Edizione # 4 Aprile 2012 Italiano

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L'AFRICA NON ESISTE
Il 22 Marzo 2012 un manipolo di sotto-ufficiali dell'esercito maliano capeggiati dal capitano
Amadou Sanogo hanno lasciato la loro caserma per marciare contro il palazzo presidenziale. In
poche ore hanno destituito senza incontrare alcuna resistenza il presidente della repubblica eletto,
Amadou Toumani Touré ATT, dissolto il Parlamento e cancellato quasi 20 anni di democrazia.
Sanogo e compagni protestavano contro il mancato sostegno del governo contro le ribellioni Tuareg
che a tempi alterni minacciano le regioni del nord-est del Mali ed i Paesi confinanti.
Poche ore dopo il rovesciamento di ATT proprio quegli stessi movimenti ribelli che i militari
volevano annientare hanno preso d'assalto le principali città del nord: Gao, Kidal e la mitologica
Timbouctù. Grazie agli arsenali prelevati in Libia ed alla mancata resistenza dell'esercito maliano le
operazioni sono procedute senza intoppi. Nel giro di meno di due settimane il Mali è stato
cancellato dalla mappa geografica: i movimenti Tuareg e gli islamisti di Ansar Dine hanno
dichiarato l'indipendenza e la creazione di una nuova nazione, Azawad.
La Cedeao, l'organizzazione degli Stati dell'Africa occidentale, ha messo sotto embargo la giunta al
potere costringendo i golpisti a rinunciare al potere e ad indire nuove elezioni entro la fine di
Maggio. Di fatto però la situazione è già compromessa e la Cedeao - con la Francia alla finestra - si
è già detta pronta ad inviare un contingente militare per sancire - proprio come la Costa d'Avorio nel
2002 - la divisione in due del Mali.
Si dirà: è la solita storia africana. Un altro golpe militare, un altro movimento ribelle ed un altro
Stato disegnato soltanto sulla carta dagli ex-colonizzatori europei, ma mai realmente nato in quanto
ad istituzioni e governo del territorio nazionale. La recente vicenda del Mali - un tempo esempio di
democrazia, in Africa misurato dal numero di ex-presidenti ancora vivi ed a piede libero - deve farci
aprire gli occhi sulla fragilità degli Stati africani che, ad oltre 60 anni dalle indipendenze, sono dei
castelli di sabbia, pronti a dissolversi alla prima pioggia.
Gli interrogativi riguardano anche la società civile africana - mai capace di contrastare i colpi di
forza dei militari o delle milizie armate - dei presunti partiti democratici - troppo spesso imperniati
su divisioni etniche o claniche per essere realmente nazionali - e sull'esistenza stessa di istituzioni intese come architettura di uno Stato che include l'amministrazione pubblica, l'esercito e le forze
dell'ordine - che invece soccombono ogni qualvolta sono le armi ad imprimere la loro volontà.
Una delle culle della cultura africana
Se c'era un Paese in Africa che era detentore di una cultura millenaria, quella dell'impero Mandingo
di Soundiata Keita, questo era il Mali. Non è un caso che fra queste terre bagnate dal fiume Niger
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nel 1235 dodici capo tribù mandinghi diedero vita al Kouroukan Fouga, probabilmente la prima
Costituzione della storia africana. Nei 44 editti del testo le tribù mandinghe annunciavano che si
federavano sotto un unico regno, il Mandé, rinunciando alla guerra e scegliendo, al suo posto, la
parola. Alla testa dell'impero, che si estendeva dal Mali al Senegal, passando per Gambia, Sierra
Leone, Guinea, Costa d'Avorio, Guinea Bissau e Mauritania, era stata scelta la famiglia Keita ed in
particolare il valoroso Soundiata Keita, nominato Mansa ovvero il re dei re.
L'imperatore era soprattutto un organizzatore. Il suo dominio si reggeva grazie al sostegno di 30
clan, di cui cinque di marabouts (al contempo stregoni divinatori ed insegnanti di corano), cinque di
artigiani, quattro di guerrieri, quattro di griot e dodici di uomini liberi. Soundiata mise fine alla
schiavitù e favorì il commercio facendo prosperare il regno. La vita sociale mirava alla ricerca della
pace, della sicurezza e dell'armonia. Lo spazio del potere era quello del Mansaya, la regalità, spazio
simbolico per eccellenza, che riposava sulla giustizia e sulla condivisione unendo il potere
temporale a quello spirituale.
Questo impero illuminato, che durerà sino al 17mo secolo, si basava su un testo, la Carta del Mandé
considerata la prima dichiarazione dei diritti dell'uomo africana. Il testo, concepito dalla
confraternita dei cacciatori nel 1222, specificava che "Il Mandé è fondato sull'apertura e la
concordia, sulla libertà e la fraternità. Questo significa che non si dovranno più essere
discriminazioni etniche o razziale nel Mandé".
L'eredità di Soundiata Keita e dell'impero mandingo è sopravvissuta in Mali fino ai giorni nostri
grazie ai Griot, i cantastorie, che tramandano da secoli la cultura orale del Paese. Toumani Diabaté,
suonatore di Kora e vincitore del Grammy, ne è l'esempio contemporaneo più importante.
