La ragazza del ritratto

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La ragazza del ritratto
«La ragazza del ritratto»
di GUIDO GHEZZI
Se si dovesse incominciare un discorso sui debiti della hostra letteratura verso il Manzoni, non so quanto e come lo si potrebbe concludere, ammesso che si possa.
Certo è che le tracce di influssi manzoniani, quanto meno di maggiori o minori recezioni della « lezione » implicita nell'opera del Manzoni (ed esplicita, in parte), sono molte e molteplici nei prosatori italiani dall'Ottocento a oggi, spesso riscontrabili anche da un'indagine
rapida e non approfondita.
Questa premessa mi pare indispensabile se si vuole affrontare una
lettura non dirò critica, ma almeno ragionata, del romanzo: « La ragazza del ritratto » di Guido Ghezzi.
Occorre d'altro canto chiarire che, se si riscontrano in quest'opera
non i segni di una generica influenza della lezione narrativa e stilistica
dei Promessi Sposi, sì piuttosto quelli della precisa. volontà, nell'autore, di proseguire su un cammino tracciato dal Manzoni, questo atteggiamento non dev'essere giudicato un limite; bensì un segno di manirità, l'esito di una raggiunta coscienza critica. Gli studi più recenti e
« moderni » (non solo, e non tanto, in senso cronologico) sull'opera
del Verga non hanno mancato di porre in luce che egli stesso :aveva
subito la suggestione del grande magistero manzoniano; e dal Verga,
a sua volta, conseguì una più nuova e rivelatrice lezione: potersi proseguire sulla strada della rivoluzione letteraria, stilistica, narrativa,
culturale del Manzoni, o quanto meno potersi recepire e assimilare
gli esiti da lui acquisiti, senza tuttavia doverne calcare, pedissequamente
le orme (l'eterna trappola in cui cadono i mediocri e, talvolta, ci ,opprime il sospetto, non solo quelli).,
Alla « Ragazza del ritratto » è stato accostato il termine « anticonformista ». Credo che tale possa essere, considerata, se si limiti il giudizio ad alcuni aspetti: all'orientamento politico; ideologico dell'autore,
in primis.
Guido Ghezzi, alla maniera dí altri, ma di pochi, come Piero Operti,
tanto per fare un nome, è uomo di destra: destra illuminata, insomma.
In altre parole egli non è disposto, nell'indagine sugli avvenimenti
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più tragici e dolorosi della nostra storia recente, a tranciare, o anche
soltanto ad accettare, giudizi semplicemente manichei (nella migliore
delle ipotesi) di condanna assoluta di una parte (la perdente, guarda
caso), di esaltazione fanatica dall'altra. Egli tende piuttosto (e questa
pare, se messa in pratica oltre che professata, attitudine veramente anti-conformista) a cogliere nella parte perdente, quanto di buono (in
se e per sé preso) essa ha operato, sentito, creduto. A riscattare, in altre parole, la verità storica di un'umanità che non può essere misconosciuta, pena la squalifica morale e storiografica dell'indagine, in esseri umani che, come tali, furono soggetti a sbagliare, e sbagliarono
certamente, ma non soltanto furono spesso in buona fede (cosa che
sarebbe troppo facile da concedere), bensì talvolta furono essi vittime
innocenti della prevaricazione, dell'arbitrio e dell'odio privati, malamente travestiti (secondo un metodo che nella storia e nel costume
italiani, dai fratelli Gracchi a oggi, costituisce la tradizione più solida
e continua) con le apparenze del contrasto politico e ideologico. Cosa
questa che da troppe parti si vuol negare, forse perchè si crede così
di rendere un servigio alla causa della democrazia e del progresso.
