Edizione # 6 Giugno 2012 Italiano

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L'IRAN E LA GUERRA SEGRETA
L'Iran fa paura a molti Paesi. C'e' timore per la sua forza militare, la sua politica espansionistica
nella regione, le velleita' di dotarsi di un'arma nucleare, l'importanza strategica delle sue risorse
energetiche, il terrorismo.
Fa paura a Israele che vede un pericolo alla sua esistenza nel nucleare iraniano. Fa paura agli U.S.A.
per ragioni di egemonia geo-strategica nell'area, per gli effetti destabilizzanti della teocrazia sciita
su Afghanistan, Iraq e Siria, per il controllo delle rotte e del mercato del petrolio, per il terrorismo
che alimenta. Fa paura all'Arabia Saudita per l'egemonia nella regione e per l'accentuato confronto
tra sciiti e sunniti . Fa paura a tutti gli emirati e sultanati del Golfo che temono la sua forza militare
e il suo espansionismo. Preoccupa sicuramente la Turchia che vede in Teheran un pericoloso
contagio di instabilita' e possibili ripercussioni sul problema curdo.
Tutte queste paure si sono tradotte in una serie di iniziative da parte degli aventi causa , volte a
danneggiare la dirigenza iraniana e le sue velleita' nucleari. Ci sono stati i ripetuti controlli della
Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (A.I.E.A.), ci sono state reiterate sanzioni contro il
Paese, boicottaggi, le minacce sempre piu' pressanti da parte di Israele o gli U.S.A., ma senza
apparenti risultati. Alla guerra delle minacce, alle pressioni psicologiche si e' passati, da parte dei
contendenti ad un'altro tipo di guerra non convenzionale, una guerra segreta tra spie. Attori
principali: la C.I.A. americana , il Mossad israeliano, la VEVAK ( Verazat Ettela'at va Amniat
Keshvar) iraniana. Una guerra fatta di morti ammazzati, personaggi spariti o reclutati, attentati a
infrastrutture, operazioni clandestine, atti di terrorismo fino ad arrivare alla cyber guerra.
La guerra delle spie
Nel 2002, sembra per mano degli israeliani tramite fuoriusciti curdi, un ingegnere esperto di sistemi
missilistici, Ali Mohamoudi Mimand, viene ucciso da una esplosione nel complesso militare Shahid
Hemat a sud di Teheran.
Ma nel 2007 questa guerra segreta e non convenzionale diventa un fatto sistematico :
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il 15 gennaio 2007: Ardeshir Hosseinpour, ingegnere e responsabile del Centro di
tecnologia Nucleare presso l'impianto di Isfahan muore per le esalazioni di monossido di
carbonio presso la propria abitazione. La sua morte viene ritenuta "procurata".
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Il 7 febbraio 2007: il Generale Ali Reza Asgari, delle Guardie Rivoluzionarie, sparisce
durante una sosta in Istanbul, proveniente da Damasco. Risulta aver defezionato e poi
trasferito negli USA dove vive sotto nuova identita'.
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nel Novembre 2007: una esplosione in una base missilistica iraniana a sud di Teheran
uccide diverse persone.
Segue poi un periodo di relativa tranquillita' fino al Giugno 2009 quando Shahram Amiri, uno
scienziato nucleare, sparisce durante un pellegrinaggio a La Mecca ( riapparira' in USA il 13 luglio
2010. Dichiarera' pubblicamente di essere stato rapito e torturato dalla CIA e chiedera'
all'ambasciata pakistana, che cura gli interessi diplomatici iraniani in Washington, di essere aiutato
a rientrare in patria . Verra' autorizzato a farlo il 15 luglio del 2010).
Ma nel 2010 ricomincia l'escalation di operazioni clandestine che procurera' altre vittime e
distruzioni:
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12 gennaio 2010: Massoud Ali Mohammadi, fisico, esperto di particelle elementari,
insegnate presso l'Universita' Shanati Sharif di Teheran viene ucciso dallo scoppio di una
bomba posizionata su una motocicletta parcheggiata accanto alla sua auto.
29 novembre 2010 : Madjed Shariari, ingegnere presso la facolta' di Ingegneria Nucleare
dell'universita' di Teheran, viene ucciso per strada da una bomba collocata
magneticamente sulla sua auto da una moto in corsa. Anche la moglie rimane ferita.
Nello stesso giorno e con modalita' analoghe di attentato viene ferito anche Fereidoun
Abbassi Davani, un altro ingegnere nucleare, e la moglie. Scampato all'attentato,
Abbassi verra' nominato il 13 febbraio 2011 responsabile dell'Organizzazione per
l'Energia Atomica dell'Iran.
Giugno 2011: un aereo che trasportava tecnici russi e scienziati iraniani verso la centrale
di Busheir si schianta al suolo.
Luglio 2011: Darious Rezaeineja , scienziato nucleare, viene ucciso in Teheran a colpi di
arma da fuoco sparati da una moto in corsa mentre attende l'uscita del figlio dalla scuola.
Settembre 2011: viene scoperto e sventato un attentato contro l'ambasciatore saudita a
Washington. Arrestato un iraniano.
Novembre 2011: scoperto in Azerbaigian un complotto per uccidere diplomatici
americani e/o colpire obiettivi U.S.A. pilotato da agenti iraniani. Gli attentati dovevano
costituire una vendetta contro gli assassinii di scienziati iraniani.
12 novembre 2011: una esplosione presso la base Amir Al Momenin, nel villaggio di
Bidganeh, uccide una ventina di militari. Si trattava di un deposito di esplosivi delle
Guardie Rivoluzionarie. Nell'esplosione morira' anche il generale Hassan Teherani
Moghaddam, esperto di punta del programma missilistico iraniano.
Novembre 2011: in circostanze misteriose, in un hotel di Dubai, muore Ahmed Rezai,
figlio del piu' noto Mohsen Rezai , gia' capo dei Pasdaran e personaggio politico di
spicco.
28 novembre 2011: una esplosione danneggia l'impianto di conversione dell'uranio di
Isfahan.
12 dicembre 2011: un'altra esplosione a Yazd, colpisce una fabbrica di metalli implicata
nel programma nucleare e controllata dalle Guardie della Rivoluzione.
11 gennaio 2012: Mostafa Ahmadi Roshan, ingegnere nucleare e professore
universitario, vice direttore della Centrale di Natanz, viene ucciso da due motociclisti
che affiancano la sua auto attaccando sulla portiera una bomba magnetica.
Gennaio 2012: a Baku, in Azerbaigian, due iraniani vengono arrestati. Avevano a
disposizione 16 pacchi di esplosivo e 150.000 dollari ciascuno. Confesseranno di avere
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avuto l'incarico di ammazzare l'ambasciatore israeliano, un rabbino e un uomo d'affari
ebreo, in rappresaglia per la morte di Roshan.
Gennaio 2012: falliti attentati in Thailandia e Bulgaria contro sedi diplomatiche e
relativo personale israeliano. Implicato a Bangkok un libanese legato agli hezbollah
(anche qui rappresaglia per la morte di Roshan).
20 gennaio 2012: Mohammad Esmail Kosari, professore di Fisica presso l'Universita'
Shanati Sharif di Teheran, nonche' deputato del Parlamento e membro della
Commissione della Sicurezza Nazionale viene ucciso sempre da una bomba posizionata
sull'auto.
