L`EFFETTO DOMINO DELLA PRIMAVERA ARABA : ANALISI E

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L`EFFETTO DOMINO DELLA PRIMAVERA ARABA : ANALISI E
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L'EFFETTO DOMINO DELLA PRIMAVERA ARABA :
ANALISI E VALUTAZIONI DEL FENOMENO
Il fenomeno della primavera araba si e' diffuso con una concatenazione temporale che ne ha
alimentato la propagazione geografica in molti Paesi arabi.
Nella pratica si e' determinato un cosiddetto "effetto domino" che ha fatto si' che un evento
collocato nella realta' di un singolo Paese (soprattutto di instabilita' sociale) estendesse i suoi effetti
ad altri Paesi limitrofi. E' una situazione che e' stata determinata dalla circolazione delle notizie che
oramai avviene in modo globale, favorita dai mezzi di comunicazione di massa (televisione,
internet, social network etc.) che legano cause ed effetti eliminando barriere di tempo e spazio. I
fermenti sociali nei Paesi arabi si sono sviluppati e diffusi in questo modo, magari facilitati dal fatto
che queste nazioni erano accomunate da caratteristiche sociali, economiche e politiche similari.
Vale allora la pena di ripercorrere questi eventi concatenandoli l'uno con l'altro:
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17 dicembre 2010, Tunisia
Mohamed Bouazizi, venditore ambulante di verdure di Sidi Buazid, si da' fuoco davanti al
Governatorato per protesta contro la mancata possibilita' di potere esercitare il suo lavoro.
La protesta si propaga in tutto il Paese
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29 dicembre 2010, Algeria
L'innalzamento dei prezzi di alcuni generi alimentari innesca una serie continua di proteste
popolari. Ci saranno nei giorni successivi almeno 11 tentativi di suicidi per protesta (4
moriranno)
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14 gennaio 2011, Giordania
Dopo la preghiera del venerdi' sindacalisti e partiti di sinistra manifestano in varie citta' del
Paese contro la politica del Governo e chiedono le dimissioni del Primo Ministro
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17 gennaio 2011, Mauritania
Per protesta contro la politica del Presidente un manifestante, Yacob Ould Dahoud, si da'
fuoco davanti al palazzo presidenziale
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17 gennaio 2011, Oman
Qualche centinaio di manifestanti inscena proteste per strada per rivendicare un aumento dei
salari e l'abbassamento del costo della vita
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21 gennaio 2011, Arabia Saudita
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La minoranza sciita protesta nella regione orientale per chiedere la liberazione di attivisti
imprigionati. Benche' la manifestazione fosse pacifica, i promotori della protesta, tutti
esponenti religiosi, vengono arrestati
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24 gennaio 2011, Libano
Iniziano le proteste popolari contro il sistema confessionale che ripartisce il potere nel Paese
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25 gennaio 2011, Egitto
Dopo varie proteste limitate e locali, iniziano le prime manifestazioni di massa in varie citta'
del Paese (soprattutto Cairo, Alessandria, Suez ). Due giorni dopo verra' presa d'assalto ed
incendiata la sede del Partito Nazionale Democratico
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26 gennaio 2011, Siria
Un manifestante, Hassan Ali Akleh, residente a Al Hasakah, si cosparge di benzina e si da'
fuoco per protestare contro il governo siriano. Seguiranno, giorno dopo giorno, crescenti
proteste contro il regime
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27 gennaio 2011, Yemen
Oltre 15000 manifestanti a Sana'a ed altre decine di migliaia in altri parti del Paese
protestano nelle strade contro il regime e, soprattutto, contro la possibilita' che il Presidente
Saleh trasmetta il potere in forma ereditaria al figlio Ahmed
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28 gennaio 2011, Palestina
Si verificano proteste a cavallo dei negoziati tra Hamas e Fatah
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30 gennaio 2011, Marocco
Iniziano le prime proteste per richiedere riforme democratiche nel Paese
4 febbraio 2011, Bahrein
Centinaia di persone si riuniscono davanti alla sede dell'ambasciata egiziana per dimostrare
solidarieta' ai manifestanti anti-governativi del Cairo
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14 febbraio 2011, Iran
A seguito delle notizie provenienti dall'Egitto e alla defenestrazione di Mubarak, si
verificano manifestazioni a Isfahan che poi degenereranno in scontri ed arresti. In
contemporanea altre manifestazioni avverranno a Teheran ed in altre parti del Paese.
Seguiranno ulteriori arresti di oppositori
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15 febbraio 2011, Libia
Alcune centinaia di persone manifestano a Bengazhi contro l'arresto dell'avvocato Fathi
Terbil, difensore dei familiari dei detenuti morti ad Abu Salim, nonche' esponente di rilievo
nella difesa dei diritti umani. Le forze di sicurezza intervengono brutalmente per
interrompere la manifestazione
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17 febbraio 2011, Iraq
Manifestazioni di protesta a Wassit, a sud di Baghdad, per la mancanza di elettricita' ed
acqua. Incendiati due palazzi governativi. Feriti ed arresti. Si protesta anche contro la
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corruzione nel governo. A Sulemanyah, nel Kurdistan iracheno, nelle proteste che prendono
origine dalla richiesta di riforme e contro l'inflazione, muore un manifestante e 33 persone
sono ferite
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18 febbraio 2011, Kuwait
L'emiro Sheykh Sabah al Ahmad al Jaber al Sabah, per prevenire eventuali proteste popolari
di ordine economico, elargisce ad ogni suddito la somma di 4.000 $ (ufficialmente un
contributo in occasione del ventennale per la liberazione del Paese all'occupazione
irachena). Il giorno dopo, per protesta contro questo spreco di denaro, migliaia di persone
scendono in strada a protestare indirizzando parte del risentimento popolare contro il
governo del Primo Ministro Nasser al Mohammed al Ahmad al Sabah
ANALISI DELLA FATTUALITA' E DELLA CRONOLOGIA
La prima osservazione e' che le rivolte nei vari Paesi arabi, benche' cadenzate nel tempo in modo
ravvicinato (e quindi legate fra loro da un rapporto di causa ed effetto), prendono spunti da istanze
diverse anche se talvolta concatenate tra loro: un malessere sociale, una rivendicazione economica,
una istanza di democrazia, una richiesta di diritti, una protesta per liberta' civili, la lotta delle
minoranze religiose.
L'effetto domino si riscontra anche nelle modalita' di protesta: colpisce il comportamento per
imitazione che porta a simili tentativi di suicidio in Tunisia, Algeria, Mauritania, Siria.
Altra considerazione deve essere fatta tra l'inizio delle proteste ed i risultati che non sempre
produrranno. Le varie storie nazionali hanno quindi avuto esiti diversi:
in Tunisia c'e' stato un processo democratico che si sta completando in modo tutto sommato
pacifico,
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in Algeria niente e' cambiato (nonostante le proteste avessero inizialmente avuto una
particolare violenza),
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in Libia c'e' stata una guerra civile che ha cambiato il regime, ma non ha ancora prodotto
una pacificazione sociale,
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in Marocco le istanze popolari sono state assecondate attraverso cambiamenti costituzionali
e quindi pilotate pacificamente dalla monarchia,
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in Egitto al ruolo dei militari ed alla loro influenza nelle vicende politiche del Paese si e'
sostituita una nuova dirigenza teocratico-centrica comunque legittimata dalle elezioni,
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in Mauritania piccole concessioni economiche hanno smorzato ogni rivendicazione di
piazza,
in Yemen si e' riusciti ad allontanare il Presidente Saleh senza ulteriori spargimenti di
sangue (vedasi comunque il ruolo saudita di mediazione e la constatazione che le istanze popolari si
sono poi esaurite con il cambio di regime),
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in Siria il regime si e' sempre piu' arroccato su posizioni oltranziste usando violenza e dando
spazio ad una guerra civile,
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in Giordania le proteste popolari hanno portato alla caduta del Governo, ma la richiesta di
ulteriori liberta' costituzionali si e' trasformata in una lotta fra filo-monarchici e riformisti,
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in Libano le proteste per una diversa impalcatura istituzionale sono state poi sopravanzate
da maggiori preoccupazioni per gli eventi siriani e le possibili ripercussioni sul proprio territorio,
come poi la recente uccisione del capo dei Servizi interni Wassan Hassan ha ampiamente
dimostrato,
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in Arabia Saudita la ribellione sciita e' stata debellata con l'uso della forza e le istanze a
favore di maggiori liberta' sono state in buona parte represse e poi in parte minimamente concesse
(vedasi la promessa di voto alle donne)
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in Oman le rivendicazioni economiche della popolazione hanno prima incontrato la
repressione del governo, ma sono poi state accordate anche perche' in quel contesto non e' mai stata
messa in discussione l'autorita' del Sultano Qabus,
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in Iraq l'endemica instabilita' del Paese non ha dato spazio all'accoglimento di richieste
economiche, ne' di istanze sociali e ne' si e' trovato spazio per riforme adeguate (nonostante il 15
dicembre 2011 si sia chiusa ufficialmente la presenza americana nel Paese),
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in Iran la conflittualita' tra riformisti e conservatori, le tensioni tra Khamenei e
Ahmadinejad e tra clero e laici hanno nei fatti diluito le istanze della societa' civile trasformandole,
anche se forse involontariamente, in una faida all'interno del regime. Gli apparati di sicurezza hanno
avuto poi mano libera nella repressione,
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in Bahrein la rivolta sciita e' stata risolta manu militari con l'intervento di reparti sauditi ed
emirensi a protezione del regime sunnita di Hamad al Khalifa
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in Kuwait le proteste hanno portato allo scioglimento del Parlamento
in Palestina l'accordo tra Hamas e Fatah ha poi disinnescato molte proteste e contrasti anche
se la conflittualita' tra le due anime della diaspora palestinese e' tuttora molto accesa.
