La natura degli artefatti e la loro progettazione

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La natura degli artefatti e la loro progettazione
Sistemi Intelligenti
a. XII n. 3 Dicembre 2000, pp 437-452
La natura degli artefatti e la loro progettazione
Antonio Rizzo
Università di Siena
Via dei Termini 6
53100 Siena
[email protected]
Introduzione
Recenti sviluppi nell’ambito delle scienze cognitive (Zhang & Norman 1994; 1995; Norman 1991;
1993, Hutchins, 1995) hanno fornito evidenza empirica a sostegno della tesi che la cognizione
umana è mediata da artefatti (strumenti, rappresentazioni). Questi risultati hanno corroborato le
posizioni teoriche di Lev Vygotskij che all’inizio del secolo sostenne che non è possibile indagare
l’attività cognitiva umana senza considerare gli artefatti storicamente e culturalmente determinati
che la mediano in ogni sua manifestazione. Secondo queste posizioni teoriche l’attività umana e gli
artefatti sono i due lati inseparabili dello stesso fenomeno: la cognizione umana.
Cerchiamo d’essere più espliciti, provando a definire le intime relazioni tra artefatti e attività
umana.
Un artefatto è un oggetto progettato o foggiato da una specifica attività umana, che non esisteva
prima di quella attività e che non può essere compreso indipendentemente dall’attività umana nella
quale viene utilizzato e per la quale è stato, almeno parzialmente, concepito (ad esempio, si pensi al
lavoro di identificazione e comprensione dei reperti da parte degli archeologi, o meglio ancora si
provi a scrivere un programma per dotare un sistema artificiale della capacità di individuare la
presenza di artefatti su un pianeta alieno). Questa è una prima relazione tra attività e artefatti; una
seconda riguarda gli effetti degli artefatti sull’attività umana nella quale vengono utilizzati. L’uso
dell’artefatto trasforma l’attività per la quale è stato progettato, la trasformazione riguarda sia la
riorganizzazione delle modalità percettivo motorie di interazione con l’ambiente (ad esempio, nel
caso di utensili quali la clava o l’ aratro) che le modalità di pianificazione dell’azioni e delle
relazioni sociali (ad esempio nel caso di strumenti quali il mulino ad acqua1). Nel modificare le
attività un artefatto mette in relazione parti del nostro cervello che non sarebbero altrimenti entrate
in risonanza, la loro possibilità di sincronizzarsi e costituirsi come pattern stabili di attivazione
neurale dipende criticamente dalla presenza o meno di quel particolare artefatto all’interno di una
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Già Antifilo di Bisanzio notava come il mulino ad acqua “libera le donne dal faticoso lavoro della molitura. Staccate o mugnaie le
mani dalla mola, dormite a lungo, anche se il canto del gallo annuncia il giorno, poiché Demetra ha incaricato le ninfe del lavoro che
compivano le vostre mani: esse si precipitano dall’alto di una ruota, esse fanno girare l’asse che attraverso ingranaggi di ruote muove
il peso concavo delle mole di Nistra.”
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situata pratica sociale. Era a tale situazione che Lev Vygotskij si riferiva quando, parlando del ruolo
di mediazione degli artefatti (la legge della mediazione semiotica) la definiva il principio di
organizzazione extracorticale delle funzioni cognitive superiori. L’insieme di queste due relazioni
lega indissolubilmente l’attività umana agli artefatti in quella che Leontev definì la proprietà
psichica del più evoluto livello di organizzazione della materia (Leontev, 1976). Le posizioni
teoriche della scuola storico-culturale sovietica avevano dato una veste scientifica (ovvero
euristicamente positiva per porre domande –formulare esperimenti- alla natura) all’affermazione
filosofica di Engels sulla natura del pensiero umano: “E’ precisamente l’alterazione della natura da
parte dell’uomo, non la natura di per sé, a costituire il fondamento più immediato ed essenziale del
pensiero umano.” (Friedrich Engels, manoscritto del 1876 pubblicato in Die Nue Zeit, nel 1896).
Inoltre l’approccio storico-culturale aveva posto lo studio della mente umana in una prospettiva
evoluzionistica (Pensiero e linguaggio è dedicato a Darwin). In tale prospettiva il ruolo di
mediazione degli artefatti doveva essere compreso in relazione con le altre due fondamentali
assunzioni della scuola storico-culturale: il metodo genetico e la legge generale dello sviluppo
culturale. Quest’ultima afferma che ogni funzione nello sviluppo culturale dell’uomo appare due
volte o su due piani. Dapprima essa appare sul piano sociale e poi su quello individuale. Appare
prima fra persone come processo interpsicologico e poi all’interno di una persona come processo
intrapsicologico, ma nel corso di questa interiorizzazione la funzione si ristruttura e si trasforma.