Febbraio 2012: due attentati simultanei contro personale diplomatico israeliano in New
Delhi e Tbilisi. Stessa tecnica degli attentati perpetrati contro gli scienziati iraniani:
bomba attaccata sotto la macchina. In India l'attentato fallisce perche' l'ordigno viene
scoperto per tempo. In Georgia invece viene ferita la moglie dell'addetto militare
israeliano. E' probabilmente la rappresaglia per la morte di Kosari.
Marzo 2012: la Corte suprema iraniana grazia dalla pena di morte Amir Mirza Hekmati
cittadino con la doppia nazionalita' irano-americana accusato - e reo confesso - di
spionaggio.
Dietro questa sequenza di eventi si muovono non solo gli attori comprimari (C.I.A., Mossad,
V.E.V.A.K) ma anche organizzazioni surrogate: i curdi e i Mujahedin el Khalq di Maryan Rajawi
che operano da basi irakene (da una parte), gli hezbollah libanesi e le forze iraniane di Al Quds
dislocate all'estero (sul fronte opposto).
Poi ci sono gli oppositori, i fuoriusciti ed evidentemente, per portare a termine questi attentati sul
suolo iraniano c'e' una rete di informatori ed agenti che trasmettono informazioni o che provvedono
alle operazioni.
Ed ancora, al fianco americano, per comuni interessi strategici, ci sono i sauditi ed i tradizionali
alleati inglesi mentre Teheran puo' contare sugli sciiti del golfo, i siriani ed, all'occorrenza anche su
frange terroristiche vicine ad Al Qaida.
Come si e' visto questa guerra si conduce anche in altre parti del mondo dove maggiormente si
accentrano le attivita' dei Servizi Informativi: Dubai (emirato con una forte presenza di sciiti e
centro nevralgico di traffici mediorientali), Georgia e Azerbaigian (dove risulterebbe concentrato
parte del dispositivo operativo del Mossad), Thailandia (altro centro nevralgico dello spionaggio
euro-asiatico).
La cyber guerra
Nel Giugno 2010 pero' la guerra sotterranea acquista una dimensione tecnologica: un virus
chiamato "Stuxnet" infetta e blocca il sistema informatico della Centrale di Natanz dove e' in corso
il processo di arricchimento dell'uranio attraverso centrifughe a gas. Era gia' stato individuato
qualche mese prima ma poi aveva subito ulteriori modifiche per renderlo piu' efficace.
Stuxnet entra nel sistema informatico, attraverso l'utilizzo di una chiave USB (quindi materialmente
qualcuno ha fatto questa operazione in modo conscio o inconscio in loco), si infiltra tramite il
sistema operativo Microsoft Windows (dove individua delle vulnerabilita') e colpisce il software e
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gli apparati e macchinari della Siemens (prodotti industriali fortemente utilizzati, nei processi di
arricchimento da parte iraniana).
Quando il virus entra nel computer tenta di entrare in tutti i programmi e va subito a cercare quelli
che utilizzano software Siemens. Se non ve ne sono, rimane inerte ma marca tutti gli apparati.
Quindi ha un meccanismo di "controllo logico programmato" come viene chiamato tecnicamente.
Se invece individua le componenti che cerca, prima ne accerta le condizioni di funzionamento e poi
inserisce il suo codice di distruzione nel sistema di controllo modificando il funzionamento del
macchinario o apparato. Questa operazione viene condotta eludendo il sistema di controllo di
sicurezza del macchinario a cui da' informazioni di normale funzionamento. Ed e' proprio sotto
questo aspetto che Stuxnet e' un prodotto rivoluzionario: ricerca un bersaglio specifico, provvede al
suo sabotaggio, nasconde la propria presenza fintanto che il danno non e' completato. Silenzioso,
invisibile, devastante.
Il sabotaggio prodotto da Stuxnet ha messo fuori uso circa 1000 delle 5000 centrifughe di Natanz
creando - secondo stime americane - un ritardo di 18-24 mesi al programma di arricchimento
dell’uranio. Altre 5 strutture nucleari iraniane (tra cui Busheir) avrebbero subito danni.
Il virus risulterebbe concepito da uno studio congiunto americano-israeliano. Esisteva in atto gia'
un progetto americano di cyber guerra denominato "Olimpyc Games" gia' autorizzato da Bush Jr
ed ereditato da Barack Obama che non aveva ancora prodotto risultati apprezzabili. Il salto di
qualita' sarebbe emerso dalla collaborazione con gli israeliani. Si tratterebbe, secondo gli esperti di
un virus dalle capacita' distruttive enormi e dalla potenza mai finora raggiunta da analoghi strumenti
nel passato. Sempre secondo gli esperti per elaborare un prodotto cosi' complesso erano stati
impiegati almeno una trentina di tecnici per un periodo di almeno 6 mesi. Da parte israeliana, al
progetto avrebbe lavorato l'unita' "8200" composta di esperti di informatica, criptoanalisi e
matematica. Nonche' uomini di una neo-costituita struttura all'interno del Ministero della Difesa: la
"National Cyber Defense Authority".
A parte la notorieta' acquisita da Stuxnet, un altro virus e' stato recentemente infiltrato nei sistemi
informatici iraniani con scopi di spionaggio. Si tratta del virus "Flame" che avrebbe la funzione, a
differenza di Stuxnet, non di sabotare i sistemi colpiti ma di trasformare i computer in una fonte di
spionaggio inviando al suo controllore tutta una serie di dati acquisiti nella memoria del computer
stesso. Con questo sistema sarebbero stati infiltrati enti governativi e ditte private iraniane. Anche
qui, benche' mai confermato dagli aventi causa si tratterebbe di una collaborazione israeloamericano. Secondo alcuni analisti gli israeliani avrebbero la capacita' di bloccare gli snodi internet
in uso alla rete militare iraniana.
Quindi una lotta che vede un malware (come Stuxnet) affiancato ad un spyware (come Flame).
Uno per sabotare, l'altro per sorvegliare raccogliere informazioni.
Le attivita' di intelligence elettronico ("elint") e di intercettazione ("sigint").
Sono gli aspetti di un'altra forma di guerra non convenzionale per carpire, attraverso l'utilizzo di
tecnologie e strumenti, notizie della controparte. La stanno gia' combattendo, in silenzio, i vari
attori di questa guerra sotterranea. E' una guerra fatta di intercettazioni, forme di disturbo
elettronico, osservazioni dall'alto con drones o satelliti.
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Israele sta progettando con il drone "Heron" la possibilita' di trasportare strumentazione per disturbi
elettronici. Ogni attacco aereo - se questa sara' la presumibile forma di intervento armato sulle
strutture nucleari iraniane - e' infatti anticipato da una attivita' di jamming (interferenze e disturbi)
che mette fuori uso telecomunicazioni, telefoni, internet, rete elettrica. E' una tattica che e' stata
messa sempre in opera dagli americani durante gli attacchi iniziali all'Iraq sia nel 1991 che nel
2003. Con questo sistema viene disarticolato il sistema di comando e controllo e della difesa aerea
impedendo una reazione da parte del Paese colpito. Nell'attivita' elint e' anche previsto
l'accecamento dei sistemi radar ed in alcuni casi anche attivita' di simulazione elettronica (fare
apparire sui radar della controparte situazioni diverse dalla realta').