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In tutte le situazioni esaminate non vi e' stata una correlazione tra il livello di violenza della protesta
e la qualita' dei risultati ottenuti. Al contrario, esiste invece in maniera piu' accentuata una
correlazione tra la repressione dei regimi e la conseguente limitatezza dei risultati acquisiti. Questo
e' un dato che appare sempre piu' evidente in quanto ci troviamo, nella quasi generalita' dei casi in
esame, di fronte a regimi autoritari che secondo le proprie convenienze hanno fatto uso della forza
in modo indiscriminato.
Un altro elemento di interesse e' constatare che i regimi guidati da monarchie legittimate anche sul
piano religioso hanno saputo meglio affrontare le turbolenze sociali della primavera araba. Ne fa
fede quel che e' successo in Marocco (monarchia alawita), in Oman (sultano ibadita), in Arabia
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Saudita (monarchia wahabita), in Giordania (monarchia hashemita) e tutto sommato anche nella
teocrazia iraniana.
Di converso i regimi militari (Siria , Egitto, Yemen) sono quelli che hanno affrontato la protesta con
meno duttilita' negoziale e quindi sono stati coinvolti in una repressione sanguinaria.
Una ultima osservazione va fatta su quello che e' stato ottenuto dalle proteste popolari nei vari Paesi
arabi. Levati il caso della Tunisia e dell'Egitto (a cui aggiungere la Libia nonostante l'intervento
esterno), negli altri Paesi arabi, sia che ci riferisca a istanza sociali e/o economiche e/o politiche,
molto e' stato chiesto dai vari manifestanti, ma poco e' stato ottenuto. La risposta a questa
circostanza bisogna trovarla focalizzando il contesto sociale in cui si sono verificate queste proteste.
Infatti :
la mescolanza, all'interno delle varie manifestazioni nazionali di protesta, di istanze di
liberta' e richieste di natura economica ha fatto si' che le prime siano state penalizzate dalle seconde
e che quindi, prosaicamente, l'ottenimento di vantaggi economici abbia piu' volte disinnescato le
proteste stesse. Mancava quindi, nell'ambito delle singole manifestazioni nazionali e poi nel mondo
arabo nel suo complesso, un comune denominatore di riferimento. L'effetto domino si e' quindi
innescato sulla volonta' comune di protesta, ma non sulla qualita' delle stesse. Di conseguenza, la
spinta propulsiva della primavera araba si e' poi dispersa nella specificita' delle varie rivendicazioni
nazionali;
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a fattor comune, nella popolazione del mondo arabo e' mancata quella consapevolezza nelle
aspirazioni e nelle istanze che si acquista attraverso un lento processo di democratizzazione della
societa'. Nei Paesi in considerazione la democrazia non e' un valore di comparazione in quanto non
e' mai stato iniziato questo processo. Si tratta di Paesi passati dalla fase coloniale a quella postcoloniale in modo prevalentemente autoritario. La democrazia mai sperimentata non e' quindi un
valore di riferimento, non se ne conoscono pregi o limiti, non costituisce particolare sensibilita'
nell'immaginario del singolo. Quello che divulgano i mass media con la globalizzazione delle
comunicazioni e delle notizie possono alimentare nell'arabo un concetto di societa' diversa dalla
propria, ma piu' per gli aspetti estetici che non per quelli afferenti le liberta' individuali. E quando
non si ha una contezza di quello che si vuole, rimane difficile chiederlo o ottenerlo e magari, se del
caso, concederlo;
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la societa' che il manifestante arabo anela ad ottenere dopo la rivolta alla fine non e' molto
diversa da quella contro cui combatte. Vuole il piu' delle volte il cambiamento del regime, ma se
cio' avvenisse il nuovo regime alla fine manterrebbe tutti i limiti comportamentali che ne
caratterizzavano il precedente: l'autorita' esercitata con la forza, la scarsa considerazione per chi si
oppone o contesta , negazione – all'occorrenza – di quei diritti inalienabili in un contesto sociale
democratico. In altre parole, il manifestante si pone il problema di un cambiamento di regime, ma
non si pone il problema (mancandogli le esperienze culturali specifiche) di come sara' il nuovo. I
suoi modelli di riferimento sono alquanto limitati al riguardo. Non e' escluso che alla dittatura di
Gheddafi domani possa avvicendarsi un'altra forma di autorita' egemone e probabilmente
scarsamente democratica. Quando si prefigura un nuovo modello di societa', l'arabo, per sua
esperienza pregressa, assimila la gestione del potere all'utilizzo della forza e non, come sarebbe
auspicabile, alla ricerca del consenso.
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Quello che nel mondo occidentale viene definita "opinione pubblica" , intendendo con tale
termine il comune sentire della popolazione e il volere della maggioranza, e' un altro dei valori di
riferimento che manca, nella stragrande generalita', all'arabo della primavera araba. L'opinione
pubblica viene identificata con il compagno che protesta con lui ma non include, nel suo pensiero,
che un'altrettanta opinione pubblica possa contrastare la sua idea.
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Quindi, l'insieme di queste affermazioni postula che dalla cosiddetta primavera araba non e'
arrivato un beneficio significativo alla diffusione della democrazia, inteso come valore universale,
in questa parte di mondo.
Poi bisogna considerare che ogni cambiamento di regime, se avviene in modo brusco, con l'uso
della forza e non attraverso un lento processo di assimilazione, genera instabilita'. Ed e' questo il
rischio potenziale maggiore che puo' generarsi dall'ondata di proteste della primavera araba. Sinora,
laddove i cambi sono stati radicali, Libia in primis ed Egitto in quota parte, la pace e la sicurezza
sociale sono state penalizzate. Fa eccezione la sola Tunisia (che non costituisce regola) per una
serie di motivazioni particolari (si tratta di uno dei Paesi socialmente piu' emancipati del mondo
arabo, risente in particolare dell'influenza europea anche per gli effetti del turismo, ha potuto
contare sulla saggezza di un leader carismatico). Domani se lo stesso processo si compira' in altre
nazioni arabe ci si deve aspettare molti piu' problemi sociali che soluzioni. Ci si domanda quindi se
sia stato un bene o un male che alcune primavere arabe non abbiano raggiunto il loro obiettivo
sociale.
La primavera araba, nella sua definizione, implica il risveglio delle coscienze delle popolazioni
arabe alla ricerca di giustizia e liberta' e quindi, costituisce di per se', dal punto di vista concettuale,
un evento positivo. Nella pratica si e' sicuramente enfatizzata la circostanza soffermandosi meno
sulle implicazioni che una primavera araba compiuta avrebbe potuto produrre sugli equilibri in
Medio Oriente e Nord Africa, sulla stabilita' del mercato del petrolio, sul controllo dei gasdotti, sul
fenomeno e i flussi dell'immigrazione clandestina, sulla situazione geo-strategica che vede il mondo
diviso comunque in sfere di influenza, sugli equilibri militari tra Paesi regionali, sulla conflittualita'
tra sunniti e sciiti e di conseguenza anche sulla sicurezza dei cristiani, sulla protezione delle rotte
marittime nel Golfo Persico e nel canale di Suez, sulla propagazione del terrorismo che si alimenta
sulla instabilita' delle regioni, sulla conservazione di confini ed entita' nazionali in buona parte
artificiosamente costituiti su spartizioni neo e post colonialiste, sull'incidenza di un mercato
finanziario che vede immensi capitali provenienti dal commercio delle risorse energetiche, sulla vita
di tutti i giorni di un cittadino arabo comune che si attendeva un miglioramento della propria vita in
termini di liberta' e sicurezza e che invece probabilmente non otterra'.
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LA LIBIA DI GHEDDAFI E QUELLA DI OGGI
Il potere di Gheddafi dopo il colpo di Stato del primo settembre 1969 era stato strutturato su una
serie di iniziative tese ad assicurarsi il controllo del territorio e soprattutto di una popolazione,
peraltro numericamente limitata, su un territorio alquanto esteso.
LE KABILE
La prima mossa di Gheddafi era stata quella di assicurarsi il sostegno delle kabile, cosi' come
vengono chiamate in Libia le tribu' di origine beduina che popolano il Paese. Lui stesso beduino,
aveva saputo muoversi in questo contesto con particolare destrezza.
Aveva elargito prebende, favorito matrimoni di interesse, conferito cariche sempre con l'unico
scopo di assicurarsi il sostegno dei capi kabila e delle loro tribu'. Provenendo da una kabila del
Fezzan centrale (il Fezzan rappresenta arealmente il 33% del Paese), era piu' facile a Gheddafi
operare anche nel contesto della storica rivalita' tra le popolazioni della Cirenaica (51% del Paese) e
quelle della Tripolitania (16% del Paese). Chi non aderiva a questo mercimonio, veniva poi
emarginato (nel caso migliore) o eliminato (caso piu' ricorrente).
Le kabile della Cirenaica erano quelle potenzialmente piu' ostili al regime perche' legate alla
Confraternita della Senussia e alla precedente monarchia, per cui erano subito diventate oggetto di
discriminazione e persecuzione. La stessa Cirenaica veniva - per punizione - sistematicamente
esclusa da ogni investimento o beneficio finanziario e non sara' quindi un caso che nel 2011 la
rivolta contro il regime partira' proprio da questa regione.
Le kabile libiche sono circa una cinquantina a cui poi vanno aggiunte le sottokabile, le federazioni
di kabile e vari sottogruppi. L'abilita' relazionale di Gheddafi faceva si' che ognuna di queste entita'
avesse poi a livello centrale un rappresentante di prestigio.
