena. Ero solo
passato per farti le condoglianze.
- Sì, certo.
- Senti, se hai bisogno di qualsiasi cosa basta che mi dai un colpo di telefono, lo sai.
- Sì ma non preoccuparti, sto bene.
- D’accordo. Passo a trovarti con un po’ più di calma uno di questi giorni.
- Ciao.
- Ciao, Francesco.
Quando Nicola se ne andò mi avvicinai alla finestra e guardai al di là del vetro. Aveva ricominciato
a nevicare, le strade iniziavano a imbiancarsi.
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L’ultima volta che avevo visto mio padre era stato cinque anni prima. Aveva fatto un brutto
incidente in macchina e l’avevano ricoverato in ospedale. Si era rotto l’anca. Fu mia madre ad
avvertirmi per telefono anche quella volta. Era estate inoltrata, agosto mi pare, e il caldo era
soffocante. Avevo indossato la camicia più elegante che avevo e comprato una scatola di
cioccolatini. Avevo preso una corriera stracolma di pendolari e ragazzi che tornavano a casa per il
fine settimana. Per tutta la durata del viaggio cercai di stare con la schiena inarcata in avanti per
paura di sgualcire la camicia contro il sedile. Quando scesi dall’autobus, il riverbero del sole
brillava sulla spianata d’asfalto che fungeva da parcheggio dell’ospedale. Sembrava che le
macchine ferme galleggiassero sulla superficie di un lago. Presi un fazzoletto dalla tasca e mi
asciugai la fronte, poi mi feci coraggio ed entrai. Mi ci volle un po’ per riuscire a trovare la camera
in cui l’avevano ricoverato. La porta era socchiusa, bussai con leggerezza in caso qualcuno stesse
riposando e, non avendo alcuna risposta, aprii.
Nella stanza c’era una penombra fresca, le veneziane alle finestre lasciavano filtrare un sole che
marchiava di strisce gli oggetti su cui era proiettato. Mio padre era sdraiato sull’unico letto della
stanza; ebbi la sensazione che dormisse. Quando fui a un passo da lui osservai il corpo disteso sopra
le lenzuola: all’altezza del bacino un vistoso rigonfiamento era coperto dal pigiama bianco che
indossava, i piedi scalzi erano pallidi come due meduse.
Risalendo con lo sguardo verso il volto vidi che aveva gli occhi aperti e fissava il soffitto con
intensità.
- Ciao. Sono venuto a vedere come stai.
- Sto bene.
- Ti ho portato questi cioccolatini. Te li poggio qui sul comodino. Allora, ti fa male?
- Non molto.
- La mamma dice che ti rimetterai presto.
- Da quando in qua ti interessi di come sto?
- Non cominciare.
- Voglio solo sapere da quando ti interessi a me.
- Va bene, ho capito, vado via.
- Ecco bravo, vai via. È tutto quello che sai fare.
- Sei il solito stronzo.
- Non parlarmi così, per Dio, sono tuo padre!
- Cos’è, tutto d’un colpo ti sei accorto di avere un figlio? Un po’
tardi no?
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- Ma si può sapere cosa sei venuto a fare? Che vuoi da me?
- Vorrei che per una volta ti comportassi come un padre. Hai presente? Una parola gentile, un gesto
affettuoso. Ma Cristo santo, ti rendi conto sì o no che in tutta la tua vita non sei mai stato capace di
darmi neanche un abbraccio, uno solo.
- Non sai quello che dici.
- Un corno!
- Tu non sai quello che dici. Vattene da qui e non ti fare più vedere.
- Certo che me ne vado. Stammi bene.
Mio padre non era un uomo malvagio, ma il nostro rapporto era compromesso ormai da diversi
anni. Alle volte le cose vanno semplicemente nel modo in cui devono andare, io e mio padre
avevamo sempre fatto marciare le nostre cose in direzione opposta. Anche quando avevo un’età tale
per cui vivevo appena sull’orlo della coscienza, il nostro rapporto era già adulto. Non c’erano tra
noi quelle tenerezze che io vedevo all’uscita di scuola tra i miei coetanei e i loro genitori e che io,
all’epoca, invidiavo. Non mi portò mai alle giostre o al circo. Poi, con l’età, la distanza tra noi non
fece altro che aumentare.
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- Ciao Francesco sono Elena, la tua ex moglie. Lo so che è la mattina di S. Stefano, non voglio
disturbarti. Ti faccio solo gli auguri, anche se un po’ in ritardo. È parecchio che non ci
sentiamo. In ogni caso, ti volevo chiedere un favore, mi serve il servizio di piatti di mia madre,
quello che ci ha regalato per il matrimonio, ricordi? Quando ho ripreso la mia roba l’ho
dimenticato lì da te. Dev’essere in soffitta in qualche scatolone. Volevo usarlo per la cena di
capodanno. Perciò fammi il favore, cercalo, ci tengo. Ora devo scappare. Ti chiamo domani
così passo a prenderlo. Ciao.
Mi tirai su dal letto, andai in cucina e preparai un caffè. Poi mi diressi su per le scale che portavano
in soffitta. Nel corso degli anni questo sottotetto è diventato una sorta di magazzino in cui gli
oggetti della mia vita sono destinati a naufragare, per un motivo o per un altro. Non è molto grande
e bisogna avanzare accovacciati per evitare di sbattere la testa contro le travi che sorreggono il tetto.
Facendomi largo tra le cianfrusaglie raggiunsi lo scaffale con la scatola dei piatti. Afferrai le ali del
cartone e tirai, ma una di queste si strappò facendomi rovinare contro una pila di vecchi faldoni di
lavoro. Mentre stavo raccogliendo i fogli notai per terra un piccolo oggetto metallico proprio tra i
miei piedi: un orologio da polso. Lo raccolsi per osservarlo meglio. Le lancette erano ferme,
sembrava molto vecchio. Non avevo idea di come fosse finito lì né di chi fosse.
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Il 27, dopo il ponte natalizio, riaprirono i negozi. A mezza mattina andai da un orologiaio. Era una
bottega vicino casa davanti alla quale ero passato migliaia di volte senza mai esserci entrato o
averla guardata con attenzione. La vetrina aveva perso la sua trasparenza col tempo e la polvere era
cresciuta sugli oggetti esposti come una patina uniforme. Vista dall’esterno sembrava un piccolo
museo dimenticato. Quel genere di negozio rimasto immutato dagli anni settanta o magari anche da
prima. Entrando, una piccola campana tubolare montata vicino alla porta emise un suono acuto e
aggraziato. Dietro il banco un vecchio con indosso un grembiule scuro e un paio di occhiali sulla
punta del naso.
- Buongiorno, mi dica.
- Salve, ho ritrovato questo vecchio orologio, credo sia rotto. Le lancette sono ferme, ho provato a
dargli la carica ma...
- Mi faccia vedere.
- Ecco.
- Mmm... sì. È proprio un bell’orologio, non c’è che dire, anni quaranta o giù di lì,
fabbricazione russa. Magari ha pure fatto la guerra, ci pensa? Aspetti che lo apro. Guardi che
meraviglia, che meccanica. Non li fanno più così. Vediamo, vediamo... ecco cosa non va, vede?
La molla si è scaricata, ci metto un attimo.
- Faccia pure.
- Dove ho messo le pinze? Ah sì, eccole qua. Sa una cosa? Un orologio come questo è un
peccato buttarlo. A parte il valore in sé dell’oggetto, questo qui, come dire, ha un’anima. Ecco
fatto, adesso funziona.
- Grazie. Quanto le devo?
- Niente, non si preoccupi, è stato un piacere, un orologio così bello.
- Grazie mille, davvero. Arrivederci.
- Deve volerle molto bene, suo padre.
- Cosa?
- Dico, per farle un regalo così, deve volerle bene.
- Non capisco.
- Scusi, non volevo farmi i fatti suoi ma ho letto l’incisione dietro la cassa. Vede qui: “A mio
figlio Paolo”. È lei, no?
- Bè no, voglio dire, non è mio l’orologio. L’ho ritrovato in soffitta insieme a della vecchia roba. Ha
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detto che c’è scritto Paolo, mi faccia pensare un attimo, Paolo...
- Le appoggio un secondo l’orologio qui sulla mensola, mi tira sempre i fili delle maniche.
È un po’ scomodo ma me lo porto sempre dietro, è un regalo di mio padre, buon’anima.
Ha letto il giornale stamattina? Hanno sventato un attentato all’aeroporto, una bomba.
Forse più di una. Poteva essere una strage.
- Ma certo! Rapetti. Paolo Rapetti.
- Come dice?
- No, nulla. Ho capito di chi dev’essere l’orologio. Ora devo andare, grazie ancora.
- Arrivederla.
Paolo Rapetti, il mio primo paziente. Erano passati anni dall’ultima volta che l’avevo visto. Forse
teneva molto a quell’orologio. E poi il fatto che fosse un regalo di suo padre era una strana
coincidenza. Non sono un tipo superstizioso, ma il ritrovamento di quell’oggetto proprio in quel
giorno mi sembrò un segno. Pensai fosse giusto restituirglielo. Tornai a casa e controllai le mie
vecchie cartelle cliniche. Ritrovai quella di Rapetti, il numero di telefono non c’era, ma l’indirizzo
sì. Presi la macchina e mi diressi là.
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Da una settimana faceva un gran freddo. L’indicatore luminoso appeso vicino all’insegna di una
farmacia segnava due gradi sottozero. Il cielo era un soffitto bianco e pesante. Ai bordi delle vie
cumuli di neve con le cime annerite dallo smog sorgevano dall’asfalto come catene montuose in
miniatura.
Raggiunta la casa di Rapetti, parcheggiai e scesi dalla macchina. Era una piccola palazzina a tre
piani con un cancelletto esterno e un giardino. Sulle targhette del citofono al posto dei cognomi
c’erano dei numeri. Premetti un bottone a caso e dopo qualche istante vidi aprirsi il portone interno.
- Salve, cerca qualcuno?
- Mi scusi se la disturbo, in effetti stavo cercando una persona, il signor Rapetti, so che abita qui.
- Il Rapetti non abita più qui, vivaddio. Se n’è andato, saranno quasi quattro anni.
- Ah, capisco.
- E perché lo cerca? È un poliziotto? Ha fatto ancora dei danni lui lì?
- No, non sono un poliziotto. Sono... il suo vecchio dottore.
- Soccia, il suo dottore. Non l’ha mica curato molto bene qual lè.
- In che senso?
- Come in che senso? Era mica tanto a posto. Lo sa perché se n’è andato via da qui? No?
Glielo dico io. Perchè ci sono venuti ad abitare una famiglia di cinesi qui al primo piano. Si
ricorda ai tempi della SARS, ecco, bisognava starci attenti ma quello là esagerava. Va bè la
mascherina, va bè che quando arrivava al primo piano correva per le scale, però un giorno
l’ho visto che metteva il disinfestante sotto la porta di quei poveracci. Mi par troppo, no?
- Non si ricorda per caso dove si è trasferito?
- Eh no, quello non mi ricordo.
- Capisco.
- Forse l’altro vicino di casa, il signor Lambertini, ne sa qualcosa. Ma adesso non c’è, mi sa
che torna stasera.
- Grazie, comunque non era niente di importante.
- Di niente, arrivederla. E auguri.
Uscii dal cancello, ripresi la macchina e tornai verso casa. Quel tizio aveva ragione: Rapetti, se non
del tutto matto, un po’ particolare lo era davvero. Il suo caso mi era stato affidato dal pubblico
ministero per fare una perizia psichiatrica in vista del processo. Rapetti era convinto di aver visto
Osama Bin Laden in persona attraversare la strada nel centro di Bologna e lo aveva investito con la
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sua auto “per fare giustizia”. Ero all’inizio della mia carriera e quel primo caso non fu proprio un
successo. Rapetti durante i nostri colloqui non collaborava, era testardo e perfino quando veniva
messo davanti all’evidenza non c’era modo di convincerlo a cambiare opinione. Viveva in una sorta
di continuo stato di emergenza, per lui ogni allarme mediatico era fondato, tangibile. Se si parlava
di SARS, allora per lui ogni cinese, anche quello nato e cresciuto in Italia, era un possibile untore.
Ed era così per ogni cosa. Comunque alla fine per la storia di Bin Laden venne condannato solo a
pagare un’ammenda. Gli attribuirono le attenuanti emotive. Erano appena scoppiate le bombe alla
stazione di Madrid e il giudice ritenne che il generale clima di tensione giustificasse in parte la
reazione delirante di Rapetti. Finì persino sui giornali. Quel povero tizio scambiato per il noto
terrorista si fece tre mesi di ospedale.
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Fuori dal parabrezza il traffico era caotico. Sentivo i clacson delle auto incollate alla mia provenire
da molto lontano, smorzati da un diaframma di gommapiuma invisibile. Una cappa di pensieri
confusi mi isolava dal mondo circostante.
Arrivato sotto casa parcheggiai l’auto e presi l’orologio di Rapetti dal cruscotto. Lo fissai per un
attimo poi me lo allacciai al polso. Se un giorno lo avessi rivisto glielo avrei restituito, fino a quel
momento tanto valeva usarlo.