Sul fronte di Teheran, anche gli iraniani si stanno attrezzando con questo tipo di spionaggio ed
anche sulle misure di contrasto elettronico. Un aereo senza pilota costruito nel 1993, l'Ardebil ("la
rondine") che aveva funzioni di ricognizione aerea e' stato trasformato in altri prototipi piu'
avanzati nelle sue varie configurazioni di drone. E' diventato "A3", poi "A-T", poi infine "Karrar"
("il bombardiere"), costruito nel 2010, con un raggio d'azione di oltre 1000 km.
Gli americani, invece, stanno impiegando sui cieli iraniani un tipo di drone invisibile, l'RQ-170 che
avrebbe, tra gli altri compiti anche quello di individuare e mappare, con speciali apparecchiature e
sensori di bordo, i tunnel dove sono svolte le attivita' nucleari iraniane.
Il settore delle intercettazioni e' strategico per conoscere cio' che fa l'avversario. Tutto quello che
viene trasmesso nell'aria (telefoni cellulari, ponti radio, comunicazioni radio e satellitari) e' oggetto
di interesse. E' una attivita' sistematica che ogni Paese mette in essere con i suoi Servizi di
informazione. Nel caso dell'Iran che diventa obiettivo informativo prioritario, tale attivita' e'
sicuramente stata incrementata. E non e' escluso che molte scoperte di siti nucleari, della loro
attivita', e del movimento di scienziati sia avvenuta con l'ausilio di questi sistemi. A completamento
dell'attivita' di intercettazione vi e' poi, per le comunicazioni cifrate (quelle che contengono
ovviamente notizie piu' sensibili), la necessita' della decrittazione dei messaggi. Anche qui, nella
penetrazione di un sistema di cifratura, si giocano i valori di una guerra. Chi sa piu' vince o almeno
non perde.
La guerra psicologica
E' quella fatta di minacce, controminacce, dichiarazioni ufficiali di politici e militari, interviste,
moniti, che vede implicati tutti i protagonisti di questo scontro. E' una guerra di nervi, molte volte
mirata a condizionare il comportamento della controparte.
L'Iran gioca questa guerra con particolare scaltrezza levantina sia con gli ispettori dell'A.I.E.A. che
con i favori contendenti internazionali: promette disponibilita' poi magari smentisce e frena, alle
minacce alterna disponibilita' dialogica, a volte si irrigidisce ed a volte concede, negozia o si alza
dal tavolo.
Sa che il tempo gioca a suo favore e sa anche che recitando diverse parti nella stessa commedia,
sconcerta e disorienta gli avversari. E' un gioco pericoloso che comunque, per il momento,
funziona.
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E' quello che gli israeliani chiamano "azimut" e che significa ambiguita'. E' lo stesso concetto che
nel mondo arabo viene invece chiamato "taqiya" cioe' dissimulazione. E' un tipo di comportamento
tipico della cultura sciita, dove il rinnegare alcuni fatti o realta' (storicamente adottato per rinnegare
la fede al fine di salvarsi dalle persecuzioni) e' considerato lecito nello spirito di sopravvivenza.
I segnali di una guerra
La guerra segreta tra l'Iran e gli altri Paesi (spionaggio, cyber guerra, guerra psicologica) puo' essere
- in quota parte - sostitutiva di altre forme convenzionali di guerra ma molte volte puo' essere anche
propedeutica ad una guerra vera.
A parte considerazioni di convenienza politica che possono condizionare l'evolversi dei fatti, non
puo' essere esclusa l'ipotesi che come e' avvenuto contro il reattore di Osiraq (Iraq) nel giugno 1981
e contro quello di Al Qibar in Siria nel settembre 2007 Israele (con l'ausilio piu' o meno diretto di
altri Paesi) possa concepire una analoga operazione chirurgica contro i siti nucleari iraniani.
La differenza con le analoghe operazioni, sta pero' nella difficolta' di raggiungere il risultato perche'
gli obiettivi da colpire sono tanti e in maggioranza protetti in postazioni sotterranee. Occorrono
bombe di profondita'. C'e' poi la difficolta' di arrivare sugli obiettivi dopo un lungo tragitto
attraversando vari altri Paesi: quindi problemi di rifornimento in volo e problemi di copertura del
volo per mantenere l'effetto sorpresa. Poi c'e' il problema di una eventuale rappresaglia. Quindi
trovare il modo affinche' l'Iran, una volta colpito , non intenda colpire Israele o altri Paesi con il suo
potenziale missilistico oppure tenti di bloccare il traffico petrolifero attraverso lo stretto di Hormuz.
Esaminando quindi tutte queste "necessità" per rendere una operazione militare il piu' possibile
sicura, si puo' valutare la probabilita' che l'operazione possa avvicinarsi alla sua realizzazione.
Vediamo nel dettaglio:
- Nelle settimane scorse il Premier Netanyahu ha disdetto le elezioni anticipate,
programmate per settembre ed ha formato un governo di unita' nazionale con il partito
"Kadima" di Shaul Mofaz. La nuova alleanza sposta il baricentro politico israeliano verso
posizioni interventiste. Mofaz e' un ebreo di origini iraniane, gia' membro delle forze
speciali, considerato un falco e quindi favorevole, come Netanyahu, all'intervento armato.
Poi il 2 marzo scorso il Presidente americano ha incontrato Netanyahu a Washington ed ha
promesso - su pressante richiesta della controparte - aiuti militari specifici: bombe di
profondita', aerei cisterna per il rifornimento in volo, sistemi di identificazione (electronic
devices) dei velivoli in volo perche' possa essere eliminato il rischio di non essere
riconosciuti e abbattuti, piu' batterie antimissili "Iran Dome". Guarda caso, tutti elementi
indispensabili per fare l'operazione e per controbattere le rappresaglie iraniane.
- Nel frattempo i sauditi negli ultimi mesi hanno piu' che raddoppiato le riserve di greggio a
disposizione passando dai 35 mil/barili a circa 80 mil/b. Accumulare riserve di greggio
quando i prezzi sono alti e' un controsenso commerciale, a meno che le provviste non
abbiano altre finalita'. Correlare l'iniziativa al rischio che possa essere bloccato Hormuz ha
la sua logica .
- Da mesi Israele e l'Iran testano missili ed ultimamente le forze aeree israeliane hanno
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effettuato addestramenti di attacchi a terra, con altri aerei della Nato a Decimomannu, in
Sardegna.
Tutti questi segnali lasciano effettivamente prefigurare che le postazioni nucleari iraniane siano
prossime ad essere colpite? Alcune valutazioni di merito sfuggono ad una risposta logica perche'
oltre ai fatti noti, ci sono quelli non noti, quelli che vengono acquisiti con questa guerra segreta. Ed
e' molte volte in questo ambito che si decidono i destini del mondo.