A parte la kabila di appartenenza - la "Qadadfa" stanziale nell'area della Sirte che ovviamente
godeva di una posizione di privilegio - che aveva un maggior numero di personaggi nei posti chiave
(i cugini Ahmed e Said Gheddafeddam, Ahmed Mohammed Ibrahim, Mohammed Masoud Al
Majdud etc.), altre kabile che risultavano particolarmente schierate nel sostegno al regime erano :
I "Warfalla" di Bani Walid, la piu' grande kabila nel centro nord del Paese che forniva
l'ossatura dell'esercito e della sicurezza del dittatore ;
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I "Magarha", la piu' grande kabila del sud ovest della Libia (nord Fezzan) e peraltro la piu'
numerosa del Paese (circa il 10% della popolazione) a cui apparteneva Abdel Salam Jalloud (ex
numero due del regime) ed il cognato del dittatore, Abdallah Senussi (marito della sorella della
seconda moglie di Gheddafi);
−
I "Barasa", una kabila stanziale nella Cirenaica (intorno a Al Baida), inizialmente ostile al
regime ma poi affiancata al potere dopo il matrimonio di Gheddafi con Safia Sarkash, sua seconda
moglie;
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Parte degli "Obeidat", una kabila stanziale intorno a Benghazi e Tobruk, il cui maggiore
rappresentante era il Ministro degli esteri Abdullati al Obeidi;
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I "Jawari" della Tripolitania, da dove provenivano due altri membri del Consiglio
Rivoluzionario: Kweldi al Humaidi e Mustafa al Kharroubi.
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Come gia' enunciato, le altre entita' tribali che non sostenevano Gheddafi erano nei fatti escluse da
ogni spartizione di potere e/o denaro (vedasi i "Magharba" e gli " Awlad Suleimann" in Cirenaica, i
"M'nifa" nel Huan Waddan).
GLI STRUMENTI DI REPRESSIONE
La seconda leva che utilizzava a piene mani il dittatore per controllare il Paese era la repressione.
Opposizioni, anche se pacifiche, non avevano spazio nell'immaginario di Gheddafi. Chi si
permetteva di contestare il suo potere veniva eliminato o incarcerato. Per rendere efficace questo
sistema di repressione venivano utilizzati i Servizi di sicurezza : l'Internal Security Service ( Jihaz al
Aman al Dakili) ultimamente guidato da Khaled Tuhami, l'External Security Service ( Jihaz Al
Aman al Kharigi) negli ultimi anni gestito da Abu Zied Durda, il Military Security Service (Jihaz Al
Aman Akaria), ultimamente ritornato sotto il controllo assoluto di Abdallah Senussi.
Il primo organismo operava incontrastato sul territorio nazionale raccogliendo informazioni sui
cittadini libici e gli stranieri, svolgeva attivita' di controspionaggio e controterrorismo.
Il secondo organismo era invece dedicato al contrasto alle minacce esterne, ma soprattutto - specie
nei primi periodi della dittatura - alla ricerca ed eliminazione degli oppositori all'estero. Questa
seconda attivita' era prevalentemente fiorente quando l'E.S.S. era diretto da Mussa Kusa tra il 1994
al 2008, ora defezionato in Inghilterra. La data di inizio della caccia agli oppositori viene indicata
nell'11 giugno 1980, in occasione del decimo anniversario della cacciata degli americani dalla base
aerea di Whelus Field, data ultimativa indicata dal regime per il rientro dei dissidenti in Libia.
L'Intelligence militare era invece dedicato a controllare le Forze Armate che, comunque, Gheddafi
aveva scientemente mantenuto sempre a un basso livello operativo memore del fatto che lui stesso,
a suo tempo, aveva ordito il colpo di Stato nel suo ambito.
IL CONTROLLO DELLE MOSCHEE
Gheddafi temeva un'opposizione che potesse prendere connotazioni religiose soprattutto perche' la
precedente monarchia, da lui defenestrata con il colpo di Stato, si identificava con la Confraternita
della Senussia, molto diffusa in Cirenaica, portatrice di un Islam ortodosso (il suo fondatore,
Mohammed bin Ali al Senussi, aveva avuto contatti con il wahabismo saudita) e di un sistema
sociale articolato su fattorie di lavoro (generalmente agricolo) denominate "zawiya". Dopo aver
espropriato tutti i beni della Chiesa cattolica (ad eccezione di due modeste chiese in Tripoli e
Benghazi - l'attuale grande moschea della capitale e' una trasformazione della precedente cattedrale)
perche' religione ritenuta collusa con il pregresso regime coloniale, il leader libico aveva fatto
altrettanto con le proprieta' della Confraternita.
Le strutture religiose di quest'ultima erano poi confluite in una neo-creata organizzazione, il "Dawa
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al Islamiya" ( "Appello Islamico") che controllava l'attivita' delle moschee, presiedeva alla
formazione degli ulema, controllava la stampa islamica, ma soprattutto era cintura di trasmissione
del consenso tra il regime e la comunita' religiosa del Paese. Questa organizzazione, creata nel 1970
come emanazione libica del Consiglio mondiale dell'Appello Islamico che a sua volta e' una branca
dell'O.C.I. (Organizzazione della Conferenza Islamica), aveva anche lo scopo della diffusione
dell'Islam e dei dettami del Libro verde nel mondo, di creare rapporti di collaborazione con altri
organismi similari stranieri e, soprattutto, costituire elemento di penetrazione politico-religiosa del
regime verso l'estero. Nei primi anni della sua attivita', il Dawa Islamiya era anche strumento di
destabilizzazione verso quei Paesi ritenuti ostili alla Libia ed era risultata coinvolta anche
nell'individuazione ed eliminazione dei dissidenti all'estero.
Come un po' tutti gli organismi emanati dal regime, nella variegata formula di compiti e funzioni
anche questa struttura assicurava al regime sostegno interno ed estero. Non casualmente il Dawa
Islamiya era coadiuvato nelle sue attivita' da un "Ufficio dei Movimenti Rivoluzionari Islamici" e
coordinava le sue iniziative con altri organismi di supporto al regime (Servizi di Sicurezza, Comitati
rivoluzionari, Centro studi e ricerche sul Libro Verde, Segretariato permanente del Congresso del
Popolo, Mathaba).
LE FORZE MILITARI DI SICUREZZA
Avendo preso il potere attraverso un colpo di Stato in ambito militare, Gheddafi aveva sempre
temuto che un esercito forte ed efficiente potesse non essere un elemento di stabilizzazione del suo
potere ma, al contrario, un elemento di potenziale pericolo per la sopravvivenza del regime. Per tale
motivo, dopo il 1969, le FF.AA. libiche sono sempre state tenute ad un basso livello di operativita'.
La catena di Comando faceva comunque sempre riferimento al Rais attraverso un Comitato
Generale provvisorio per la Difesa (equivalente di un omonimo Ministero) guidato da un Segretario
generale del Comitato Provvisorio della Difesa (Ministro) nella persona di un suo fedelissimo della
prima ora, il Generale Abu Bakr Younes Jaber, membro del Consiglio del Comando Rivoluzionario.
Dal punto di vista militare chi presiedeva alla difesa del regime erano le cosiddette "Forze di
Sicurezza", cioe' reparti di e'lite, ben armati ed addestrati ma soprattutto composti da uomini di
specchiata fedelta' al regime (quindi con un reclutamento incentrato su base tribale) che
ovviamente, bypassando ogni eventuale dipendenza gerarchica, rispondevano del loro operato
direttamente a Gheddafi.
Nel particolare, c'era la Guardia Repubblicana (circa 3000 uomini equipaggiati con carri armati,
sistemi missilistici e semoventi, articolati su 2 brigate, una a Tripoli e una a Benghazi), le Forze di
deterrenza (dedicate alla difesa delle installazioni sensibili, soprattutto nell'area della capitale), il 9^
reggimento (dislocato a Tripoli e dotato di sistemi d'arma meccanizzati e di controcarri), le unita' di
sicurezza (battaglioni di fanteria leggera incaricati di garantire la sicurezza durante gli eventi in cui
partecipava Gheddafi), la 32^ Brigata (di circa 10.000 uomini) comandata dal figlio di Gheddafi, il
capitano Khamis Muammar al Gheddafi (poi presumibilmente morto in combattimento il 29 agosto
2011). Un totale di 15.000/18.000 uomini, tutti volontari, su un Esercito a coscrizione obbligatoria
(denominato "popolo in armi") di circa 60/70.000 effettivi a cui aggiungere circa 6/8.000 uomini
della Marina, 6/8.000 dell'Aeronautica e 12/15.000 della Difesa Aerea. A queste forze in armi
bisognava comunque aggiungere circa 12.000 della Polizia, le guardie confinarie, la guardia
costiera (poi inglobata nella Marina). Quindi altri 25/30.000 uomini che comunque, a diverso grado
di fedelta', potevano sostenere il regime.
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IL SISTEMA ISTITUZIONALE
Nel dicembre del 1969, a tre mesi dalla rivoluzione, la Libia emanava una nuova Costituzione
basata su 37 articoli che delineavano i nuovi principi ispiratori del nuovo regime (panarabismo,
anti-imperialismo, nazionalismo). Si introduceva il principio generale del potere al popolo, si
indicava l'Islam come religione di Stato, la solidarieta' sociale, l'uguaglianza dei cittadini di fronte
alla legge, il diritto al lavoro, l'istruzione obbligatoria gratuita, la famiglia come elemento fondante
della societa', il diritto all'assistenza sanitaria, la liberta' di opinione (naturalmente nei "limiti" del
pubblico interesse e dei principi rivoluzionari), un sistema economico di tipo socialista (preminente
proprieta' pubblica, proprieta' privata tollerata solo se non configurante un sistema di sfruttamento e
intervento diretto dello Stato con pianificazione centralizzata ed espropri per pubblica utilita'). Si
introduceva anche l'idea di una riunione delle masse arabe, ora divise dalle artificiose frontiere postcolonialiste, in quella visione utopica che negli anni ha sempre contraddistinto le iniziative
internazionali di Gheddafi.
