Educare al web attraverso la storia del web- il caso della

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Educare al web attraverso la storia del web- il caso della
Working Paper
Marzia Morteo
“Educare al web attraverso la storia del web: il caso della parodia”
La pratica di guardare e caricare video in rete è cresciuta esponenzialmente negli
ultimi anni. Con la progressiva diffusione della banda larga e dei dispositivi mobili
questa attività incrociata ha raggiunto numeri rilevanti. Secondo le statistiche di
Audiweb in Italia gli utenti unici mensili di YouTube sono circa 20 milioni e, nell’ultimo
anno, il traffico che viene da dispositivi mobili è cresciuto circa del 40%1. A livello
globale, 100 ore di contenuti video sono caricati ogni minuto (dati Digital Insights) e
quasi due biliardi e mezzo di video sono stati visti su YouTube nel 2014 (dati
Intenetstatslive). In questa mole di materiali audiovisivi, i contenuti comici e, nello
specifico quelli parodici, sono presenti in larga misura. L’intrattenimento, declinato in
varie tipologie, rappresenta uno dei generi che maggiormente identificano i contenuti
presenti su YouTube. Ogni giorno tra i video più popolari trovano regolarmente posto i
cosiddetti “funny videos” tra cui compaiono spesso quelli parodici. Quest’ultimi sono
molto eterogenei, rimandano alla cultura mainstream, al cinema, alla televisione, alla
musica, alla contemporaneità, alla politica e anche al mondo della stessa rete. Non è
nostra intenzione tracciare un quadro delle varie tipologie di parodie presenti in rete,
ma piuttosto useremo la parodia per mostrare come da una parte il flusso di contenuti,
una volta che si diffonde in modo virale in rete, tende a perdere il riferimento con la
propria origine e, dall’altra, per problematizzare i fini delle tecnologie che tutti i giorni
utilizziamo.
La creazione di contenuti parodici legati ad oggetti della cultura mainstream da
parte dei fan è una pratica comune e diffusa da prima della diffusione del web. Da oltre
trent’anni un vasto numero di studi si occupa di scandagliare i lavori parodici e derivativi
che gravitano attorno all’universo dei fan2. Già nel 1992 Henry Jenkins3, uno studioso tra
i più citati quando si parla di cultura digitale e partecipativa, identificava i fan come
“textual poachers”, “bracconieri di testi”. Per lo studioso americano i fan non sono
Audiweb pubblica i dati della mobile e total digital audience del mese di agosto 2014, «Audiweb»,
3-11-2014, http://www.audiweb.it/news/total-digital-audience-del-mese-di-agosto-2014/ (ultimo accesso
1-2-15).
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Per una panoramica dell’evoluzione dei fan studies e delle più recenti piste di ricerca si veda M. Duffett,
Understanding Fandom: An Introduction to the Study of Media Fan Culture, Bloomsbury Publishing,
London 2013.
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H. Jenkins, Textual Poachers: Television Fans and Participatory Culture, Routledge, London 1992.
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semplici lettori o spettatori che compiono un’attività di tipo interpretativo, ma ne
conducono una di tipo creativo, come produttori di una serie di lavori derivativi.
Con la nascita e lo sviluppo del web e delle tecnologie digitali, questa pratica è
diventata ancora più marcata, anzi si può affermare che, la diffusione degli user
generated content dei fan, sia strettamente connessa con la diffusione della rete. Nella
seconda metà degli anni Novanta, il web comincia a diventare un universo non solo
ricco di contenuti testuali ma anche audiovisivi. I video parodici realizzati dai fan sono
tra i primi esempi di filmati messi online per essere distribuiti attraverso il web.