Azawad e terrorismo
Si dirà: sono passati secoli dalla fine dell'impero mandingo. Nel mezzo ci sono state guerre tribali,
la colonizzazione francese, due guerre mondiali, l'indipendenza nel 1960, una serie di colpi di stato
militari ed un ritorno alla democrazia nel 1991. Le elezioni previste per il mese di Aprile 2012
dovevano segnare un'altra svolta, visto che ATT aveva rinunciato a giocare con la Costituzione per
consentirsi un terzo mandato. E allora perché tutto è crollato?
Le ribellioni Tuareg - uno di quei pochi popoli del mondo senza uno Stato proprio al pari dei Rom,
dei Saharawi, dei Kurdi o dei Palestinesi - sono sempre state un fattore ricorrente nella storia
recente del Mali. La prima rivolta fu addirittura nel 1914 contro gli occupanti francesi per chiedere
uno stato indipendente delle regioni saheliane. Una nazione senza confini, quella dei Kel Tamasheq
(coloro che parlano il Tamasheq come si chiamano fra di loro), che oggi conta oltre cinque milioni
di abitanti dispersi fra Niger, Mali, Algeria, Burkina Faso e Libia. Ed è fra queste popolazioni che
negli ultimi sessant'anni sono nate le rivolte contro governi centralisti della regione che non
riconoscevano la loro peculiarità di nomadi ed il loro bisogno di vivere liberi senza frontiere.
Così come oggi, nonostante gli accordi di pace sottoscritti a più riprese, sono i giovani tuareg dal
Mali al Burkina Faso ad ingrossare le fila di Al Qaeda nel Maghreb. Dopo essere passati per i
movimenti indipendentisti che da anni chiedono che l'Azawad, la terra degli uomini blu, abbia dalla
comunità internazionale “uno statuto speciale” al fine di garantire alle popolazioni locali “la
preservazione della loro identità”, hanno scelto la via del terrorismo foraggiata dall'industria dei
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rapimenti. Ed è ancora una volta fra i Tuareg che gli Stati Uniti stanno pescando le unità speciali da
inviare contro Al Qaeda nel Maghreb nel nuovo fronte della guerra al terrorismo apertosi dopo l'11
Settembre. Vedasi il precedente articolo sui qaedisti nel Sahel.
Del resto la recente avanzata tuareg nel nord del Mali ha formalmente visto scontrarsi due visioni
differenti sul futuro del paese africano: da un lato i filo-qaedisti di Ansar Dine che vogliono imporre
- in uno Stato già al 100% mussulmano - la sharia ed il Movimento Nazionale per la Liberazione
dell'Azawad che punta all'indipendenza, peraltro già annunciata sulle porzioni di territorio
"conquistate".
Già, ma possono uno scontento - magari anche legittimo - di una minoranza giustificare la
dissoluzione di uno Stato? Se è successo in Sud Sudan - ultimo nato in Africa contraddicendo la
dottrina dell'inviolabilità dei confini nazionali nati a seguito della Conferenza di Berlino nel 1884 si è aperta una nuova fase di balcanizzazione del continente? E quali potrebbero essere i criteri di
questa nuova spartizione?
Geopolitica delle risorse
Fino a qualche anno fa il Mali era un Paese pacifico. Poi, a partire dal 2008, è partita la caccia al
petrolio, all'uranio, ai diamanti... Del resto è tutta l'Africa occidentale ad essere al centro di un
conflitto economico per il controllo delle ricche risorse estrattive. Dal Golfo di Guinea, infatti, gli
Stati Uniti intendono importare il 25% del proprio fabbisogno di greggio da qui al 2015. I pozzi
offshore che si estendono dalla Mauritania all'Angola, l'oleodotto della Exxon che dal Ciad veicola
l'oro nero sino in Camerun e che un domani potrebbe partire dal neo-indipendente Sud Sudan
(ancora oggi dipendente dal nord per le sue esportazioni di petrolio) e i giacimenti di uranio del
Niger, quelli di bauxite in Guinea, i diamanti in Sierra Leone e Liberia e l'oro del Ghana sono
miliardi di dollari di buoni motivi per fare dell'Africa occidentale una questione di “sicurezza
nazionale”.
Solo che a giocare con il Sahel non sono soltanto gli Stati Uniti. La Cina è entrata prepotentemente
in questi anni ed è pronta ad investire 30 miliardi di dollari nelle industrie estrattive africane. I
cinesi sono arrivati in Guinea, in Mali, Niger, Nigeria, Angola, Sudan, ma a differenza degli
occidentali non giocano mai in politica né con l'etno-centrismo. A Pechino non interessa chi è al
potere purché sia disposto a scendere a patti e fare business nel nome delle risorse minerarie in
cambio di qualche grande opera.