Il 2 marzo del 1977 venne invece promulgata una Dichiarazione sulla "Istituzione dell'autorita' al
popolo" che introduceva due principi fondamentali : l'autorita' spetta al popolo (quindi potere alle
masse), la democrazia diretta e' considerata l'unica forma di gestione della cosa pubblica. Da
entrambe queste due premesse venne poi articolato il sistema dei Congressi e dei Comitati che gia'
era stato delineato nel Libro Verde di Gheddafi del 1973 come unica soluzione del problema della
democrazia.
La Dichiarazione del 1977 specificava (art. 3) che il potere del popolo doveva essere esercitato
attraverso i Congressi Popolari, sindacati, federazioni, le unioni, le associazioni professionali ed il
Congresso generale del Popolo. Nella pratica si creava un sistema piramidale di aggregazione e di
partecipazione popolare a vari livelli partendo da Congressi popolari di base (con una loro
segreteria e un comitato popolare di base come organi esecutivi) fino ad arrivare, attraverso
organismi territoriali similari, al Congresso Generale del Popolo (alias Parlamento, organismo
unicamerale composto da 760 persone con mandato annuale), un Segretario del Congresso Generale
del Popolo (alias Presidente del Parlamento) ed a un Comitato Generale del Popolo (alias Governo)
presieduto da un Segretario del Comitato generale (alias Primo Ministro) e composto da tanti
Comitati generali del popolo (quanti i ministeri di volta in volta designati).
Una struttura piramidale che partiva dai quartieri ("mehallat", circa1.500), ai Comuni (oltre 400), ai
distretti (Sha'biyah, 32 in totale) per arrivare al vertice politico del Paese. Quindi un
coinvolgimento, sia spontaneo che forzato, di un'enorme massa di persone a fronte di una
popolazione alquanto limitata (6.173.579 secondo i dati del 2008) e di un territorio enorme
(1.759.540 kmq).
Con questa struttura capillarmente presente su tutto il territorio Gheddafi aveva l'opportunita' non
solo di rendere operante la trasmissione del consenso, ma soprattutto di monitorare eventuali
apparizioni di dissenso. Nessun partito era autorizzato ad operare nel Paese.
Il sistema istituzionale della Libia (la Grande Jamahiriya Araba Popolare Socialista come andra'
chiamarsi ufficialmente dal 1977) non prevedeva la carica di Capo dello Stato, incarico comunque
assolto "indirettamente" da Gheddafi nel suo ruolo di "Leader Supremo della Rivoluzione del
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Grande Fatah".
Dopo il tentato colpo di Stato dell'ottobre 1993 ed in occasione del 25ennale della Rivoluzione (1
settembre 1994), Gheddafi aveva inoltre annunciato la creazione delle "Guide sociali popolari
libiche". Guidate da un generale, formate da elementi influenti di varie kabile fortemente fedeli al
Colonnello, in ogni distretto (sha'biyah) svolgevano la funzione di "controllo" del tessuto sociale. Si
trattava in pratica di una ennesima misura messa in opera dal regime per controllare la popolazione
attraverso l'inserimento del sistema tribale nel complesso sistema amministrativo libico.
LA MATHABA
Nel 1982 Gheddafi aveva deciso la costituzione di un nuovo organismo denominato "Mathaba" (in
arabo "Ritrovo" o "Riunione") con lo scopo di creare un collegamento diretto tra la Jamahiriya e
vari movimenti rivoluzionari mondiali, nonche' provvedere al loro sostentamento ideologico e
finanziario. La Mathaba era anche etichettato come "Centro mondiale contro l'imperialismo, il
sionismo, il razzismo ed il fascismo". Non casualmente, la fondazione della Mathaba era avvenuta
in simultaneita' con altri Paesi co-fondatori : la Siria e l'Iran.
Questa struttura operava autonomamente all'interno del Ministero degli Affari esteri con un legame
diretto con l'External Security Service (sul piano operativo) e con "l'Ufficio per l'esportazione della
Rivoluzione" (preposto alla diffusione del Libro Verde) sul piano ideologico. I suoi uomini erano
dislocati nelle sedi diplomatiche estere con funzioni di "commissari politici". Erano dedicati anche
alla ricerca ed eliminazione degli oppositori all'estero.
Emanazione della Mathaba era stata la costituzione di una "Forza combattente rivoluzionaria" da
cui poi prendera' corpo l'idea della "Legione Islamica". Nel settembre del 1989, in occasione del
ventennale della Rivoluzione libica, era stato creato un reparto paramilitare denominato "Guardia
della Mathaba" composto da 4/500 individui appartenenti a movimenti stranieri, ma affiliati
all'organizzazione libica. La Mathaba poi era diventata nel tempo strumento essenziale di
finanziamento dei movimenti rivoluzionari stranieri in tutto il mondo (E.T.A. spagnola; I.R.A.
irlandese; Poder Popular in Argentina; la sinistra rivoluzionaria in tutta l'America latina in chiave
anti-statunitense; le minoranze musulmane in Guyana, Suriname e Trinidad Tobago; la A.N.C.
sudafricana, l'M.P.L.A. angolano ; la SWAPO namibiana ; il FRELIMO mozambicano etc). Era
quindi un veicolo di penetrazione e di ingerenza ideologica a livello mondiale, ma anche strumento
di repressione e controllo del regime.
I COMITATI RIVOLUZIONARI
Una nuova serie di strutture di supporto al regime furono create nel 1977 con la denominazione di
"Comitati Rivoluzionari" che, almeno nell'idea originaria, dovevano servire a diffondere le idee del
Libro Verde realizzando la rivoluzione prefigurata da Gheddafi monitorando organismi statali,
scuole, istituzioni, gli stessi congressi e comitati popolari, le Forze Armate e facendo, nel contempo,
opera di proselitismo.
I Comitati erano i cultori dell'ortodossia del regime, contro forme di tribalismo, ideologie
reazionarie o straniere, opposizione. Composti in prevalenza da giovani, su aggregazione piu' o
meno spontanea , nel tempo si sono evoluti da strumento di sostegno e proselitismo politico in
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strumento di intimidazione e repressione. Braccio armato del regime, implicati anche
nell'eliminazione degli oppositori all'estero, il loro potere e' diventato sempre piu' esteso e sempre
meno controllato parallelamente ad una escalation di abusi e soprusi.
Negli anni '80 la loro consistenza numerica era sull'ordine di qualche migliaio di uomini;
ultimamente - dati ufficiali del regime al riguardo - erano circa 30.000. I Comitati Rivoluzionari
rispondevano del loro operato direttamente a Gheddafi e nel tempo si erano inseriti anche nel
sistema giudiziario, creando i cosiddetti Tribunali Rivoluzionari.
Fra il 1987 ed il 1988 il loro approccio troppo invasivo nel sistema sociale libico aveva consigliato
il Rais a ridimensionarne il potere facendo transitare parte della loro attivita' sotto il controllo di un
neo-organismo denominato "Segretariato per la mobilitazione di massa e la leadership
rivoluzionaria". Anche il loro attivismo all'interno delle strutture di sicurezza e polizia veniva
ridimensionato. Ma comunque, nonostante alti o bassi del loro potere, i Comitati Rivoluzionari
rimanevano uno strumento in mano al regime da attivare in caso di necessita'. Nella ultima guerra
civile hanno combattuto fino all'ultimo a fianco dei reparti lealisti, come entita' paramilitari
macchiandosi spesso di episodi brutali.
IL RUOLO DELLA FAMIGLIA
Oltre agli storici compagni del Comando del Consiglio Rivoluzionario (Kweldi al Hameidi,
Mustafa al Kharroubi, Abu Bakr Youni) che garantivano a Gheddafi un sostegno fattivo
nell'esercizio del potere (ovviamente in regime di reciprocita' e complicita'), il Rais, che
ufficialmente non rivestiva alcun potere istituzionale, poteva contare sui membri della sua famiglia
come strumenti operativi delle sue volonta'. I suoi familiari erano quindi parte integrante del sistema
e del suo potere personale.
Gheddafi aveva 8 figli di cui 7 maschi e 1 femmina.
Il piu' vecchio era Mohammed, figlio della prima moglie di Gheddafi (Khaled Nuri Fateya) da cui
il leader aveva divorziato e per questo non aveva ruoli politici di prestigio. Ingegnere, considerato
un ottimo uomo d'affari, esercitava la sua attivita' principale nel settore delle telecomunicazioni.
Oltre allo strategico ruolo delle telecomunicazioni e dei collegamenti internet , il personaggio era
comunque elemento di contatto tra il regime e la classe imprenditoriale libica. Lui stesso aveva
sposato una ex compagna di universita', figlia di commercianti.
Seif al Islam era il primo figlio maschio della seconda (ed ultima) moglie di Gheddafi e quindi,
nella tradizione araba, era in pectore l'erede diretto del potere del padre. Su di lui si erano accentrati
piu' volte gli interessi degli analisti internazionali per individuarne il potere, le idee, le iniziative.
Presidente della "Gheddafi Charity Organization and Development Foundation" si era distinto per
iniziative di carattere umanitario nel mondo al fine di accentuarne la statura internazionale e, nel
contempo, con analoghe iniziative in ambito nazionale operava per disinnescare malumori sociali
(vedasi i contatti con i parenti delle vittime di Abu Salim, i contatti con le N.G.O. internazionali per
la questione dei diritti umani, le trattative con i ex terroristi detenuti del gruppo Islamico
Combattente Libico). Nel campo politico professava idee alquanto riformiste ed innovative
(Costituzione, democrazia, diritti umani), ma "pericolose" incontrando spesso l'opposizione piu' o
meno latente da parte di altri personaggi del regime. Laureato in Architettura, un master a Vienna in
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International Management, ha recitato nella parte finale del regime fino alla morte del padre il ruolo
che gli competeva come primo figlio maschio. Da politico (negli ultimi tempi, per dargli maggiori
ruoli politici, era stato creato giuridicamente un nuovo organismo denominato "Consiglio per la
Guida Sociale e Popolare" che lui doveva presiedere e che avrebbe dovuto presiedere a tutte le
iniziative politiche del Paese) e' dovuto diventare militare ed e' stato poi - forse ingiustamente indiziato per crimini contro l'umanita' presso il Tribunale Internazionale de L'Aia. Sicuramente, in
questo tipo di accuse, paga piu' per il suo ruolo di delfino che non per i suoi presunti misfatti.