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- Francesco, sono Elena, è tutto il giorno che provo a chiamarti. Stai bene? Senti, mi servono
quei piatti. Mi pare di averti chiesto solo un piccolo favore, no? Erano di mia madre. Sei
sempre lo stesso. Non costringermi a mandare lì qualcuno a prenderli, ok? Chiamami appena
hai un attimo, per favore.
Ci sono dei periodi nella vita in cui si è felici. Lo si capisce bene quando finiscono. Quando sono
così distanti e ormai si è così diversi da pensare che appartengano al vissuto di qualcun altro. Una
vita precedente di cui riconosciamo in noi dei caratteri di continuità e allo stesso tempo una
diversità insanabile. È questo l’effetto che mi fa pensare a Elena.
Ricordo una domenica pomeriggio di qualche anno fa. La primavera era appena entrata; io ed Elena
eravamo tornati a casa dopo un picnic con una coppia di suoi amici che conoscevo a malapena.
Eravamo stanchi morti. Il sole non era ancora tramontato e noi ce ne stavamo distesi sul letto
abbracciati e in silenzio. Da fuori non arrivava nessun rumore.
- Come ti sono sembrati Marco e Sonia?
- Simpatici.
- Tutto qui?
- Li conosco appena.
- Secondo me sono una bella coppia.
- Sono sposati?
- No, però convivono già da due anni. Sonia mi ha detto che ci stanno provando.
- A fare che?
- Un bambino.
- Un bell’impegno.
- Vedi sempre il lato negativo.
- Non volevo dire questo.
- È una loro scelta, comunque.
- Certo.
- E poi Marco adesso ha cominciato a guadagnare bene.
- Che lavoro fa?
- Qualcosa che ha a che fare con la pubblicità. Magari potremmo fare un altro picnic con loro
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quando sarà più caldo. Che ne dici?
- Perché no. Volentieri.
- È stata una bella giornata, non sei d’accordo?
- Sì, sì.
- Sei stanco? A me sta venendo fame.
- Con tutto quello che abbiamo mangiato?
- Ho un languorino.
- Vuoi che metta qualcosa sul fuoco?
- Lo faresti per me?
- Ma sì dai. Così mi do anche una svegliata.
- Sei carino.
La cucina era tutta bianca e pulita. Misi a bollire delle patate giusto per fermare lo stomaco prima di
cena e andai in bagno. Mentre l’acqua scorreva nel lavandino di ceramica laccata presi le forbici e
cominciai a tagliarmi le unghie, poi dirigendo l’acqua con le mani feci scivolare i resti dentro lo
scarico. Percepivo la presenza di mia moglie nella penombra silenziosa della camera, mi sembrava
perfino di sentire il fruscio delle lenzuola sul suo corpo.
Qualcuno bussò alla porta di casa. Sentii Elena tirarsi su dal letto, mettersi qualcosa addosso e
andare ad aprire. Poi, silenzio. Non una voce, né il rumore della porta che si richiudeva. Nulla.
Io, nel bagno, rimasi in ascolto. Tutto a un tratto cominciai a sentirmi come se stessi cogliendo un
terribile segreto. Iniziai ad avere paura. Non so perché, ero paralizzato. Cercai di ascoltare ma era
come se non volessi farlo, mi disturbavo da solo, facevo rumore e mi maledicevo e cercavo di
ascoltare e infine non riuscii a capire nulla. Uscii dal bagno, feci per tornare in cucina e lungo il
corridoio li vidi. Erano sull’uscio di casa, mia moglie di spalle, e lui che le parlava in un tono
supplichevole, quasi sussurrando come non volesse svegliare un bambino. Lei non diceva niente e
lo guardava. Stava lì, con i piedi scalzi sul pavimento nudo. Rientrai in cucina.
La pentola bolliva e metà dell’acqua era consumata. Presi una forchetta e l’affondai nelle patate.
Cotte. Spensi il fornello e le tirai fuori una per una con la forchetta stando attento a non spaccarle.
Poi, sempre tenendole con la forchetta, le passai sotto l’acqua fredda. Spellai le patate lentamente,
come sognando.
Sentii la porta richiudersi. Mia moglie entrò in cucina, ci sedemmo al tavolo, uno di fronte all’altra,
con il piatto delle patate nel mezzo.
- Era un tizio che vende elettrodomestici.
- Ah sì?
- Gli ho detto che non eravamo interessati. Un vero seccatore. Ha insistito un bel po’.
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- Che tipo di elettrodomestici?
- Aspirapolveri. Gli ho detto che ne abbiamo appena preso uno.
- Non è vero.
- Qualcosa dovevo pur dirgli, no? Che ne sa lui? Non è mica importante.
Quel pomeriggio qualcosa si spezzò. Una minuscola ruota dentata dentro di me smise di funzionare.
La gelosia fu solo una conseguenza, la più notevole, comunque. A pensarci oggi me ne vergogno,
ma allora mi sembrava logico controllare le telefonate di Elena, i suoi spostamenti, far collimare gli
orari dei suoi racconti con le mie terribili fantasie. Vivevo nell’ombra di una paura appena intravista
tra le piastrelle di quel bagno, qualcosa a cui non riuscivo a dare un contorno preciso, dei margini.
Le cose in breve si avviarono verso una china ripida. Nell’arco di pochi mesi riuscii ad avvelenare il
nostro matrimonio al punto tale che il divorzio fu una liberazione, e davvero allora ci sembrò la
cosa migliore che potessimo fare. E così facemmo.
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- Buone feste a tutti voi dalla vostra radio preferita: Radio Città! È una splendida giornata di
sole. Mancano solo tre giorni alla fine dell’anno e i preparativi per molti di voi saranno già
spasmodici. Il numero per chiamare in diretta e farci sapere come passerete la notte del 31 è
sempre lo stesso: 051...
Allungai un braccio e diedi un colpo secco alla mia radiosveglia: sette meno un quarto. Era giorno
di festa, non dovevo andare in ufficio, non avevo appuntamenti. Era stata l’abitudine a farmi girare
su “on” la sveglia prima di andare a letto.
Mi alzai per fare colazione e diedi un’occhiata fuori dalla finestra. La città dormiva ancora sotto il
manto della nevicata notturna. Mi sedetti davanti alla tazzina di caffè e mentre aspettavo che lo
zucchero si sciogliesse si presentò, al mio pensiero ancora lento dal sonno, un’idea: andare a pesca.
Ci sono cose in grado di rimettermi in sesto anche nei giorni peggiori, attività che hanno il potere di
ricentrare il mio umore allo stesso modo in cui un meccanico ricalibra lo sterzo di una vecchia
automobile. Ecco, la pesca è questo per me .
La mia vecchia attrezzatura era riposta esattamente dove doveva essere, una cosa rara visto il
disordine che regna in casa mia.
Dopo un quarto d’ora ero già al portone, bardato di tutto punto: maglia di lana, giacca a vento,
salopette impermeabile, canna, qualche panino e un paio di birre. Salii in macchina e partii:
direzione Sillaro.
Parcheggiai lungo la strada sterrata che costeggiava il fiume e mi diressi a piedi verso la riva.
L’acqua, limpida da bruciare gli occhi, scorreva sul greto di ciottoli tracciando una linea ondulata
sulla coltre bianca. In giro non c’era anima viva. Perfetto. Scelsi un grosso sasso come sgabello,
preparai la canna e gettai l’amo.
La mattinata trascorse magnificamente. Presi un paio di vaironi e un’alborella, li slamai e li rigettai
in acqua. Poi mangiai i panini, stappai una birra e mi rimisi all’opera. La giornata era lunga e
volevo prendere una trota a tutti costi.
Stavo per gettare di nuovo l’amo quando vidi, a pochi metri da me sulla stessa sponda del fiume, un
altro pescatore. Basso e tarchiato, sulla cinquantina, aveva un cappello rosso con i paraorecchie e
una giacca a vento blu. Mi fece un cenno di saluto, ricambiai, poi lanciai. Pochi istanti dopo che
l’esca fu andata a fondo sentii tirare il filo. Qualcosa di grosso aveva abboccato. Iniziai a tirare, ma
il pesce non aveva voglia di cedere senza darmi battaglia. Allora entrai con i piedi nell’acqua e
lascai il filo per farlo stancare. Quando la tensione diminuì, mollai la frizione del mulinello e iniziai
a recuperare la lenza più velocemente che potevo. Proprio mentre la preda si stava avvicinando, di
colpo il filo si spezzò e scivolai nell’acqua bassa sollevando spruzzi tutt’intorno. Il pesce era
andato.
- Che disdetta. Aspetti, aspetti, le do una mano. Ecco qui.
- Grazie.
- Porca miseria, tirava parecchio.
- Già.
- L’ho vista bene sa? Era una bella trota, anche se non è ancora periodo. Mi scusi, non mi
sono presentato. Mi chiamo Giovanni.
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- Piacere, Francesco.
- Si è inzuppato parecchio.
- Non si preoccupi, quando vengo a pescare porto sempre dietro un cambio.
- Eh già. Bel posto, eh?
- Sì, in effetti sì. Alle volte salgo più a monte, ma oggi, con ‘sto freddo...
- Eh sì, freddo è freddo. Bè si capisce, è Natale. Comunque cosa importa il freddo, no? Io
appena ho un attimo monto in auto e vengo qua. Belle bestie le trote, no?
- Sì, è proprio vero.
- Sono sospettose sa? Molto sospettose.
- E furbe.
- Se ne intende. Si dice furbo come una volpe ma bisognerebbe dire come una trota, ah ah.
- Già. Ne ha prese di grosse?
- Niente di clamoroso, ma di belle ne ho trovate. Poi tanto le slamo sempre e le rimetto in
acqua. A mangiarle non so, non è che mi piacciano tanto, ecco. Magari lei è più esperto di me,
ma dico, lo sa come si distinguono quelle selvatiche, che son le più belle, da quelle messe qui
per ripopolare?
- Veramente no.
- È una cosa da matti, ascolti: quelle che le immettono, cioè quelle che non sono selvatiche, le
fanno crescere un po’ prima di metterle nei torrenti o nei laghetti, no? Il fatto è che le tengono
dentro delle grosse vasche di cemento, una volta l’ho visto un allevamento, ma è un posto mica
tanto bello. Comunque, ecco, il fatto è che le trote non ci stanno mica bene rinchiuse in un
posto, che poi, voglio dire, chi è che ci sta bene? Ho ragione, no? Ecco, e allora le trote si
sentono come in prigione e iniziano a strusciare contro il cemento delle vasche perché stanno
strette, e striscia e striscia alla fine sa cosa gli succede? Che si consumano tutta la coda. Una
cosa da pazzi, dico io. Allora quando lei vede una trota che c’ha la pinna monca è perché
quella viene dalle vasche e lì dentro non ci voleva stare, capisce?
- Che cosa strana.
- Proprio strana. Mi dice l’ora per favore?
- Sono le tre e mezza.
- Torno a pescare, sennò, come dice mia moglie, capace che mi metto a parlare e non la finisco
più e mi perdo le ore migliori. Piacere di averla conosciuta.
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- Piacere mio, arrivederci.
- Salute.
Osservai il tizio allontanarsi di spalle e raggiungere la sua postazione. Poi presi del filo nuovo dalla
cassetta degli attrezzi e riarmai la canna. Pescai una trota e anche un ghiozzo, ma li rimisi subito in
acqua, erano troppo piccoli. Rimasi al fiume per un bel pezzo, fino a quando le poche nuvole
iniziarono a tingersi di rosa e un vento glaciale annunciò il tramonto. Quando mi voltai per salutare
il mio compagno di pesca, mi accorsi che era sparito. Presi le mie cose e me ne andai.
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9
Quando rientrai a casa erano da poco passate le sette. Per scongiurare tutto il freddo della giornata
che mi era entrato nelle ossa andai in bagno e feci una doccia bollente. Rimasi sotto il getto
dell’acqua pensando al racconto del pescatore.
Immaginavo tutte quelle trote che risalivano la
corrente, senza pinne. Nuotavano sbandando e facendo una fatica del diavolo. Le immaginavo
risalire il getto della doccia, uscire dallo scarico tra i miei piedi e nuotare fino al soffione per tornare
verso il fiume o verso le vasche in cui erano state deposte come uova. Andai in camera e mi vestii
con le prime cose che l’armadio mi consigliava. Stavo ancora lottando per infilare la cinta nei jeans
quando sentii qualcuno bussare alla porta di ingresso. Finii di infilarmi la camicia dentro i pantaloni
e andai ad aprire. Era Alessandri, uno dei miei colleghi della clinica.
- Francesco, allora sei pronto?
- Per cosa?
- Ma sei ancora così? Dai, vatti a cambiare, muoviti.
- Perché?
- Ah, ma allora sei proprio fuso. La festa a casa di De Marco. Oh, ma di che ti sei fatto?
- Merda, me n’ero scordato.
- Oh, dai, cambiati al volo che ci stanno aspettando giù in macchina Franco e Silvia.
- No, ma che? Io non vengo.
- Cosa?
- Sono stanco dai, e poi ho questo raffreddore del cavolo.
- Il raffreddore? Io sono venuto fin qua apposta per venirti a prendere e tutto quanto. Tu ora
ti cambi e... ma che casino c’è dentro ’sta casa?