Tra di essi spiccano quelli legati all’universo di Star Wars. Uno dei primi fan film è
addirittura del 1978, Hardware Wars. A fine anni Novanta lo sviluppo del web e la messa
in produzione della cosiddetta “nuova trilogia”, aprirono un periodo di attività feconda
per il fandom. Nel 1998 viene messo online il trailer del film Episode I - The Phantom
Menace. Si trattava all’epoca di uno dei primi trailer cinematografici distribuiti attraverso
il web. Quest’azione provocò il fiorire di una serie di lavori derivativi realizzati dai fan. In
molti casi si trattava di opere parodiche che, in vari modi, decostruivano il trailer,
rimontandolo, ridoppiandolo con voci e colonnare sonore diverse, o rifacendo ogni
singola inquadratura. Dopo l’uscita del film, gli user generated content prodotti e diffusi
dai fan sono aumentati esponenzialmente. Tra i tanti, un lavoro che ha ottenuto notevole
fortuna, è stato il cortometraggio Park Wars-EPISODE I-The Little Menace, realizzato da
Ayaz Asif e Ted Bracewell, che producono una parodia interpretata dai personaggi di
South Park.
Appartengono al genere parodico anche i primi esempi di web series. Tra questi
vale la pena ricordare Scums (1998), prodotto italiano di Antonio e Marco Manetti, i
Manetti Brothers4. La serie è un lavoro interessante per molti motivi. In primo luogo
perché si tratta di una webseries particolare, quella che, secondo la recente
teminologia, potremmo definire collaborativa. Fin dall’inizio, la serie fu ideata come un
prodotto “partecipativo” che cercava attraverso il web possibili nuovi autori disposti a
continuare la serie. Questa prima forma di collaborazione diede i suoi risultati, Scums
risulta infatti un progetto realizzato a più mani a cui intervennero i fratelli Manetti in
primis, e poi successivamente, un regista canadese e uno newyorkese. Inoltre lo stile
citazionista e parodico del prodotto strizzava l’occhio al poliziesco italiano degli anni
Settanta, al cinema di serie b italiano e alla rivisitazione fattane da Tarantino evidenzia un
genere, quello appunto comico-parodico-citazionista, tra i più diffusi sia in questo
periodo aurorale, sia nella contemporaneità.
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M. Morteo, Archeologia del web. La nascita del cinema online, Franco Angeli, Milano 2013, pp. 139-143.
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Abbiamo proposto questo breve excursus storico per evidenziare come la forma
parodica accompagni il web fino dalle sue origini. Ma se la parodia è imitazione,
decostruzione in chiave comica e a volte critica, quella che nasce sul web ha la
caratteristica di poter diventare potenzialmente virale, vale a dire di potersi replicare e
diffondere in varie forme in modo incontrollato.
Uno dei primi video diventati virali in rete è dei primi anni Duemila. Si tratta di Star
Wars Kid del 2002 che mostra un quindicenne del Quebec (Ghyslain Raza) che registra
se stesso con una videocamera mentre simula una battaglia con una spada laser usando
una mazza da golf. Pochi mesi dopo, presumibilmente per scherzo, i compagni di classe
ne fecero l’upload con il software di filesharing KaZaA5. Il video ebbe un successo
istantaneo e fu scaricato milioni di volte in poche settimane. Attualmente su YouTube si
trovano oltre 300.000 video legati al video originale, per lo più parodie, remix, mash-up.
Proprio YouTube, è il luogo per eccellenza dei contenuti virali. E lo è stato fin dalla
sua origine. Uno dei primi fenomeni virali si sviluppa all’incirca un anno dopo la sua
nascita. Siamo nel luglio del 2006 e la blogger Bree, con lo pseudonimo di Lonelygirl15,
postò una serie di video nei quali parlava dei suoi problemi personali, dei rapporti tesi
con il fidanzato e i genitori. Quello che sembrava il comune diario online di
un’adolescente. Si trattava, in realtà, di un prodotto professionale che divenne ben
presto una web series, conclusasi nel 20086. L’incertezza tra realtà e finzione, costruita
ad arte dai produttori, generò una serie di video imitativi, parodici, di risposta tra utenti.
C’era chi credeva nella veridicità della blogger, chi voleva smascherarla, chi
semplicemente la parodiava o la imitava.
Se Lonelygirl15 divenne virale perché giocava sul confine tra veridicità e falsità, uno
degli ultimi fenomeni virali di YouTube, è un video musicale, quindi un prodotto che
appartiene alla cultura mainstream. Il video del rapper sudcoreano Psy, GanGnam Style
ha ottenuto dalla sua messa online su YouTube, il 15 giugno 2012, 825 milioni di
visualizzazioni e migliaia di user generated content, da remix a remake, da mash-up a
parodie.