Buone intenzioni, ma spese male, perchè accettare, sostenere e
convalidare la menzogna e il falso storico a fin di bene è il più grande
di tutti i machiavellici inganni; la storia ha sempre mostrato che i mezzi, assai prima di trovare una giustificazione nel fine, lo corrompono
e lo assimilano a sè medesimi: da menzogna nasce solo inganno, cioè
arbitrio, prevaricazione, iniquità, in un circolo vizioso che la verità,
ed essa sola, la verità a qualsiasi costo, può spezzare.
Se si esamina lo stile di Guido Ghezzi, è più opportuno parlare di
non conformismo. Questa terminologia sottintende un punto di riferimento, spesso poi difficilissimo, quando non impossibile, da definire,
allorchè qualcuno voglia verificare la legittimità dei suddetti termini.
Se tuttavia è possibile riconoscere i lineamenti, o per lo meno la
configurazione degli orientamenti che dominano nella narrativa contemporanea italiana (anche prescindendo dagli addentellati non semplici con le straniere), è allora facile stabilire un rapporto, quale che
sia, tra i suddetti orientamenti e quello espresso da un singolo autore.
Possiamo accertare, almeno per comodità d'esame critico, che oggi la
nostra prosa narrativa, e non soltanto narrativa, si muove lungo poche
e definite direttrici, sotto un profilo stilistico. Abbiamo così tentativi,
onesti spesso, fino a che punto vividi o di contro involuti non saremo
noi a giudicare, di continuare la « tradizione ». Quanto poi ciò che intendono i vari Bacchelli e compagnia per tradizione corrisposta a una
realtà storica e culturale, e quanto invece a una concezione personale
e soggettiva (perciò spesso artistica, assai più che storica) non è qui
luogo a decidere: basti aver fatto un nome.
Accanto, o piuttosto confuso con questo orientamento, vi è quello
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della « alta acrobazia ». Tutta una famiglia (passante attraverso la gamma di infinite gradazioni e sfumature) di funamboli verbali, o meglio
di saltimbanchi grafici, che dagli ormai fossili alibi del cifrato ermetico
si allungano fino alle tecniche di laboratorio dello sperimentalismo.
Non senza subire la benedizione spirituale di alcuni ex enfants terribles, oggi rinchiusi ineluttabilmente nell'aurea prigione della « classicità » quali il Cecchi, il Bacchelli di molte (troppe, forse) pagine, quale
lo stesso Palazzeschi di alcune per altri versi pregevoli ricerche stilistiche nelle ultime cose: « Stefanino », « Storia di un'amicizia », tanto
per fare alcune citazioni; ma chi voglia scoprire i segni di una ricerca
d'innovazione formale, operata sulle forme idiomatiche a freddo, vale
a dire dall'esterno, potrà divertirsi a scorrere alcune pagine (per altro
assai fresche) del « Buffo integrale ».
Senza disperderci oltre a considerare le molteplici « correnti » dello sperimentalismo, fino a quello fine a sé stesso (sulla cui legittimità
v'è da dubitare, perchè la ricerca di laboratorio si fonda tutta sugli
scopi che la promuovono: né Galileo, né Newton, né Einstein, avrebbero trovato altro che risibile una ricerca di laboratorio, o una come
che fosse sperimentazione, fine a sé stessa) ci soffermeremo sullo stile
di Guido Ghezzi nella « Ragazza del ritratto ».
Non conformista, l'abbiamo definito. L'autore scrive infatti in modo disadorno, antiletterario, apparentemente dimesso.
Scontate, a questo punto, le obbiezioni: a tanti, anche a Pirandello e Svevo tanto per citare i più noti, furon mosse aspre critiche
con riferimento alla presunta sciattezza, o almeno al tono dimesso di
molte loro pagine. Seguire quelle orme significherebbe, quindi, essere
inseriti nel solco di una « tradizione »; dove, dunque, il non conformismo?
Si può agevolmente rispondere che un autore, non importa se di
maggiore o minore levatura, ma appena capace di aderire con la sintassi del proprio discorso alla sintassi del proprio pensiero, sarà sempre al di là del conformismo, anche se con questo non è detto che tocchi i vertici dell'originalità più vistosa.