Mutassim al Billah per anzianita' anagrafica veniva dopo Seif Al Islam ed al fratello aveva cercato
anche di contendere il ruolo di erede principale del padre. Presiedeva il Consiglio per la Sicurezza
Nazionale ed in tale veste recitava un incarico di spessore nell'ambito della sicurezza. Quindi,
rispetto al fratello "politico", lui era il fratello "operativo". Forse anche per questo, dopo la cattura,
e' stato subito eliminato.
I due fratelli maschi meno anziani, Saadi e Hannibal, erano quelli che piu' che un sostegno al
regime, creavano problemi alla famiglia. Saadi aveva il grado di Colonnello e un qualche non
meglio specificato incarico militare (veniva accreditato del comando di una "Joint Special Force"
composta da militari dell'Esercito/Marina/Aviazione di cui non era nota l'operativita'). La sua
notorieta' era legata soprattutto alla sue velleita' calcistiche. Aveva pero' il "pregio", ai fini della
sostenibilita' del regime, di aver sposato la figlia di Kweldi al Hameidi, membro del Comando del
Consiglio Rivoluzionario. Un matrimonio (peraltro abbastanza tribolato), ma che garantiva una
saldatura fra i personaggi di potere del regime. Hannibal, al contrario, era famoso solo per le
intemperanze di cui rendeva si protagonista in patria e all'estero. Al riguardo basta ricordare la
storia degli ostaggi svizzeri, iniziativa di ritorsione del regime per il suo arresto in Svizzera. (*)
Aisha Muammar era l'unica figlia femmina del Rais ed era molto legata al padre. Come avvocato
aveva partecipato al collegio difensivo di Saddam Hussein. Personaggio dal carattere forte e
combattivo, emancipata, dedita anche a iniziative umanitarie, assicurava al regime un sostegno
indiretto nel mondo femminile.
Seif Al Arab era un figlio dal ruolo alquanto defilato nell'ambito della famiglia. Non gli si
accreditava alcun ruolo nel sistema di potere della famiglia. E' stato il primo dei figli a morire nella
guerra civile, in silenzio e nell'ombra come praticamente aveva sempre vissuto.
Khamis era invece il figlio "militare" per eccellenza nell'ambito della famiglia. Il piu' importante
sotto questo aspetto. Comandava una Brigata di fedelissimi, la piu' efficiente dell'Esercito, che
garantiva la sicurezza del regime. Come peraltro prevedibile, Khamis morira' (almeno finche' questa
notizia non trovera' elementi sostanziali di smentita) nel corso di una operazione militare.
LA NEMESI DI UN REGIME
Il potere di Gheddafi aveva i suoi punti di forza in questo insieme di elementi e strutture che ne
assicuravano la solidita' e la continuita'. Tale potere non avrebbe potuto durare oltre 42 anni se non
fosse stato cosi'. Dopo la morte del dittatore nord-coreano Kim II Sung e di Omar Bongo del
Gabon, nelle statistiche del settore Gheddafi era il dittatore piu' longevo in servizio attivo.
Nella cosiddetta "primavera araba" che ha travolto alcuni Paesi del Nord Africa e del Medio
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Oriente, la Libia avrebbe sicuramente mantenuto il suo regime se non fossero avvenute circostanze
negative nei Paesi limitrofi (e quindi con le conseguenze di un effetto domino di natura esogena),
ma soprattutto se non fossero intervenute forze militari straniere a supporto dei rivoltosi.
L'andamento della guerra ha ampiamente dimostrato che Gheddafi aveva comunque sostegno
popolare (anche attraverso le kabile) e una conseguente forza militare.
Il limite del regime, per quanto sanguinario come quello di Gheddafi, e' stato nella difficolta' di
essere flessibile, di accettare nuove situazioni e/o di saperle affrontare. Un parametro ricorrente a
tutte le dittature dove prevale la logica della forza e della repressione a scapito del consenso.
Nel caso libico questa circostanza era aggravata dal fatto che Gheddafi aveva per se' e per il suo
ruolo un approccio messianico. Non poteva accettare che il suo popolo non si riconoscesse in lui. E
questo e' anche dimostrato dal fatto che Gheddafi non e' scappato davanti ad una sconfitta certa, e'
stato tra la sua gente fino alla fine, ha preferito il martirio al disonore, ha mostrato stupore di fronte
al rancore dei suoi aggressori che lo catturavano e lo stavano uccidendo.
Gheddafi si sentiva latore di un messaggio e un ruolo universale anche nel contesto internazionale.
Il suo filo-nasserismo iniziale, il panarabismo di molti anni, fino all'africanismo finale e al suo
procurato titolo di "Re dei Re" da parte di vari capi tribu' africani, viaggiavano sulla stessa
considerazione di se' stesso e conseguente approccio.
Gheddafi non era un personaggio da operetta come talvolta veniva descritto per le sue stravaganze
comportamentali o l'eccentricita' dei suoi abbigliamenti.
Aveva l'acume del beduino, sapeva fiutare situazioni e pericoli. Per questo, nella sua gestione del
potere, e' passato attraverso posizioni diverse, talvolta etichettate come imprevedibili o istrioniche,
ma sempre motivate dalla sopravvivenza del regime. E' stato terrorista e rivoluzionario, ma ha
anche combattuto il terrorismo. E' stato anti-americano a corrente alternata, laico e poi
fondamentalista islamico e poi islamico moderato. Ha accarezzato il sogno di una bomba nucleare e
poi se ne e' dissociato, ha fatto ammazzare i suoi oppositori all'estero e poi - nella parte finale del
suo regno - li ha perdonati. Ha combattuto i Fratelli Musulmani e poi li ha amnistiati, ha combattuto
contro il Gruppo Islamico Combattente libico e poi li ha graziati e liberati. E' stato tutto ed il
contrario di tutto. E' stato un dittatore, ma anche un fine politico. Sicuramente un personaggio
scomodo, anche per l'Italia, che si e' dovuta spesso confrontare tra preminenti interessi economici e
relazioni bilaterali difficili.
La sua scomparsa non pone, il linea di principio, problemi etici di rilievo. Un dittatore che
scompare puo' teoricamente migliorare il mondo. Affermazione di per se' ancora piu' valida se fosse
in essere un sistema internazionale di giustizia sociale che intervenisse con equita' di fronte ai vari
dittatori del mondo (il caso della Siria dimostra che cosi' non e').
LA LIBIA DI OGGI
Un Gheddafi morto lascia pero' dietro di se' un Paese ancora dilaniato da divisioni e prevaricazioni.
La Libia di oggi ha gli stessi limiti della dittatura precedente (violazione dei diritti umani, soprusi,
abusi) con l'aggiunta di un altro valore negativo: la mancata stabilita' sociale che, anche in modo
forzato, Gheddafi assicurava. Nella pratica, la Libia di oggi non sta meglio di quella di ieri.
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Nell'ultimo periodo del regime di Gheddafi, i detenuti politici erano circa 600. Oggi le persone
incarcerate dopo la guerra risulterebbero essere molte di piu'.
Si puo' arguire sul valore aggiunto di una dittatura che non c'e' piu', ma in una popolazione che non
ha mai goduto nella sua storia di un periodo democratico, questo valore potrebbe risultare
ininfluente. Il rischio e' che la Libia possa adesso transitare da una dittatura ad un altro regime
autoritario. Ed e' una circostanza fortemente probabile.
Inoltre, una Libia socialmente instabile, come oggi lo e', crea spazi operativi al terrorismo che si
giustifica nel fondamentalismo islamico. L'uccisione dell'ambasciatore americano, Chris Stevens,
l'11 settembre a Benghazi da parte di membri di "'Ansar al Sharia" lo dimostra ampiamente.
Ad oltre un anno dalla morte di Gheddafi, le milizie armate che hanno combattuto il regime
continuano ad operare indisturbate senza aderire, come richiesto dal governo, alla smobilitazione.
Ogni milizia, inoltre, tende a rappresentare gli interessi delle kabile di riferimento e quindi ad
inficiare la coesione sociale che ai tempi di Gheddafi, magari in modo magari irrituale, era
comunque garantita. Nel gioco delle vendette incrociate ed in applicazione di quella legge del
taglione tanto diffusa nelle popolazioni beduine della regione, continuano ad essere perpetrati abusi
e spargimenti di sangue incrociati.
Questo fa si' che le kabile piu' esposte nel difendere il regime del Rais siano adesso ancora ostili al
cambiamento non trovando spazio per una riconciliazione nazionale. Il caso recente di Bani Walid,
abitata prevalentemente dai Warfalla ed ancora fuori del controllo governativo e oggetto di un
attacco militare negli ultimi giorni, lo dimostra.
La corruzione - elemento sfruttato ad hoc da Gheddafi come elemento aggiuntivo di coesione
sociale - rimane oggi un fenomeno ampiamente diffuso per arricchimenti illeciti. Dei beni della
Libyan Investiments Authority, ente dedicato agli investimenti esteri del regime con un capitale
stimato di oltre 60 miliardi di dollari, si e' persa ampia traccia ora che la gestione e' passata in mano
alle nuove autorita'. Si litiga sulla creazione di un sistema federale, ma soprattutto sulla spartizione
dei proventi petroliferi tra regioni. In ultima analisi, nella Libia di oggi prevale il caos sociale e
finanziario, la diffusione del fondamentalismo militante e sovversivo, mancanza di sicurezza, una
societa' divisa e contrapposta.