Le relazioni sociali con le altre persone e con gli artefatti sottostanno geneticamente a tutte le
funzioni cognitive superiori e alle loro relazioni. Per sviluppare il suo framework teorico e guidare
le sue ricerche, Vygotskij propose il cosiddetto metodo genetico che consisteva nello studio delle
origini e nella storia di un fenomeno, focalizzandosi sui suoi passaggi e sulle interconnessioni con
altri fenomeni. Nel descrivere il metodo egli enfatizzava la necessità di concentrarsi non sul
prodotto dell’evoluzione bensì sul processo attraverso in quale le funzioni psichiche si formano.
Per Vygotskij lo studio storico dei processi psichici non era un aspetto ausiliario dell’approccio
teorico bensì costituiva la sua base irrinunciabile.
Come sottolineato da Wertsh (1985) è impossibile separare i tre assunti fondamentali della teoria
storico-culturale senza alterarne la natura, i tre assunti sono altamente interdipendenti ed ognuno
acquisisce significato dalla relazione con gli altri due. Per comprendere quindi la natura degli
artefatti dobbiamo comprendere la loro evoluzione storica e la pratica sociale che li resi parte
dell’attività cognitiva umana.
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In questo articolo cercheremo di mostrare le implicazioni di tale approccio per una definizione degli
artefatti umani e per la loro progettazione. Dapprima tracceremo la nascita e la produzione di uno
degli artefatti più potenti realizzati dall’evoluzione culturale dell’uomo, la scrittura. Vedremo il
modo profondo in cui l’attività umana è legata alla natura dell’artefatto e come l’artefatto abbia
radicalmente cambiato l’attività, divenendo esso stesso parte della cognizione tanto da essere
fortemente interiorizzato. Accenneremo a come l’attività umana sia similmente alla base della
creazione di altri potenti artefatti, e passeremo poi ad illustrare come oggi queste posizioni teoriche
posso essere alla base della progettazione di artefatti correnti. Infine concluderemo sostenendo che
la psicologia può e deve passare da una fase in cui era suo obiettivo comprendere le
rappresentazioni che mediano l’attività della mente umana ad una fase in cui il suo obiettivo deve
essere comprendere la mente umana attraverso la progettazione delle rappresentazioni.
Il numero, ovvero l’origine della scrittura
Che la scrittura fosse un sottoprodotto della rimarchevole invenzione dei numeri astratti non
apparteneva a nessuna ipotesi scientifica, è stata bensì una recente scoperta del lavoro sul campo
dell’archeologa Denise Schmandt-Besserat (1997). Ma l’aspetto più interessante non è questo
capovolgimento nell’immaginario collettivo della primogenitura dell’origine dei due sistemi di
notazione. L’aspetto più interessante è che i due sistemi non erano distinguibili bensì integrati e che
l’evoluzione di quest’unico sistema di notazione aveva per oggetto la rappresentazione dell’attività
umana.
La mitologia Mesopotamica narra che la dea Nammu abbia plasmato gli uomini con l’argilla per
sostenere gli dei nel loro compiti, e anche Dio nella tradizione cristiana crea il primo uomo, Adamo,
dall’argilla. Forse alla base di tali storie vi è il fatto che l’uomo ha trovato il modo di dare forma al
proprio pensiero e di tramandarlo proprio attraverso l’argilla. I più antichi artefatti creati per
l’enumerazione sono degli ossi intagliati risalenti a circa 15.000 anni fa. Sebbene non sia possibile
dire che cosa i creatori di questi artefatti contavano con gli ossi intagliati, è possibile ipotizzare
come contavano. Poiché ogni intaglio è simile al successivo e poiché non sembra esserci nessun
raggruppamento che possa rappresentare un totale, è molto probabile che essi contassero per
enumerazione, ovvero senza numeri ma semplicemente per comparazione sequenziale di due
insiemi (uno, un altro, un altro, ecc.). Tale sistema era ancora presente fino a pochi anni fa in Sri
Lanka presso la popolazione dei Veddas. Questo popolo viveva di raccolta di frutti e tuberi e aveva
solo poche parole che si riferivano ai numeri (singolo, coppia , un altro, molti). Quando i Veddas
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volevano, ad esempio, contare le noci di cocco che venivano raccolte essi raccoglievano anche dei
sassolini, una noce = un sassolino. Con un canestro di sassolini si recavano al mercato a scambiarsi
promesse di beni. Per quanto possa sembrare limitato, questo modo di contare senza numeri aveva
più di un’applicazione, alcune presenti fino a pochi anni fa anche in Italia: i pastorelli del salento
quando andavano a pascolare un gregge erano soliti uscire con un sacchetto di sassolini, e al ritorno
alla stalla contavano il gregge confrontandolo con il contenuto del sacchetto, una pecorella per un
sassolino, sperando che non ci fossero più sassolini nel sacchetto quando l’ultima pecora entrava nel
recinto.