Vi è dell'Unione Europea, per una volta compatta nel curare i propri interessi. Il progetto che mette
tutti d'accordo è la Trans-Saharan Gas Pipeline, gasdotto che dalla Nigeria dovrebbe attraversa per
4mila chilometri tutto il Sahara sino in Algeria. Lì si collegherebbe con i gasdotti che alimentano
l'Europa e l'Italia, Sardegna e Sicilia su tutti, fornendo un'alternativa alle forniture a singhiozzo che
dalla Russia passano per l'Ucraina (vedi articolo sulla guerra del gas). Un affare da 13 miliardi di
dollari che fa gola alle grandi corporations multinazionali, dalla Total francese, alla anglo-olandese
Shell, ai russi di Gazprom sino alla nostrana Eni. Il gas dovrebbe cominciare ad arrivare in Europa
dal 2016 con 500 miliardi di metri cubi l'anno, ribelli del Delta del Niger, tuareg e fondamentalisti
permettendo.
Una nuova spartizione dell'Africa?
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Se durante la guerra fredda la solidità dei confini assicurava le rispettive sfere di influenza e lo
status quo, oggi quel criterio non ha più valore. Sembra piuttosto ritornato in auge il passato
coloniale ove è la spartizione delle risorse il criterio per la ridefinizione dei confini africani.
Attendiamoci quindi l'emergere di nuovi Stati ovunque nel continente in corrispondenza di ricchi
giacimenti.
Se il Sud Sudan ed i suoi ricchi pozzi petroliferi sono stati l'antipasto, attendiamoci due Nigerie,
quella di Boko Haram e della Sharia nel nord e quella cristiana dei pozzi petroliferi del sud.
Vediamo in quanti pezzi sarà suddivisa la Repubblica Democratica del Congo presa d'assalto per le
sue risorse da decine di milizie ribelli o la Libia magari ripartita secondo criteri pre-coloniali in
Cirenaica, Tripolitania e Fezzan. Potremmo continuare con la Somalia, già da un ventennio senza
uno stato centrale e dove nasce un nuovo microstato a settimana, l'Etiopia bastione dell'occidente e
della cristianità ormai a maggioranza mussulmana o la Costa d'Avorio dei due presidenti, Alassane
Ouattara prima sconfitto e poi installato e Laurent Gbagbo spedito alla Corte dell'Aja...
Potrebbero essere elucubrazioni di fanta politica. O forse una versione moderna del vecchio dividi
et impera dove minoranze marginalizzate sono utilizzate da soggetti esterni. Speriamo soltanto che
quello che stia accadendo in Mali non sia soltanto l'inizio di una nuova e dolorosa fase di
conflittualità in Africa. Anzi, auspichiamo possa essere - per la società civile continentale, per le
elite di governo e per le istituzioni regionali e continentali - un serio motivo di riflessione.
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L'IRAN E L'ONDA VERDE (PARTE I)
Il periodo in esame, 13 giugno 2009 - 2 marzo 2012, e' caratterizzato da una serie di avvenimenti
che potrebbero comportare varianti anche significative alla "costruzione istituzionale teocratica"
posta in atto dalla Guida Suprema Ruhollah Khomeini, capo religioso e politico dell'Iran, deceduto
il 3 giugno 1989.
E' il caso, in premessa, di evidenziare che i risultati delle elezioni del 2 marzo scorso per il
Parlamento iraniano (Majlis) risultano al momento incompleti in quanto sono stati assegnati
solamente 225 seggi sui 290 previsti; per gli altri 65 si fara' ricorso al ballottaggio e la data sara'
definita dal "Consiglio dei Guardiani della Costituzione e della Sharia" (probabilmente il 4 di
Marzo), lo stesso organismo che, prima della consultazione, ha provveduto a selezionare, tra 5400
esponenti presentatisi, i 3444 candidati in lizza per 290 seggi del Parlamento.
Per quanto si riferisce all'orientamento politico degli ammessi, la maggior parte proviene dalle fila
dei conservatori-radicali, vicini sia alla Guida Suprema Khamenei e al Presidente della Repubblica
Ahmadinejad, sia ai "neo-conservatori", vicini ai Guardiani della Rivoluzione - i cosiddetti
Pasdaran - i quali negli ultimi anni hanno acquisito considerevole penetrazione nel settore
finanziario, in aggiunta al ruolo istituzionale di "milizia del regime".
Nella precedente consultazione del 2008, i candidati ammessi erano ripartiti tra i gia' citati
conservatori (determinati a continuare il percorso tracciato da Khomeini), i riformisti (aperti al
cambiamento della linea politica indicata - l'esponente piu' accreditato era l'Ayatollah Montazeri,
deceduto il 19 dicembre 2009) e i pragmatici (favorevoli al miglioramento dell'economia attraverso
un processo di liberalizzazione e di riorganizzazione dell'industria; l'esponente piu' in vista e'
l'Ayatollah Rafsanjani).
Si aggiunge che le elezioni per il Majilis costituiscono generalmente la premessa per le ben piu'
significative elezioni presidenziali (2013), per le quali la Costituzione iraniana esclude la possibilita'
di un terzo mandato per il Presidente in carica, attualmente Mahmud Ahmadinejad, eletto la prima
volta nel 2005, confermato nel 2009 a seguito di risultati caratterizzati da brogli, "adattati" da
esponenti conservatori vicini alla Guida Suprema, l'Ayatollah Khamenei.