- Lasciamo perdere.
- No, no, guarda ho promesso che ti avrei portato giù con la forza, che lo sapevo che facevi lo
scemo. E poi senti, detto tra di noi, c’è anche Marianna alla festa.
- Ma che m’importa se c’è Marianna?
- Va bè, allora sei scemo. Quella ti mangia con gli occhi, lo capisci o no?
- Ma che mangia e mangia, non dire cazzate.
- Guarda, se non ti metti a fare le tue solite stronzate vedrai che passi un bella serata, capito?
Dai, muoviti.
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- Aspetta che metto le scarpe.
- Dai, dai, che non voglio che i due piccioncini giù in macchina comincino a fare le porcherie.
Pronto?
- Diciamo di sì.
- Andiamo.
Appena messo piede alla festa mi venne voglia di andarmene. Per non sentire le lamentele di
Alessandri decisi di fermarmi almeno un po’. Molti degli invitati erano miei colleghi, psicologi,
medici, infermieri. Almeno di vista li conoscevo quasi tutti. Strinsi qualche mano, salutai col capo
un paio di persone di cui a fatica ricordavo il nome, riempii un bicchiere di rosso e mi trovai un
angolo sul divano nel soggiorno. La ressa era notevole, gli invitati sciamavano per l’appartamento
con la mano sinistra occupata dal bicchiere e quella destra dalla sigaretta. Da lì seduto, a tenere lo
sguardo dritto vedevo una selva di cinte e cinture, fibbie e asole da uomo o da donna intente a
muoversi ondeggiando come una piccola mareggiata. A volte due cinture si incontravano,
oscillavano vicine per qualche tempo e poi si riallontanavano sospinte da una marea invisibile. La
coppia seduta al mio fianco parlava a bassa voce. Il ragazzo teneva la bocca accostata all’orecchio
della compagna poi, seguendo una danza di corteggiamento, di tanto in tanto i ruoli si invertivano,
la bocca diventava orecchio e viceversa. A intervalli il loro strano ballo veniva interrotto da una
risata sonora per riprendere con più slancio. A un certo punto si alzarono entrambi e si
allontanarono verso luoghi più adatti all’intimità: un bagno, o uno sgabuzzino magari. Ne
approfittai e mi misi più comodo. Poi, tra la selva di cinture, ne notai una scintillare sopra un vestito
scuro ed elegante. La vidi avvicinarsi e alla fine sedersi proprio a fianco a me assieme alla ragazza
che cingeva.
- Ciao.
- Ciao Marianna, non sapevo ci fossi anche tu.
- E invece, eccomi qui. Come stai?
- Non c’è male.
- Mi versi un po’ di vino, per favore?
- Sì, certo, ecco.
- Passato bene il Natale? Io sono stata dai miei, come sempre. Non so rinunciare al pranzo di
mia madre, certe tradizioni secondo me vanno rispettate. Mi ricordano quando ero piccola e...
Marianna ha un fascino particolare. Bella non si può dire, e brutta neanche. Lavora nella mia stessa
palazzina, credo si occupi di amministrazione o qualcosa del genere.
La prima volta che l’ho vista girare per gli squallidi androni dell’ufficio non ho potuto fare a meno
di notarla. Era l’estate scorsa. Aveva un vestitino coloratissimo, una montagna di capelli ricci, e
intorno al collo un migliaio di collanine etniche fatte con i semi di un qualche frutto esotico. In lei,
nel suo viso, nel modo in cui spostava l’aria intorno a sé, c’era una furia speciale. I suoi polpacci
magri e nervosi spingevano la sua falcata attraverso i corridoi imbiancati come un atleta olimpico.
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Sorseggiando iniziammo a parlare un po’ di noi, dei nostri hobby, del genere di film che ci
piacciono, dei nostri scrittori preferiti. Mi disse che era single e io risposi di essere divorziato.
Insomma, iniziavo a stare bene in sua compagnia e sembrava che anche per lei fosse lo stesso. Poi
mi fece una strana domanda.
- È tuo quell’orologio?
- Come dici?
- Ti ho chiesto se l’orologio che porti al polso è tuo. Scusa, non voglio essere invadente, ma è
da un po’ che me lo chiedo.
- No, in effetti no.
- Lo sapevo.
- Come hai fatto a...
- Non so, è una cosa che mi capita fin da piccola. Capisco un sacco di cose da quello che le
persone indossano. E tu non mi sembri proprio il tipo adatto a un orologio antico. Perché lo
porti se non è tuo? Di chi è?
- Bè...
- Un regalo?
- Sì... cioè, no.
- È un regalo oppure no?
- È di un mio vecchio paziente, l’ha dimenticato nel mio studio.
- Gliel’hai rubato, eh?
- No, ma che dici?
- Non ti preoccupare, a me lo puoi dire. Anche io ogni tanto prendo in prestito qualcosa,
dall’ufficio. Sarà il nostro piccolo segreto. Io una volta ho rubato il portafogli del mio ragazzo
e...
- Non ho rubato niente a nessuno, chiaro?
- Ok. Stavo solo scherzando.
- Sì, certo.
- Sul serio, mi spiace.
- Lascia stare. Scusa, devo andare un secondo in bagno, torno subito.
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- Ok.
Mi alzai dal divano e andai verso il corridoio. D’un tratto sentii la testa pesante e un senso di nausea
alla bocca dello stomaco. Trovai il bagno e mi chiusi la porta alle spalle. Avevo la fronte imperlata
di sudore freddo, lo specchio rimandava un’immagine pallida e stralunata. Aprii il rubinetto e mi
gettai dell’acqua sul viso, poi sentii le viscere contorcersi e il sapore della bile risalire lungo
l’esofago. Rigettai afferrando il bordo della tazza. Gli spasmi dello stomaco erano talmente violenti
che gli occhi cominciarono a lacrimare.
Quando il peggio fu passato mi pettinai con una mano, ingoiai un po’ di dentifricio da un tubetto
aperto e uscii dal bagno. Presi il cappotto dall’attaccapanni e me ne andai senza salutare nessuno.
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Mi trovavo in una galleria o in un traforo. Ai miei piedi una coppia di binari correva verso l’oscurità
profonda. L’entrata alle mie spalle non era distante, eppure qualcosa mi spronava a proseguire verso
il buio. Il suono dei miei passi rimbombava con una flebile eco tra le mura arcuate della volta di
cemento mentre avanzavo cercando di non inciampare. Il fondo del tunnel era invisibile e d’un
tratto mi venne il pensiero che non ci fosse affatto un’uscita, ma che solo tornando sui miei passi
sarei potuto arrivare all’aperto. Un fischio prolungato alle mie spalle strappò il buio e mi gelò il
sangue. Mi era chiaro che se fosse passato un treno non avrei avuto scampo. Mi voltai e capii che a
emettere quel suono non era una locomotiva, ma un uomo che correva verso di me, una figura
massiccia di cui potevo distinguere la sagoma in controluce.
Sapevo che avrei dovuto correre per salvarmi, ma non riuscivo ad accelerare il passo e ogni falcata
mi costava una fatica tremenda. Mi sentivo invischiato in una sorta di melassa che resisteva ai miei
muscoli, e più sforzi facevo per avanzare più mi pareva che l’aria si facesse vischiosa e opponesse
resistenza.
Cominciai a vedere l’uscita. L’uomo continuava a inseguirmi e a fischiare, i suoi passi facevano lo
stesso rumore di un treno in corsa: uno sferragliare sordo e violento che mi spronava a correre allo
stremo delle mie forze. Sentivo il sudore colare lungo la schiena mentre cercavo di mettermi in
salvo prima di venire travolto. Quando fui a pochi metri dall’uscita inciampai su qualcosa e caddi
tra i binari. L’uomo-treno si avvicinava sempre di più e già spostava l’aria vicino a me quando,
nell’oscurità, vidi qualcuno che mi tendeva una mano nera come la pece il cui polso era cinto da un
orologio che riconobbi. Poi con un rombo assordante l’uomo-treno fu su di me.
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Mi svegliai di soprassalto, madido di sudore. Mi alzai dal letto e mi diressi nel mio studio.
Ambrosini, Albertini... come aveva detto il vicino di casa di Rapetti? Lambertini, sì, Lambertini.
Accesi il computer, e andai sul sito dell’elenco telefonico. Dopo pochi istanti apparve il risultato
della ricerca: nome e indirizzo corrispondevano e accanto era riportato il numero di telefono. Lo
scrissi su un foglio, andai in salotto e chiamai.
- Sì, pronto?
- Salve.
- Ehilà Alfredo. Auguri.
- No, mi ha scambiato per un altro.
- Chi è, Tino?
- No, parlo con il signor Lambertini?
- Bè, chi sennò?
- Salve, non ci conosciamo. Mi chiamo Passini, sono un dottore.
- Buongiorno, Lambertini, piacere. Mi dica.
- Mi scusi se la disturbo, stavo cercando il signor Rapetti, il suo vecchio vicino di casa.
- Come mai lo cerca?
- È una cosa un po’ complicata.
- Va bè, comunque il Rapetti non abita più qui.
- Sì, questo lo so. Però mi hanno detto che lei sa dove si è trasferito.
- Oddio, non me lo ricordo mica tanto bene sa? Aspetti mò, forse mia moglie. Agnese, ‘scolta.
Sta zet, l’è il dutour. Duv l’è andè a ster il Rapetti. N’dov? Ho capì. Mia moglie dice che lei si
ricorda che è andato in un paese sopra a Modena a... Ines, com’è che s’ciama? Castelnuovo?
Castelnuovo Monti.
- L’indirizzo esatto non ce l’ha?
- No, l’indirizzo non ce l’ho mica. Sa vut? Ah, ecco, mia moglie dice che non c’è neanche
sull’elenco del telefono.
- Ho capito. Bè, la ringrazio dell’informazione.
- Sta zet. Non dicevo mica a lei dotore. Sa vut? Ma cosa vuoi che gli chiedo che cosa è sucesso?
Mi scusi dotore, eh, c’è mia moglie che deve sempre mettere il naso dapertutto.
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- No, non si preoccupi. In ogni caso la tranquillizzi, non è successo nulla al signor Rapetti.
- T’è vest, nient, non ha mica amazzè nesuno. Va a buttar giù le tajadel.
- La saluto e grazie ancora.
- Di niente. Auguri.
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Uscii di casa e, a passo veloce, stando attento a non scivolare sulla neve, raggiunsi l’auto. Frugai nel
portaoggetti alla ricerca dello stradario e dopo qualche istante trovai la mia destinazione:
Castelnuovo Monti.
La statale era quasi deserta, la tempesta di gente dei giorni precedenti si era dissolta cedendo il
passo a una quiete bianca e rarefatta. Mi fermai in un bar a mangiare un panino per pranzo e poi
ripartii. Non ebbi problemi a trovare la strada, dopo circa un’ora e mezza arrivai al paese. Non c’era
un’anima, sembrava fosse stato abbandonato in fretta e furia. Guardando fuori dal finestrino alla
ricerca di qualcuno a cui chiedere informazioni, passai davanti a un monumento ai caduti di non so
quale guerra. Sotto il porticato, dall’altra parte del piazzale, vidi un’insegna: Bar Centrale. Dalla
serranda semiabbassata sbucò un uomo. Avanzò verso un mucchio di sedie accatastate lì vicino, ne
caricò alcune in spalla e scomparve di nuovo dentro il bar. Parcheggiai l’auto, scesi e mi diressi a
mezza corsa verso il portico. L’uomo stava rispuntando dalla porta del bar, questa volta per
chiudere definitivamente la serranda.
- Ehi. Aspetti, mi scusi.
- Il bar è chiuso, mi spiace.
- Volevo solo un’informazione.
- Mi dica.
- Stavo cercando una persona, un amico. Dovrebbe essersi trasferito qui circa tre anni fa, volevo
andarlo a trovare ma ho perso il suo indirizzo.
- Come si chiama?
- Rapetti. Paolo Rapetti.
- Rapetti... Non mi dice granché, mi spiace.
- È di Bologna, sulla quarantina.
- Di Bologna? No, non mi viene in mente nessuno.
- È calvo, alto un po’ meno di me.
- C’è n’è tanti di calvi in paese.
- Sì, ma non si saranno tutti trasferiti da Bologna, no? Si sforzi un attimo!
- Senta, le ho già detto che non lo conosco. È festa, ho a casa i parenti che aspettano.
- Un attimo.
- Devo andare, mi spiace.
- È matto.
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- Come, scusi?
- L’uomo che cerco. Non è tanto a posto con la testa.
- In che senso?
- È paranoico, è sempre agitato, vede pericoli ovunque.
- Ah, ho capito. Quello strano. Sì, sì. Non sapevo fosse di Bologna.
- Lo conosce?
- Bè, non è che proprio lo conosco, è passato un paio di volte al bar.
- Sa dove abita?
- Dalle parti della cascina, mi pare.
- Mi può indicare la strada?
- Poi mi lascia andare?
- Sì, certo.
- Ha presente l’incrocio per entrare in paese? Ecco, un mezzo chilometro prima, sulla destra,
c’è una stradina che sale. Lei la fa tutta e a un certo punto vede un cartello, Frazione Tre Case
- Cascina Dardanona, va fino in cima e lì c’è un piccolo borgo. Mi pare che abiti proprio là.