A parte il fatto che una prosa che non sia tesa alla ricerca formale,
prima che all'aderenza immediata e diretta del discorso al pensiero
dell'autore, troverà sempre qualche « paladino dell'estetica », pronto
quasi a comando, ad accusarla d'essere dimessa, trascurata, ecc. Anche in quel senso v'è ormai una tradizione, più o meno ben conosciuta
e definita. Così che persino un Pratolini o un Silone vengono a trovarsi
intabarrati, contro voglia suppongo, in un abito di « tradizionalismo »
non si sa quanto aderente, gettato loro addosso dagli zelanti sartorelli
della critica nostrana.
Ma dobbiamo ammettere anche, senza impegolarci in lunghe e
spesso poco redditizie polemiche, la possibilità di perseguire un tono
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« medio », vale a dire libero dal peso della ricerca di originalità formale a ogni costo, della ornamentazione, della sperimentazione, della
(Dio guardi) « prosa d'arte ».
È una strada difficile, che può legittimamente fondarsi soltanto
su una profonda umiltà. Dote, quest'ultima, posseduta senz'altro da
Guido Ghezzi. Così si spiega che la sua prosa aderisce senza forzatura
al piccolo mondo rappresentato in tanta parte (la più felice) del suo
romanzo. Quello dei personaggi « in margine » (non cí si chieda, per
carità, l'orribile buro-idiotismo « emarginati ») immersi totalmente in
siffatta condizione: socialmente, politicamente, umanamente; campioni
di un'umanità ingannata a un momento storico passeggero, incapace
di adeguare sé, la propria capacità di sopravvivenza, di lotta, di adattamento psichico e umano a tempi nuovi, a una società nuova o, in
ogni, modo, diversa da quella in cui aveva creduto di inserirsi e adagiarsi per sempre.
A esseri umani siffatti, smarriti, perchè impreparati ad affrontarli,
in tempi che li hanno brutalmente tuffati nella jtingla dell'odio armato,
fazioso e trionfatore, non poteva non corrispondere un tono cronistico,
diciamo pure giornalistico, il solo modo di scrivere una storia che « si
sta facendo », che deve ancora decantarsi, e per ciò stesso non consente
all'autore una partecipazione lucida, una liricizzazione, quale può esprimere una realtà filtrata attraverso il naturale distacco, la chiara prospettiva storica di chi guarda dalla giusta distanza.
Tutto ciò può apparire un limite, e forse lo è; nessuno può negare
che sia anche un merito, in quanto l'autore vi esprime il suo stesso
smarrimento, la sua naturale confusione, nella ricerca affannosa e sofferta, ma sempre sincera, di una giustificazione a tanto forse inutile
credere, sentire, soffrire. Direi che la contraddizione di fondo, da cui
scaturiscono sia lo stile, sia il tono narrativo di tutto il romanzo, sta
nell'animus con cui l'autore dipana il racconto: di chi avverte nell'inconscio di essere stato ingannato, ma soffre, a livello di coscienza, per
la crudele cecità di coloro che si scagliano sulle vittime dell'inganno,
senza riuscire a scoprire la chiave dei fatti, la responsabilità vera, l'anello che non tiene nella maglia di quella cronaca a noi vicina che, per
il troppo agitarsi delle passioni che in essa convergono, non si decide
ancora a illimpidirsi in istoria
Se, come detto, l'autore guarda le vicende con occhio diverso, coraggiosamente volto a scoprire le verità più sottaciute e vilipese, non
tanto sull'orma crociana della storia giustificatrice non giustiziera,
quanto sulle tracce dell'insegnamento manzoniano, pare giusto citare
qui un passo illuminante: « il torto e la ragione non si dividono mai
con un taglio così netto che ogni parte abbia soltanto dell'uno o dell'altro ». Voglio qui aggiungere che tocca al lettore verificare quanto e come lo spirito di cristiana, accorata ansia di giustizia, di verità, ricercata
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alla luce della ragione, che traspare nel celebre passo manzoniano, sia
stata presente a Guido Ghezzi nella stesura del romanzo. A me pare
cosa tanto evidente, in tutto il complesso della vicenda, da poterla
tralasciare per altre ricerche.