In realtà, riuscire a costruire un prodotto che diventi virale, è piuttosto complicato. E,
per quanto ci siano in rete centinaia di siti che offrono delle strategie per la sua
costruzione, è difficile stabilire a priori le caratteristiche ed il perché un oggetto diventi
virale. Ed a volte è inspiegabile. Presenta queste caratteristiche, ad esempio, la
fotografia diffusa attraverso Instagram del sedicenne Alex che, semplicemente nel suo
M. Knobe, C. Lankshear, «Online Memes, Affinities, and Cultural Production» in Knobe, Lankshear (eds), A New
Literacies Sampler, Peter Lang, New York 2007, pp. 199-227.
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R. Page, Seriality and Storytelling in Social Media, «Storyworlds: A Journal of Narrative Studies», 5 (2013), pp. 31-54.
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ruolo di commesso, imbusta la spesa presso il supermercato Target. La foto attraverso
l’hashtag #AlexFromTarget è diventata virale sui social e il giovane si è ritrovato in pochi
giorni 730.000 followers su Twitter (e una serie di problemi, come ha dichiarato, su
un’improvvisa celebrità non cercata7).
La cultura del meme
Per cercare di provare a dare una spiegazione alle dinamiche di nascita e diffusione
di questi contenuti, ci serviremo di un concetto che negli ultimi anni è stato ampiamente
utilizzato dagli studiosi che si occupano di cultura digitale vale a dire il concetto di
“meme”8.
Il termine meme, coniato dal biologo Dawkins nel 19769, indica delle piccole unità
culturali di trasmissione analoghe ai geni che si diffondono attraverso la copia e
l’imitazione. Possono essere idee, simboli, slogan, espressioni che si declinano in vario
modo come melodie, mode, stili architettonici. Secondo Dawkins il meme è
contraddistinto da tre aspetti: la fedeltà, la fecondità e la longevità. La prima
caratteristica, la fedeltà, si riferisce alla capacità del meme di essere copiato e passare di
mente in mente rimanendo intatto. Questa caratteristica, il fatto di essere ricordabile,
non ha che fare con la sua importanza o la sua utilità. La fecondità si riferisce alla misura
entro cui un meme è copiato e diffuso. Più è veloce questo tasso, più è probabile che il
meme catturi l’attenzione e continui a diffondersi. Infine, la longevità mostra come più
un meme sopravviva e resista allo scorrere del tempo, più abbia la possibilità di essere
trasmesso a nuove menti garantendosi appunto una continua trasmissione.
Utilizzeremo il concetto di meme in senso metaforico, come d’altronde faceva
Dawkins in origine. Da una parte esso mette in luce il meccanismo che regola la viralità
dei fenomeni web, come essa dipenda dal modo in cui sono diffusi, copiati, replicati,
distribuiti attraverso la rete. Dall’altra, il meme mette in evidenza l’azione della creatività
umana che, progressivamente durante la copia e la replica, altera il meme stesso.
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N. Bilton, Alex From Target: The Other Side of Fame, «The NewYork Times», 12-11-14, http://
www.nytimes.com/2014/11/13/style/alex-from-target-the-other-side-of-fame.html?_r=0 (ultimo accesso
1-2-15).
Come introduzione si vedano N. Gal, L. Shifman, Z. Kampf, “It Gets Better”: Internet memes and the
construction of collective identity, «New Media & Society»,1461444814568784, first published on January
27, 2015; B.E Wiggins, G. Bret Bowers, Memes as genre: A structurational analysis of the memescape,
«New Media & Society», 1461444814535194, first published on May 26, 2014; L. Shifman, An anatomy of
a YouTube meme, «New Media & Society», 2 (2012) 14, pp. 187-203.
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R. Dawkins, The Selfish Gene, Oxford University Press, Oxford 1976 (tr. it., Il gene egoista, Arnoldo Mondadori,
Milano 1992).