Però è un bel po’ che non lo si vede.
- Grazie. Mi scusi se prima ho alzato la voce. Insomma, grazie. Arrivederla.
- Saluti.
Tornai alla macchina, girai la chiave nel quadro e mi immisi sulla strada che avevo percorso
all’andata. Aveva iniziato a nevicare più forte. Il tergicristallo si sforzava di spazzare i fiocchi ma
quando terminava la sua corsa a destra, la parte sinistra del parabrezza era già chiazzata di bianco e
viceversa. Le spazzole erano consumate e sfregando contro il vetro producevano un suono acuto e
fastidioso. Uscito dal paese percorsi la statale per qualche minuto e, come mi aveva detto il barista,
vidi un cartello quasi completamente coperto di neve in cui si leggevano a fatica le parole: Frazione
Tre Case. Svoltai a sinistra e iniziai a salire. Al di là del vetro non si vedeva quasi niente, ormai. La
strada era una sequenza ininterrotta di tornanti. A un tratto mi accorsi di aver preso una curva
troppo stretta e premetti il piede sul freno. Sentii le ruote perdere aderenza e slittare su una lastra di
ghiaccio, cercai di controsterzare, ma non riuscivo a rimettermi dritto. La macchina ondeggiò tre o
quattro volte da una parte all’altra della carreggiata senza che potessi far nulla. Abbassai d’istinto la
testa in previsione dell’urto, ma l’auto fermò la sua corsa a qualche metro dalla scarpata.
Spensi il motore, aprii lo sportello e sotto la neve accesi una sigaretta mentre le mani tremavano per
il freddo e per il rischio appena corso.
Da dove mi trovavo potevo vedere in lontananza un grande pianoro innalzarsi dal fondo valle e
svettare scabro e ripido. Gettai la sigaretta tra la neve e iniziai a montare le catene, poi ripartii.
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Cominciava a fare buio. Per fortuna dopo un paio di chilometri arrivai a un bivio con l’indicazione
per il borgo, svoltai e mi ritrovai davanti a un muricciolo di pietra illuminato a fatica da un piccolo
lampione giallo. Più in alto si intravedeva la finestra di una casa. Presi l’ombrello dal sedile
posteriore, scesi dall’auto e costeggiando il muro mi avviai per una stradina in salita. Tra lo
scalpiccìo ritmico dei miei passi sentivo farsi largo un silenzio sempre più profondo; mi rallentava,
fino a quando mi costrinse a fermarmi per ascoltarlo. Potevo percepire i fiocchi di neve adagiarsi
diseguali e soffici sul tessuto dell’ombrello sopra la mia testa. Chiusi gli occhi e mi lasciai cullare
per qualche istante dalla quiete.
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- Francesco.
- Mamma, che fai in piedi? Sono le cinque del mattino.
- Parla piano, svegli tuo padre. Volevo salutarti prima che partissi.
- Ci eravamo salutati ieri sera.
- Ho pensato che per il viaggio ti servivano dei panini.
- Li posso comprare in stazione.
- Ma che stazione? Dai siediti che ci metto un attimo.
- Ok.
- Allora, chi viene con te al campeggio?
- Te l’ho già detto, siamo una decina in tutto.
- Mi raccomando, Francesco.
- Ma dai mamma, ho diciotto anni.
- Sta attento lo stesso. Devo pur fare la mamma, no?
- Sì, però non ti preoccupare. Mamma, senti...
- Che c’è?
Credo che mia madre all’epoca avesse già capito cosa mi passava per la testa quella mattina. Io
impiegai un mese per decidermi a dirle che dopo l’estate sarei andato via da casa. Sapevo che mio
padre non sarebbe stato d’accordo e che solo lei poteva convincerlo in qualche modo. Eppure,
nemmeno mia madre che lo conosceva come le sue tasche, riuscì a fargli andare giù quella mia
decisione. E così, un giorno di primo autunno, partii da casa senza salutare mio padre.
- Allora, cosa mi volevi dire?
- Niente, era solo un pensiero. Cavolo è tardissimo, devo andare.
- Aspetta, ecco tieni. Ne ho fatti tre di panini, così puoi darli anche a qualche amico.
- Grazie, scappo!
- Ciao Francesco, divertiti.
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Voltai la testa verso la finestra della casa. Una vecchietta con gli occhi scavati mi stava spiando da
dietro una tenda. Alzai una mano in cenno di saluto, ma quella per tutta risposta si ritrasse e
scomparve. Raggiunsi la cima della breve salita e mi diressi verso l’ingresso dell’abitazione. Non
c’era il campanello, così bussai al portone di legno massiccio. Sentivo l’eco dei colpi rimbalzare
all’interno con un frastuono sproporzionato rispetto alla forza con cui avevo colpito la porta.
Nessuno venne ad aprirmi. Appoggiai l’orecchio al legno screziato di neve. Niente. Poi
d’improvviso la porta si aprì facendomi quasi perdere l’equilibrio. Mi trovai davanti un vecchio
signore con una pesante giacca di velluto marrone e una sciarpa di lana.
- Ho sentito, mica son sordo ancora.
- Mi scusi. Credevo non ci fosse nessuno in casa.
- Ah sì? Allora perché ha bussato?
- Mi chiamo Passini, sono un dottore.
- Io non l’ho chiamato il dottore.
- Non sono qui per lei, volevo solo un’informazione.
- Ah sì? Venga dentro che c’è un tempo da lupi.
- È sicuro? Non vorrei disturbare.
- Nessun disturbo, mi sembra una persona a modo. E se anche fosse un ladro qui non c’è
niente da rubare. Venga di sopra, ho appena fatto il caffè.
- Volentieri.
Il vecchio mi fece strada attraverso il casale crepato dal tempo e dal clima. Salimmo una ripida
scalinata di gradini diseguali e consumati. Poi mi fece accomodare in una stanza grigia in cui una
cucina a carbone scrostata e arrugginita montava la guardia come una vecchia armatura.
- Si segga, si segga pure.
- Grazie.
- Ecco il caffè, lì sul tavolo c’è lo zucchero, se vuole. Io invece lo bevo amaro. Allora, cosa ci fa
a Tre Case, con ’sta bufera?
- Mi rendo conto che le sembrerà un po’ strano, ma sto cercando una persona.
- Ah sì? E chi sarebbe?
- Si chiama Rapetti, Paolo Rapetti. Mi hanno detto che abita qui.
- E chi gliel’ha detto?
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- Il barista, giù in paese.
- In paese raccontano un sacco di balle. Qui ci abito solo io.
- Non ci sono altre case nei paraggi?
- Ce n’è altre due. Ma non ci vive più nessuno da quasi due anni. Mi scusi un attimo. Torno
subito.
Il vecchio tolse la caffettiera dai fornelli e riempì una terza tazzina di caffè, poi uscì dalla stanza. Le
vecchie ciabatte che portava ai piedi sfregavano il pavimento. Sentivo lo strascinìo affievolirsi a
mano a mano che si addentrava nei meandri della casa. Quando il suono dei passi scomparve tutto
precipitò in un silenzio completo, angosciante, come se attorno non ci fossero più campi, montagne
e in lontananza altre case e paesi. La cascina sembrava ergersi nella desolazione di un deserto
bianco, infinito. L’unico suono che giungeva era il ticchettìo di una pendola a muro. D’un tratto
cominciai ad avere freddo. Mi guardai attorno. La stanza era quasi spoglia. Oltre al tavolo e alle due
sedie, c’era una credenza di legno scuro sopra la quale era appeso un grosso specchio a cornice
dagli angoli logorati. Alle pareti l’intonaco giallastro si squamava in più punti rivelando zone
ammuffite dall’umidità. Dal camino spento giungeva un odore pungente di legna bagnata. Le scarpe
e le calze zuppe d’acqua gelata mi facevano tremare le gambe. Mi passai il palmo della mano tra i
capelli umidi e sulla barba ispida mentre la pendola continuava imperterrita a scandire i secondi di
un tempo lunghissimo. I ticchettii mi rimbombavano nelle orecchie, colpi di piccone assestati con
scrupolosa violenza. Sempre più forti. Toc, toc, toc. Sentii i muscoli del collo contrarsi. Quando
scoccarono i rintocchi per lo spavento ci mancò poco che non caddi dalla sedia. Mi alzai in piedi e
con lo sguardo cercai la porta.
- Se ne va?
- Cosa? Come?
- Ma che le prende? Non le è piaciuto il caffè?
- No, no. Era ottimo.
- Si accomodi, però non dica bugie. Non lo faccio granché bene. Mia moglie mi ha sgridato
anche stavolta.
- Sua moglie?
- Mi ha detto di scusarsi, ma non se la sente di venire di qua.
- Si figuri. Le dica di non preoccuparsi.
- Da quando si è ammalata non esce più dalla stanza. Si vergogna di farsi vedere in quelle
condizioni, povera donna. Senta, lei è un dottore vero?
- Sì.
- Non è che le darebbe uno sguardo?
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- Guardi, io, come dire... non sono quel genere di dottore.
- L’è un dottore o no?
- Sì, ma non sono un medico. Faccio lo psicologo.
- Ah. Ho capè. Non importa, tanto la prossima settimana dobbiamo andare all’ospedale.
- Per me si è fatto tardi, lei è stato gentilissimo, ma adesso tolgo il disturbo.
- Si figuri, è stato un piacere. Qui non si vedono spesso facce nuove. Le auguro buona fortuna.
- Grazie. Saluti sua moglie da parte mia.
- Riferirò. L’accompagno alla porta.
- No, vado da solo, grazie.
- Come vuole. Addio.
Scesi le scale di pietra che portavano al piano terreno e uscii dalla casa. La neve cadeva ancora, ma
più leggera. Andai alla macchina. Ero intenzionato a tornare a casa, farmi una doccia calda e
lasciarmi alle spalle tutta quell’assurda faccenda, ma arrivato a un bivio notai poco distante una
costruzione. Doveva essere la cascina di cui parlava il barista. Decisi di dare un’occhiata prima di
rincasare. L’illuminazione stradale era totalmente assente, per perlustrare la zona dovetti procedere
a passo d’uomo e puntare i fari nei dintorni. Intravidi un vecchio fienile, sulla sinistra si scorgevano
le colonne di un portico con il tetto crollato. Poco oltre, un palo di legno sorreggeva alcuni cavi
elettrici che scomparivano verso una zona più cupa. Lasciai acceso il motore, scesi, presi la torcia
elettrica di emergenza dal bagagliaio e mi avviai verso la cascina stando in equilibrio sul fascio
luminoso dei fari. Giunto al traliccio della linea elettrica presi a seguire con lo sguardo il percorso
dei cavi. Correvano verso una casa colonica distante non più di cento metri, quasi del tutto avvolta
dall’oscurità. Presi un respiro profondo e mi incamminai.
La costruzione era fatiscente. I vetri rotti alle finestre e le crepe spesse che si aprivano lungo tutta la
facciata davano all’abitato un tono spettrale. Illuminai il portone d’ingresso: dall’architrave di pietra
pendevano i resti di una videocamera di sicurezza a infrarossi. Dovevo essere nel posto giusto. La
porta era quasi divelta, le diedi un calcio per aprire un passaggio più comodo ed entrai. I detriti e la
polvere ricoprivano i mobili della sala da pranzo. Sul pavimento erano sparpagliati piatti di plastica
e bottiglie vuote. Feci un giro nelle altre stanze, ma a parte un armadio di vecchi vestiti in camera
da letto e una gran quantità di calmanti scaduti nel mobiletto del bagno, non trovai nulla che
rivelasse il passaggio di Rapetti. Stavo per lasciare la casa quando notai, sulla parete opposta
all’ingresso, una piccola porta di color verde scuro. Era chiusa a chiave, ma la serratura era
arrugginita e il legno attorno marcio. Diedi una spallata, il chiavistello cedette e la porta si aprì
rivelando una scala di pietra che portava al seminterrato. Circospetto e chino per via del basso
soffitto iniziai a scendere. Arrivato in fondo mi trovai all’interno di una stanza rettangolare. Sopra
la mia testa erano fissate due telecamere, più in fondo un ampio banco da lavoro sul quale era
appoggiata una scatola di munizioni con il timbro del rivenditore: Armeria Rinaldi. Alzai lo sguardo
e vidi che i muri erano ricoperti da una strana carta da parati. Puntai il fascio della torcia e capii che
quella che avevo di fronte non era tappezzeria, ma decine, centinaia di articoli incollati alle pareti
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fino a coprirne ogni centimetro. Foto in bianco e nero, a colori, titoli a lettere cubitali, trafiletti,
occhielli. In alcuni punti l’umidità aveva annerito le pagine dei quotidiani e, tra i ritagli, muffe e
insetti avevano fatto la loro tana. Su ogni articolo, a vernice rossa, erano tracciate delle linee che lo
collegavano a un altro; una selva di frecce, alcune grandi, altre piccole, altre ancora tirate con
precisione oppure sghembe o contorte, un labirinto di milioni di lettere e di parole costruito con
attenzione maniacale di cui ora solo i titoli rimanevano in parte leggibili.