------------------------------(*) 15 luglio 2008 : Hannibal e la moglie Alina risiedono in un albergo di Ginevra. Due domestici
alle loro dipendenze si recano alla Polizia per denunciare maltrattamenti. Quando i poliziotti si
recano in albergo vengono aggrediti dai coniugi Gheddafi e dalle loro guardie del corpo (queste
ultime armate con armi non denunciate all'arrivo in Svizzera). Dopo alcune collutazioni, Hannibal
e moglie vengono arrestati. Il giorno dopo verranno rilasciati su cauzione. Per Gheddafi padre
l'evento e' considerato un affronto. Ne sortira' una crisi tra Tripoli e Berna che durera' oltre 2 anni.
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TUNISIA: ANALISI DI UN BUON ESEMPIO
La rivolta tunisina nasce per caso il 17 dicembre 2010. Un venditore abusivo di verdure, Mohamed
Bouazizi, si vede sequestrare dalla Polizia le sue mercanzie. Non e' la prima volta che capita. Ma
questa e' l'unica sua fonte di reddito. Ha un diploma, vorrebbe o potrebbe fare lavori piu'
qualificanti, ma la disoccupazione, soprattutto giovanile, che affligge il suo Paese non gli permette
alternative. E' esasperato. Si reca davanti al governatorato di Sidi Bouzid e si da' fuoco. E' la
scintilla che fa scattare la rivolta contro il regime. La rabbia della popolazione si propaga in altre
zone: Kasserine, Jendouba e arriva fino a Tunisi.
Il Presidente Zine el Abidine Ben Ali, ex Capo dei Servizi segreti, era salito al potere come
Presidente dal 7 novembre 1987. Un colpo di Stato aveva defenestrato due anni prima Habib
Bourghiba, il fondatore della patria (con lui la Tunisia era riuscita ad ottenere l'indipendenza dalla
Francia il 25 marzo 1956) oramai malato e colpito da primi sintomi di demenza senile. Ben Ali
affronta inizialmente la rivolta con minacce di intervento armato, accusa i mass media stranieri,
promette dure sanzioni ai rivoltosi. Lo fa comparendo piu' volte alla televisione di Stato dove lancia
proclami e moniti.
Ben Ali ha sempre gestito il suo potere in modo assoluto, come ogni dittatore, e con mano pesante.
Ha nel tempo represso ogni forma di dissidenza e di opposizione. Non conosce nel suo repertorio
altri metodi per affrontare la piazza. Il suo maggiore oppositore, Rashid Ghannouchi, un islamico
gia' condannato a morte da Bourghiba (per un presunto tentativo di colpo di stato) e poi graziato,
fondatore di un partito poi messo all'indice, era stato costretto a scappare e a vivere in esilio a
Londra.
Ben Ali si era cosi' assicurato le benemerenze del mondo occidentale per aver combattuto il
fondamentalismo islamico, mentre nessuno poneva la dovuta attenzione agli abusi del suo regime e,
nel contempo, si curava del fatto che il Presidente governasse il suo Paese con i metodi tipici di una
dittatura. Ben Ali aveva peraltro frequentato corsi militari in Francia (scuola di artiglieria a Chalon
sur Marne), scuole militari e di intelligence negli U.S.A. (Scuola di artiglieria contraerea in Texas,
corso di senior intelligence in Maryland), era arrivato al potere con la benedizione ed il sostegno del
governo italiano (Primo Ministro Craxi, capo del SISMI, l'Ammiraglio Fulvio Martini), aveva fatto
l'addetto militare in Marocco e Spagna, era stato ambasciatore in Polonia. Era, nei fatti, una
garanzia.
Ben Ali era quindi un tiranno odiato dalla sua gente. Peggio di lui faceva la moglie, Leila Trabelsi,
che godeva di una pessima reputazione. Il suo clan familiare era accusato di corruzione e di
appropriazione di fondi pubblici. Proveniente da una famiglia di basso lignaggio (Leila esercitava la
professione di parrucchiera prima di incontrare Ben Ali e di sposarlo nel 1992), cultura alquanto
limitata, con il matrimonio la sua famiglia si era da subito dedicata all'arricchimento piu' o meno
lecito. Circondata da 10 tra fratelli e sorelle, non c'era affare di particolare appetibilita' finanziaria
che non passasse per i Trabelsi. Lei stessa ostentava una vita lussuosa ed atteggiamenti sprezzanti.
La forte differenza di eta' (lui nato nel settembre del 1936; lei nell'ottobre del 1956) rendeva
particolarmente efficace la sua presa ed influenza sulle decisioni del marito.
Dopo le minacce contro i manifestanti, rendendosi conto dell'ampiezza e determinazione della
protesta, Ben Ali ricompare in televisione utilizzando toni piu' moderati. Promette riforme
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istituzionali, maggiori liberta' individuali, l'utilizzo di internet senza restrizioni, ma soprattutto
promette di non ricandidarsi nel 2014 (con una riforma costituzionale del 2002 il suo mandato
poteva essere rinnovato - senza limiti temporali – all'infinito).
Ma le sue profferte non servono a niente e le proteste continuano: il 14 gennaio 2011 con la moglie
e tre figli se ne scappa in Arabia Saudita. Aveva inizialmente tentato di ottenere il diritto di asilo in
Francia, ma gli era stato rifiutato. Lascia dietro di se' un'ondata di violenze che in meno di un mese
aveva causato circa 200/250 morti tra i manifestanti disarmati nelle strade.
Ma la sua partenza non pone fine alla repressione: le milizie fedeli al regime continueranno a
sparare causando morti, feriti e dedicandosi con sistematicita' ad abusi e torture.
Il 15 gennaio Fouad Mebazaa, un vecchio personaggio legato soprattutto alla lotta per
l'indipendenza ed al periodo di Bourghiba con lungo pedigree di incarichi ministeriali e diplomatici,
viene nominato Presidente della Repubblica ad interim (incarico che manterra' fino al 12 dicembre
2011).
Il 17 gennaio 2011 viene formato un governo di unita' nazionale che comprende personaggi del
vecchio regime ed esponenti dell'opposizione. L'esperimento non ha successo: 5 ministri presentano
subito le dimissioni.
Nel Paese continua l'opera di smantellamento del vecchio regime: spariscono i ritratti dell'ex
presidente dalle strade, la televisione di stato cambia nome (la "Tunisie 7" - il numero ricordava la
data della sua presa di potere - diventa adesso solo "Television Tunisie'nne" ), i nomi toponomastici
delle strade associati al dittatore vengono cambiati.
Il 30 gennaio tornera' in patria Rachid Ghannouci dopo un esilio durato 22 anni passato tra Algeri e
Londra. Una folla acclamante lo aspetta all'aeroporto.
Le autorita' tunisine spiccano un mandato internazionale di arresto per Ben Ali e sua moglie. Le
accuse: alto tradimento, riciclaggio, appropriazione indebita dei beni dello Stato. Ben Ali viene
accusato di avere trasferito all'estero fondi, nonche' aver effettuato investimenti immobiliari, per
una cifra intorno ai 5 miliardi di euro durante i 23 anni del suo mandato presidenziale.
Il "Rassemblement Costitutionnel democratique" (R.C.D.), partito di regime (erede del vecchio
Partito Desturiano Socialista di Bourghiba), viene sospeso il 6 febbraio 2011 e poi sciolto il mese
successivo (9 marzo).
La situazione sociale rimane ancora molto critica, molti giovani tunisini tentano l'immigrazione
clandestina, via mare, verso l'Italia. Il 27 febbraio incominciano ad arrivare ondate di clandestini a
Lampedusa a bordo di natanti partiti dalla Tunisia, un esodo che fa proclamare all'Italia lo stato di
emergenza umanitaria.
Le manifestazioni per le strade non si placano ed il Primo Ministro Mohamed Ghannouchi
rassegna le dimissioni sempre il 27 febbraio (moriranno quel giorno 5 manifestanti). Personaggio
del vecchio regime, membro dell'R.C.D. (partito da cui si dimettera' nel gennaio 2011), piu' volte
ministro sotto Ben Ali (Ministro delle Finanze dal 1989 al 1992 per poi passare, fino al 1999, alla
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guida del dicastero della Cooperazione internazionale e degli Investimenti esteri e con una
successiva parentesi come Premier) era stato incaricato, dopo la fuga di Ben Ali, di guidare
(affiancato da un direttorio di 6 persone) la transizione democratica e la pacificazione nazionale. Ma
il personaggio non e' gradito alla gente, troppo compromesso con il vecchio regime, etichettato, a
livello popolare, come " M. Oui Oui" per la sua acquiescenza verso il dittatore.
Al suo posto subentra Beji Caid Essebsi, un anziano avvocato (nato nel 1926) ed uno dei primi
consiglieri di Buorghiba, piu' volte ministro (Ministro dell'Interno dal 1965 al 1969, Ministro degli
Esteri dal 1981 al 1986) e Presidente del Parlamento (1990/1991). Dopo il colpo di Stato di Ben Ali
era stato ambasciatore in Germania e nel 1994 aveva abbandonato il Parlamento per ritirarsi a vita
privata. Il tentativo e' sempre lo stesso: facilitare una transizione democratica nel Paese. Ed il
personaggio, proprio perche' meno legato al passato regime, risulta piu' gradito alla popolazione.
Il 3 marzo 2011 il Presidente Mebazaa ufficializza la tenuta delle elezioni parlamentari per la
nomina di un'Assemblea costituente (composta da 217 membri) da tenersi il 24 luglio. Ma questa
data verra' poi spostata al 23 ottobre per delle difficolta' nella compilazione delle liste elettorali.