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L'ODISSEA DI UN IMMIGRATO CLANDESTINO (PARTE 1)
L'Italia ha firmato nel tempo con la Libia di Gheddafi una serie di accordi sull'immigrazione
clandestina a partire dall'anno 2000, peraltro, almeno per gli aspetti pratici del contrasto allo
specifico fenomeno illegale, con risultati talvolta nulli, talvolta scarsi, talvolta efficaci (quest'ultimi
solo dopo la firma del Trattato bilaterale di Partenariato- 30 agosto 2008 - il primo respingimento
di un barcone di clandestini 6 maggio 2009 - l'inizio del pattugliamento congiunto delle coste
libiche - 25 maggio 2009 . Prima e durante questi eventi ci sono stati considerevoli esborsi da parte
italiana ma risultati quasi nulli).
Se da parte libica il problema dell'immigrazione clandestina ha rappresentato soprattutto una
occasione per mercanteggiare - se non ricattare - concessioni politiche e finanziarie non solo con
l'Italia ma anche con l'Europa, l'approccio generale alla problematica - almeno da parte italiana in
quanto la controparte non aveva specifiche sensibilita' culturali al riguardo - ha spesso mancato di
cogliere l'aspetto sociale del fenomeno e quindi, nella sostanza , ci si e' sempre piu' indirizzati verso
misure operative trascurando di contestualizzare una evidente emergenza umanitaria.
In altre parole ci si e' dedicati a contrastare sul terreno il fenomeno e non a capirne l'essenza, le
motivazioni e quindi creare le circostanze che potevano limitarne la portata.
Per capire pero' bene tutto questo bisogna conoscere cosa muove un individuo a lasciare la propria
casa e la propria famiglia , spendere i propri risparmi, rischiare la vita nel deserto e nel mare,
affrontare l'imprevisto, soffrire l'emarginazione, subire lo sfruttamento, sottoporsi a umiliazioni,
muoversi in Paesi ostili , in un arco temporale non quantificabile, per un sogno che molte volte si
trasforma in tragedia.
Prendiamo ad esempio il tragitto di un clandestino eritreo verso l'Italia e l'Europa, quando il traffico
era fiorente sotto il regime di Gheddafi:
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Il primo contatto e' ad Asmara con agenti delle organizzazioni criminali transnazionali che
operano nel settore. Il potenziale clandestino deve attraversare il confine con il Sudan in modo
occulto, anche per evitare rappresaglie del regime contro le famiglie. Deve sborsare dai 500 ai
600 dollari;
L'organizzazione fa muovere il clandestino lungo aree non controllate dalla polizia , il piu' delle
volte a dorso di cammello e di notte;
Il confine viene superato nell'area di Kassala e la prima sosta del clandestino e' nei campi
profughi della zona ( Sawa ). E' una sosta generalmente breve perche' nei campi pullulano spie
di Asmara e c'e' il ragionevole rischio di essere identificati ( e quindi conseguenze per la
famiglia che e' rimasta in patria);
Il clandestino tende quindi a trasferirsi in altri campi (Wadi Sharifa) e poi si sposta a Khartoum
dove gli e' stato consegnato, fin da Asmara dei numeri di telefono di personaggi
dell'organizzazione criminale che lo dovranno aiutare ad entrare in Libia. Generalmente benche'
l'organizzazione criminale sia transnazionale i contatti vengono gestiti, per ogni Paese, da
connazionali del clandestino . Il tragitto Kassala- Khartoum avviene generalmente in autobus . Il
costo per trasferirsi dal Sudan alla Libia e' sull'ordine di 7/800 dollari. Se il clandestino ha i
soldi , i tempi di permanenza a Khartoum saranno brevi altrimenti dovra' trovarsi un lavoro ,
ovviamente in nero per raccogliere la somma. Generalmente il clandestino contatta anche le
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organizzazioni internazionali presenti nella capitale sudanese (soprattutto l'Alto Commissariato
per Rifugiati dell'ONU ) per ottenere lo status di rifugiato. Gli serve per poter accedere ad
alcuni sussidi ma soprattutto ad evitare di potere essere cacciato dal Paese. Piu' che cacciato si
tratterebbe di pagare la polizia locale per non essere cacciato . Di quel documento che attesta il
suo status di rifugiato se ne disfera' prima di entrare in Libia per non essere identificato ;
Pagata la somma l'organizzazione criminale predispone il viaggio che il clandestino eritreo fara'
insieme ad altre persone che lui non conosce, di altre nazionalita' ma accomunate nella stessa
avventura;
Il trasferimento da Khartoum al confine libico avviene con fuoristrada stracarichi di clandestini
, uomini o donne che siano, talvolta anche minorenni. Un fuoristrada puo' portare a bordo fino a
30 persone. Talvolta , invece di arrivare direttamente al confine comune con la Libia le auto
entrano in Egitto e dall'Egitto entrano in Libia lungo rotte desertiche . I fuoristrada partiti da
Khartoum scaricano i clandestini al confine e rientrano in Sudan. I clandestini verranno raccolti
da altri fuoristrada questa volta gestiti dalla branca libica dell'organizzazione che li portera' fino
all'oasi di Kufrah. Se il clandestino non ha piu' soldi dovra' arrangiarsi per la prosecuzione del
suo viaggio verso Tripoli. Entra in clandestinita' “operativa” per non essere intercettato dalla
polizia libica ed eventualmente arrestato. Altrimenti , se ha ancora 3/400 dollari ricontatta
elementi dell'organizzazione criminale per essere trasportato nella capitale libica. Viene
nascosto in camioncini di derrate e quindi portato sul tratto costiero. Molte volte il viaggio si
ferma sulla costa , a Ajdabiya , dove viene fatto credere loro di essere a Tripoli . il resto del
viaggio , in questa circostanza , sara' a suo rischio e pericolo;
Il clandestino che giunge a Tripoli sa gia' dove recarsi e chi contattare . Ci sono due o tre aree
della periferia della capitale dove gli eritrei tendono a radunarsi. Il numero di telefono (gli e'
stato dato a Khartoum) e' di un eritreo dell'organizzazione che gestira', ovviamente dietro
pagamento , l'eventuale imbarco verso l'Italia.
Per nascondere il clandestino , il trafficante chiedera' altri 200/250 dollari e cosi' permettera'
all'interessato una protezione in luoghi sicuri , per un periodo che generalmente non supera i 15
giorni;
Adesso , se ci sono altri i soldi , il trafficante potra' interessarsi al viaggio del connazionale in
barca verso l'Italia. A seconda delle circostanze ambientali (se il regime vuole o no colpire il
traffico illegale e quindi cambiano le condizioni di sicurezza) , del tipo di imbarcazione (piu' o
meno sicura), dell'oscillazione tra domanda e offerta, dell'urgenza a voler partire, il prezzo del
trasporto via mare ha un costo che parte da 1800/2000 dollari per arrivare fino a 3000/3500.
Non viene garantito il successo dell'operazione, non viene garantita la sicurezza del natante ne'
se il numero dei clandestini a bordo sia adeguato alla sicurezza del viaggio. Chi paga lo fa a
scatola chiusa e senza garanzie. Le garanzie le prendono quelli dell'organizzazione : prima di
ogni partenza prendono i soldi, radunano i clandestini in fattorie isolate e gli tolgono i telefonini
per evitare di essere intercettati o individuati. Tengono questa umanita' di disperati all'oscuro di
ogni dettaglio del viaggio. Poi , una notte, senza preavviso li portano sulla spiaggia per un
imbarco veloce. La partenza e' cosi' assicurata. L'arrivo no.
