Una Ahnenerbe casalinga, nona parte

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Una Ahnenerbe casalinga, nona parte
Un noto detto afferma che citare diverse fonti è cultura, mentre citarne una sola rischia di essere
plagio. E’ un rischio che va tenuto presente, ma le informazioni contenute in un articolo
recentemente comparso sul sito identità.com viene a collegarsi così bene al discorso sin qui svolto su
ciò che si può obiettivamente dire sulle nostre origini, che sarebbe davvero un peccato ignorarlo,
anche perché qui non si tratta di questioni di copyright letterario, ma di un’informazione che
l’ortodossia ufficiale cerca al massimo di nascondere, di impedirne la circolazione, e che appunto per
questo, è importante diffondere il più possibile.
Per prima cosa, occorre fare un’osservazione preliminare: stavolta non parliamo di teorie o
interpretazioni. Stavolta si tratta di fatti, fatti per di più che hanno cominciato ad emergere negli
anni ’60 del secolo scorso, e che per mezzo secolo sono stati coperti da un velo di silenzio omertoso
perché potrebbero rivelarci un’immagine delle nostre origini e di noi stessi del tutto difforme da
quella che l’ideologia democratica vorrebbe inculcarci.
Adattare le teorie ai fatti, correggerle in base alla scoperta di nuove conoscenze è l’essenza del
metodo scientifico “galileiano” cui è legato qualsiasi progresso che abbiamo mai fatto nella
comprensione del mondo che ci circonda e di noi stessi. L’operazione contraria, adattare i fatti alle
teorie, o se questo non è possibile, falsificarli oppure nasconderli, censurarli, isolarli dietro una
cortina di silenzio, invece è tipico del pensiero dogmatico, di chi in malafede vuole imporre una
visione distorta della realtà. Bene, precisamente questo è oggi il caso di quell’ideologia menzognera
che conosciamo come democrazia.
Questa storia inizia in Egitto oltre mezzo secolo fa, ma affonda le sue radici in un passato molto più
antico, ecco cosa ci racconta l’articolo pubblicato da identità.com il 4 agosto e che s’intitola:
Scoperti i resti della prima guerra della storia: e fu guerra razziale. E a proposito, non è quanto
meno singolare che notizie e informazioni che dovrebbero apparire su riviste di divulgazione
scientifica se vivessimo in situazioni normali, debbano invece circolare su siti “di Area”?
La vicenda inizia con quella grande impresa ingegneristica di cui credo la maggior parte delle
persone della mia età si ricordino bene, che fu la costruzione della diga di Assuan.
“Siamo a sud dell’Egitto. La storia di questa grande scoperta archeologica inizia negli
anni ’50, quando viene decisa la costruzione della nuova diga di Assuan. E’ un grande
progetto, che entusiasma i due ingegneri che vi si dedicano ( tra cui un italiano), ma che
terrorizza gli archeologi; e il motivo è chiaro: il nuovo ed immenso bacino che si creerà,
finirà con l’inondare i reperti presenti sulla costa sud-orientale del Nilo.
A questa preoccupazione, nel 1960, risponde l’Unesco, che lancia una missione in
grande stile per individuare e spostare i siti archeologici a rischio.
Ed è in quest’occasione che, nel 1964, nel nord dell’attuale Sudan, viene rinvenuto un
primordiale cimitero, costituito di tre siti contigui, risalente a oltre 13.000 anni fa.
E’ un rinvenimento già all’apparenza non da poco, in quanto più antico sito della zona. E
tuttavia la sua importanza non viene in un primo momento compresa; i mezzi a
disposizione, non lo consentono. I resti scheletrici finiscono così nel laboratorio
dell’illustre antropologo americano Fred Wendorf; ove, di fatto, riposano per oltre 30
anni.
Fino a quando non hanno iniziato ad essere studiati con le moderne tecnologie del
21esimo secolo: e qui è iniziato il bello. Per la prima volta, strumenti tecnologici di una
certa “raffinatezza” hanno potuto esaminare questi residui ossei, ed evidenziare
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particolari mai notati prima”.
Piccola, banale osservazione: 64 più 30 uguale a 94. Quindi, anche se l’analisi di questi resti partì
con una trentina d’anni di ritardo, deve essere stata compiuta all’incirca vent’anni fa.