Il 20 giugno 2011 Ben Ali e la moglie Leila, dopo un processo alquanto sommario basato su un
vecchio codice tunisino e senza possibilita' di difesa da parte degli imputati, ricevono una prima
condanna in contumacia a 35 anni per furto e appropriazione indebita di soldi e gioielli. Altri
processi paralleli si svolgeranno nei confronti di altri personaggi della famiglia Trabelsi, anche se,
in contemporanea con la fuga di Ben Ali, molti familiari di Leila erano gia' scappati all'estero
(Francia, Qatar, Arabia Saudita, Canada). Alla fine Ben Ali assommera' in totale 66 anni di carcere
dopo ulteriori provvedimenti giudiziari. La moglie viene nel frattempo accreditata di un tentativo di
suicidio.
Intanto proseguono sempre le manifestazioni e le proteste con ininterrotta intensita': il 17 luglio
2011 vengono attaccati edifici pubblici e stazioni di polizia: 4 agenti rimangono feriti. Il giorno
dopo un bambino di 14 anni rimarra' ucciso da un colpo vagante nei pressi di Sidi Bouzid dopo
ripetuti scontri tra la polizia ed i manifestanti.
Una grossa manifestazione avverra' l'8 agosto 2011 per impedire ai dirigenti del vecchio regime di
rientrare in politica ed il 2 settembre viene imposto il coprifuoco in diverse aree del Paese a seguito
di continui scontri e proteste. Una ragazzina di 17 anni morira' e ci saranno svariati feriti.
Ma nonostante tutto il processo di democratizzazione va avanti. Il 23 ottobre 2011 si tengono le
elezioni per l'Assemblea costituente con una forte partecipazione popolare. Votera' oltre il 90%
degli aventi diritto. E' il primo frutto di un risveglio sociale abbinato al desiderio di cambiamento.
Era dal 1956 che non si votava nel Paese.
Le elezioni avverranno con la presenza di 500 osservatori stranieri, le accuse di brogli sono limitate
e quindi la circostanza conferma sostanzialmente la regolarita' delle votazioni. I parlamentari
vengono eletti con il sistema proporzionale.
Vince il partito islamico moderato di Ghannouchi Ennahda ("la rinascita") che con oltre 1.500.000
preferenze su oltre 4 milioni di votanti ottiene 89 seggi su 217. Seguiranno:
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Il "Congresso per la Repubblica", un partito laico di centro-sinistra, con 29 seggi
La "Petizione Popolare per la liberta', la giustizia e lo sviluppo" (Aridha Chaabia in arabo), una
formazione populista creata solo qualche mese prima da un uomo d'affari residente a Londra che
otterra' 27 seggi (poi ridotti a 19 per irregolarita' finanziarie)
Il "Foro Democratico per il lavoro e le liberta'" (Ettakatol) di ispirazione socialdemocratica che
avra' 20 seggi
Infine si piazza con 16 seggi il "Partito Democratico Progressista" (formazione laica di centro)
poi una serie di formazioni minori.
Il 22 novembre 2011 i 3 maggiori partiti si accordano sulla spartizione degli incarichi: Hamadi
Jebali di Ennahda diventa Primo Ministro, Moncef Marzouki del Congresso per la Repubblica
diventa Presidente della Repubblica e Mustafa ben Jaafar dell'Ettakatol viene nominato Presidente
dell'Assemblea costituente. Aderiranno al governo anche alcuni indipendenti.
Rimangono pero' ancora da risolvere i grossi problemi che affliggono il Paese: corruzione,
disoccupazione, ordine pubblico. Manifestazioni e contro-manifestazioni si susseguono per le strade
di Tunisi. L'Assemblea costituente il 10 dicembre 2011 adotta una Costituzione provvisoria
("legge sull'organizzazione provvisoria dei poteri pubblici") e due giorni dopo Marzouki viene
confermato come primo Presidente eletto del Paese. Quest'ultimo dara' mandato a Ennahda, nella
persona di Hamadi Jebali, di formare entro 3 settimane un nuovo governo. Il primo febbraio 2012
Habib Khedher verra' nominato responsabile per la redazione della nuova Costituzione ed il 14
febbraio 2012 saranno poi nominate 6 Commissioni proprio per questa incombenza.
LA SITUAZIONE ATTUALE
Il processo di democratizzazione della Tunisia non si e' ancora completato. Non si e' completata la
riforma costituzionale che procede in modo accidentato ogni qual volta si cerca di limitarne
l'approccio libertario con l'inclusione di norme islamiche (un emendamento di Ennadha di
introdurre la Sharia il 3 marzo poi ritirato il 26 marzo, una proposta che attribuisce alla donna un
ruolo complementare a quello dell'uomo presentata il 6 agosto e poi ritirata sull'onda di proteste il
28 settembre).
Non sono neanche finite le manifestazioni e proteste che ciclicamente si verificano nel Paese
perche' non e' stata superata la crisi economica che comporta alti tassi di disoccupazione, specie
giovanile. Fenomeni sociali come la corruzione non sono stati ancora debellati.
Allora viene ovvio domandarsi dove possono trovarsi quegli elementi positivi che fanno sperare che
il caso Tunisia sia comunque da considerarsi uno degli esempi piu' riusciti della Primavera Araba.
Intanto vale sottolineare che ogni trapasso tra una dittatura ed una nascente democrazia non e' mai
indolore. C'e' chi vince e chi perde, c'e' un potere che si trasferisce in mani diverse, equilibri e
rapporti di forza che cambiano, gli abusi che vengono perpetrati da chi non hai mai goduto di
liberta' e non ne apprezza i limiti, istituzioni e strutture statali che collassano e che non trovano
subito adeguato rimpiazzo, caos sociale. Da tutto questo non se ne esce se non dopo un adeguato
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periodo di transizione perche' le modifiche in essere non riguardano solo le strutture, le formule
politiche, gli apparati dello Stato, ma anche gli uomini che sono preposti a realizzarle.
Ci sono uomini che passano da relazioni e comportamenti sociali in un contesto autoritario e
dispotico ad un'altra modalita' di inter-relazioni basate sul consenso, sull'importanza dell'opinione
pubblica, sul non-uso della forza e sul dialogo. Poi ci sono uomini che vengono da fuori, che nella
vita precedente avevano recitato un ruolo di opposizione illegale, sono portatori di nuove
esperienze, che adesso si confrontano con nuove responsabilita'. Ed e', senza andare lontano, il caso
di Rashid Ghannouci.
La strada che porta alla democrazia e' sempre lunga, segue percorsi tortuosi perche' non solo deve
cambiare le cose, ma deve anche cambiare le menti. Ed un'elezione popolare nel 2011, la seconda
dopo oltre 55 anni, non puo' costituire elemento probante di un comune denominatore della politica
di un Paese, ma deve essere significativa proprio come evento in se' stesso. Occorre il tempo perche'
anche il senso civico degli aventi causa faccia il suo corso.
Fatta questa premessa e' bene sottolineare quel che di positivo si ritiene ci sia nell'esperienza
tunisina:
il caso Ghannouci
la sua prima esperienza politica la fa sotto Bourghiba. Fonda un partito di ispirazione
islamica nel 1981 dopo precedenti infatuazioni politiche per il nasserismo il "Movimento di
Tendenza Islamica" (Harakat al Ittijad al islami ). Viene arrestato e condannato a 7 anni di
prigione. Viene liberato nel 1984 e arrestato nuovamente nel 1987. Questa volta la condanna
e' a vita per un presunto tentativo di colpo di Stato. Torna in liberta' con l'avvento di Ben Ali
e fonda Ennahda, ma dopo pochi anni e' costretto a rifugiarsi all'estero. Viene accusato
dalle autorita' tunisine di essere a capo di una formazione terroristica e come tale viene
considerato in buona parte del mondo occidentale.
Ha un curriculum che potrebbe portarlo, dopo il suo rientro in patria, ad un atteggiamento di
rivalsa verso il regime e/o l'Occidente ed a posizioni estremistiche sia in politica che nella
religione. Non lo fara' nemmeno di fronte ad un risultato elettorale che non solo lo legittima
alla guida del Paese, ma gli concederebbe il potere politico per farlo. Da simbolo della
resistenza alla dittatura, diventa invece uomo del dialogo. Si accorda subito con altri partiti
laici dell'Assemblea per favorire una transizione democratica nel Paese. Non si oppone
neanche, nel primo periodo delle rivolte, affinche' personaggi alquanto collusi col
precedente regime occupino temporaneamente incarichi pubblici. Il suo Islam politico e'
moderato. Predica la tolleranza e lo dimostrera' quando nella commissione incaricata di
redigere la nuova Costituzione si votera' per il mantenimento dell'articolo 1 cosi' come era
stato formulato da Bourghiba nel 1959: " La Tunisia e' uno Stato libero, sovrano, che ha
l'Islam come religione di Stato, l'arabo come lingua ufficiale ed e' una repubblica" (in realta'
un tentativo abortito di introdurre la Sharia da parte di Ennadha c'era stato, come
precedentemente segnalato, soprattutto per coprirsi politicamente dalle idee estremistiche
dei salafiti). L'impostazione laica dei precedenti regimi viene sostanzialmente confermata.
Gannouchi sa che la societa' tunisina ha fortemente assimilato questi concetti di laicita', sa
che il turismo e' una delle fonti di maggiore risorse finanziarie del Paese. Sa anche che la
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rivoluzione contro Ben Ali non l'ha iniziata Ennahda, ne' e' stata ispirata da istanze religiose.
E' stato il popolo a cacciare Ben Ali, non un'idea religiosa. Accetta quindi indirettamente che
altre istanze sociali siano rappresentate in questo cambiamento politico. Ghannouci sa che
oggi e' anche legittimato dai suoi trascorsi politici (ma non e' il solo che puo' contare su
questo pedigree) e dal fatto contingente che il suo partito gode di un'ampia simpatia per le
sue iniziative filantropiche, ma sa anche che la Tunisia deve guardare avanti.