Questa descritta e' l'odissea di un immigrato clandestino eritreo fino al momento dello scoppio
della guerra civile in Libia. Le cose sono solo leggermente cambiate quando la Libia, a corrente
alterna ha incominciato a cooperare con l'Italia e parte del traffico si e' spostato sull'Egitto. La
guerra ha interrotto - ma forse solo sospeso- questa transumanza da Asmara a Tripoli. Le
organizzazioni criminali tuttora operanti nella regione hanno iniziato , almeno ad operare su altre
rotte. Quella piu' funzionale - fintanto che gli israeliani non finiranno di costruire un muro sul
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confine egiziano in Sinai , da Gaza a Eilath.Nel 2010 sono entrati in Israele ,da questa direzione ,
circa 13500 clandestini (non tutti eritrei) e questo sta costituendo , per lo Stato ebraico, una vera
emergenza sociale. Il 2011 e' stato anche peggio dopo la caduta di Mubarak e il conseguente
disordine istituzionale in Egitto. Se si chiudera' anche questa rotta e' probabile che se ne apriranno
altre. L'opzione in corso riguarda adesso l'ingresso in Grecia (ma Atene ha fama di essere un Paese
fortemente ostile nei riguardi dei clandestini)ed il successivo trafilamento verso l'Italia e/o i Balcani
per l'Europa.
L'esodo di eritrei verso l'Europa e' oggi determinato da motivazioni economiche ma anche politiche
a fronte delle persecuzioni in atto del regime di Afeworki. Ma come l'Eritrea analoghe situazioni
esistono in varie parti dell'Africa. Quindi il business che si alimenta sull'immigrazione clandestina e'
tuttora molto florido. Queste organizzazioni transnazionali operano in ogni Paese di interesse - sia
di partenza che di transito e arrivo - e godono molte volte di connivenze nelle istituzioni locali per
agire indisturbate. Vedasila corruzione della polizia sudanese e/o egiziana, delle guardie di frontiera
eritree, della polizia ed esercito libico dei trafficanti di confine che operano nella droga,
contrabbando ed ovviamente traffico di esseri umani, dei tuareg del Niger o Mali che si muovono
nel deserto, delle bande di delinquenti che taglieggiano nelle stesse aree chi vi transita. Ognuna di
queste entita' - a diverso titolo ha tratto e trae beneficio economico dall'immigrazione clandestina .
L'unico dato incontrovertibile riguarda la vera vittima di questa situazione : il clandestino.
Nella descrizione del viaggio del clandestino eritreo vi e' , fin dall'inizio , la presenza fattiva
dell'organizzazione criminale ma in molti casi, soprattutto per ragioni economiche il clandestino si
muove in questo esodo biblico da solo per poi magari contattare la criminalita' organizzata solo
nell'ultimo tratto (via mare o via terra) del suo viaggio.
E' generalmente il caso dei somali che comunque tendono ad entrare in Sudan dall'Eritrea (via
Gibuti) , dall'Etiopia o - quando stazionano gia' nei campi profughi (il piu' grande e' quello di
Dadaab e/o quello di Kakuma ) dal Kenya. Il loro viaggio , in questo caso, e' tra i piu' lunghi e tra i
piu' difficili .Altrimenti vengono radunati a Dhobley (in Somalia), passano il confine, si spostano
tra i campi profughi di Ifo e Garissa, sostano nei quartieri a maggior presenza di connazionali in
Nairobi . Poi si dirigono a Lokichogio, e da li' raggiungono la capitale del sud del Sudan, Juba C'e'
da percorrere tutto il sud del Paese ( e fino a poco tempo fa c'era la guerra civile) , attraversare il
Darfur, arrivare a Khartoum (la capitale sudanese e' il crocevia principale per il traffico di eritrei,
etiopi e somali) o cercare di attraversare il Ciad e poi il Niger per proseguire con mezzi di fortuna
verso la Libia. Altri invece , da Nairobi si spostano verso l'Uganda entrando da Malaba o Busia,
arrivano a Kampala ma poi convergono anch'essi verso Khartoum. . C'e' una organizzazione che
porta i clandestini dal Paese di origine a Khartoum. Qui il clandestino viene preso in consegna
dall'organizzazione locale che ne cura il trasferimento in Libia. In questo Paese opera la terza
organizzazione che pensa poi all'imbarco. Tutte e tre collegate e coordinate tra loro . A fattor
comune la regola principe : il facilitatore e' sempre un connazionale del clandestino.
C'e' poi il caso dei nigeriani, nigerini, ghanesi, burkinabe', maliani o di altri Paesi dell'area sahelosahariana, che seguono rotte diverse per arrivare alle coste del mediterraneo. Non hanno i soldi per
pagare una organizzazione che li aiuti e arrivano con i propri mezzi in Mali e poi Niger.
Si tratta di transumanze che seguono il ciclo delle stagioni : attraversamento del deserto tra ottobre e
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marzo (quando le condizioni climatiche sono piu' accettabili), attraversamento del mare tra aprile e
settembre (per analoghe considerazioni). Purtroppo, nonostante queste precauzioni , il deserto
libico ed il Mediterraneo sono diventati per molti una tomba . Mancano dati statistici al riguardo su
queste morti silenziose ma viene reputato che su 100 clandestini che intraprendono questo
calvario,un 10/20% arriva a destinazione, un 5/10% muore per strada , il resto rinuncia o si ferma
in un paese di transito per confrontarsi con una vita di stenti , dove alla poverta' da cui cercava di
scappare , si aggiunge la discriminazione , lo sfruttamento , le estorsioni e le umiliazioni. Si tratta di
un viaggio, cadenzato nel tempo , dalle risorse finanziarie che il clandestino , da Paese a Paese, da
tappa a tappa riesce ad acquisire con il lavoro nero. Puo' durare anni. Un clandestino che parte dal
suo Paese non si pone mai il problema dei rischi che corre per sopravvivere in un deserto o
attraversare il mare con una barca fatiscente . Sa solo quello che lascia e questo e' sufficiente ad
esorcizzare quello che dovra' affrontare.
I clandestini senza sufficienti mezzi finanziari per pagare i cosidetti “facilitatori”(si tratta nella
stragrande maggioranza di quelli provenienti dai Paesi dell'area sub-sahariana) sono alla merce' dei
maggiori soprusi : maltrattamenti continui, rapine, stupri per le donne , fino ad arrivare a forme piu'
o meno lunghe di schiavitu'.