L'affermazione di Ahmadinejad per il secondo mandato presidenziale, come si e' detto, non
consente un terzo mandato a quest'ultimo, ma certamente lo agevolera' nella designazione di un
"successore" di fiducia, nel solco dell'orientamento politico da lui tracciato.
Di seguito alcuni dati sui due esponenti di vertice: la Guida Suprema e il Presidente della
Repubblica.
Ali Khamenei, nato nel nel 1939, ha svolto la preparazione in teologia islamica nelle Scuole
coraniche di Najaf e di Qom (e' stato allievo del Grande Ayatollah Khomeini).
Fu eletto Guida Suprema a giugno 1989 "in deroga", non rivestendo il rango di Ayatollah previsto
dalla Costituzione ( era soltanto Hojatoleslam) e senza il consenso dei principali Centri di studi
teologici; e' soprannominato infatti l' "Ayatollah, in una notte".
Si e' sempre imposto nel Paese quale simbolo dell'elite conservatrice, puntando con successo al
ruolo di supervisore del "Consiglio dei Guardiani della Costituzione e della Sharia", carica di
particolare prestigio e rilevanza, fra l'altro per l'approvazione dei candidati alle cariche istituzionali
e per il controllo delle leggi.
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Fu sua la fatwa contro la produzione, lo stoccaggio e l'impiego di ordigni nucleari, fatwa non
pubblicata e comunque citata nell'agosto 2005, nel corso di una riunione dell'AIEA a Vienna.
Clamorose altresi' le sue valutazioni sui "Diritti Umani" - ritenuti un'arma nelle mani dei nemici
dell'Islam - e le minacce all'Occidente del 4 giugno 2006, in caso di aggressione degli Stati Uniti
all'Iran per il programma nucleare, ovvero il blocco dei rifornimenti petroliferi!
Mahmud Ahmadinejad e' nato nel 1956, e' laureato in ingegneria e, ancora studente, si e' arruolato
nel "Corpo dei Guardiani della Rivoluzione" (i Pasdaran), prendendo parte ad "operazioni coperte"
e alla guerra contro l'Iraq; fu a suo tempo Ufficiale Superiore dell'unita' di elite "Forza Quds"!
Alla fine del conflitto Iran-Iraq (1988), in relazione alla riduzione degli organici, abbandono' la
Milizia e intraprese la carriera politica, mantenendo sempre contatti e buone relazioni con i
Pasdaran e i Basiji (giovani volontari della Milizia); fu sindaco di Teheran nel 2003 e Presidente
della Repubblica nel 2005 (primo mandato di quattro anni). Furono proprio i brogli elettorali delle
elezioni presidenziali 2009 (secondo mandato per Ahmadinejad) evidenziati a forti tinte dai massmedia, a portare in piazza la popolazione il 13 giugno 2009, figurativamente denominata "Onda
Verde", per l'andamento crescente del numero dei partecipanti, dalla convocazione alla "piazza"
principale della riunione e alla successiva dispersione; "verde" dal colore della carta usata per le
liste elettorali.
Quando e perche' ha inizio l'onda verde?
L'Onda Verde prende l'avvio subito dopo l'annuncio dei risultati della "divina vittoria" di
Ahmadinejad (13 giugno 1989), contestata per le seguenti motivazioni:
l'annuncio fu dato appena otto ore dopo la chiusura dei seggi: tempo intercorso insignificante per un
processo elettorale lento e macchinoso, a causa dei successivi controlli e verifiche;
in alcune province, il numero dei votanti e' risultato decisamente superiore a quello degli iscritti a
votare;
omogeneita' di risultati numerici tra due o piu' province;
considerevole affermazione di Ahmadinejad anche nelle province cui appartenevano i suoi
avversari; consenso decisamente accresciuto rispetto a precedenti elezioni.
Alle dimostrazioni di piazza inizialmente gestite da giovani studenti e studentesse, si sono aggiunti
alla protesta altri partecipanti contro il regime, allo scopo di evidenziare il proprio disagio in merito
ai diritti umani e all'economia;
dimostrazioni che si sono ripetute in occasione di ricorrenze religiose e/o di eventi che si rifanno
alla morte di persone assassinate nel corso della reazione violenta delle forze dell'ordine:
il giorno dell'Ashura (19 giugno), che ricorda la morte dell'Imam Hussein, primo martire degli
sciiti, nella battaglia di Kerbala 680 d.C., che con altri suoi seguaci scelse di morire piuttosto che
sopravvivere sotto un governo illegittimo;
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alcuni giorni che ricordano la vicenda della giovane Neda Soltan, assassinata dalle forze dell'ordine
il 20 giugno 2009 e assurta a simbolo dell'Onda Verde;
i giorni, secondo tradizione, sono il terzo dalla morte della Soltan (22 giugno), il 7mo giorno (26
giugno) e il 40mo giorno, il piu' significativo (29 luglio).