I sassolini (token, caluculi) rinvenuti nei villaggi costruiti dagli agricoltori che vissero nell’area
dell’attuale Siria tra l’ 8000 e il 3000 A.C. avevano forme diverse e di crescente complessità
plasmate nell’argilla (Figura 1). I reperti più antichi risalenti a circa 10000 anni fa avevano forme
semplici ed erano creati e usati per contare un singolo bene. Ad esempio le pecore erano
rappresentate da un disco, una giara d’olio da un ovale, una misura di grano da una sfera2. Il fatto
che ogni differente tipo di bene fosse contato con un calculus di forma diversa, suggerisce che
queste popolazioni avessero differenti insiemi di numeri per contare i vari beni. Loro (queste
popolazioni) contavano ancora per enumerazione (concretamente) ma rappresentando diversi beni
con diversi calculi. Questa invenzione era semplice ma si rivelò efficace ed utile. I token, infatti,
erano un codice capace di comunicare informazioni precise su specifiche quantità di merci quali
grano e animali. Il sistema era talmente robusto e adeguato a sostenere l’attività che rimase in uso
per cinquemila anni.
Figura 1. Token rinvenuti a Seh Gabi, Iran.
Durante tutto questo periodo i token furono usati per rappresentare una promessa di scambio o per
tenere traccia di tale scambio nel tempio o nel palazzo di governo delle prime città stato. I popoli
della Mesopotomia crearono due principali metodi per registrare le transazioni. Il primo prevedeva
di forare i calculi oggetto dello scambio con piccoli fori entro cui far passare una stringa i cui
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La ricostruzione dei significati è fatta in funzione della evoluzione storica del sistema di scrittura
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estremi erano messi poi in congiunzione e sigillati per mezzo di una bolla di argilla che fungeva da
sigillo. Ogni tentativo di alterare il tipo o il numero di token avrebbe portato alla rottura del sigillo.
Il secondo metodo consisteva nell’inserire i token dentro una bolla d’argilla vuota quando questa
era ancora morbida e poi sigillarla. I due metodi furono usati contemporaneamente, sebbene per
gestire differenti tipi di token, dei due il primo fu legato all’evoluzione dell’abaco, il secondo,
quello che faceva uso delle bolla d’argilla, fu determinante per l’evoluzione della scrittura cosi
come la conosciamo. Le bolle fornivano un riparo sicuro per i token ma presentavano un problema
non banale: non erano trasparenti. Se si dimenticava cosa c’era dentro o se si voleva controllare che
quanto promesso corrispondesse a quanto si stava per scambiare bisognava rompere la bolla.
Verso il 3500 A.C., ci fu una svolta, in un avamposto sumero in Siria si iniziò a imprimere i token
sull’esterno della bolla, quando l’argilla ancora fresca, prima di inserirli dentro e sigillare la bolla.
Di conseguenza, non c’era più bisogno di rompere la bolla per controllare i contenuti della
transazione. Ci vollero, però, più di duecento anni prima che i token interni alla bolla fossero
eliminati e che i segni sulla bolla diventassero entità autonome e non una mera duplicazione dei
token. Questo non avvenne per ragioni di economia della notazione bensì perché i token erano
diventati sempre più complessi poiché erano aumentati i beni disponibili alle popolazioni sumere
(birra, tessuti, cereali, ecc) e quindi le impressioni dei token sulla bolla non erano sufficienti per
distinguere un tipo di token da un altro. Cosi, intorno al 3000 A.C., invece che imprimere i calculi
sulle bolle, si iniziò ad usare uno stilo appuntito per tracciare i segni. I segni incisi permettevano di
illustrare accuratamente la forma esatta anche dei calculi più complessi.
Figura 2. Bolla con impressione dei token; e, a destra, token complessi.