- ...“Anche quest’anno è prevista l’invasione delle api assassine”...
- ...SARS, una bomber...
- ...“Ordigno esplosivo nelle lattine di Coca Cola”...
- ...Aggressioni di pitbull, mucca pazza, riscaldamento globale...
- ...No, questo no: “Scioglimento dei ghiacci: pericolo valanghe sull’appennino.”
- Cristo. Devo andarmene da qui. Devo andarmene!
Sentii la porta d’ingresso che si chiudeva di colpo e subito dopo una folata di vento gelido mi colpì
alle spalle. Mi voltai di scatto. Nessuno. Sentii la paura indicarmi la via d’uscita: dovevo
andarmene. Infilai la porta, corsi a perdifiato fino alla macchina e, senza voltarmi, salii a bordo e
me la filai.
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- Francesco, sono Elena, è tutto il giorno che provo a chiamarti. Stai bene? Senti mi servono
quei piatti. Mi pare di averti chiesto solo un piccolo favore, no?
Appena entrato in casa raggiunsi la camera da letto e cominciai a spogliarmi. Le scarpe e le calze
formarono un piccolo cumulo umido sul pavimento. Sentivo le gambe indolenzite e deboli.
- Cristo santo, sei sempre lo stesso. Non costringermi a mandare lì qualche amico a prenderli,
ok? Chiamami appena hai un attimo, per favore.
Andai in bagno e lasciai scorrere l’acqua della doccia finché non diventò bollente. Entrai nella
cabina mentre il vapore saliva grasso verso il soffitto e chiusi gli occhi lasciando fluire i pensieri.
Il signor Rapetti era introvabile. Per quanto ne sapevo poteva essere ovunque, magari era espatriato
o magari era vicinissimo, nel mio stesso palazzo. A me non era dato saperlo. Da quando ci eravamo
incontrati l’ultima volta aveva continuato a seguire un percorso tortuoso che lo portava a spostarsi
in continuazione. Viaggiava sul filo delle sue angosce. Ne era preda, le assecondava. In questo era
simile a un animale braccato, una creatura messa davanti alla propria paura che reagiva seguendo
un istinto di difesa: la condizione in cui la preda diventa predatore. Ripercorrevo con la memoria le
nostre sedute cercando di riportare alla mente il suo viso, le sue espressioni, ma più mi sforzavo più
la sua immagine mi sfuggiva e diventava remota.
Sentii un tonfo sordo provenire dalla cucina. Chiusi il getto d’acqua e rimasi in ascolto. C’era
qualcuno. Il cuore aumentò la frequenza dei battiti e l’adrenalina si tuffò nel sangue facendomi
vibrare. Uscii dalla cabina della doccia cercando di fare il minor rumore possibile e stando attento a
non scivolare sull’umidità che si era precipitata sopra le piastrelle del bagno.
Sgusciai in camera poggiando i piedi sul pavimento ghiacciato. Afferrai una vecchia mazza da
baseball che giaceva da anni sotto il letto mentre la paura mi segava il respiro. Mi avviai per il
corridoio stringendo l’arma e a un passo dalla porta della cucina la sollevai pronto a colpire.
- Francesco, che cazzo fai!
- Cristo, m’hai spaventato Nicola.
- Io? A momenti mi fai venire un infarto. Ma che ci fai nudo con una mazza da baseball?
- Pensavo ci fosse un ladro. Ma come sei entrato?
- La porta era aperta, ti ho chiamato ma non rispondevi.
- Ero sotto la doccia.
- Eh, lo vedo.
- Aspetta, mi vado a coprire.
- C’è un bordello qua dentro. Pensavo fossero passati i ladri.
- Di’ un po’, come mai da queste parti?
- Ho pensato che te ne stavi tutto da solo nella tua tana e allora ho fatto fare una teglia di
pasta al forno da mia moglie, così ceniamo insieme. È ancora calda. Che te ne pare?
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- Sì grazie, volentieri.
- Ho portato anche un paio di bottiglie di vino, le metto in frigo.
Finii di vestirmi mentre Nicola preparava la tavola. Poi tornai in cucina, stappammo una bottiglia di
bianco e cominciammo a mangiare. Lui aveva una gran voglia di parlare di qualsiasi cosa, del suo
interessantissimo lavoro da avvocato, della sua famiglia perfetta e di altre cose per le quali non
provavo il minimo interesse. Mi limitavo ad ascoltare, a sorridere ogni tanto e a bere vino. Quando
finimmo di cenare stappai la seconda bottiglia.
- Ti vedo un po’ stanco. Tutto bene?
- No... cioè, sì. Solo un po’ di raffreddore.
- Senti, mi dispiace essermene andato così di fretta l’altro giorno. Volevo parlarti di questa
storia del funerale di tuo padre. Sei proprio sicuro di non volere andare?
- Sì, Nicola, te l’ho già detto e ti ho anche detto che l’argomento è chiuso.
- D’accordo, scusa.
- Figurati.
- Ti ricordi il vecchio mulino del paese?
- Certo.
- Mia moglie mi ha detto che l’hanno tirato giù. Era talmente vecchio e malandato che il
sindaco lo ha voluto abbattere. Te lo ricordi che proprio sotto il mulino c’era il fiume che
faceva una pozza profonda? C’era un periodo, dovevamo avere sedici anni, che ci andavamo
sempre a fare il bagno, io, te e quelle tre ragazze inseparabili. Mi ricordo un giorno, era estate
piena, eravamo lì tutti e cinque e quella mora, quella che ti piaceva tanto, quella che piaceva a
tutti, come si chiamava? Bè non importa, comunque, tu ti eri arrampicato sulla ruota
malandata del mulino, ci guardavi dall’alto e quella mora ti ha detto che se ti tuffavi da lì ti
avrebbe dato un bacio. Tu ti sei guardato intorno con una strana espressione, poi sei sceso con
calma e te ne sei andato verso i campi. Che lezione. Avevi dato il ben servito a quella
smorfiosetta. Ci era rimasta con un palmo di naso. Le avevi detto chiaro e tondo che eri tu a
scegliere se darle un bacio o no.
- Ti sbagli.
- No no, è andata proprio così.
- E invece ti sbagli. Non volevo darle nessuna lezione Nicola.
- Allora perché non ti sei tuffato, scusa?
- Perché avevo paura. Ecco perché. Lo volevo quel bacio, eccome. Ma quando ho guardato di sotto
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me la sono fatta addosso.
- Davvero? Ho sempre creduto...
- E ti sei sempre sbagliato.
- Peccato, preferivo la mia versione. Dove sei stato oggi? Ti ho chiamato ma non rispondevi.
- Sono andato a fare un giro.
- Dove?
- In montagna.
- A fare che? A te non piace la montagna.
- Però ci sono andato.
- Facciamo i misteriosi, eh? Ti sei trovato un’altra finalmente?
- No guarda, sei del tutto fuori strada.
- Secondo me no.
- Smettila.
- Avanti confessa.
- Che cazzo ti devo confessare!
- Va bene, va bene, non serve alzare la voce. Stavo solo scherzando.
Nella stanza piombò un silenzio imbarazzato.
Rimanemmo per un pezzo seduti al tavolo a guardare le tazzine di caffè vuote senza dire una parola.
Poi ci salutammo. Quando Nicola uscì rimasi per qualche momento dietro la porta di casa. Sentii il
suono dei suoi passi rimbombare nell’androne delle scale, udii il rumore del portone che si
richiudeva, poi più niente. Sul tavolo erano ancora apparecchiati gli avanzi della cena davanti alle
sedie vuote. Decisi che avrei lasciato tutto così. Casomai fossero passati due fantasmi avrebbero
potuto starsene comodamente seduti a finire il fondo delle bottiglie e a ricordare i tempi andati.
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La mattina successiva mi svegliai con un fastidioso mal di testa. Non riuscivo a togliermi dalla
mente il signor Rapetti. Cercai di passare in rassegna tutto quello che avevo visto nella cascina alla
ricerca di un dettaglio che mi rimettesse sulla strada giusta. Le videocamere, la porta della cantina,
il grande tavolo, i ritagli di giornale... Un momento. Sul tavolo c’era una scatola di munizioni, e sul
dorso di quella scatola c’era stampato il nome di un negozio, un’armeria... Rinaldi! Sì, ecco come si
chiamava: Armeria Rinaldi. Forse il proprietario avrebbe potuto darmi qualche informazione utile.
Trovai l’indirizzo sull’elenco e mi diressi là.
Quando arrivai a destinazione il negozio era chiuso. Guardai l’orologio di Rapetti: segnava le otto e
un quarto. Non pensavo che fosse così presto. Entrai in un bar dall’altra parte della strada e
approfittai dell’attesa per fare colazione. Mi sedetti a un tavolino da cui potevo vedere l’entrata del
negozio e aspettai.
Dopo una ventina di minuti arrivò un uomo corpulento, calvo, con i baffi neri. Si fermò davanti
all’armeria, prese un mazzo di chiavi dalla tasca e si accosciò per aprire la serranda. Pagai, uscii dal
bar e attraversai la strada. Quando entrai nell’armeria l’uomo stava ancora togliendosi la giacca.
- Buongiorno, mi aspettava qui fuori?
- Io? No, no. Sono appena arrivato.
- Un attimo che apro la cassa. Ecco qui, mi dica.
- Ah sì, vorrei delle esche da pesca, ecco sì, delle buone esche.
- Che tipo?
- Naturali, mi dia delle organiche inerti.
- Perfetto.
- E anche qualche mosca, grazie.
- Le mosche le devo prendere in magazzino. Torno subito.
L’uomo scomparve dietro una porta alle sue spalle. Non so perché non gli domandai subito di
Rapetti. Cercavo di inventarmi una scusa in attesa che l’uomo tornasse quando la mia attenzione
venne catturata da un particolare che non avevo notato. Dietro il bancone, accanto ai fucili di grosso
calibro, c’era una cornice di legno con una foto in bianco e nero; ritraeva un folto gruppo di uomini
vestiti da caccia con le armi in spalla accanto a una jeep. Al centro era riconoscibile il padrone del
negozio e un paio di persone più a destra, seminascosto, c’era un tizio con il cappello abbassato
sugli occhi che somigliava a Rapetti.
- Ecco qui le mosche. Bella foto eh?
- Sì, bella. Dove eravate?
- Tanzania, nel Parco del Serengeti. Meraviglioso. Abbiamo organizzato con un po’ di amici,
si è aggiunto qualche cliente e siam partiti.
- Ah sì? Quando c’è stato?
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- Un mesetto fa. Va a caccia anche lei?
- No, a dire la verità preferisco pescare. Posso vedere la foto da vicino?
- Certo, ecco qui. Perché fa quella faccia, c’è qualcosa che non va?
- Credo di conoscere una di queste persone.
- Chi?
- Questo qui con il cappello.
- Ah sì?
- Come si chiama?
- Il nome non me lo ricordo.
- Come fa a non ricordarlo, avete appena fatto un viaggio assieme.
- Eravamo una trentina.
- Rapetti?
- Non lo so.
- Paolo? Paolo Rapetti?
- Sì, può essere. C’era un tizio che si chiamava Paolo, mi pare.
- Ha detto che è un suo cliente, giusto?
- Bè, proprio cliente fisso no, passa ogni tanto. L’ultima volta sarà stato tre settimane fa.
- Cosa ha comprato?
- E chi se lo ricorda? Mi faccia pensare... ha preso un po’ di roba, un coltellino, dei guanti e
una scatola di cartucce.
- Cartucce? Munizioni?
- Sì, munizioni.
- Bene, la ringrazio. È stato molto gentile. Arrivederci.
- E le esche?
- Ah sì, scusi.
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- È tutto a posto?
- Sì. Quanto le devo?
- Sette euro e cinquanta.
Uscii dal negozio e risalii in auto. Feci il giro dell’isolato e mi appostai poco distante dall’entrata
dell’armeria. Rapetti abitava in quella zona, passeggiava per quelle vie. Magari con un po’ di
fortuna sarebbe passato di là. Mi accesi una sigaretta e cominciai a guardare fuori dal finestrino.
Nonostante la mattinata gelida la via era abbastanza trafficata. Le mamme andavano a fare la spesa
accompagnate dai bambini a casa da scuola, qualche signore anziano teneva sotto il braccio il
giornale appena comprato in edicola. Non so quanto tempo passai a spiare il mondo che continuava
a scorrere incurante dei pensieri asserragliati nella mia testa. So solo che stavo osservando un tizio
che teneva al guinzaglio quattro cani che lo trascinavano sulla strada ghiacciata quando sentii
battere con forza sul finestrino. Era il tizio dell’armeria.
- Ehi, bello, che hai intenzione di fare, eh?
- Cosa?
- Prima sei venuto in negozio con la scusa delle esche e adesso stai qui a fare il palo con il
motore acceso da più di un’ora. Ho già subìto due rapine lo scorso anno.
- Ma che cosa sta dicendo?
- Stai zitto per Dio! Adesso tu schiacci la frizione, metti la prima e te ne vai. Non ci metto
niente a spararti a una gamba seduta stante, hai capito?
- Ma lei è pazzo.
- Meglio pazzo che coglione. Smamma.