Le convocazioni per le riunioni di piazza sono avvenute a mezzo "social network" (tipo Facebook,
Twitter ecc.) allo scopo di aggirare la censura; ma nel tempo, anche in questo settore,
l'organizzazione dei Pasdaran e' ricorsa a contromisure per la neutralizzazione (ingaggio di hacker
stranieri; disturbo delle trasmissioni e diffusione di notizie "alternative").
La sorte degli arrestati
L'intervento del regime contro la "piazza" ha visto in prima linea, oltre alle forze dell'ordine, i
giovani volontari Basiji (fonti di reclutamento dei futuri Pasdaran), impegnati a coppia su motocicli
fuoristrada: uno alla guida, l'altro per l'intervento contro la "piazza", armato di manganello.
Sul piano interno, i criteri di reazione delle forze dell'ordine sono stati differenziati, nel senso che:
i manifestanti piu' violenti nel corso della manifestazione vengono portati in carcere, identificati e
rilasciati dopo pochi giorni, mentre "agenti organizzatori della protesta", iraniani o stranieri,
vengono trattenuti nella carceri speciali del regime (tipo quelle di Evin a Teheran) e condannati;
stessa sorte per esponenti dell'"intellighenzia" (giornalisti, scrittori, registi del cinema e della TV,
altri esponenti della cultura ecc.): e' il caso della giornalista statunitense Roxana Saberi, della
ricercatrice francese Clotilde Reiss. Attenzione particolare viene rivolta al regista cinematografico
Jafar Panahi, mantenuto agli arresti domiciliari e interdetto a svolgere la sua attivita' di regista per
20 anni;
anche per gli esponenti di vertice dell'opposizione e dei relativi familiari, lo stesso trattamento: i
riformisti Mousavi e Karroubi agli arresti domiciliari, sono sorvegliati a vista dai Pasdaran; la figlia
dell'Ayatollah Rafsanjani (il leader dei pragmatici), e' stata arrestata nel corso di una protesta di
piazza e incarcerata.
Il regime teocratico, in questo contesto, ha retto mantenendo il controllo della situazione, anche
perche' Khamenei ha avallato la risposta all'Onda Verde, fatta di repressione della "piazza", di
carcere o di arresti domiciliari, con controlli asfissianti per i principali leader dell'opposizione; ma
soprattutto perche' l'Onda Verde non si e' posta come vera e propria rivoluzione, in quanto:
la "piazza" non ha espresso una leadership; peraltro, le donne in rivolta hanno fatto sempre
riferimento al "premio Nobel per la pace" Shirin Ebadi (costretta a vivere negli Stati Uniti) e
rappresentata a Teheran da Nargas Mohammadi, Presidente del "Comitato per le libere elezioni",
tenuto sotto stretto controllo dalle forze dell'ordine e, soprattutto, in difficolta' nel formulare un
programma operativo per l'opposizione;
l'opposizione e' stata privata di un esponente di non comuni qualita' umane, per formazione
culturale e ideologica al livello di Khomeini; ci si riferisce, come già detto, all'Ayatollah Montazeri,
deceduto;
i riformisti agli arresti domiciliari (Mousavi e Karrubi), dopo le elezioni presidenziali del 2009,
permangono nell'impossibilta' di intraprendere qualsiasi azione politica a causa del controllo
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esercitato, nei loro confronti, dalle forze dell'ordine;
anche i pragmatici permangono nel mirino del regime ( come si vedra' a seguito. l'Ayatollah Ali
Akbar Rafsanjani, leader dei pragmatici e Presidente del "Consiglio degli; Esperti" annuncera' il
proprio ritiro dal Consiglio citato l'8 marzo 2011). Si ricorda che il Consiglio indicato e' preposto,
tra l'altro, in caso di morte della Guida Suprema, all'elezione del successore, in quanto la carica di
Guida Suprema e' a vita!
Altro aspetto da considerare, ai fini del mantenimento del regime nel periodo dell'Onda Verde, e'
stato l'interesse primario delle parti in conflitto, in ambito conservatori soprattutto, a garantire il
sistema contro gli eccessi dei riformatori e dei pragmatici.
Il contrasto di vertice
L'equilibrio di vertice, in precedenza gia' sopravvissuto alla mobilitazione patriottica contro
l'attacco di Saddam Hussein (1980-1988), agli anni della modernizzazione economica di Rafsanjani
(1989-1997) e a quelli del riformismo di Khatami (1997-2005), fino al populismo attuale di
Ahmadinejad (in carica dal 2005), e' venuto a mancare nel 2011, come autorevolmente afferma lo
studioso persiano molto "ascoltato" dalla diplomazia ONU, Reza Aslan, il quale, ai primi di agosto
del 2011, ha affermato che "a Teheran e' in corso un conflitto all'interno del gruppo conservatore, lo
stesso gruppo che ha pilotato l'elezione di Ahmadinejad contro i riformisti e i pragmatici esclusi di
fatto dalla consultazione del giugno 2009.
Nella circostanza, Ahmadinejad avrebbe messo in dubbio il primato assoluto del clero sciita sul
Governo e sarebbe stata evidenziata altresi' l'insofferenza dei neo-conservatori per il gruppo vicino
alla Guida Suprema, Khamenei.