Ma accade anche un'altra cosa in questo periodo, sulla stessa tavoletta iniziarono ad essere
registrate più transazioni e forse per ragioni di spazio i segni incisi non erano più ripetuti in
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corrispondenza uno a uno. Il numero di giare di olio non fu più indicato dal segno di giara ripetuto
tante volte quante erano le unità da registrare. Il segno di giara era preceduto da numerali, ossia
segni di “numeri astratti”. Mentre i token creavano un nesso inscindibile tra il concetto di uno e
quello di unità di merce, abbiamo qui per la prima volta la separazione tra le quantità e il bene.
Questa separazione fu favorita dalle rappresentazione di beni per i quali si erano sviluppati nel
corso degli anni token diversi per rappresentare quantità diverse. Su queste tavolette qualcuno diede
perciò il significato di 1 all’impressione di un token a forma di cono, che prima indicava una
piccola misura di grano e di 10 a quella di una sfera che rappresentava una grande misura di grano.
Ne risultò una grande economia di segni: trentatré giare di olio erano espresse da sette segni invece
che da 33. I segni dei beni e quelli numerali potevano evolvere in modo separato. Scrivere e far di
conto generarono da allora differenti sistemi semantici che trasformarono il pensiero umano in
modo così profondo che per noi cresciuti in una società chirografica (ovvero in una società in cui il
trasferimento delle conoscenze è mediato principalmente dalla scrittura e non dalla tradizione orale)
è molto difficile persino immaginare i processi di pensiero di una società ad oralità primaria (Ong,
1989; Scribner e Cole, 1981).
Questa breve e sommaria sintesi del lavoro di Denise Shemandt-Besserat credo sia
sufficiente per tentare di rispondere alla seguente domanda: di che cosa sono la
rappresentazione i segni che verranno riconosciuti come numeri e come beni su una
tavoletta sumera risalente al 3000 A.C.? Vediamo di arrivarci insieme, ovviamente essi non
sono esclusivamente espressione della quantità di beni che erano stati scambiati – lo erano
anche i token organizzati a collana o quelli nella bolla. Questa è la risposta che tradisce il
modo profondo con cui abbiamo internalizzato la scrittura, la risposta che annulla in un
attimo duemila anni di evoluzione cognitiva delle popolazioni della Mesopotania, dal 5000
al 3000 A.C.. Il segno che riconosciamo come quantità è la rappresentazione delle pratiche
sociali in cui veniva utilizzato, è il modo in cui gli uomini hanno progettato e realizzato un
sistema che favorisse alcune manipolazioni e ne ostacolasse delle altre. Ciò che il segno
rappresenta sono le sue modalità d’uso, e questo è l’unico senso in cui è possibile parlare di
notazione astratta. Il processo di astrazione non riguarda l’oggetto fisico bensì le modalità
d’uso dei simboli con cui pretendiamo di rappresentare l’oggetto. Quello che è valido per la
rappresentazione dei numeri è valido per tutti gli artefatti. Tutti gli artefatti sono il
sedimento delle pratiche sociali che essi mediano, e fanno evolvere attraverso
l’internalizzazione del loro uso. Gli esempi sono molteplici e riguardano sia quegli artefatti
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che sono stati definiti propriamente cognitivi (Norman, 1991) in quanto deliberatamente
progettati per rappresentare, manipolare e trasferire informazione, che gli artefatti che
invece trasformano e trasferiscono energia (ad esempio il mulino ad acqua)3. Rileggendo la
storia della creazione ed evoluzione degli artefatti è possibile notare come l’attività umana
sia l’oggetto fondamentale della rappresentazione che viene creata. Giusti (1999) fa notare
come gli oggetti geometrici di retta e cerchio proposti nell’undicesimo libro degli Elementi
di Euclide non siano definiti in base alla idealizzazione di oggetti “quasi dritti” o “quasi
circolari” bensì in base alle attività degli agrimensori egizi chiamati dai greci arpedonapti,
ovvero annodatori di funi. Era con funi e picchetti che gli osservatori del Re misuravano il
terreno, lo assegnavano agli egizi e lo rimisuravano dopo le inondazioni del Nilo per
stabilire il tributo annuo che doveva essere pagato al Re. Negli Elementi di Euclide è’
l’operazione di tirare la fune uniformemente tra due picchetti ad essere rappresentata nella
definizione di retta.
L’evoluzione del mulino segue un percorso analogo, le diverse forme che si susseguono nel
tempo sono frutto della evoluzione delle attività rese possibili dalle forme precedenti (dalle
pietre arrotondate, a quelle a sella, alla macina a mano). Basalla (1994) sostiene con
ricchezza di documentazione empirica che la continuità nella evoluzione delle tecnologie
prevale in tutta la produzione di artefatti, e che l’esistenza di tale continuità per tutti i tipi di
artefatti implica che i nuovi artefatti non sono mai frutto di un puro atto creativo di una
teoria o di ingenuità ma di un processo di generazione basato su pratiche sociali che hanno
avuto valori diversi in culture diverse. Seguendo tale argomentazione Petronsky (1994)
sostiene che la storia degli artefatti diviene un mezzo per comprendere l’elusivo processo di
creazione attraverso il quale il capitale intellettuale delle nazioni è generato.