- D’accordo, d’accordo.
- E non ti voglio più vedere da ’ste parti, chiaro?
Accesi il motore e mi gettai nel traffico cittadino. Mentre mi allontanavo controllai nello
specchietto retrovisore che a quel matto non venisse qualche scalmana. Era ancora lì, in piedi con lo
sguardo puntato su di me, quando voltai per una via laterale dirigendomi verso casa.
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- Francesco, sono Elena. Se ci sei rispondi. Non sei a casa? Comunque fatti sentire, è urgente.
Ma dove sei finito? Sono le sei e non mi hai ancora richiamato. Mi devo preoccupare o è una
delle tue solite trovate idiote?
A sera, dopo aver travasato gli avanzi della cena nel lavandino, mi stesi sul divano e accesi la tv.
Me ne andai a spasso per i canali, poi lasciai il televisore sintonizzato sulle immagini di un vecchio
film di guerra. Una guerra in bianco e nero.
Di un intero anno passato sotto le armi tutto quello che ricordo sono pochi volti associati a ridicoli
soprannomi e un vago senso di angoscia. Franco, lui me lo ricordo bene.
Aveva un paio di anni meno di me e un faccia da bambino avvitata su di un corpo tozzo da
manovale. In caserma era il bersaglio degli scherzi più odiosi degli altri ragazzi. Io facevo parte
degli altri e, nascosto nel branco, non gli risparmiavo battute oscene e scherzi terribili. Franco non
faceva amicizia con facilità, credo fosse molto timido. Se ne stava tutto il tempo in disparte. Subiva
le percosse e le offese come si subisce una pioggia in un luogo senza riparo. Era stoico in questo.
Doveva soffrirne molto. All’epoca a tutti noi sembrava logico prendercela con lui, era un bersaglio
perfetto e siccome sotto le armi ti insegnano che ognuno ha un ruolo ben preciso, il suo glielo
avevamo assegnato noi.
Trascorsa la prima metà della leva le cose si mettevano al meglio, le uscite aumentavano e
all’orizzonte cominciava a intravedersi la fine di quell’assurdo anno.
Durante una licenza breve, doveva essere la fine di settembre, lasciai tutti gli altri commilitoni al
loro cinema con la riduzione e me ne andai a fare una passeggiata sul lungomare.
La mattinata era bella, ma il freddo dell’autunno cominciava a penetrare sotto la stoffa dura della
divisa. Io tenevo gli occhi al mare. C’era ancora qualche bagnante tedesco che sfidava il freddo per
una nuotata in ritardo e, seduti sul muretto, c’erano ragazzi e ragazze appena usciti da scuola che
fumavano sigarette e ridevano vicino ai motorini. Più lontano, sullo stesso muretto, uno dei nostri in
divisa mangiava un gelato contro il mare. Anche se mi dava le spalle lo riconobbi subito. Franco. Il
viso rotondo e sbarbato alla luce piena del sole sembrava di porcellana, gli occhi alle onde merlate
di schiuma, le narici che respiravano a fondo l’aria salmastra, tutto in lui sembrava puntare verso
l’acqua. Mi sedetti sul muretto vicino a lui e gli porsi il pacchetto di sigarette.
- Oddio.
- È solo una sigaretta, spina.
- Sì, scusa, è che non ti ho visto arrivare.
- Tranquillo. La vuoi o no ’sta paglia?
- Il gelato.
- Te la fumi dopo, no?
- Giusto. Allora sì, grazie.
- Prendi. Che fai qua? Perché non sei al cinema?
- Il cinema non è che mi dica poi tanto.
- No? E invece star qui?
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- Mi piace. Vuoi assaggiare?
- Ma sì dai, cos’è, fragola?
- E limone.
- Senti un po’, ma te quando ti congedano?
- Il diciotto novembre. E te?
- Fine ottobre. Non ne posso più.
- Che lavoro fai?
- Devo finire l’università, e tu?
- Mio padre è elettrauto e io pure. Ora che io non ci sono ha dovuto prendere un ragazzo, ma
quando che torno riprendo il mio posto.
- Te la posso fare una domanda?
- Dimmi.
- Cosa ti piace del mare?
- I gabbiani mi piacciono.
- I gabbiani?
- Sì.
- Sei un po’ strano, mi sa.
- Me lo dicono ogni tanto.
- Senti, ti va di andare a bere una birra dove c’è qualche ragazza?
- Insieme?
- Certo, io e te.
- Sì.
- Dai che c’è ancora qualche ora al rientro.
Quella giornata me la ricordo bene. Mangiammo una pizza e provammo inutilmente ad avvicinare
qualche ragazza del posto. Franco sembrava assente di tanto in tanto, il mondo sembrava riflettersi
su di lui come su una bolla di sapone. A sera rientrammo in caserma insieme a tutti gli altri. Quando
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spensero la luce nella camerata sentii i bisbiglii degli altri che finivano di raccontarsi a vicenda la
libera uscita, e di quella o quell’altra ragazza che avevano incontrato. E poi cominciarono:
- Franco, tu l’hai vista mai una ragazza nuda?
- See, figurati!
- Oh, allora rispondi?
- Quello è pure sordo.
- Alzati un po’ su da quella branda.
- Spina, non ci fare incazzare.
- Alzati, per Dio!
Franco si tirò su. Lo misero al centro della camerata.
- Ora spogliati.
Cominciò a sfilarsi la maglietta verde che indossava tutte le notti.
- Oddio, fai schifo per quanto sei grasso.
Quando si fu denudato, tre o quattro commilitoni si alzarono e cominciarono a spingerlo. Se lo
passavano come se fosse un pallone. Franco singhiozzava sommessamente. Era inebetito.
- Guardatelo, adesso sviene. Ah ah ah.
- Mi viene da vomitare. Ah ah ah.
Io mi tirai le coperte sul viso per cercare di non sentire, ma i singulti di Franco penetravano i
timpani come colpi di tamburo. Presi il cuscino e lo schiacciai contro il viso per non saltare giù
dalla branda e mettermi a strillare che la facessero finita.
- Dai, balla la danza del ventre, ciccione!
Avrei voluto avere la forza di prenderli a calci, di ridurli al silenzio. Nel buio della mia branda
tenevo i pugni serrati, mentre le unghie scavavano nel palmo delle mani alla ricerca di un coraggio
che non ebbi mai.
Due settimane dopo venni trasferito in un’altra camerata a causa di una rissa in cui io non c’entravo
niente e Franco lo vidi sempre meno. Quando poi mi diedero il congedo me ne tornai a studiare
all’università. Invece Franco si tolse la vita il 15 novembre di quell’anno. Due giorni prima di
ricevere il congedo. Era sui giornali.
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La mattina, appena alzato, scesi in edicola a comprare il quotidiano. Tornai a casa e cominciai a
sfogliarlo. Le notizie avevano titoli apocalittici: strage natalizia sulle strade, 22 morti nelle ultime
48 ore; Panettone assassino, sequestrate dieci tonnellate di dolci scaduti; Drastico aumento di
suicidi durante le festività. Poi mi cadde l’occhio sulla pubblicità di un ansiolitico.
- Si è dimenticato di scrivermi le ricette dottore, ho finito le pastiglie. Sono due notti che
non riesco a prendere sonno. Ha letto il giornale stamattina? Hanno sgominato una
cellula di al-Qaeda proprio qui in città. Siamo circondati! Ha sentito quello che le ho
detto?
Le farmacie! Era quello il posto giusto in cui cercare Rapetti. Se, come me, anche lui quella mattina
avesse letto un giornale infarcito di notizie terrificanti, di sicuro si sarebbe preoccupato a morte; e
cosa fa un nevrotico in preda al panico per risolvere il problema nel più breve tempo possibile? Va
in farmacia a fare scorta di calmanti. Riaprii subito il quotidiano e controllai le farmacie di turno.
Ne trovai tre aperte quel giorno in città. Una era vicino al centro islamico, improbabile che Rapetti
si spingesse in quella zona, la seconda era alla stazione, abbastanza vicina al negozio di armi, ma
ogni paranoico sa che nelle stazioni delle grandi città si insidiano una miriade di pericoli: drogati,
scippatori, barboni, senza contare poi l’eventualità remota, ma nell’ottica di Rapetti pur sempre
possibile, di un attentato dinamitardo. No. Non rimaneva che la terza: Farmacia Poli, all’interno del
centro commerciale di San Donato. Uscii di casa, raggiunsi l’auto ma mi accorsi di aver dimenticato
le chiavi. Per fortuna proprio in quel momento stava passando un autobus. Corsi alla fermata e lo
presi al volo.
Il grande magazzino era già affollato di massaie che facevano acquisti per il cenone di capodanno.
Io mi appostai su una panchina vicino a una fontana contornata di piante di plastica proprio davanti
all’entrata della farmacia. Facendo finta di leggere il giornale tenevo d’occhio le persone che
entravano e uscivano dal negozio, c’era un via vai continuo, sembrava ci fosse più gente in farmacia
che al supermercato. Di Rapetti, nessuna traccia. Passate due ore iniziai a dubitare di quello che
stavo facendo e, dopo la terza, mi resi conto di aver congegnato un piano ridicolo. Stavo per alzarmi
dalla panchina e rinunciare quando tra la massa di corpi vidi un uomo con un cappello nero uscire
dalla farmacia. Era identico a Rapetti. Per un attimo lo persi di vista. Mi alzai sulle punte dei piedi
scrutando tra le mille teste attorno, mi sentivo soffocare ma nello stesso tempo un’eccitazione
spasmodica acuiva i miei sensi. Guardai rapido in tutte le direzioni. Rieccolo. Si dirigeva verso
l’uscita principale. Iniziai a corrergli dietro ma, nel tentativo di farmi largo tra la folla, urtai una
signora e la buttai a terra. Lei iniziò a strillare. Avevo paura di averle fatto male, ma se mi fossi
fermato ad aiutarla avrei perso Rapetti, così continuai a correre distribuendo spintoni e gomitate a
chiunque mi trovassi di fronte fino a quando, pochi passi prima della porta d’uscita, mi sentii
agguantare da dietro. Era un agente di sicurezza in divisa. Armato.
- Ehi. Calma, calma.
- Cosa c’è?
- Dove va così di corsa?
- Mi lasci il braccio, innanzitutto.
- Posso vedere il suo scontrino, signore?
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- Senta, non ce l’ho lo scontrino, non ho comprato niente. Posso andare?
- Signore, può svuotare le tasche per cortesia?
- Cosa? Non dica sciocchezze, non ho rubato niente, sono un dottore.
- Perché, i dottori non rubano? Svuoti le tasche.
- Adesso mi hai stancato, togliti.
- No che non mi tolgo.
- Ti ho detto di lasciarmi il braccio, testa di cazzo.
- Metta le mani dietro la testa.
- Ma tu sei pazzo, abbassa quella pistola, è pieno di gente.
- E lei metta le mani dietro la testa, subito!
- Ecco. Non c’è bisogno.
- Mi segua per favore.
La mandria di gente tutt’attorno non sembrava essersi accorta di niente. Ogni tanto qualcuno mi
gettava un’occhiata distratta e poi passava oltre. Il vigilante mi scortò fino a una guardiola a vetri
situata vicino ai bagni. Mi fece accomodare su una sedia, prese la ricetrasmittente e chiamò la
polizia. Quella vera. Quando arrivarono gli agenti mi chiesero di mostrare i documenti, ma nella
fretta li avevo dimenticati a casa. Quindi mi caricarono su una volante e mi portarono in questura
per accertamenti. Mi accompagnarono in una piccola stanza senza finestre e mi lasciarono solo.
Avevo piena coscienza di essere vittima di un sopruso bello e buono, ma cercavo di rimanere calmo
per non peggiorare le cose. Mi sentivo esausto, come se non avessi dormito per una settimana o, al
contrario, come se dopo aver dormito troppo a lungo mi fossi svegliato in un posto sconosciuto.
Fino al giorno prima della morte di mio padre pensavo di essere riuscito, dopo tanti anni e mio
malgrado, a trovare un certo equilibrio. Non che fosse chissà quale paradiso, ma almeno avevo un
lavoro che mi piaceva, una casa in cui, anche se solo, non stavo male, qualche amico per una birra
e poi le domeniche a pesca. Una vita tranquilla, e dopo tutte le lotte e, perché no, le sconfitte, in
definitiva una vita di cui mi potevo accontentare. Ma in quel momento, messo in castigo nello
sgabuzzino dell’autorità, mi rendevo conto che qualcosa doveva essermi sfuggito. Sapevo che non
c’era nulla di cui mi potessero accusare, ma era come se una lieve eppure fastidiosa fenditura nel
petto mi negasse la possibilità di sentirmi del tutto innocente. Un’inerzia latente e continua mi
aveva spinto centimetro dopo centimetro verso un baratro di cui fino a qualche giorno prima
ignoravo l’esistenza. Ora ne avvertivo la vuota profondità.
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Il filo dei miei pensieri fu interrotto dal rumore della serratura. Un poliziotto fece capolino dalla
porta e mi invitò a seguirlo. Zoppicava vistosamente e non disse una parola. Mi accompagnò lungo
un corridoio dal soffitto altissimo fino a uno stanzone illuminato da una fastidiosa luce al neon. Tre
questurini lavoravano davanti agli schermi dei computer, dietro una scrivania era seduto un uomo
sulla sessantina, mezzo calvo, con la camicia bianca e il nodo della cravatta allentato.