I neo-conservatori costituiscono, come gia' detto, il gruppo di potere che fa capo ai "Guardiani della
Rivoluzione" (i Pasdaran), responsabili della principali strutture militari e spionistiche, con estesi
interessi nella finanza: in pratica, l'ago della bilancia tra la Guida Suprema Khamenei e il Presidente
della Repubblica Ahmadinejad.
Oltre all'aspetto istituzionale, la vicenda assume rilevanza politica nel senso che contiene il
tentativo di ridurre il potere di Khamenei, in relazione alla concezione religiosa di Ahmadinejad, in
particolare al fervore messianico di quest'ultimo, legato alla teoria del 12mo Imam sciita
"duodecimano", al-Mahdi, occultatosi nel pozzo sacro di Jamkaram (vicino Qom); tale teoria,
qualora portata avanti e strumentalizzata, lascia prevedere un collegamento diretto tra Allah e il
credente, senza alcuna intermediazione da parte degli esponenti del clero, vanificando cosi' la stessa
costruzione teocratica di Khomeini.
A tale credenza per certi aspetti eversiva, Khamenei risponde minacciando l'eliminazione della
carica di Presidente della Repubblica che, se del caso, sarebbe rimpiazzato da un Premier nominato
dal Parlamento, in effetti direttamente dipendente dalla Guida Suprema!
E' questa la principale evidenza del contrasto di vertice cui si aggiungono altri episodi del periodo
2010-2011 che lo concretizzano anche in termini di conquista del potere, in vista della conclusione
del secondo e ultimo mandato di Ahmadinejad (2013); ci si riferisce:
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alla sostituzione del Ministro degli Esteri Manuker Mottaki (dicembre 2010), rimpiazzato da un
esponente di fiducia del Presidente, Ali Akbar Salehi, Capo dell'Agenzia Atomica Nazionale.
Mottaki, nominato nel 2005, era giudicato "troppo morbido": aveva evidenziato disponibilita' a
negoziare sul dossier nucleare; Ahmadinejad per contro privilegia il criterio del "doppio standard",
ovvero dell'utilizzazione civile e militare del programma nucleare;
alla proposta di nominare quale Ministro del Petrolio il Generale dei Pasdaran Rostam Ghassemi, il
cui nominativo figura nella "black list" dell'Occidente;
come pure la proposta di promuovere a capo dell'OPEC un altro Pasdaran (l'Iran detiene dall'ottobre
2010 la presidenza del "cartello" OPEC, che tra l'altro stabilisce il prezzo del petrolio specie
nell'attuale difficile contingenza economico-globale).
Seguono altre proposte di Ahmadinejad, a conferma del suo orientamento populistico, contro i
criteri conservatori della Guida Suprema:
il pensionamento di decine di professori delle universita' a favore dei piu' giovani (ventata di
liberalismo);
l'eliminazione del divieto delle classi promiscue, in contrasto con l'islamizzazione degli atenei
(avviata a suo tempo proprio da Ahmadinejad);
il progetto di trasferire la "Teheran amministrativa" all'esterno dell'abitato della Capitale, in modo
da alleggerire il sovraffollamento e la congestione del traffico;
l'abolizione dei sussidi sul carburante e sull'energia, in cambio di un'assegnazione mensile ai piu'
bisognosi di 30 euro a persona: tale provvedimento non consente di compensare l'inflazione e
l'aumento del prezzo della benzina (100%), per cui in molti ricorrono all'impiego del gas liquido
che costa di meno. In sintesi, il provvedimento non si sta traducendo in risparmio per lo Stato a
favore dello sviluppo, anzi viene fatto osservare che lo Stato spende piu' di quanto non spendesse
per i sussidi (il Presidente della Repubblica, prima o poi, dovra' risponderne alla Corte di Giustizia
sull'Economia che lo ha gia' convocato).
Continua nel prossimo numero...
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CHE FINE FARA' ABDALLAH SENUSSI?
Il 20 novembre del 2011 le autorita' libiche avevano annunciato la cattura del cognato di Gheddafi ,
Abdallah Senussi. Un annuncio poi informalmente confermato da altre fonti nel tempo, ma mai
documentato - come peraltro fatto per la cattura di altri personaggi importanti dell'ex regime - da
una foto o filmato dell'interessato. E' questa circostanza aveva alimentato varie congetture tra le
quali quella piu' accreditata negli ambienti di Tripoli era che l'uomo fosse stato brutalmente
torturato e quindi non fosse "presentabile" alla stampa specie dopo che sulle autorita' libiche si
addensavano accuse di violazioni dei diritti umani. Altre voci - sempre in Tripoli - lo davano
addirittura per morto. Entrambe le ipotesi avevano un loro fondamento di verita' se si tiene conto
che Gheddafi , prima di essere ammazzato, era stato sodomizzato ed al figlio Mutassim erano stati
tagliati i genitali.
In realta' Senussi non era ne' imprigionato in Libia, ne' morto. Era solo scappato, unendosi a delle
tribu' tuareg del Mali con cui continuava la sua battaglia contro la nuova dirigenza libica. Il 17
marzo e' stato poi catturato dalle forze di sicurezze mauritane scorso nell'aeroporto di Nouakchott .