Là dove ricostruisce una particolare atmosfera, dipinge una sorta di affresco, rappresenta caratteri popolari immersi nel loro momento
storico in maniera fatalmente passionale, così da precludersi ogni
futura possibilità di comprenderli razionalmente, là dove è soprattutto scrittore (o pittore) di costume, Guido Ghezzi può essere accostato a Pratolini. Al Pratolini di « Cronache di poveri amanti » in modo
speciale. (E già il ricorrere del termine « cronaca » nei primi titoli
pratoliniani, può essere una spia rivelatrice per il lettore che cerca
addentellati con lo stile cronistico di Ghezzi).
Anche i personaggi della provincia italica convogliati dalla guerra
nel vasto calderone della Roma post-bellica, o i personaggi della periferia e dei rioni popolari di Roma, come tanta parte della gente della
Via del Corno pratoliniana, subiscono una realtà storica che non possono in alcun modo mutare, e ciascuno d'essi reagisce come la sua
natura gli consente. V'è tutta una gamma di individui, coinvolti sentimentalmente, assai più che scientemente, nel regime fascista, e dunque vittime d'esso, che continuano dopo il '45 a farlo rivivere nelle loro
esagitate e allucinate follie revanchiste, che finiscono con l'essere, assai
più che espressioni di una realtà politica, sintomo allarmante di un
male umano, di una malattia sociale dalla diagnosi facile, dalla prognosi assai difficile e lunga: l'incapacità di risalire, dal buio e dalla confusione del passato, di riconquistare, con la coscienza delle proprie
intatte energie, la chiarezza d'idee e la lucida visione del presente da
cui soltanto può scaturire la ferma volontà di creare un domani nuovo
e migliore.
Accanto ai deboli, a coloro che non trovano in sé la forza per ricostruire sé medesimi, prima di tutto, per poter contribuire alla ricostruzione generale, vi sono i più forti, coloro che sull'equilibrio, sulla
realtà guardata in faccia si fondano per adeguarsi ai tempi nuovi, ricostruire la propria con l'altrui vita. Così Gianni Ventura (il cognome
scelto dall'autore per la famiglia protagonista ci pare emblematico)
trova nella società un posto tale da consentirgli la ripresa, la vita. Nico
Ventura, il fratello, governato nelle sue azioni da un sentimento dominante, il desiderio di vendetta, lascia che esso lentamente fagociti in
lui ogni altro sentimento, ogni altra forma di vita psichica: la sua è
una parabola da tragedia greca, fatalmente inclinata al delitto finale,
a una conclusione che non sembra lasciare adito alla speranza. Ho accennato al soffio di tragedia greca che sembra alitare su questo personaggio, fatalmente e ineluttabilmente « chiamato » alla perdizione.
Non posso tacere però com'egli ricordi al tempo stesso certi «eroi»
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pratoliniani (Carlino, Osvaldo delle «Cronache») educati alla violenza
e nella violenza per sempre irretiti, per sempre prigionieri.
L'autore, d'altro canto, ha analizzato questo personaggio e l'ha
costruito con sensibilità; cura e studio moderni: la sua «predestinazione» alla caduta si giustifica in chiave psicanalitica: il sentimento
dell'odio, assorbendo ogni fonte d'energia dalla sua debole psiche, incapace di controllarlo, proprio come in un organismo debole un tessuto
canceroso, la inaridisce fino a divenirne l'unica forma dí vita, e quindi
la sola forza cui egli deve necessariamente poggiarsi per continuare a
vivere.