Diviene quindi chiaro che sia per gli artefatti cognitivi (ad es. rappresentazioni) che per gli
artefatti in genere (ad es., macchine) l’attività è l’elemento fondamentale che ne determina
la forma. E’ difficile vedere ciò dall’analisi degli artefatti correnti poiché quando un
individuo eredita un particolare artefatto lo eredita come prodotto non come processo di
creazione (nel mondo anglosassone è spesso ripetuto che l’uomo considera tecnologie solo
3
Considero questa distinzione ingenua in quanto per poter creare un qualsiasi sistema per manipolare deliberatamente
l’energia è necessario un sistema di rappresentazione per quanto approssimato e rudimentale. La possibile differenza
risiede, secondo me, nei diversi effetti ristrutturanti del processo di intenalizzazione dei due tipi di artefatti, ma
entrambi fanno parte della cognizione umana.
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quello prodotte negli ultimi cento
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anni). Ma è solo nel processo che è possibile
comprendere sia la natura dell’artefatto che della mente: i due lati della stessa medaglia.
Siamo pronti adesso per tirare le somme e arrivare ad alcune implicazioni.
In tutti i processi di creazione di artefatti vi è momento intermedio, quello in cui una
particolare attività diviene l’oggetto da cristallizzare in artefatti. Questo momento
intermedio ha una durata relativamente breve (cfr. legge generale dell’evoluzione culturale),
in quanto nel corso del suo uso in una pratica sociale l’artefatto diviene al tempo stesso
internalizzato e oggettivato. Esso diviene da un lato uno modo di organizzazione
dell’attività cerebrale (cfr. legge della mediazione semiotica), la quale in base alle
dinamiche neurali correnti non si piega semplicemente alla modalità privilegiata di
elaborazione di informazione o energia ma ristruttura tali modalità. Dall’altro, esso diviene
il mondo stesso con cui interagire: i numeri divengono oggetti matematici, le parole scritte
oggetti grammaticali, gli strumenti oggetti ingegneristici. Ogni artefatto può quindi evolvere
in oggetti che hanno nei casi più estremi un’identità solo nell’ambito di quella determinata
pratica sociale entro la quale sono stati creati (ad esempio in matematica i numeri
complessi, nella scrittura i codici segreti, in ingegneria le macchine di Ramelli). Tali
prodotti spesso sono criticati per non avere una corrispondenza con la realtà o un impatto
sulla realtà. Ma è importante capire che in base alle posizioni esposte essi sono la realtà
(realtà culturalmente delimitate). Se non comprendiamo la doppia natura degli artefatti
siamo portati a credere qualcosa di molto simile allo schema seguente:
Esiste un mondo al di fuori e indipendentemente dalla nostra mente M1 (vedi Figura 3),
quando noi moriamo esso continua ad esistere, e noi non sappiano come esso sia. Poi esiste
il mondo M2 come noi lo percepiamo attraverso i nostri sensi e pensiamo che esso sia, ed
infine esiste il mondo M3 come noi lo rappresentiamo attraverso le varie modalità di
rappresentazione che si sono evolute. Dati questi tre mondi si è portati a credere che M3
derivi da M2, ovvero che noi
nel corso dell’evoluzione culturale troviamo modi sempre più ricchi e articolati per
rappresentare accuratamente M2.
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Quello che si sostiene in questo lavoro è che M3 non sia completamente derivato da M2
bensì che M3 abiliti la percezione e l’esperienza di M2. Gli artefatti che noi costruiamo
sono al tempo stesso parte di M2 e M3 e nell’azione modificano M1.
Figura 3. I tre mondi oggetto della realtà psicologica
Questa posizione teorica sulla natura degli artefatti ha almeno due implicazioni per la loro
progettazione.
I) La progettazione deve riguardare le trasformazioni di informazione ed energia che un
artefatto abilita e vincola da parte delle persone che utilizzeranno tale artefatto. Dovrebbe
essere ormai chiaro che molte di tali trasformazioni non sono ne peculiari dell’artefatto ne
delle persona ma devono emergere dall’interazione. Oggetto della progettazione è
l’interazione.