Evidentemente, non si aveva nessuna fretta di divulgare quanto era stato scoperto, e quando ci
rendiamo conto di quello che è saltato fuori, capiamo bene il perché.
“Una prima scoperta rilevante, è stata osservare che le ossa dei crani, delle braccia, di
quasi il 50% degli scheletri provenienti da Jebel Sahaba ( uno dei siti di cui è composto il
cimitero), presentano innumerevoli segni di impatto di frecce, e che frammenti appuntiti
di pietra selce ( usati per la testa della frecce) sono sparsi sopra e tutto attorno alle ossa:
è evidente, questi sono scheletri di persone morte assassinate, a seguito di un attacco di
arcieri.
E nelle ultimissime ricerche compiute dal British Museum, in collaborazione con
scienziati francesi, si è visto che c’è anche di più: si è infatti dimostrato che si ci fu un
vero e proprio conflitto su larga scala, che toccò un po’ tutta la costa orientale a sud del
Nilo: durato molti mesi, e probabilmente anni. Non vi sono oramai dubbi di rilievo: quello
trovato non è un “semplice” cimitero, è altresì testimonianza di un conflitto armato
organizzato: è, in pratica, un cimitero di guerra, della prima guerra di cui si abbia
notizia”.
Abbastanza sconvolgente, non vi pare? Quanto meno, ci impone di modificare radicalmente le nostre
idee sulla guerra che non è, come ci si è sforzati di farci credere, un frutto tardivo e perverso di
civiltà evolute, ma accompagna l’uomo fin dalla preistoria.
Come scrive l’autore del testo (che non è firmato):
“Senz’altro l’aspetto più avvincente dello sviluppo di questa prima guerra della Storia, è
come si palesi ancora una volta che la causa primigenia di guerra non sia, ad esempio, la
brama di potere o di ricchezza, né tanto meno la presenza di confini, ma anzi, l’assenza
stessa dei confini”.
L’interpretazione più canonica e ricorrente del fenomeno guerra, quella che ritroviamo esplicita o
sottintesa praticamente in ogni testo di antropologia e sociologia, non è un’idea che si sia in qualche
modo affermata a partire dalla ricerca scientifica, ma discende dai “magnanimi lombi” di Jean
Jacques Rousseau, dai cascami dell’illuminismo.
“L’uomo nasce buono, la società lo corrompe”, è il celebre leitmotiv rousseauiano mille volte
smentito dall’esperienza reale, e che pure continua a essere alla base del pensiero di sociologi e
antropologi. La guerra, hanno mille volte argomentato costoro, è il frutto di società complesse, dove
esistono la proprietà, soprattutto terriera, stratificazioni sociali, differenze nell’accesso alle risorse,
quindi potere e ricchezza per alcuni e per conseguenza l’ambizione di conseguire l’uno e l’altra.
Il primitivo, l’uomo nello stato di natura che è ancora lontano da tutto questo, è per conseguenza
pacifico e mite, istintivamente benevolo verso il prossimo, “il mito” che sembra inestirpabile del
“buon selvaggio” che sta ancora oggi alla base di tanta antropologia culturale, tutta intesa a
dimostrare quanto buoni e angelici siano i cosiddetti primitivi e quanto malvagi e corrotti siamo noi
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europei.
Già l’esperienza dei navigatori e degli esploratori del XVIII e del XIX secolo aveva dimostrato
inequivocabilmente che tutto ciò è completamente falso: nonostante i paraocchi illuministi, costoro,
da James Cook a David Livingstone, non hanno potuto fare a meno di registrare i frequenti furti di
cui erano oggetto da parte dei nativi, la ferocia delle guerre tribali, i non infrequenti episodi di
cannibalismo, ma quando ai paraocchi di Rousseau vengono a sommarsi quelli di Marx e quelli di
Levi Stauss, la realtà perde ogni potere di penetrare nelle menti ottenebrate degli “scienziati”.
L’esperienza dimostra che i conflitti fra popolazioni di cacciatori-raccoglitori sono meno cruenti di
quelli fra popolazioni agricole e stanziali semplicemente perché nel primo caso le popolazioni
interessate sono demograficamente molto più rade, ma vale sempre la stessa regola: quando due
popolazioni diverse competono per le stesse risorse, il conflitto anche violento è inevitabile. In più,
molto più frequentemente di quanto oggi non si pensi, i “buoni selvaggi” che non hanno mai letto
Rousseau, tendono a considerare i loro vicini una fonte di proteine, il cannibalismo di cui gli
antropologi attuali parlano il meno possibile e sempre con imbarazzo e (simulato?) stupore, e che
testimonianze recenti rivelano non essere per nulla scomparso dall’Africa subsahariana.