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Cultura senza origine?
Non vogliamo fare, come non abbiamo voluto farlo con la parodia, un lavoro di
classificazione dei meme, un’identificazione dei generi e delle loro caratteristiche,
tuttavia, i video comici e quelli parodici, in particolare, forniscono un ampio numero di
casi. Se pensiamo che quasi giornalmente i video più visti su YouTube sono di gatti che
non fanno niente di particolare se non fare i gatti, si capisce come YouTube sia una
fucina di meme che corrisponde pienamente ad uno dei principi di classificazione di
Dawkins: la diffusione di un meme non è strettamente connessa alla sua utilità o al fatto
di comunicare idee o temi significativi. Quello che c’interessa evidenziare è come
studiare l’azione dei meme possa servire ad offrire uno sguardo critico nei confronti
della cultura partecipativa della rete e, insieme, offrire degli strumenti in termini di
media education.
In primo luogo, ragionare sui meme ci permette di porre l’accento sullo
scollamento tra ciò che è originale e ciò che è copia nella cultura web. Se, infatti, nella
parodia tradizionale il riferimento all’oggetto che promuove la parodia è sempre
presente, negli oggetti online, si perde spesso la matrice o non si ha la certezza della
sua veridicità. Per esempio, se cerchiamo su YouTube il video originale di Star Wars Kid
avremo qualche problema a trovarlo subito: il video è stato rieditato più di trenta volte e
quindi trovare il video originale prevede una ricerca approfondita che di solito l’utente
medio di YouTube non ha interesse a fare. YouTube è diventato, soprattutto per le
giovani e giovanissime generazioni, l’archivio da cui attingere qualsiasi contenuto.
Ciononostante, si tratta di un archivio i cui contenuti sono altamente effimeri, non sono
presenti in forma stabile ma possono di continuo scomparire, tolti da chi ne fa l’upload
o perché violano qualche norma di utilizzo del sito. Ma la fragilità contenutistica non è
data solo da questo. La logica che percorre YouTube, quella del continuo
aggiornamento, ne impoverisce la natura archivistica e di preservazione storica. La
struttura stessa di organizzazione del sito, di default tende a nasconde i video più vecchi
promuovendo quelli nuovi.
L’ecosistema mediale contemporaneo è sempre di più contraddistinto dal riutilizzo
e dal remixaggio degli oggetti mediali. Attraverso le tecnologie digitali assistiamo ad
una moltiplicazione delle fonti prodotte dal web. Il discorso che stiamo portando avanti
non vuole essere di critica nei confronti delle operazioni di assemblaggio e di remix
realizzate dagli user generated content. E nemmeno questionare sulla creatività
dell’utente. Ci interessa, piuttosto che una battaglia a favore dell’originalità, farne una a
favore dell’origine.
Riteniamo un’attenzione critica sull’origine di questi contenuti prioritaria. I prodotti,
che creiamo e diffondiamo in rete, hanno la caratteristica di essere per lo più slegati dal
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loro contesto originario di fruizione. Diventano dei grani, dei frammenti, che
disperdiamo, che modifichiamo che entrano a far parte del flusso di contenuti che ogni
giorno, attraverso il nostro telefonino, la nostra timeline di Facebook, ogni dieci minuti
aggiorniamo. La possibilità di fare l’embedded, di incorporare un qualsiasi contenuto
nel nostro blog, o all’interno del nostro profilo di un social network, disancora dalla
propria matrice il contenuto che usiamo e modifichiamo, magari trasformandolo in un
contenuto parodico.
Geert Lovink, riferendosi a YouTube, parla di un’estetica del database10, affermando
come ormai gli utenti, piuttosto che guardare semplici video, guardino frammenti di
filmati, flussi predisposti dagli algoritmi che regolano l’organizzazione dei criteri di
ricerca (settati sull’attività dell’utente e sui partner commerciali del sito). Il riferimento
all’origine del video, specialmente se si tratta di un meme, rimane sepolto nel database
del portale. C’è ma è come se non ci fosse.