Nella lucida, tesa e tersa pagina della narrazione del delitto (con
il climax della preparazione), una delle migliori del romanzo, tutta immersa in un'atmosfera di pavesiana «necessità», come l'evento che
discopre i modi di un'oscura meccanica deterministicamente coordinata
a quella foce, l'autore lascia sospeso il giudizio sulla responsabilità, sulla
forza prima che ha mosso il congegno; o forse egli tace ciò che dà
per acquisito: la perenne legge di violenza, di sopraffazione che da
sempre governa le vicende che fanno, della superficie terrestre, una
«cruenta polvere».
Il discorso stesso ci conduce ora a Lidia Ventura, il personaggio
chiave, colei che dà il titolo al romanzo.
Per alcuni aspetti, osservati superficialmente, essa ci proporrebbe
il richiamo non al Manzoni, ma a Victor Hugo, o tutt'al più a Dostoevskij, (al Dostoevskij che ha lasciato una traccia evidente nel «Rocco»
di Visconti). Lidia infatti è sorella spirituale di quei buoni integrali
che nello scrittore francese, o nel russo, sembrano voler acco gliere su
sé, novelli «agnelli» i dolori del mondo, per espiare, vittime innocenti
ma consapevoli, le colpe degli altri. Si pensi alla vasta ed epica (anche
se non poco artefatta) allegoria del vittorughiano «Les travailleurs de
la mer», o anche ai Miserabili, che una traccia talvolta scoperta hanno
lasciato nel fratello « buono » della « Cronaca familiare » di Pratolini
(ancora lui). O a quel magistrale ritorno sul tema, tanto più denso,
concentrato e naturale (non naturalista, si badi bene), cioè vero, che è
«L'agnello» di Mauriac. Si pensi alla tragedia dell'Idiota dostoevskiano
che come detto, ha lasciato un'evidente traccia nella granitica bontà
dell'eroe del più narrativo tra i sempre letterari film di Visconti.
Eppure, a ben vedere, Lidia, che nella morte trova la liberazione
da una vita di sofferenza (ma in lei la morte, per dirla con Lorca,
«depose le sue uova» assai prima che conoscesse la sofferenza vera:
un'altra predestinata, dunque) e al di là dei suaccennati personaggi,
cui pure somiglia.
La sua vita di dolore per sé e per gli altri, sa trarre dal dolore
qualcosa di duraturo da donare agli altri, il soffio dell'ispirazione, dell'amore che è creazione, quindi arte. Ne trae al tempo stesso la libe152
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razione dalla ferrea legge «homo homini lupus». Se non c'è alternativa,
se la realtà di questa vita lascia solo due possibilità: o carnefice, o
vittima, la « provida sventura » ha meritato a Lidia la liberazione da
una vita siffatta, da una legge così ottusamente crudele. Come Adelchi,
come Ermengarda, Lidia Ventura oppone alla legge dell'odio e della
vendetta il supremo rifiuto; meglio perdere la vita che conservarla a
prezzo di accettare l'iniquità e l'ingiustizia, che viverla nelle forme
cui la propria coscienza e il proprio spirito non potranno mai rassegnarsi. La malattia che conduce alla morte Lidia appare quindi come
un premio, un dono, una grazia lungamente sospirata e sofferta. (Ancora un addentellato con un grande scrittore cristiano: «Tutto è grazia», scrive Bernanos).
E la grazia, acquisita dal sacrificio cosciente della protagonista
allo spirito di colui che su questa terra ella ha più amato, ne fa una
Ermengarda contemporanea; collocata tra gli oppressi da una sorte
provvidenziale, trasforma la sventura in offerta, in dono, in ragione
di vita per altri; è sufficiente questa concezione di una vicenda e di
un personag gio per fare del romanzo «La ragazza del ritratto» un moderno originale saggio di «debito» pagato al magistero del Manzoni.
MARCELLO VAGLIO
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