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II) Non bisogna progettare solo strumenti bensì attività. Ovvero bisogna progettare non solo
per una modalità privilegiata di interazione ma per le evoluzioni possibili che emergeranno
dalla pratica, per la possibilità che lo strumento offre di essere trasceso e offrire evoluzioni
della pratica sociale in cui esso è inserito.
Queste orientamenti per la progettazione non devono essere considerati alternativi agli
orientamenti esistenti (ad es. Bürdek, 1992) bensì integrativi come di fatto già avviene in
alcuni processi di design che integrano varie discipline nel processo di progettazione.
Vediamo brevemente due esempi di tali modalità di progettazione con il solo scopo di
testimoniare il valore euristico delle posizioni esposte.
Artefatti per il ragionamento sillogistico.
Il ragionamento sillogistico è una forma particolare di ragionamento deduttivo reso possibile dalla
cultura chirografica. Fra i vari modelli che hanno tentato di spiegare le prestazioni umane nel
ragionamento sillogistico la teoria dei Modelli Mentali di Johnson-Laird e Byrne (1991) è quella
che ha ricevuto maggior supporto empirico. L’assunto principale di questa teoria è che il
ragionamento sillogistico è un processo semantico articolato su tre momenti: 1) l’esplicitazione del
contenuto delle premesse, 2) la combinazione della prima e della seconda premessa, 3) la modifica
del modello delle due premesse per la ricerca di contro esempi. Le teoria dei modelli mentali
permette di formulare delle previsioni sulle prestazioni delle persone e sugli errori possibili. Ad
esempio, è stato mostrato come la difficoltà di un dato sillogismo sia funzione del numero di
differenti modelli le persone devono esplicitare e tener da conto nel formulare una conclusione
valida. Sebbene la teoria dei Modelli Mentali ammetta che esistano differenti forme di
rappresentazioni esterne che una persona può utilizzare per costruire i modelli mentali l’evidenza
empirica finora prodotta ha riguardato l’uso di un solo tipo di artefatto per mediare il ragionamento
sillogistico, ovvero le proposizioni. In base a quanto sopra sostenuto gli artefatti possono essere
progettati per mediare le varie trasformazioni e manipolazioni di informazioni associate ad una
determinata attività. Quali sarebbero gli effetti di rappresentazioni progettate ad hoc per sostenere le
tre fasi del ragionamento sillogistico previsto dalla teoria dei modelli mentali? E perché
rappresentazioni alternative che sono state proposte non hanno inciso significativamente nelle
prestazioni delle persone impegnate in compiti di ragionamento sillogistico? Per rispondere a queste
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domande insieme a Marco Palmonari (Palmonari e Rizzo, 1999; Rizzo e Palmonari, In stampa)
abbiamo progettato un sistema di rappresentazione denominato valenza (vedi Figura 4, per un
esempio) tale da sostenere potenzialmente le tre fasi del ragionamento sillogistico e lo abbiamo
confrontato con il sistema proposizionale e con i cerchi di Eulero (Figura 4).
A
B+
A
B
B
-B
+
A
B
A
B
A
B
C
B
C
A
Figura 4. Esempio della rappresentazione Valenza, a sinistra, e dei cerchi di Eulero, a destra, per il
sillogismo “Alcune A sono B, Nessuna C è B”. La conclusione valida è “Alcune A non sono C”
Rispetto al modo in cui le diverse rappresentazioni mediano le tra fasi del ragionamento sillogistico
la situazione è quella descritta nella Tabella 1
Proposizioni
Esplicitazione delle
No
premesse
Combinazione delle
No
premesse in un modello
Ricerca di controesempio al No
modello
Cerchi di Eulero
Valenza
Si
Si
No
Si
No
Si
Tabella 1. Opportunità di manipolazione dell’informazione delle tre rappresentazioni in relazioni
alle tre fasi di elaborazione proposte della teoria dei Modelli Mentali nel ragionamento sillogistico.
I risultati dello studio hanno mostrato come le prestazioni dei soggetti che utilizzavano Valenza
fossero significativamente superiori a quelle dei soggetti che utilizzavano i cerchi di Eulero e le
Proposizioni; sia per quanto riguardava l’accuratezza delle risposte che per quanto riguardava il
tempo per la produzione delle risposte. E’ interessante anche notare come i cerchi di Eulero fossero
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associati alla prestazione peggiore sia per accuratezza che per tempo di risposta. Questo risultato,
insieme ai risultati di dettaglio ottenuti considerando i raggruppamenti di sillogismi fatti in base al
numero di modelli mentali della conclusione, suggerisce che l’esplicitazione di tutti i modelli delle
premesse non sia il requisito determinante di una buona rappresentazione che media il
ragionamento sillogistico. Tale risultato può avere delle importanti implicazioni per la teoria dei
Modelli Mentali, ma in questa sede quello che è importante sottolineare è che una modalità di
progettazione degli artefatti centrata sulle trasformazioni che dovevano essere sostenute nel corso
dell’attività ha permesso di realizzare una rappresentazione che mediava con maggior efficacia il
ragionamento sillogistico. Nessun altra rappresentazione per il ragionamento sillogistico era mai
stata progettata in questo modo.