Se la storia documentata ci ha dato ampi esempi di ciò, quale motivo abbiamo di pensare che nella
preistoria le cose andassero in maniera differente?
Un antropologo fuori dagli schemi, Melvin Harris, nel libro “Cannibali e re” ha ribaltato
completamente la prospettiva con cui di solito i suoi colleghi, discepoli di Rousseau, di Marx, di Levi
Strauss guardano a questi fenomeni, nel senso che secondo la sua teoria sarebbe stata proprio
l’introduzione del tabù del cannibalismo a consentire il passaggio dall’organizzazione tribale a quella
di società complesse. Non solo non si cacciano altri esseri umani come fonte di cibo, ma si rinuncia
persino a divorare il nemico ucciso in battaglia, il che da un certo punto di vista può essere
considerato uno spreco di proteine, perché il nemico vinto è più utile come schiavo o come vassallo
che come pasto.
“Siamo venuti qui per portarvi la civiltà” suona meglio di “Siamo venuti qui per mangiarvi”.
L’aspetto più importante e quello che entra maggiormente in conflitto con l’ideologia democratica
della scoperta avvenuta nella Valle del Nilo, però, è probabilmente un altro.
“Ma gli ultimi sviluppi di questa vicenda, hanno rivelato anche dell’altro. Ricerche
parallele, compiute da università come la John Moores di Liverpool o la Tulane di New
Orleans, si sono concentrate sopratutto sul comprendere chi fossero le vittime di quelle
sepolture.
E il loro responso è chiaro: tutte le vittime sono parte di uno stesso ceppo razziale,
assolutamente identificabile come progenitore dei neri sub-sahariani di oggi: tutto
nell’analisi delle ossa del cranio, del bacino e degli arti corrisponde.
Ma chi furono allora i loro rivali, i nemici in quella grande e primordiale guerra? Ebbene,
i ricercatori sono convinti che si trattasse senz’altro di genti di tutt’altro tipo; genti che a
quel tempo erano situate in un po’ tutto il bacino del Mediterraneo; ovvero: caucasici,
popolazioni progenitrici dei nordafricani autoctoni ( come i Berberi), ed in parte anche
degli europei attuali. I resti stessi di popolazioni di tal tipo, vengono ritrovati a 200
miglia a sud del cimitero di Jabel Sahaba.
Fu allora guerra razziale, tra popolazioni che con ogni probabilità differivano oltre che
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geneticamente, anche nella cultura e nella lingua. Popolazioni che proprio nella zona
settentrionale dell’odierno Sudan, per via della fertilità creata dal corso del Nilo,
vennero a contatto.
Si può notare, quindi, come quella prima guerra fu l’anticamera degli scontri che in
epoca storica videro da una parte gli egizi e dall’altra i nubiani”.
Insomma, a quanto pare, gli sconfitti di questo scontro erano neri antenati dei subsahariani odierni,
mentre i vincitori erano del ceppo caucasico nordafricano autoctono, quello che su basi linguistiche
è identificato come camitico, a cui appartenevano Egizi e Numidi, e a cui appartengono oggi Berberi
ed Egiziani copti.
Come giustamente osserva l’articolista:
“Si potrebbe ad esempio notare, come già in epoca abbondantemente preistorica, le
popolazioni caucasiche fossero tecnologicamente più progredite delle popolazione subsahariane. Sempre a memento che quale che sia la causa di questo divario, certo non è il
colonialismo ( che ne è al più una delle conseguenze)”.