Le autorita' libiche hanno subito chiesto l'estradizione per poterlo processare nel proprio Paese .
Abdallah Senussi e' uno dei personaggi piu' odiati del regime di Gheddafi ed era quello che si
dedicava con particolare zelo al cosidetto lavoro sporco: caccia agli oppositori nel Paese e all'estero
con conseguente loro eliminazione fisica, persecuzione delle famiglie degli aventi causa,
repressione delle proteste, attentati.
Per questo motivo il 16 maggio dello scorso anno la Corte Internazionale Criminale de l'Aia aveva
emesso - su richiesta e con la presentazione di un dossier di prove da parte del C.N.T. libico - un
mandato di arresto internazionale per crimini contro l'umanita'. Iniziativa che riguardava non solo
Senussi ma anche Seif al Islam e suo padre.
Senussi il terrorista
La fama internazionale del cognato di Gheddafi era gia' nota in passato per il suo coinvolgimento
nell'abbattimento di un velivolo commerciale (Dc-10) della compagnia U.T.A. sui cieli del Niger
nel 1989. Un attentato che era costato la vita a 170 persone di cui 54 francesi. Il tribunale di Parigi,
nel 1999 lo aveva condannato in contumacia all'ergastolo e quindi sulla sua testa pendeva gia' un
mandato internazionale di arresto.
A quei tempi capo dell'intelligence militare , Gheddafi fu costretto a sollevarlo - almeno
formalmente - dall'incarico. Il suo potere reale rimaneva pero' intatto. Nel 1996, in seguito ad una
sommossa nel carcere di massima sicurezza di Abu Salim, Senussi era intervenuto con i reparti
speciali per sedare la protesta: 1200 morti di cui recentemente sono stati trovate le fosse comuni nei
pressi del comprensorio. L'ironia della sorte ha proprio voluto che dalle proteste in Benghazi dei
familiari delle vittime di Abu Salim che reclamavano giustizia e la restituzione dei corpi e
dall'arresto dell'avvocato che difendeva le loro cause sia nata la scintilla che ha provocato la
ribellione e la caduta del regime.
Nel 2002 Abdallah Senussi riprendeva il suo posto a capo dell'Intelligence militare ( e l'anno
successivo veniva accusato dai sauditi di complottare per l'uccisione di re Abdullah) ma poi , nel
2007 - nell'ambito di una politica di riavvicinamento di Gheddafi all'Occidente - venne di nuovo
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Testata registrata presso il Tribunale di Roma n.198/2011 del 17/6/2011
avvicendato e messo in una posizione di potere meno visibile: Vice direttore delll'External Security
Service (Jihaz al Aman al Kharigi) allora comandato da Musa Kusa. Ma la parabola politica di
Abdallah Senussi - a parte aggiustamenti formali del suo ruolo pubblico - e' rimasta sempre di
prima grandezza. Riprendera' poco dopo - sempre ufficialmente - il controllo diretto
dell'Intelligence Militare .
Senussi e l'attentato di Lockerbie
Recita un ruolo nei negoziati con l'Inghilterra per la liberazione del terrorista Abdelbaset Mohamed
Ali al Megrahi - implicato nell'attentato di Lockerbie - poi rilasciato dal carcere scozzese nell'agosto
del 2009. Negozia con l'Italia nel campo dell'immigrazione clandestina e per questo e' ricevuto a
Roma. E' questa l'ultima configurazione politica di Abdallah Senussi . Ricostruita una certa
"credibilita'" internazionale torna subito ad occupare incarichi pubblici . Ed ecco - agli inizi del
2009 - che viene accreditato di un nuovo incarico prestigioso: Capo dell’Alto Comitato per la
lotta all'immigrazione clandestina. Un incarico di copertura per qualcosa di piu' grande: il controllo
diretto di tutti gli apparati di sicurezza del Paese. Con la scusa degli immigrati il Comitato di
Senussi controlla infatti i 3 Servizi di sicurezza ( L'External Security Service, l'Internal Security
Service, l'Intelligence Militare), le Forze Armate, la Polizia. Ma e' l'ultimo capitolo della storia di
Abdallah Senussi.
Scoppia la rivolta a Benghazi, cerca subito di reprimerla senza peraltro particolare successo
nonostante i suoi uomini vengano subito accreditati di particolare brutalita' , sempre a fianco del
cognato per la battaglia finale, senza possibilita' di rifugiarsi all'estero per il mandato di arresto
internazionale. In agosto suo figlio Mohamed (gia' noto in Italia per i suoi eccessi alcolici e relative
intemperanza pubbliche - peraltro condonate dalla polizia italiana) viene ucciso dai raid alleati
insieme al figlio di Gheddafi Khamis. Infine, in novembre le voci - peraltro infondate - della sua
cattura nel sud del Paese.