Tecnologie per la narrazione
La narrazione è la modalità più potente a disposizione dell’uomo per organizzare e comunicare le
conoscenze. Bruner (1997) la considera una funzione primitiva del modo di funzionare della mente,
alla base del pensiero umano e della costruzione del significato. Turner (1996) la antepone al
linguaggio nel corso dell’evoluzione, sostenendo che le strutture grammaticali del linguaggio
derivino dalle strutture narrative. La narrazione, nel divenire una funzione cognitiva superiore, è
sottoposta alle trasformazioni mediate dagli artefatti disponibili in una determinata cultura. La
scrittura, la stampa, la radio, la televisione hanno permesso una evoluzione del processo narrativo
(Ong, 1989, Cerami, 1996). Ognuno di questi nuovi artefatti ha modificato, ma non
drammaticamente cambiato il precedente; la scrittura e la stampa sono stati de facto la moneta per
l’informazione e la cultura e rimarranno tali per il prossimo futuro nonostante il broadcasting sia
divenuto il media principale in molti contesti sociali. Oggi però il più recente dei media, i sistemi di
automatici di calcolo e transduzione energetica (computer), ha una proprietà che nessun artefatto
per la comunicazione aveva in precedenza: può alterare i precedenti. Quasi tutti la stampa adesso è
controllata da computer, così come molti aspetti del broadcasting, al tempo stesso la scrittura, il
disegno, la pittura sono in modo crescente mediati da calcolatori. I sistemi automatici di calcolo e
transduzione energetica permettono di far convergere tutti i media precedenti permettendogli di
mantenere le loro proprietà peculiari ma anche producendone di nuove dalla loro fusione. I processi
narrativi evolveranno quindi rapidamente grazie ai nuovi artefatti computazionali che iniziano ad
essere creati e che verranno creati in modo sempre più articolato nel prossimo futuro.
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Insieme a Philips International, Domus Academy, l’Università di Liegi e con la partecipazione di
Ravensburger, Cryo e di due scuole elementari una in Siena l’altra in Brussels, abbiamo intrapreso
nel 1998 un progetto (POGO) per la progettazione di strumenti che medino lo sviluppo delle
capacità narrative dei bambini della scuola elementare. L’obiettivo di POGO è quello di creare un
ambiente fisico e virtuale che si integri nella realtà delle scuole Europee e nelle correnti pratiche
didattiche senza necessità di cambiare drammaticamente le attività narrative correnti, bensì offrendo
opportunità ai docenti e ai bambini di esplorare i processi narrativi e di farli evolvere. Il processo di
design di POGO è stato fortemente influenzato dalle posizioni teoriche della scuola storicoculturale sia per quanto concerne la definizione degli obiettivi pedagogici (Vygotsky, 1972; Bruner,
1997), per le modalità di analisi dell’attività per la quali si progettava, ma anche per quanto
concerne la produzione di “design concept”, la progettazione dell’interazione, e la natura evolutiva
degli strumenti. Alla fine del secondo anno, dopo una serie di mock up prodotti dalle Università di
Siena e Liegi, Philips ha realizzato i primi protopiti di POGO world che sono stati testati nelle due
scuole. Non e’ possibile ovviamente illustrare in dettaglio POGO world (vedi Rizzo, Marti,
Moderini, sottomesso per la pubblicazione, per una descrizione del processo di design), ma alcune
caratteristiche possono dare l’idea di come gli artefatti finora progettati rappresentino dei passi
verso gli obiettivi di design di POGO. POGO non si sostituisce a nessuno degli artefatti già esistenti
nelle scuole, anzi si appoggia su di essi. Utilizza ad esempio i disegni, i costumi, le
drammatizzazioni, che in modo così efficace oggi mediano le attività narrative nelle scuole. Gli
utilizza come input e ne permette la manipolazione restituendoli fisicamente come output sotto
varie modalità. Nella figura 5 sono riportati alcuni degli strumenti di POGO world, il beamer, la
torch, i setting, le card, il bucket. I bambini possono disegnare utilizzando gli strumenti tradizionali
e poi montare il loro disegno con altri disegni o oggetti in immagini o animazioni attraverso il
beamer. Tutto ciò che è posto sotto il beamer viene ripresentato su uno dei setting, e viene catturato
attraverso una card (i gettoni scuri) quando questa viene fatta passare sul sensore chiaro a forma di
uovo al tegamino (cosi ribattezzato dai bimbi: passa la carta sul tegamino). L’immagine catturata
nella card (o il filmato se il tempo di permanenza della card è più lungo, o il suono se si usano card
di colore diverso), può essere montata in una scena in vari modi, ad esempio se butto la card nel
bucket l’immagine diviene il background di un setting, se invece passo la torch su una card
l’immagine diviene un elemento del foreground. Le composizioni realizzate nei setting possono
essere catturate nelle stesse card come insiemi stabili (immagini, suoni, animazioni, filmati) e
possono costituire le scene nei quali i bimbi si immergono per eseguire le loro drammatizzazioni.