In altre parole – diciamolo pure – la democrazia ha sempre considerato la questione razziale girando
volutamente il binocolo dalla parte sbagliata. Non sono le condizioni storiche, ambientali e culturali
che hanno determinato l’arretratezza dell’Africa e delle popolazioni “nere”; queste ultime sono
appunto nient’altro che conseguenze. Ne volete una riprova? Ce ne sono a pacchi, nonostante su di
esse si sia esercitata da decenni una “democratica” operazione di “coverage” e censura. Ad esempio,
la media del Q. I. degli afroamericani è 85, contro il valore di 100 delle popolazioni caucasiche. Che
questo non sia dovuto a fattori culturali, sociali, ambientali, non è difficile da dimostrare. Gli ispanici
di recente immigrazione riportano un valore ancora più basso: 80, ma appena andiamo a considerare
le seconde e terze generazioni di immigrati, questo valore sale rapidamente allineandosi a quello
della popolazione di origine anglosassone, mentre il dato degli afroamericani è assolutamente
stabile. E non è tutto, perché questi ultimi hanno in realtà parecchio sangue “bianco”. Se ci
spostiamo nell’Africa nera, si scende a un drammatico 70.
Non è ancora tutto. Avete osservato il piccolo particolare che i caduti dei due gruppi sono stati
seppelliti in due siti, in due “cimiteri di guerra” a 200 miglia di distanza l’uno dall’altro? Se si è
mantenuta una tale separazione per i morti, possiamo immaginare come stessero le cose tra i vivi.
Scopriamo così un’altra delle menzogne della democrazia. Quella di distinguere le persone in base a
caratteristiche sia fisiche sia culturali, e di prediligere ciò che ci è affine, cioè il proprio gruppo di
appartenenza, cioè quel che noi chiamiamo razzismo, non è un costrutto del colonialismo del XIX
secolo né tanto meno un’invenzione del nazionalsocialismo del XX secolo, è una costante della mente
umana e della storia umana. E leviamoci dalla testa l’idea – massima espressione delle mistificazioni
democratiche – che sia un “peccato” nel quale indulgono solo i bianchi.
Come commenta l’articolista:
“E’ insito nella natura umana fare gli interessi della propria gente, per mandare avanti il
proprio patrimonio genetico e, non da meno, avere una terra in cui “sentirsi a casa”.
La verità è questa: una società multietnica quale quella che si è affermata negli Stati Uniti e che
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oggi attraverso l’immigrazione si vuole imporre anche da noi, è quanto di più artificioso e innaturale
possa mai esistere, e richiede un prezzo enorme in termini di conflittualità interna e di violenza.
Come scrisse diversi anni fa Sergio Gozzoli in “L’incolmabile fossato”, uno stupendo saggio che
ancora adesso è bene andare ogni tanto a rileggersi:
“Le differenze di razza, di religione, di cultura creano sacche e compartimenti stagni. Ma
non si tratta mai, come in altri Paesi multirazziali – India, URSS, Sud Africa – di grosse
sacche e grossi compartimenti geograficamente ben delimitati: i loro confini dividono
non gli Stati, le contee o i distretti, ma le città e i quartieri, talvolta i marciapiedi opposti
della stessa strada. Ed essi non convivono l’uno accanto all’altro, ma piuttosto si
sovrappongono l’uno sull’altro, coincidendo in tutto o in parte con un diverso status
culturale ed economico.
Dai banchi di scuola agli uffici di collocamento, dalle relazioni sessuali alle carriere pubbliche, dai
contatti interpersonali alle stratificazioni sociali, tutto subisce la pesante influenza dell’appartenenza
all’uno o all’altro gruppo; e i rapporti son difficili e tesi, carichi di una incontenibile potenzialità di
ricorrente violenza”.
Ed è esattamente quello che si sta sempre più verificando anche da noi, la tragica realtà che
l’immigrazione ci porta ogni giorno di più in casa.
Non a caso, l’articolista conclude:
“E non è rassicurante pensare che oggi, con l’esperimento “immigrazionista” e
multirazziale in Europa, illudendosi che gli uomini siano intercambiabili si stiano
creando premesse anche peggiori: gruppi etnici molto diversi, in territori sovrappopolati,
e prossimi a carenza di risorse ( carenze denunciate, proprio negli ultimi giorni, anche
da studi di rilievo compiuti presso l’Università di Cambridge).
I disordini etnici che già ad oggi hanno falcidiato diverse zone d’Europa ( a volte anche
portandosi dietro non pochi morti), sono nulla rispetto a quello che con questo
andamento, si scatenerà in futuro. Al confronto, la striscia di Gaza sembrerà il posto
migliore in cui vivere”.
Una conclusione certamente non incoraggiante ma con la quale, alla luce dei dati di fatto, non è
possibile non essere d’accordo.
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