Affluiscono lungo la direttrice Tahoua- Agades, si muovono in zone desertiche infestate da banditi e
trafficanti e si avvicinano al confine libico. Lo attraversano presso il valico di Tohumm (aut Tumi )
se entrano dal Niger . Lo attraversano tra l'oasi di Djanet e Tin Alkounse entrano dall'Algeria. Da
qui si dirigono verso l'oasi di Ghat , per poi proseguire su Sebhain direzione della costa ( tragitto
che i trafficanti evitano per non confrontarsi con le minacce ed i ricatti delle bande di taglieggiatori
eufemisticamente affiliate ad Al Qaida nel Maghreb Islamico) . Altri invece cercano di seguire
le rotte utilizzate dai trafficanti ( Kufrah, al Qatrum se Libia; Jebel Awainat se Egitto);
Ma da Agades possono optareper un percorso alternativo- anche questo ad alto rischio per la
diffusione del banditismo - che li porti a Nouadhibou, sulle coste della Mauritania per poi tentare lo
sbarco nelle Canarie . Come ultima alternativa c'e' poi la rotta che dalla Mauritania porta al
Marocco per raggiungere la foresta di Bel Yunes ( e tentare l'ingresso clandestino a Ceuta ) o quella
di Mariwari ( e tentare l'ingresso nell'enclave di Melilla). Altrimenti , soprattutto per chi ha piu'
soldi c'e' anche un'ultima possibilita' : l'imbarco clandestino su traghetti o barche da pesca che
operano tra le due sponde del mediterraneo per raggiungere la Spagna.
Ultima tipologia di clandestini sono poi quelli di origine nordafricana : i tunisini , gli algerini e gli
egiziani (si escludono i marocchini che tendono ad entrare in Europa direttamente dal loro paese
attraverso la Spagna e i libici che , stante il livello alto di benessere della loro societa' a fronte di
una densita' anagrafica limitata , non sono presenti nello specifico traffico come attori principali se
non come soggetti attivi dell'attivita' illegale).
Gli algerini talvolta tentano direttamente di organizzare viaggi via mare partendo dalle coste di
Annaba. In questo caso l'obiettivo da raggiungere non e' Lampedusa ma la Sardegna. Molte altre
volte , quando il traffico era fiorente , preferivano raggiungere la Libia. Per quanto riguarda i
tunisini e gli egiziani, l'opzione Libia e' sempre stata prevalente. I tunisini entrano in Libia da Ras al
Jadir seguendo le piste dei contrabbandieri. Altrettanto fanno gli egiziani da Umm Saad. A
differenza dei clandestini provenienti dall'area sub-sahariana , queste comunita' nordafricane
arrivano a Tripoli senza problemi in quanto facilitati dalle comuni radici arabe, da regolamentazioni
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regionali piu' permissive operanti a loro favore e da uno specifico timore riverenziale che le autorita'
libiche hanno sempre avuto verso Paesi confinari peraltro demograficamente e militarmente piu'
importanti. Le ultime statistiche , prima del tracollo del regime di Gheddafi indicavano una
presenza di clandestini nel Paese sull'ordine di 2 milioni (su una popolazione complessiva di 6
milioni di autoctoni) di cui quasi oltre un milione di egiziani. Comunque anche il nordafricano
aspirante clandestino verso l'Europa per un imbarco doveva contattare e pagare un facilitatore. La
grossa differenza tra il clandestino nordafricano e quello sub-sahariano , una volta arrivati in Libia
e' il trattamento che viene riservato a quest'ultimo in caso di arresto.
Ai tempi di Gheddafi operavano 25 strutture come centri di detenzione e identificazione dei
clandestini. I piu' noti : Misurata, Zawiya, Janzur, Kufrah, Sabratha, Ganfuda, Al Fellah, Ajdabiya ,
Khoms , Jawazat , Garabulli, Zleitan , Zuwarah, Sorman, Hun , Twisha, Benkheshir , Gurji, Bani
Walid .Tutti erano sotto la sorveglianza della polizia , tutti (salvo Misurata) erano senza strutture
sanitarie all'interno. Alcuni di essi molto grossi ( Misurata e Kufrah con circa 800/1000 detenuti) ,
altri meno capienti come stazioni o caserme di polizia. Quello di Twishaserviva come punto di
partenza per il rimpatrio forzato via aereo. In Misurata venivano raccolti soprattutto gli eritrei. Nella
generalita' dei casi erano strutture sovraffollate . Nel 2009 i clandestini detenuti erano circa
18/20.000.
Generalmente gli uomini erano separati dalle donne ed i figli minori erano mantenuti nelle celle
della madre Non esisteva una regolamentazione sulla durata dei termini di detenzione. Ne' si veniva
portati davanti a un giudice che ne comminasse la pena. La polizia arrestava, la polizia liberava in
arbitrio assoluto. Si usciva dal carcere se si corrompeva una guardia carceraria o un poliziotto (ed in
tal caso il detenuto liberato era subito sostituito numericamente e con gli stessi dati anagrafici da un
altro clandestino catturato), se l'individuo veniva “prestato” per lavori in nero a committenti libici,
se le condizioni di salute erano talmente precarie da costituire problema nella gestione della
detenzione .
Abusi, maltrattamenti ,stupri , pestaggi erano merce quotidiana soprattutto in quelle strutture
lontane da Tripoli e quindi fuori da ogni possibile risonanza internazionale. Nessun funzionario di
organismi internazionali - tra quei pochi che avevano limitato accesso ai centri di detenzione
( U.N.H.C.R., O.I.M., C.I.R.. International Organization for Peace and Development ) poteva
liberamente documentare eventuali abusi se non con la certezza di essere espulsi il giorno dopo.
Quindi assenza di controlli e/o omerta' assoluta anche a livello internazionale. In teoria il centro di
identificazione doveva servire ad identificare la nazionalita' del detenuto e programmarne il
rimpatrio. Nella realta' le espulsioni avvenivano, soprattutto in presenza di picchi di
sovraffollamento, su decisione unilaterale libica e non in virtu' di accordi bilaterali tra Stati. Anche
le modalita' di espulsione variavano da nazionalita' a nazionalita' :
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Voli charter per ghanesi , nigeriani e marocchini;
Traduzione forzata di clandestini verso i confini comuni per algerini, tunisini e egiziani (per
quest'ultimi si sono verificati nel tempo anche casi di decesso per disidratazione e soffocamento
perche' stipati dentro container e lasciati ore sotto il sole;
Somali e eritrei radunati a Kufrah e poi devoluti al lavoro nero locale ( essendo cittadini di
paesi che non contemplavano il rimpatrio. Nel caso eritreo , alcuni tentativi di rimpatrio forzato
avevano scatenato rivolte nei carceri e proteste internazionali);
I clandestini appartenenti ai Paesi del sahel (Niger , Mali, Burkina Faso) venivano invece
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estradati forzatamente nel deserto , minacciati di ritorsione nel caso fossero tornati indietro e li'
abbandonati.
Questa tipologia di sorte e' stata applicata indiscriminatamente anche a quei clandestini - di cui le
autorita' italiane non hanno mai voluto accertare la nazionalita' ne conoscerne a posteriori il destinoche dal maggio 2009 , intercettati in mare , sono stati di volta in volta restituiti alle autorita' libiche .
Sui rimpatri forzati poi sono fioriti anche commerci collaterali da parte di personaggi vari . Un
ambasciatore somalo a Tripoli, designato ai tempi di Abdullahi Yusuf negoziava il riscatto dei
propri connazionali , in collusione con i direttori dei carceri, facendosi mandare soldi dai familiari
in Somalia e quindi provvedere a liberare il familiare (tariffa : 800/1000 $).