Tutto POGO world è dotato di un alta fisicità, basti pensare che la ricerca dei media acquisiti
avviene nel mondo fisico utilizzando o i media di partenza o combinazioni di cards. Se anche
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perdessi un filmato o un’intera storia, potrei ritrovarla in POGO world attraverso i suoi contenuti.
Se la storia conteneva il disegno di un coniglio, Gabriele che gli correva dietro e i suoni delle
campane, semplicemente mettendo nel bucket alcuni di questi elementi, compreso Gabriele, ovvero
la sua card di identificazione, POGO world mi restituirebbe sui setting la storia completa o le altre
storie che contengono gli stessi elementi.
Queste sono solo alcune delle caratteristiche interattive di POGO ma dovrebbero essere sufficienti
per suggerire come POGO sia stato progettato per far evolvere le modalità di conduzione di
un’attività e gli stessi strumenti che la mediano. Nel corso dei test è stato sorprendente, ma solo in
parte, vedere la facilità con cui i bambini manipolavano gli oggetti di POGO world senza incorre in
posizioni di stallo (si confronti ciò con qualunque altro sistema di storyediting e storytelling
disponibile su desktop computer per bambini). POGO è al tempo stesso una scatola di montaggio
Lego con pezzi infiniti, il piccolo chimico, e una sala di montaggio di Cinecittà, progettato per
poter evolvere rapidamente in base alle attività che esso media. L’osservazione dei bambini e delle
insegnanti o la conduzione di attività narrative con POGO è divenuto il motore principale per
l’evoluzione dei design concepts che Domus ha brillantemente proposto.
A
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B
Figura 5. A) Alcuni degli elementi del primo prototipo di POGO world, a sinistra il beamer che
serve per catturare immagini, suoni o filmati al passaggio di una card sul sensore rotondo posto
sulla base del beamer; a destra il bucket e la torch, che servono per organizzare i media in
configurazioni stabili o dinamiche sui setting, schermi giganti presenti sullo sfondo. B) Bambini
svedesi che provano POGO.
Conclusioni
La psicologia cognitiva ha per lungo tempo trascurato il ruolo degli artefatti come fenomeno
cognitivo. Essa è corsa dietro alle modifiche nei processi cognitivi che l’innovazione tecnologica
produceva senza essere in grado di influenzarla. Non voglio dire che abbia avuto una posizione
simile a quella di Platone che demonizzava la scrittura come pericolo per la perdita della memoria
umana e poi ad essa si affidava per diffondere le sue idee, ma certo è che ha tentato per lunghi
periodi di studiare la mente nuda ricorrendo agli artefatti più avanzati. Se tale approccio è
sostenibile per l’individuazione delle primitive funzionali delle mente, ovvero delle modalità
privilegiate di segmentazione e organizzazione dell’informazione sensoriale questo non è
sostenibile per le sue modalità più evolute storicamente (ad es. la prospettiva, la logica, la
navigazione). Credo che sia possibile sostenere che l’unico modo per invertire questo stato di cose,
o per lo meno il più efficace, sia quello di chiedere alla psicologia cognitiva di impegnarsi
attivamente nella progettazione di artefatti al fine di comprendere operativamente come i processi
cognitivi si evolvono, perché questo è il solo modo in cui sia possibile comprendere un fenomeno in
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divenire come la mente umana. Un fenomeno naturale che non potrà mai essere ricondotto ad un
livello di spiegazione biologico perché rappresenta il più elevato livello di organizzazione della
materia, organizzazione che non si realizza all’interno della pelle umana ma che coinvolge le
trasformazioni effettuate sul mondo esterno.
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