- Si accomodi.
- Dove, qui?
- E dove si vuole sedere, in braccio a me? Sono il sovrintendente Mancuso, devo farle qualche
domanda. Nome?
- Francesco Passini.
- Nato a?
- Milano, trentuno uno settantatré.
- Segni, hai segnato tutto? Ecco, bravo. Ah, ah, si chiama Segni il mio assistente, che ci devo
fare? Sembra una battuta, Segni che segna. Ma è la verità.
Dicevamo, sul verbale di fermo ho letto che si è scordato i documenti a casa.
- Sì, infatti. Come ho detto ai suoi agenti, sono uscito di fretta e ho dimenticato un bel po’ di cose.
- Di fretta, eh... Però sul verbale c’è scritto che lei ha dichiarato di essere andato al centro
commerciale per fare la spesa, giusto? E poi si è messo a leggere il giornale.
- Giusto.
- Ma scusi, mi ha appena detto che era uscito da casa di fretta e poi se ne sta un’ora a leggere
il giornale prima di fare quello che deve fare? Che fretta aveva, di comprare il giornale? Le
edicole ne hanno tanti di giornali.
- No, è che pensavo di essere in ritardo.
- In ritardo per che cosa? Aveva un appuntamento?
- Io...
- Cosa si prova a essere dall’altra parte, dottore?
- Non..
- È una brutta sensazione il panico, vero? Prima o poi ci passiamo tutti. Le do io un
consiglio questa volta. Apra gli occhi prima che sia troppo tardi.
- Io non...
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- Mi ha sentito? Risponda, aveva un appuntamento?
- Sì. Dovevo incontrare un vecchio amico.
- Chi?
- Insomma, ma che volete da me, si può sapere?
- Se non ha fatto niente, io non voglio niente. Magari poi la guardia ritira pure la denuncia.
- Quale denuncia?
- E come quale? La resistenza, dottore. La resistenza è un reato.
- Non gli ho fatto niente a quello, sono io che lo denuncio! Ha capito? E denuncio anche lei.
- Sì, sì, certo. Segni, accompagnalo di sotto.
- Di sotto dove? Voglio il mio avvocato.
- E ora lo chiama l’avvocato, ma lei deve calmarsi un pochettino...
- Io non mi voglio calmare, voglio andarmene e basta!
- Sì, sì. Se ne va, se ne va. Segni, di sotto, capito? E sono diventati pure prepotenti ’sti
mascalzoni, e che è?
Due poliziotti mi portarono fino a un telefono dal quale cercai di rintracciare Nicola. Chiamai per
tre o quattro volte, dava libero, ma non rispondeva nessuno. A quel punto gli agenti mi scortarono
nel seminterrato lungo un corridoio sul quale si affacciavano una serie di inferriate e dietro ogni
inferriata una brandina, una sedia e un piccolo lavabo incementato al muro. Mi feci accompagnare
docilmente dentro una cella e mi sedetti sulla branda a osservare incredulo gli agenti che
richiudevano la porta blindata. Poi, silenzio. Tesi l’orecchio nell’intento di percepire qualche
rumore dall’esterno, che so, la voce di un altro detenuto, il traffico in strada, la sirena di
un’ambulanza, ma non sentivo nulla. Nonostante il freddo iniziai a sudare, mi stava salendo la
febbre. Mi sdraiai sulla branda cercando di stringermi sotto la coperta lisa, i brividi mi provocavano
piccoli spasmi alle gambe mentre il respiro si condensava in sbuffi di vapore bianco. Misi la testa
sotto la coperta e chiusi gli occhi. Sentivo le ossa che formavano le mie mani stridere come se si
stessero strofinando l’una con l’altra. Poi caddi in un dormiveglia tormentato da dolori reali e da
altri alimentati da una specie di incubo. Di tanto in tanto riaprivo gli occhi per la sensazione di
avere qualcosa in bocca, un oggetto morbido e resistente tra la lingua e il palato, qualcosa che non
potevo deglutire né sputare. Piano piano il mio respiro si fece più regolare e, infine, mi
addormentai.
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- Allora Francesco, sei pronto?
- Papà, che fai qui nello spogliatoio?
- Sono venuto a vedere che fosse tutto a posto. Aspetta, mettiti bene il costume, ecco così. Bè,
che cos’è quella faccia?
- No, niente.
- Non avrai mica paura?
- No.
- Comunque è normale sai, essere emozionati prima di una gara. Anche i campioni lo sono.
- Io non la voglio fare questa gara.
- Ti sei allenato tutto questo tempo e adesso ti tiri indietro?
- Lo odio questo sport! Mi fanno schifo gli spogliatoi che puzzano sempre, mi fa schifo l’acqua
della piscina che è sempre fredda e mi bruciano gli occhi e...
- Adesso basta! Non puoi sempre scappare davanti alle difficoltà. Hai imparato a nuotare e
nuoterai chiaro?
- Ma...
- Niente ma. Tua madre e io siamo venuti per te. Non è importante se vinci oppure no. Devi
nuotare e non voglio sentire ragioni.
- Va bene.
- Bravo, Francesco. Faremo il tifo per te.
Pochi minuti dopo, gli arbitri ci diedero il segnale di uscire dagli spogliatoi. Tutti gli altri ragazzini
si misero in fila e si mossero ordinatamente verso il corridoio che portava alla piscina. Io approfittai
della confusione ed entrai in bagno, chiusi la porta e abbassai il chiavistello. Sentivo gli altri
ciabattare sul pavimento di piastrelle bianche. Quando fui certo che fossero usciti tutti scoppiai a
piangere. I sussulti mi scuotevano il petto e le lacrime scendevano giganti mentre immaginavo mio
padre, rosso di rabbia e vergogna, che dagli spalti cercava le mie scapole tra quelle degli altri, senza
trovarle.
***
- Ehi, Francesco. Mi senti?
- Chi è?
50
- Sono Nicola, svegliati.
- Nicola. Perché non sei venuto prima?
- Ero in montagna con i bambini. Lì non ho il telefono, ho sentito i tuoi messaggi solo
stamattina. Sei tutto sudato.
- Devo avere la febbre alta.
- Aspetta che ti aiuto. Andiamo. Ho la macchina qui fuori.
Allora, ti accompagno a casa?
- Sì.
- Come stai?
- Ho visto giorni migliori.
- Ho convinto la guardia giurata a non sporgere denuncia.
- Grazie.
- Senti Francesco, mi vuoi spiegare che sta succedendo? Da qualche giorno ti vedo strano.
- Mi hanno fermato perché ero senza documenti, tutto qui.
- Veramente in questura hanno detto che ieri hai combinato un casino in quel centro
commerciale.
- Esagerano sempre.
- È vero che hai fatto male a una signora? Tu?
- Non volevo, c’era ressa.
- E poi cos’è questa storia dell’orologio?
- Basta!
- Basta un cazzo! Ti sei fatto arrestare, lo capisci?
- Fammi scendere.
- Non fare il bambino.
- Ferma questa cazzo di macchina!
- E va bene. Ecco fatto. Toh, scendi.
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- Stammi bene.
- Ma dai Francesco, vieni qua. Francesco, dove vai?
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Rientrato a casa presi altre due aspirine, mi spogliai e mi infilai sotto le coperte. I brividi della
febbre si arrampicavano lungo la colonna vertebrale mentre cercavo di riscaldare le lenzuola con il
calore del mio corpo. Poi il sonno mi fu sopra.
Lo squillo insistente del telefono mi risvegliò bruscamente, mi tirai su a fatica e andai a rispondere.
- Pronto, Francesco?
- Sì, chi è?
- Come chi è, sono Elena. Sono giorni che ti cerco.
- Ah sì, ciao.
- Ma ti senti bene?
- Sì, dimmi.
- Come dimmi? ’Sti piatti me li vuoi ridare sì o no? Domani ho gente a pranzo, mi servono.
Sei sempre il solito, te ne freghi di tutti. Che devo fare per riaverli, denunciarti?
- No grazie, per oggi ho già dato.
- Cosa?
- Lascia stare.
- Senti, preparali che domattina passo presto.
- Sì certo, ora li vado a prendere.
- Sarà il caso.
Andai in soffitta. Mi caricai sulle spalle lo scatolone di Elena e lo portai in salotto. Poi presi un
martello dalla cassetta degli attrezzi e tirai fuori il primo piatto. Era di porcellana bianca e lungo il
bordo aveva dei motivi floreali colorati dipinti a mano. Lo poggiai con cura sul tappeto, impugnai il
martello e gli assestai un colpo che lo mandò in frantumi. Presi un altro piatto. Tirai una martellata
più forte della precedente.
- Intravede lo spiraglio, dottore?
- Piatti decorati a mano del cazzo.
- Sì, lo vedo dai suoi occhi.
- Li vuoi indietro, eh?
- Tutti, nel profondo, nascondiamo qualcosa.
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- Te li rendo io, Elena cara.
- È inutile far finta di niente.
- Ecco, tieni, prendi anche questo.
- Io l’ho guardata negli occhi la mia paura.
- Tu e i tuoi piatti del cazzo.
- E ho cercato di ucciderla.
- Vaffanculo i piatti!
- E lei? Fino a dove è disposto ad arrivare?
- Vaffanculo tutto!
- Fino a dove?
- Faccia silenzio, Rapetti!
Mi lasciai cadere esausto sul tappeto. Stavo ancora ansimando per lo sforzo quando il telefono
squillò di nuovo. Mi alzai e sollevai il ricevitore. Dall’altra parte sentivo in sottofondo gli
schiamazzi di una festa, voci di uomini e donne vorticavano mischiati a rumori indistinguibili.
Dopo pochi istanti la comunicazione si interruppe. Rimasi per qualche secondo in piedi vicino allo
sgabello su cui era poggiato il telefono. Cercavo di respirare, ma qualcosa nel mio petto, qualcosa
che si era inceppato, mi permetteva solo mezzi fiati. Accesi tutte le luci dell’appartamento, come
dovessi cercare il mio respiro sotto il divano o tra gli scomparti della libreria, poi bevvi un sorso
d’acqua dal rubinetto e presi dalla mia scrivania il faldone su Rapetti. Sparpagliai i referti sul tavolo
della cucina e mentre la tosse mi scuoteva il petto iniziai a rileggere i documenti. Man mano che
scorrevo quei fogli mi pareva che le lettere si confondessero: le code del mio corsivo si
intrecciavano tra loro, si sovrapponevano, a volte sembrava si scambiassero di posto e
complottassero contro di me per non lasciarmi la possibilità di comprendere. Altre volte mi pareva
che la scrittura non seguisse il rigo che avrebbe dovuto sorreggerla e che prendesse vie oblique,
spirali di lettere che mi obbligavano a girare il foglio per permettermi di seguirle. Quella scrittura
pareva distante da me e dalla mia memoria. Avevo la sensazione di non essere stato io a tracciare
quelle parole, ma piuttosto un mio avo lontano. Era possibile che fossi cambiato a tal punto negli
anni da vedere come estranea la mia calligrafia? Da non riconoscere il frutto della mia mano, del
mio pensiero?
Il telefono riprese a squillare. Un suono brutale e tagliente. Mi alzai poggiando entrambe le mani
sul tavolo, raggiunsi il telefono e alzai il ricevitore. Questa volta i rumori erano diversi. Dapprima
mi parve di sentire il rombo di un’automobile, come se chiunque fosse all’altro capo del telefono si
trovasse al margine di una strada, poi sentii le voci dei passanti: parlavano a un volume tale per cui
era impossibile capire cosa stessero dicendo.
Lasciai cadere la cornetta sul pavimento. Sentii il mondo vacillare intorno a me. Strinsi gli occhi
arrossati, scoppi gialli e blu impressionarono le retine. Il fiato tornò corto e il pavimento sembrò
inclinarsi. Aprii la finestra e il vento gelido urtò il corpo sudato, respirai a fondo e gettai uno
sguardo giù in strada.
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Nel buio della notte mi parve di scorgere vicino a una cabina del telefono un uomo avvolto in un
cappotto scuro. La figura alzò gli occhi e, benché il bavero lo coprisse fino al volto, lo riconobbi:
Rapetti. Corsi a prendere la giacca, mi infilai un paio di scarpe e scesi lungo le scale. Sentivo le
tempie esplodere dalla fatica. Quando arrivai in strada mi guardai attorno. Vicino alla cabina non
c’era anima viva. Non poteva essere lontano. Svoltai l’angolo e vidi l’uomo montare a bordo di una
macchina parcheggiata a una decina di metri di distanza. Il cappotto sembrava più corto di quanto
non mi fosse apparso prima. Mise in moto e partì. Io corsi verso la mia auto e mi misi
all’inseguimento. Stringevo il volante con le mani sudate, gli occhi incollati al paraurti della
macchina di Rapetti. A un bivio accelerò e svoltò a destra. Gli andai dietro. Non sapevo se si fosse
accorto di me. La sua guida era nervosa e precisa, si incanalò lungo i viali che cingono il centro
storico. Il traffico era notevole e faticai per non perderlo di vista. Poi arrivammo a un incrocio in cui
un semaforo rosso aveva creato una lunga fila di automobili. Io e Rapetti eravamo incastrati nella
coda a distanza di poche vetture l’uno dall’altro. Riflettei un istante, slacciai la cintura di sicurezza
e aprii lo sportello. Appena il mio piede toccò l’asfalto il semaforo scattò sul verde. Rimontai subito
a bordo e partii seguendo il fiume di macchine. L’auto di Rapetti appariva e scompariva tra le altre,
poi per alcuni istanti la persi di vista del tutto.