Il console nigeriano , dietro compenso , certificava ( e quindi ne determinava l'espulsione) o non
certificava la nazionalita' di un proprio connazionale secondo un proprio tariffario (da tenere conto
al riguardo che i clandestini, proprio per evitare l'espulsione sono senza documenti di
identificazione e tendono a dichiarare false generalita' e nazionalita'. Talvolta parlano lingue che
non sono conosciute da coloro che li interrogano. Il risultato era una registrazione dei detenuti
approssimata ).
In alcuni casi gli abusi ai clandestini sono stati perpetrati anche dai trafficanti che ne dovevano
favorire l'espatrio : i clandestini venivano portati sulla spiaggia ed improvvisamente compariva la
polizia ad arrestarli. Guadagno doppio per il trafficante che non aveva bisogno nemmeno di reperire
o pagare un natante.
Quei clandestini reperiti sul mercato nero per lavori di fatica molte volte non venivano pagati dal
committente libico che minacciava , al termine della prestazione lavorativa ,di farli arrestare.
Comunque , su questa manovalanza a basso prezzo ( o costo zero) si sono costituite in Libia anche
realta' economiche parallele.
(fine della prima parte – continua nella prossima edizione)
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L'AFGHANISTAN e l' "offensiva di primavera"
Gli attacchi simultanei da parte dei Talebani del 15 aprile scorso alle infrastrutture civili e militari di
Kabul e di alcune province limitrofe hanno posto alcuni interrogativi sulla complessa situazione
afghana e sui possibili sviluppi:
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i Talebani, movimento di opposizione al governo del Presidente Karzai, si esprimono in termini
di sconfitta delle forze di sicurezza afghane e di inizio del ritiro delle forze NATO di supporto;
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il regime di Karzai rileva l'inefficienza dell'apparato informativo ISAF;
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a seguito dell'avvenimento in esame, l'Australia starebbe valutando la possibilita' di anticipare
il ritiro del proprio contingente, rispetto al previsto 2014: una decisione, qualora concretizzata,
di considerevole impatto psicologico nei confronti degli altri contingenti della missione ISAF
("International Security Assistence Force");
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non vanno trascurate le incidenze delle scadenze internazionali: il vertice NATO di Chicago
(maggio 2012); le elezioni presidenziali USA del prossimo novembre. Peraltro, alcuni
osservatori del teatro afghano parlano di "offensive d'estate" (e non di primavera), nel senso che
i Talebani continueranno a far parlare di se' nei mesi prossimi.
L'"offensiva di primavera"
I "Talebani", movimento a base tribale (vari clan dell'etnia Pashtun) formatosi negli anni '90' dopo
la cacciata dal Paese degli occupanti sovietici per la conquista del potere a Kabul nel periodo
successivo al regime fondamentalista del Mullah Omar (1996-2001), hanno organizzato le proprie
basi operative nella "aree tribali di confine", nel Pakistan, da dove muovono per azioni terroristiche
in territorio afghano. Sono costituiti in "reti"; le piu' note: quelle del Mullah Omar, di Gulbudin
Hekmatiar, di Ismail Khan e di Abdul Aki.
La "guida spirituale" del movimento dei Talebani (Talebano sta per "studente del Corano) e' il
Mullah Omar Ahmed, nato a Nodeh (nei pressi di Kandahar) nel 1959, fondatore ed emiro dell'
"Emirato Islamico dell'Afghanistan" dal 27 Settembre 1996 al 13 Novembre 2001, basato sulla
"legge coranica" (Sharia) e su quanto ne consegue: burqa e nessuna frequenza di scuole per le
donne, barba per gli uomini; in sintesi, eliminazione dal Paese di tutto quanto possa essere o
apparire "occidentale" e pene severe per i trasgressori, fino alla lapidazione e alla pubblica
esecuzione.
Dal 2001, a seguito dell'intervento USA in Afghanistan (fine dell'Emirato), il Mullah Omar
mantiene la propria clandestinita' (con conseguenti "taglie" da parte degli Stati Uniti: da 10 milioni
di dollari per sole informazioni a 25 milioni di dollari per la cattura). Ricorrono spesso notizie sulla
morte e/o sulla cattura del Mullah Omar, poi smentite!
Di particolare interesse l'apertura di Washington a colloqui diretti con esponenti "moderati"
Talebani a Doha (Qatar) il 28 gennaio scorso: si tratta di colloqui di riconciliazione incentrati sul
rilascio di prigionieri Talebani detenuti a Guantanamo e sulla possibile apertura di un Ufficio
Politico dei Talebani a Doha.
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Nella giornata del 15 aprile i Talebani avrebbero sorpreso le forze governative con attacchi
simultanei, ben organizzati nei giorni precedenti: tre di questi nella Capitale (il Parlamento, il
quartiere della ambasciate di Germania, del Regni Unito e del Giappone, le basi NATO - Q.G. della
missione ISAF e l'Aeroporto) e altri tre nelle province limitrofe di Nangahar (l'Aeroporto di
Jalalabad), di Lowgar (base USA di Pul-e-Alam) e di Paktia (Centro di Addestramento della Polizia
di Gardez).
Le tre province indicate confinano con il Pakistan occidentale, attraverso le aree tribali pakistane,
denominate FATA (Federally Administreted Tribal Areas ), in particolare del Waziristan del Nord e
della "Provincia del North-West Frontier" (NWFP) pakistana. Si tratta di aree che sfuggono al
controllo del governo di Islamabad per la loro impenetrabilita' e per la difficile percorribilita';
peraltro, non fruiscono di sussidi amministrativi del Governo in quanto considerate "legate al
terrorismo".
I Talebani afghani, come gia' detto, utilizzano le FATA per lanciare offensive contro le forze
governative afgane e quella della coalizione ISAF; come pure dalle FATA partono offensive contro
il Governo pakistano da parte di movimenti di opposizione, come il TTP (Terik-el Taliban in
Pakistan); in sintesi, si tratta del "doppio versante" delle FATA. Nella circostanza in esame, le
FATA sarebbero state "basi" per le ricognizioni preliminari e per l'accantonamento di materiali e di
armamenti per gli attacchi.
Nella fase condotta e' risultato significativo il coordinamento tra i gruppi operativi Talebani,
attraverso l'occupazione di postazioni dominanti nei confronti dei vari obiettivi (il piano piu' alto
dell'hotel "Kabul Star", nel quartiere delle Ambasciate, e quello di un altro albergo in costruzione,
nei pressi dell'area "Parlamento-Ambasciata di Russia"); significativo altresì l'impiego di personale
"shahid" (kamikaze, piu' comunemente detto) che si e' fatto esplodere in corrispondenza della
difesa vicina e dei muri di cinta dei vari obiettivi.
Dopo alcune ore di scontri per l'occupazione di postazioni e per la neutralizzazione delle difese
vicine, l'attacco agli obiettivi (circa 17 ore, secondo i mass media) ha fatto registrare 36 morti da
parte dei Talebani, 11 morti tra le forze afghane (Esercito e forze di sicurezza), 5 morti tra i civili.
Come gia' nei precedenti attacchi del settembre 2011 e del 24 marzo scorso, e' stato ben coordinato
il ripiegamento (solamente due i Talebani catturati) e il ritorno alla normalita' delle aree investite.