Fondamentale nel garantire la sicurezza del regime, ingombrante - almeno nel contesto
internazionale - dal punto di vista politico, brutale nei modi e nei comportamenti, crudele e
vendicatore, al personaggio rimane ora da recitare l'ultima parte della sua vita. Se verra' consegnato
alle autorita' libiche , le sue probabilita' di sopravvivenza fisica saranno praticamente nulle. Questo
a prescindere da un processo dall'esito scontato se comunque avra' il tempo tecnico di arrivarci
ancora sano durante la detenzione. Nella cultura tribale e beduina, di cui Senussi e' sicuramente
esponente di rilievo, non vi e' spazio per gesti di clemenza e la tutela dei diritti umani e' una opzione
raramente applicata. Nel caso in questione - stante l'efferatezza dei comportamenti pregressi del
personaggio - si ritiene che margini di applicazione in tal senso siano risibili. Le autorita' libiche
hanno gia' annunciato - a scanso di equivoci - che se gli verra' estradato non lo consegneranno al
tribunale Internazionale (come peraltro hanno gia' detto per il nipote Seif al Islam).
Rimane da vedere quello che decideranno le autorita' mauritane. Intanto hanno gia' smentito, nei
giorni scorsi, una dichiarazione del vice Primo Ministro libico, Mustafa Abu Shagour, che dava per
scontata e concordata una consegna del personaggio alla Libia dopo che una delegazione del C.N.T.
aveva visitato Nouakchott. Intanto Tripoli, tramite l'Interpol , ha richiesto un mandato
internazionale di cattura per il personaggio (tanto per contrapporre la richiesta di cattura de l'Aia
alla propria).
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Chiaramente e' noto alle autorita' mauritane che una eventuale consegna del personaggio alla Libia
equivarrebbe ad una sicura condanna a morte. La consegna a l'Aia, in alternativa avrebbe soluzioni
finali meno cruente. Anche se, vale ricordarlo, la Mauritania non ha mai ufficialmente riconosciuto
il ruolo del Tribunale Criminale Internazionale de l'Aia .
Non tutto e' perduto per Senussi
Non e' chiaro al momento come la Mauritania intendera' comportarsi nei riguardi di Senussi e
soprattutto nei confronti delle istanze libiche. Ma al riguardo bisogna valutare alcuni dettagli ed
alcune valutazioni politiche.
Nel primo caso salta all'occhio il fatto che Senussi stava tornando in aereo dal Marocco e questo
implica una sua certa liberta' di manovra. Personaggio e soprattutto faccia nota sulla scena politica
da 40 anni, non poteva muoversi senza essere identificato o monitorato. Se e' potuto entrare ed
uscire dal Marocco evidentemente ha ancora una sua credibilita' e un suo peso negoziale. Non e'
quindi un personaggio squalificato nel contesto nordafricano. E questa prima considerazione e'
suffragata da un ulteriore dettaglio: Senussi non e' stato incarcerato a Nouakchott ma viene ospitato
in un residence per autorita'. Un riguardo che si correla al suo ruolo.
Le valutazioni politiche sono di vario genere. Da un lato la considerazione di cui gode ancora
Senussi e' inversamente proporzionale al credito che gode la nuova dirigenza libica. Molti Paesi
della regione non vedono di buon occhio la situazione sociale libica (peraltro non ancora
stabilizzata) ed al ruolo che stanno avendo le frange islamiche del Paese. La Mauritania ha paura
del terrorismo ed ha paura del correlato islamismo. Senussi, sotto questo aspetto, non porrebbe
problemi. Ma il cognato di Gheddafi ha dalla sua parte un altro valore aggiunto: e' un personaggio
legato alle tribu' tuareg, quelle stesse che hanno combattuto al fianco del regime in Libia e che ora,
approfittando anche del colpo di Stato a Bamako, stanno destabilizzando i Paesi del Sahel. Portano
avanti rivendicazioni di autonomia, si sono alleate con frange islamiche salafite, sono in quota parte
collusi ovvero almeno conviventi con i gruppi terroristici che sotto il nome di Al Qaida
spadroneggiano nell'area.
Comunque i tuareg fanno adesso paura ed inimicarseli, magari consegnando Senussi alla Libia,
potrebbe essere controindicante per la stabilita' del regime militare del Presidente mauritano Ould
Abdel Aziz. Peraltro fu proprio Gheddafi a mediare e ad aiutare Aziz ad essere alla fine riammesso
nell'ambito dell'African Union dopo il colpo di Stato militare che lo aveva portato al potere
nell'agosto del 2008 e che aveva determinato l'ostracismo degli altri Paesi. Quindi Aziz ha
comunque un debito di riconoscenza verso il passato regime libico.
Dall'altro lato ci sono pero' anche forti le pressioni che la Francia sta esercitando sulla dirigenza
mauritana. Parigi ha un conto in sospeso con Senussi per l'attentato UTA ed e' stata una dei
maggiori sostenitori della rivolta armata contro Gheddafi.Dietro la Francia c'e' ovviamente anche il
mondo occidentale ed una serie di interessi economici e commerciali che possono influenzare le
scelte di Nouakchott.Alcuni di questi Paesi stanno aiutando le forze di sicurezza mauritane a
combattere il terrorismo. Tra queste contrapposte istanze maturera' alla fine la decisione finale del
Presidente Aziz.
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