Il ruolo delle Forze Armate
Le Forze Armate in Tunisia non hanno mai costituito, come nel vicino Egitto o in Algeria,
fulcro centrale del potere politico. Nel momento della rivoluzione i vertici militari si sono
tenuti fuori dalle contese politiche ed i soldati sono rimasti nelle caserme. Altrettanto hanno
fatto le Forze di sicurezza, salvo un iniziale sostegno a Ben Ali fino al momento della sua
fuga. Questa circostanza ha permesso il progredire della transizione democratica senza
particolari spargimenti di sangue.
Il programma di Ennahda
Ennahda si e' modulato sul pragmatismo del suo leader.
Il partito di Ghannouci ha vinto non solo perche' l'Islam e' e rimane, come dimostrato da
identiche vicende in altri Paesi arabi, l'unico elemento identificativo delle popolazioni di
questa parte di mondo. E' arrivato al potere democraticamente e democraticamente porta
avanti il suo programma nella consapevolezza che nel Paese esistono altre importanti istanze
politiche laiche. Il messaggio con cui Ennahda ha vinto le elezioni e' semplice : integrita' e
onesta', valori musulmani. Un Islam come garanzia di moralita'.
In altre parole, combina da un lato tradizione e innovazione e pone l'attenzione su quelli che
sono i mali endemici del Paese (corruzione, disparita' sociali, lotta alle lobby finanziarie,
disoccupazione, clientelismo). Il partito non si e' arroccato sulla rendita di posizione che
poteva derivargli da un appeal religioso, non ha fatto sfoggio di sola retorica, ma si e' voluto
subito confrontare con i problemi di tutti i giorni. Lo ha fatto potendo contare su
un'organizzazione capillare (comitati di quartiere, associazioni caritatevoli , contatti strette
con le moschee) che altre formazioni non avevano e quindi con una catena di trasmissione
diretta tra le istanze sociali del popolo e il conseguente programma politico. Inoltre,
elemento non irrilevante, Ennahda ha potuto contare su rilevanti finanziamenti provenienti
dai Paesi del Golfo.
Ennahda si e' posizionato nel contesto politico tunisino non come un partito in
contrapposizione ad altre idee, ma ha saputo subito assimilare sia il nazionalismo laico di
Bourghiba sia le istanze riformiste e di modernizzazione che sono prevalenti nella
popolazione. Riguardo ai diritti delle donne, Ennahda e' stato chiaro nel ribadire la loro
libera scelta nell'indossare o meno il velo, ma soprattutto non e' stato abrogato il diritto al
divorzio, introdotto dal codice di famiglia di ispirazione laica del 1959.
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Sul piano economico Ennahda e' si' favorevole ad una economia di mercato ma intende
aggiungervi un sistema di solidarieta' sociale. Una qualsivoglia forma di socialismo
musulmano. Ogni trattato internazionale pre-esistente e' stato confermato.
Il percorso democratico della Tunisia
La Tunisia ha scelto, come iter per raggiungere e completare un processo democratico, la
creazione di una Assemblea costituente. In questo e' stata imitata dalla Libia. Sotto questo
aspetto quindi Tunisi potrebbe costituire esempio per altri Paesi. Non si e' limitata ad
avvicendare una dirigenza con un'altra, ma intende modificare una impalcatura istituzionale
proiettandosi nel futuro.
Il ruolo dei Salafiti
I salafiti tunisini rappresentano, in Tunisia cosi' come altrove, un pericolo potenziale per la
democratizzazione del Paese ed ultimamente violenze sociali ed episodi di intolleranza da
parte di formazioni islamiche estremiste sono aumentate. Questo si verifica soprattutto
perche' il posizionamento di Ennahda verso un Islam moderato fornisce al fondamentalismo
islamico molto spazio politico.
E' pur vero che le frange piu' radicali di questo movimento si sono piu' volte distinte per
manifestazioni violente, cortei di protesta, incursioni nelle universita' ed altro, ma e'
altrettanto vero che la Tunisia viene da una lunga esperienza di laicita' con correlate liberta',
emancipazioni di genere, leggi sociali egualitarie.
I salafiti nel contesto politico tunisino oggi non superano i 10.000/15.000 adepti (quindi
numericamente non rilevanti) e sono divisi soprattutto tra "Hezb al Tahrir", una formazione
fuorilegge ma comunque tollerata, che predica l'instaurazione di un califfato e la stretta
applicazione della sharia, ed il Fronte della Riforma ("Al Islah"), guidato da Mohammed
Khoja, autorizzato dal Ministero dell'Interno ad operare legalmente l'11 maggio 2011 (e per
dare un senso al proliferare delle istanze democratiche del Paese, Al Islah era la 118ma
formazione politica autorizzata).
Ma alcune intemperanze (aggressioni verso le donne, proibizione dell'uso dell'alcol, discorsi
e sermoni estremisti dei loro leader, antisemitismo dichiarato) hanno forse dato a queste
frange politiche un interesse mediatico sicuramente superiore al loro peso nel panorama
politico tunisino. L'attacco all'ambasciata americana di Tunisi il 14 settembre 2012 da parte
di un'altra formazione estremista islamica, la "Ansar al sharia" guidata da Seif Allah ibn
Hussein, noto anche con il nome di Abu Iyad, e' un campanello di allarme di un equilibrio
instabile in cui si manifesta l'Islam, non solo come religione, ma anche come politica.
Quindi non solo un problema della Tunisia, che forse piu' di altre nazioni e' in grado di
esorcizzare o metabolizzare questo fenomeno con un approccio democratico e nel contempo
pragmatico, ma di tutto il mondo arabo.
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LE SFIDE DEL FUTURO
A a fronte a qualche iniziale vittoria, alla Tunisia rimangono ancora molte sfide da vincere.
Un percorso ancora lungo e difficile.
La prima vittoria e' stata quella di rendere operante una democrazia attraverso un voto
popolare. E sicuramente non e' poco in questa parte di mondo.
La seconda vittoria e' stata quella di integrare in questo processo di democratizzazione tutte
le diverse istanze della societa'.
La terza vittoria e' stata quella di avere raggiunto questi obiettivi, sicuramente con difficolta'
e disordini sociali, ma senza eccessivi ed indiscriminati spargimenti di sangue.
Rimangono ancora delle grosse sfide davanti alla nuova dirigenza tunisina : l'approvazione
della nuova Costituzione, la riforma del sistema giudiziario, la lotta alla corruzione e al
clientelismo, dare impulso all'economia, ridurre la disoccupazione, combattere la poverta'
soprattutto nelle regioni interne del Paese, creare una maggiore giustizia sociale, ricostruire
gli apparati di sicurezza, rinnovare completamente la classe dirigente del Paese dando spazio
ai giovani, ricostruire e/o costruire le istituzioni democratiche, far si' che il rispetto dei diritti
umani non sia piu' un evento episodico ma sistematico, eliminare arresti indiscriminati e
torture che hanno rappresentato il modus operandi delle autorita' del Paese sia con
Bourghiba che con Ben Ali, dare piu' sicurezza al Paese anche di fronte alle turbolenze
sociali nei Paesi vicini (e' il caso della Libia e dei suoi profughi che tuttora stazionano sul
territorio tunisino), no alle malversazioni, repressioni e soprusi tanto ricorrenti nel
precedente regime ( in altre parole no al dispotismo), no alla diffusione del terrorismo (in
febbraio con una operazione di polizia era stata smantellata una cellula di Al Qaeda nel
paese).
Da' speranza lo spirito di moderazione e di inclusione sociale che sta accompagnando
questo percorso democratico. Ed e' un merito che va ascritto a tanti attori sociali. Ma la lotta
tra i cosiddetti "modernisti" e gli islamisti" e' ancora in atto.
Che il percorso democratico assecondato da una ispirazione moderata dell'Islam sia la
strada giusta lo dimostra indirettamente un proclama dell'attuale capo di Al Qaeda, Al
Zahawiri, che ha esortato qualche mese fa i tunisini a rivoltarsi contro "il governo del falso
Islam".
Molti analisti internazionali hanno trovato affinita' di approccio politico tra l'Ennahda
tunisino ed il "Partito per la Giustizia e lo Sviluppo" (AKP) turco di Recep Tayyip Erdogan.
Entrambe le formazioni sono portatrici di un Islam moderato, entrambe sono arrivate al
potere sostituendo regimi laici e con presenze militari, entrambe sono favorevoli al
multipartitismo, entrambi i Paesi sono proiettati verso l'Occidente, entrambi i leader sono
pragmatici, inclini al compromesso e alla tolleranza.
Lo stesso Ghannouchi, nei suoi interventi pubblici, ha fatto spesso riferimento a Erdogan ed
al modello turco.
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Comunque le specificita' dei due Paesi rimangono. Partono da due vicende politiche diverse,
hanno alle spalle storie diverse, le societa' nazionali sono diversamente strutturate, i tunisini
non debbono confrontarsi con l'ingerenza dei militari come capita quotidianamente a
Erdogan, hanno diverse priorita' in politica estera e sono inseriti contesti regionali con cui
devono confrontarsi diversi.
In questo percorso virtuoso verso la democrazia (percorso che si dovrebbe completare il 23
giugno del 2013 con le elezioni del nuovo Parlamento e del Presidente) la Tunisia recita il
ruolo di battistrada nei confronti di altri Paesi investiti dalla cosiddetta Primavera Araba.
Costituisce quindi un esempio, peraltro positivo, che potrebbe aiutare altre nazioni a
raggiungere lo stesso traguardo. A fattor comune con molte altre realta' nazionali arabe e' il
ruolo dell'Islam politico che pero' ha trovato in Ghannouchi un oculato interprete politico di
questo connubio tra religione e impegno pubblico. Purtroppo, nel contesto mediorientale,
altri esponenti politico-religiosi come Ghannouchi non se ne intravedono.
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