Alcune considerazioni
L'offensiva da parte dei Talebani all'inizio di primavera costituisce un rituale previsto, dopo le
condizioni proibitive per le operazioni dell' "inverno afgano"; viene effettuata anche per riaffermare
la propria presenza sul teatro afghano ed eventualmente "alzare la posta" dei colloqui in atto, come
quelli di Doha.
Questa volta l'offensiva e' stata preceduta da avvenimenti che hanno inciso sul comune sentire della
popolazione locale, anche se strumentalizzati da qualche capo tribu'; ci si riferisce :
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al rogo delle copie del Corano nell'Aeroporto di Kabul (base USA di Bagram);
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alla profanazione di un militante afgano deceduto ("urine" sul cadavere da parte di soldati
USA);
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alla strage a Kandahar dell'11 marzo scorso ad opera di un Sergente USA (16 morti, compresi
donne e bambini).
Ne e' scaturita la presa di posizione del Presidente Karzai contro i militari ISAF, invitati a non
uscire dagli avamposti, definiti FOB (Forward Advanced Base), e soprattutto l'interruzione dei
colloqui di riconciliazione di Doha, con l'invito, da parte dei Talebani, di considerare tali colloqui
un "avvenimento tra afgani".
L'insorgenza ha impegnato le sole forze ISAF dell'Afghanistan orientale; sono state risparmiate le
province occidentali (Herat, in particolare), in quanto il controllo di queste ultime e' piu' fattivo e
capillare; soprattutto sono lontane dalle possibili rotte di scampo.
Un contributo considerevole all'offensiva di primavera e' stato dato ai Talebani dalla "rete
Haqqani" di etnia Pashtun, originari della provincia afghana di Paktia, con basi nel Waziristan del
Nord, area tribale delle FATA. Il leader della "rete Haqqani" e' Sirajuddin Haqqani, figlio del piu'
noto Jalaludin Haqqani, leggendario combattente contro i sovietici "occupanti"; Sirajuddin
mantiene buone relazioni con i "Servizi" pakistani e con la "rete al-Qaeda" del defunto Osama bin
Laden.
L'etnia Pashtun costituisce il 42% della popolazione afghana; e' dislocata nella parte centromeridionale del Paese, costituita da sottogruppi, clan ormai storici, molto radicati nelle proprie aree
di origine, talvolta in lotta tra loro (Ghilzai, Durrani, Popalzai - clan del Presidente Karzai - ,
Haqqani ecc.) anche per il sostegno o per l'opposizione, a seconda dei casi, al Governo di Kabul. I
Pashtun sono tradizionalmente legati all'antica Capitale dell'Afghanistan, Kandahar, piu' che a
Kabul.
Il resto della popolazione e' costituito da "minoranze etniche" dei Paesi confinanti: tagichi (27%),
hazari (9%), uzbechi (9%), turkmeni (3%), altri (10%, vi sono compresi i baluci, originari del
confinante Pakistan).
Importante considerare che sul piano interno la fiducia della popolazione nei confronti del governo
Karzai va riducendosi in quanto espressione di corruzione e di accaparramento di aiuti economici
che lasciano alla popolazione "poche briciole". I Talebani, quali oppositori del Governo di Kabul,
appaiono sempre piu' come "salvatori della popolazione": dispongono di risorse economiche (se
pure derivanti dal traffico di droga), danno lavoro e pagano per i servizi loro resi.
Peraltro, le fazioni minoritarie piu' "moderniste" cominciano ad "aprire" ai diritti delle donne
(partecipazione all'insegnamento; frequenza di alcune scuole riservate fino ad ora all'altro sesso).
Sul piano internazionale, con il fallimento della strategia occidentale (importazione nel Paese
della democrazia, avulsa dall'aggiornamento delle istituzioni e dall'individuazione, a tal fine, di
fazioni piu' moderate con le quali colloquiare), la "chiave di volta" potrebbe passare per l'Islam
attraverso il coinvolgimento dei Paesi vicini (come gia' avviato da Washington) ovvero dell'Iran
sciita e del Pakistan sunnita; ma sussistono difficolta', in quanto:
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l'Iran, diversamente da quanto ha potuto attuare nei confronti dell'Iraq e della Siria, ha carte piu'
complicate da giocare in Afghanistan; e poi c'e' il programma nucleare;
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il Pakistan trova vantaggio nella strategia fin qui usata, quella del "doppio gioco e doppio
comando", con l'intervento, a seconda dei casi, dei "Servizi di intelligence" o dell'Esercito.
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Quali alternative al ritiro della missione ISAF?
Dopo 11 anni di impegno in Afghanistan da parte dell'Occidente, con un considerevole numero di
perdite ed un costo elevato (miliardi di dollari), merita attenta valutazione l'annuncio del
contingente australiano, specie in vista delle prossime scadenze internazionali: il vertice NATO di
maggio a Chicago; la probabile ripresa dei colloqui per l'Afghanistan, in Qatar; le elezioni
presidenziali negli Stati Uniti di novembre (per il secondo mandato di Obama).
Sta di fatto che si avanzano dubbi sui futuri risultati della missione ISAF: vale la pena di ricordare
che dopo l'attacco alle "torri gemelle" dell'11 settembre 2001, il mandato prevedeva la reazione
contro l'organizzatore dell'attacco e contro il "regime oppressore" del Paese che lo ospitava,
istituendovi la democrazia, allo scopo di evitare analoghe situazioni per il futuro.
A questo punto, Osama bin Laden e' stato eliminato, ma l'avvento della democrazia in Afghanistan
e' ancora lontano: e' il caso di chiedersi se il Paese sia in condizioni di "fare da solo", ai fini del
ritiro della missione ISAF.
Nonostante l'accettabile reazione della forze governative afgane contro l'offensiva di primavera dei
Talebani del 15 aprile, si individua le necessita' di completare, prima dell'abbandono del Paese,
l'addestramento e la formazione dell'ANA (Esercito Nazionale Afghano) e l'ordinamento dell'ANP
(Polizia Nazionale Afghana): portare cioe' il totale degli effettivi dagli attuali 300 mila a 350 mila,
incrementando soprattutto le forze di polizia dalle 130 mila unita' attuali a 180 mila (e' previsto
inoltre, a partire dal 2015, un finanziamento di 4,1 miliardi di dollari l'anno, per il mantenimento
dell'operativita' delle forze di sicurezza afghane).
Si tratta altresì di organizzare l' "exit strategy" con visione comune, coordinata in ambito ISAF,
evitando pericolose iniziative individuali dei Paesi partecipanti, con ripercussioni negative di
"effetto domino", date le comuni difficolta' economiche dei governi interessati. e' il caso di
considerare anche gli orientamenti del contingente USA: ritiro di 22 mila militari nella prossima
estate e disimpegno nel 2014.
L'abbandono dell'Afghanistan al momento potrebbe portare al "gia' visto" del 1989 (ritiro dei
sovietici), con sviluppi di situazione drammatici sul piano interno, molto prossimi a "guerra civile
per il potere" tra opposte fazioni; mantenere il contributo operativo ed economico di ISAF fino al
conseguimento dell'idoneita' e dell'autonomia operativa da parte delle forze afgane e comunque, nel
rispetto di una decisione coordinata, eviterebbe ripensamenti e interventi successivi.
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