Affondai il piede sull’acceleratore e un attimo dopo sentii uno stridìo di gomme sull’asfalto. Frenai
di istinto. Gli schianti di plastica e lamiera si susseguirono in rapida sequenza, finché non fu il mio
turno di tamponare la macchina che mi precedeva. Il mio busto si fletté sotto l’impeto dell’urto. Sul
parabrezza si disegnò una crepa frastagliata. La mia fronte colpì il volante. Tutto divenne buio.
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Precipitavo negli abissi di un oceano dimenticato e freddo. Intorno a me il buio ricopriva ogni cosa.
Sentii la paura scavarmi una tana nel petto, salire lungo la gola e immobilizzarmi il respiro. I
timpani schiacciati dalla pressione non restituivano la vibrazione di nessun suono. Immaginavo di
attraversare banchi di pesci di profondità che mi osservavano con le orbite sporgenti, foreste di
alghe pallide cresciute nel corso di lunghi secoli marini, mentre il mio corpo cadeva attraverso
l’acqua scura.
Poi sentii i piedi toccare una superficie piana e il mio corpo svuotato del peso gravarli appena.
Infine, come se avessi subito una millenaria evoluzione in pochi istanti, i miei occhi si abituarono
all’oscurità. Distinsi sul fondale la sagoma di un uomo.
- Benvenuto dottore. Dottore, si sente bene? Può rispondermi se vuole.
- Lei è Rapetti?
- In un certo senso, sì.
- Dove siamo?
- In un posto sicuro.
- La sua voce è diversa da come me la ricordavo. Lei è così...
- Calmo? Bè, qui non c’è motivo di agitarsi, è tutto così tranquillo, silenzioso. Perché mi sta
cercando?
- Volevo restituirle l’orologio, ricorda? L’ha dimenticato nel mio studio l’ultima volta che ci siamo
visti.
- Ah certo, il vecchio orologio.
- Solo che non ce l’ho con me, ora. Deve essermi caduto di tasca durante l’incidente.
- Vuol tornare a prenderlo?
- Sì, lo prendo e glielo riporto. Dove la posso trovare?
- Vediamo... oggi è l’ultimo dell’anno. Sarò dove sono tutti gli altri. Facciamo a mezzanotte in
Piazza Maggiore?
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Quando riaprii gli occhi stavo ancora stringendo il volante. Passai una mano tra i capelli e la sentii
invischiarsi di un liquido denso e appiccicoso. Angolai lo specchietto retrovisore. La ferita che
avevo al centro della fronte non sembrava preoccupante, una piccola escoriazione. Il sangue si era
riversato sul bavero della giacca e sulla camicia bianca. Sentii un lieve bussare al finestrino e vidi
un tizio sulla trentina che mi guardava preoccupato. Provai a girare la chiave nel cruscotto ma il
motore non diede segni di vita.
- Si è fatto male? Che fa, non può mica andarsene.
- Mi spiace, ho fretta. Ecco, le lascio il mio biglietto da visita, lo dia ai vigili.
- Non è corretto.
- Si faccia i fatti suoi.
- Lei ha una ferita alla testa.
Scesi dall’auto e mi guardai intorno. Il tamponamento aveva coinvolto diverse macchine, i
passeggeri si erano riversati in strada e vagavano nell’attesa di capire cosa fare. I primi curiosi
cominciavano ad accorrere sul luogo dell’incidente.
- Allora dottore? La sto aspettando.
Cominciai a correre.
- Ma dove va? Torni indietro!
Mi infilai in una stradina buia e poco trafficata. Non ero molto distante da Piazza Maggiore. Arrivai
a un bivio che non ricordavo, guardai per un istante i due vicoli che partivano dall’incrocio. Decisi
per tenere la destra e ripresi la corsa. Il fiato si faceva corto mentre passavo davanti alle
saracinesche abbassate dei piccoli negozi di alimentari.
- Dottore si sbrighi.
La strada si allargava e piegava verso sinistra. Nonostante il freddo pungente sentivo il sudore
colare lungo le spalle e il cuore martellare la cassa del petto. La mia corsa attraverso i vicoli era
scomposta, come se qualcuno da dietro mi spingesse continuamente verso il mio obiettivo.
- Ancora un piccolo sforzo, coraggio.
Trovai un altro incrocio. Il luogo era familiare. Mi stavo avvicinando seguendo traiettorie
sconosciute. Una compagnia di ragazze e ragazzi guardandomi passare di corsa, ferito e sporco di
sangue, mi urlò qualcosa che non afferrai, me li lasciai alle spalle e svoltai dietro un angolo.
- Ci siamo quasi.
Quando arrivai in piazza, migliaia di persone incappottate brandivano bottiglie di spumante. Nel
mezzo era stato allestito un palco da cui le celebrità avrebbero annunciato il nuovo anno. Dovunque
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girassi lo sguardo c’erano uomini e donne in festa che aspettavano il fatidico conto alla rovescia. Mi
feci strada tra la folla con spinte e strattoni.
- Ottima idea dottore, venga, venga su.
Proprio mentre stavo arrivando sotto l’impalcatura di tubi innocenti, due donne in abito lungo
uscirono dalle quinte e guadagnarono il centro del palcoscenico.
- Avanti, lo faccia.
Mi arrampicai sul palco sotto gli occhi incuriositi e alticci di quelli che mi stavano vicini. Sapevo
che non avrei avuto molto tempo prima che qualche energumeno della sicurezza mi scaraventasse
giù. Aguzzai la vista e cominciai a passare in rassegna i volti sotto di me.
- Mi vede?
- Dov’è Rapetti?
- Si concentri.
- Siete in migliaia Rapetti!
- Guardi più in basso.
Nella strana luce dei riflettori che illuminavano la piazza,
- Qui.
i volti del pubblico sembravano dipinti da un impressionista.
- Coraggio, apra gli occhi.
Facce grottesche, labbra, orecchie, nasi sembravano uscire da un marasma unico,
- Dottore.
il pallore di quei volti contrastava con la macchia scura che cominciava sotto i loro menti.
- Sono qui.
- Non la vedo, c’è troppa gente.
- 10, 9, 8,
Un unico corpo e migliaia di teste, un mostro urlante e fuori controllo.
- Dottore, siamo qui.
- 7, 6, 5,
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La mole di quella creatura si stendeva oscena per l’intera piazza, mentre le sue mille bocche urlanti
ondeggiavano sotto di me.
- Da questa parte!
- Mi aiuti, Rapetti.
- 4, 3,
- Mi aiuti, la prego.
- Siamo proprio davanti a lei!
- Rapetti!
- 2, 1,
- Rapetti, siete tutti uguali!
- Finalmente ha capito, dottore.
- Tutti uguali.
- Buon anno!
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Non so dire quante ore vagai per le vie della città quella notte. Né saprei dire che strade presi o sotto
quali ponti passai. Forse seguii traiettorie coscienti, o magari ero simile a un naufrago in balìa di
correnti sconosciute.
All’alba mi trovai di fronte al portone di casa. Dovevo offrire uno spettacolo magro. Il sangue
rappreso sulla giacca formava una crosta scura, la ferita sulla fronte non doleva a patto di non
toccarla. Guardai l’orologio di Rapetti: le lancette, il quadrante, in quell’oggetto non c’era niente di
straordinario, era un orologio come potevano essercene milioni al mondo. Qualcuno, in qualche
posto sul pianeta, aveva stampato i piccoli pezzi che lo componevano, li aveva messi insieme e da
allora contava il tempo. Nient’altro.
Dall’altra parte della strada un netturbino aveva già cominciato il suo giro quotidiano. Spazzava con
una lunga scopa i marciapiedi, raccoglieva i rifiuti e li gettava dentro un bidone montato su una
specie di bicicletta a tre ruote. Slacciai il cinturino, tolsi l’orologio e lo strinsi nella mano destra.
- Buongiorno.
- Posso buttarlo qui, nel bidone?
- Se vuole sì. Ma è un peccato. È rotto?
- No.
- Capisco. Un ricordo?
- Qualcosa del genere.
- Alle volte bisogna proprio buttarla certa roba, specie a capodanno.
- Sì.
- Visto che ci siamo, ne approfitto. Mi dice l’ora?
- Le sette meno un quarto.
- Grazie. Aspetti che le apro il secchio. Ben fatto.
- Già. Buona giornata.
- Anche a lei, e buon anno.
Il netturbino montò sulla bicicletta e cominciò a pedalare verso il fondo della strada. Io tornai a
casa, mi ripulii, presi un paio di aspirine e mi cambiai d’abito. Presi le chiavi della mia vecchia
utilitaria e mentre il sole cresceva nel cielo imboccai la statale. Intorno a me automobili di tutti i
colori sfrecciavano incanalate dalle strisce bianche disegnate sull’asfalto. La città scorreva alle mie
spalle e con lei tutti i suoi abitanti, le sue antenne, i suoi semafori. Tutti si preparavano a tornare al
lavoro. Qualcuno avrebbe dovuto riparare le strade, altri avrebbero costruito case e altri ancora
avrebbero scritto articoli che sarebbero finiti su qualche giornale.
Spinsi sul pedale dell’acceleratore, il funerale di mio padre mi stava aspettando.
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- Come va la scuola, Francesco?
- Bene, papà. Da qui ci passa il treno?
- Certo. Proprio su questi binari.
- Ma laggiù in fondo si toccano i binari, no?
- No. Non si toccano mai, è solo un’impressione.
- Che vuol dire: un’impressione?
- Una cosa che sembra in un modo e invece è in un altro. Ce l’hai una fidanzatina?
- Forse sì.
- Che vuol dire forse sì? Uno la fidanzata o ce l’ha o non ce l’ha.
- Bè, ecco...
- Che c’è, ti vergogni?
- No. C’è una ragazza che mi piace, ma io... lei non lo sa.
- E perché non glielo dici?
- Non ne ho voglia.
- Se ti piace come fai a non averne voglia?
- È che a volte ne ho voglia a volte no. Papà guarda, guarda questa pietra.
- Che c’è da vedere?
- Non sembra un orecchio?
- Francesco, cosa ti piacerebbe fare da grande?
- Non lo so. Non ho ancora deciso. Forse il dottore.
- Il dottore.
- Sai papà che sono diventato velocissimo a correre? Ieri ho battuto Davide. Vuoi che ti faccia
vedere? Guarda. Sei pronto?
- Vediamo.
- Pronti. Via! Guardami. Vedi come corro?
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- Francesco, adesso basta.
- Guardami, posso andare anche più veloce.
- Francesco basta, torna indietro.
- Guarda, papà.
- Il treno! Francesco, arriva il treno!
Mio padre iniziò a correre verso di me, e io che guardavo indietro lo vidi avvicinarsi a grandi
falcate. Accelerai più che potevo. Sentivo il cuore bussare con violenza contro il mio sterno magro,
avrei voluto tirare fuori un paio di ali e spiccare il volo e allo stesso tempo non riuscivo a staccare
gli occhi dallo spettacolo di mio padre in corsa dietro di me, le sue gambe mature sembravano
pistoni colati nell’acciaio mentre divorava la distanza che ci separava. Poi sentii il fischio del treno
che faceva a pezzi l’aria. Mi voltai di scatto e vidi l’enorme massa di ferro in corsa. Un istante dopo
mio padre gettandosi su di me mi scagliò insieme a lui nell’erba di fianco ai binari.
Il fragore del treno fece tremare la terra per un tempo che mi sembrò infinito, mentre stringevo gli
occhi ancora colmi di paura tra le braccia di mio padre.
Quando li riaprii il treno e il suo fracasso erano appena un’ombra all’orizzonte. Sentivo mio padre
respirare profondamente, il suo petto crescere contro il mio. Aveva ancora gli occhi chiusi. Feci per
rialzarmi, ma lui me lo impedì e mi strinse con forza. Sentii le mie ossa morbide piegarsi sotto la
sua stretta. Allora mi stesi accanto a lui e cominciai a contare i suoi respiri.
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Ringraziamo:
Jadel Andreetto per il prezioso lavoro di editing.
Andrea Di Cesare per l’opera in copertina.
Alice Natali per la correzione delle bozze.
Gli spettatori e gli amici della Compagnia Fantasma
per la loro assidua presenza, per gli apprezzamenti,
ma soprattutto per le critiche e i consigli.
Le nostre famiglie per l’amore e la pazienza.
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Impaginazione e grafica:
La Mongolfiera Editrice
Finito di stampare nel mese di dicembre 2009
presso AGM
Castrovillari (CS) - 0981 491957
Consulenza grafica ed editoriale
Mariella Guarino
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