Un secondo ordine di riflessioni, che uno studio dei meme comporta, interessa la
tecnologia. Le tecnologie contemporanee, che consentono la creazione e la diffusione
di flussi d’informazione senza sosta, sono contrassegnate da un’innovazione
parossistica. La continua rincorsa verso il nuovo delle tecnologie ostacola un’indagine
riflessiva sul loro utilizzo. Da questo punto di vista, sarebbe utile uno studio storico sugli
strumenti, sia hardware che software, che hanno permesso e permettono la creazione e
la diffusione dei fenomeni virali. Pensiamo, ad esempio, a studi che si occupino della
nascita delle prime webcam agli inizi degli anni 90; alla nascita e alla diffusione dello
streaming; ai primi videofoni; allo sviluppo degli smartphone che hanno reso, negli
ultimi anni, la navigazione sul web costante nell’intero arco della giornata. Oppure ai
software che consentono di realizzare video tutorial o registrare gameplay, pratica,
quest’ultima, molto diffusa su YouTube a cui è interessata la fascia giovanile dell’utenza.
Ma riflettere sulla tecnologia implica un ordine di ragionamenti non solo legato alle
dinamiche storiche. L’innovazione tecnologica, e le possibilità che offre, aprono un
piano di riflessione che deve imprescindibilmente interrogarsi sui fini della tecnologia
stessa. Se quest’ultima è opera dell’uomo, dobbiamo interrogarci sul valore che assume
nell’epoca contemporanea. Quali sono le possibilità offerte della tecnologia e quali
sono le scelte che la tecnologia ci offre? Scegliamo di diffondere una fotografia in rete,
di realizzare un meme, un video parodico, il gameplay del videogioco a cui stiano
giocando, perché vogliamo farlo o perché gli strumenti tecnologici, un telefonino,
un’applicazione, il web, ci permettono di farlo? Questo discorso non riguarda l’estetica
G. Lovink, Network Wihout a Cause. A Critique of Social Media, Polity Press, Cambridge 2011 (tr. it.,
Ossessioni collettive. Critica dei social media, Università Bocconi Editore, Milano 2012, pp. 134-145).
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dei contenuti, se il video, la foto, il testo che scrivo e diffondo sia qualitativamente
valido, ma le motivazioni del mio agire. Lo faccio perché voglio farlo o perché posso
farlo? Quando il fine della tecnologia diventa il nostro fine allora forse è giunto il
momento d’interrogarsi sui nostri fini. Bauman11, a proposito della contemporaneità,
parla di un ribaltamento dell’etica weberiana: la nostra razionalità non ci guida più
nell’adattare i mezzi ai fini, ma lascia che i nostri fini siano definiti dai mezzi disponibili.
Questo conduce, in ultima istanza, ad una progressiva emancipazione delle nostre
azioni dai vincoli morali.
In chiusura, vorremmo fornire un esempio che aiuti a riflettere, anche a livello di
media education, sulla storia degli oggetti web, quelli iterati e quelli iterativi, e sulle
tecnologie che ne permettono la creazione. Lo facciamo attraverso il sito web Know
your Meme12, un database nel quale sono archiviati meme e fenomeni virali presenti in
rete. Il sito fornisce da un lato la cronistoria di una serie di contenuti virali dall’altro offre
gli strumenti per la loro creazione. Nella sezione “Make a Meme”, infatti, l’utente può
creare il proprio meme. Il processo prevede la scelta di un’immagine o di un video,
l’aggiunta di una didascalia e di vari effetti fotografici. Il sito, quindi, da una parte
permette di tracciare il processo di creazione del meme e d’identificarne un’origine.
Dall’altra, consente di ragionare sul processo di costruzione del meme, passo dopo
passo, per rendere evidente e trasparente all’utente il processo di creazione del
prodotto. E rendere una tecnologia non semplicemente un’icona da schiacciare sullo
schermo del proprio telefono.
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Z. Bauman, D. Lyon, Liquid Surveillance. A Conversation, Polity Press, Cambridge 2012 (tr. it., Sesto
potere. La sorveglianza nella modernità liquida, Laterza, Roma 2014).
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Know Your Meme, http://knowyourmeme.com (ultimo accesso 1-2-15).
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