LA FAME DELLO ZANNI PROLOGO

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LA FAME DELLO ZANNI PROLOGO
PROLOGO DE: LA FAME DELLO ZANNI
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LA FAME DELLO ZANNI
PROLOGO
Lo Zanni è un contadino, o meglio è il soprannome del classico
villano che viveva nelle valli del Po nel ‘500.
Lo Zanni era talmente famoso nel teatro di quell’epoca da
diventare il padre di Arlecchino, Brighella e Sgagnarello.
Gli Zanni furono costretti a causa di una violenta crisi economica
ad abbandonare le proprie terre per emigrare in massa verso le
città.
Le cause di quella crisi sono da ritrovare nei giochi scellerati delle
banche e dei mercati che all’istante offrivano merce a prezzi
stracciati.
Gli Zanni non riuscivano più a vendere i loro raccolti.
Fu così che i contadini di tutto il nord fallirono e cercarono di
cavarsela cambiando mestiere.
Fu un grave errore: bene o male nelle loro valli qualcosa per
sfamarsi potevano ancora rimediarla, ma come arrivarono a
Venezia, Milano, Modena e Bologna sperando di ritrovare un buon
lavoro, s’accorsero che l’unico mestiere che in città era possibile
rimediare era quello del servo, dello svuotatore di latrine, del
disperato pezzente sempre affamato.
Il linguaggio che userò in questa giullarata è quello inventato dai
comici della Commedia dell’Arte, quando volevano imitare la
parlata del contado, cioè il Grammelot, sarebbe a dire un
linguaggio completamente assurdo composto da espressioni
onomatopeiche, attrave
rso le quali ci si può far intendere grazie ai suoni e alla gestualità.
All’inizio vi sembrerà di non capire niente ma appresso sono certo
che indovinerete l’intero discorso, compresi argomenti che non
pensavo affatto di avervi accennato.
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Il titolo parla della fame, una fame terribile, al punto che lo Zanni
pensa di mangiare se stesso: piedi, gambe, tutto. Perfino le persone
che stanno intorno a lui.
All’istante la follia del digiuno lo porta ad immaginare di ritrovarsi
in una cucina e fra i fornelli di prepararsi un grande pranzo
pantagruelico! Polenta, tordi, galline, ed ecco che lo Zanni va
cucinando a una velocità incredibile.
Vado a cominciare:
“Dio che fame che tegno, me straparia un ogio e me lo magnaria
me fose n’ovo. El naso me magnaria, anca el piselo e tuti voi altri
che me stè a vardà, le montagne me magnaria, e le nivole e bon par
ti, Deo che te stè luntàn! E varda chì ‘sta marmita pronta sul fogo,
ghe roverso l’acqua da bolire. GLU, GLU, GLU, GLU, GLU, un
poco de sale. Go anca il covercio, GLU, GLU, GLU, GLU, GLU” .
(Mima di scoperchiare la pentola e di annusarne il vapore che sorte
con violenza)
“Vai, vai, che adesso ghe meto la polenta. Go chi un saco pieno, lo
verso. Oh boia! M’è andà ne l’agua bolente anca il saco!”
(Con il bastone infilza il sacco e lo agita insieme alla polenta).
“Te cosino anca tì, tuto quel che non stopa, ingrasa, sente che
parfumo me fa svenì, varda! Go besogn de ‘naltro fogo e una
padela. Ecula lì la padela le questa! Ghe meto un pogo de songia,
butiro e via a frizere! Carna! Va che toco de carna, lo fo a tochi.”
(Prende un grosso coltello)
“Via che tajo! Lo fo tuto a tochìn sto manzo. Ahia! Per poco non
me tajavo un dido! Oh, la mia ungia! Oh dentro tuto adesso! Sigola
e anca l’aio!”
(Afferra il manico della pentola, lo scuote e cerca di imitare i
cuochi di professione gettando in aria il contenuto della pentola per
poi raccoglierlo al volo. Gli riesce una volta ma con la seconda
gittata combina un disastro).
“Oh boia, tuta la carna per tera!”
(La raccoglie e la rimette in padella)
“N’altra! N’altra padela ghe vò!”
(Così dicendo ne afferra un’altra)
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“Questa la và bèn! Un gutìn d’oleo, rusmarin e fogo a volontè. La
gaina! COO! COO! COO!”
(Mima di acchiapparla e di torcerle il collo, ma esagera tanto che si
ritrova con la testa staccata in una mano. Osserva la testa e la
ingoia con avidità)
“Bon! Roba fresca!”
(Afferra di nuovo il coltello)
“Ghe taio la panza così ghe fago el ripièn. Un poco de aio, del
fìdego, basilego e altri parfumi e adesso besogna cusirgli la
panza!”
(Mima di infilare lo spago in un ago e quindi inizia a cucire e
commenta)
“Se nun se cuse per bèn la panza, el parfumo del repièn vola via,
invece cusì al resta tuto dentro che te incioca.”
(Recide coi denti lo spago quindi soprapensiero s’infila in bocca
l’ago)
“Oh deo! Me son magnà la gugia! Ecula qui! Int’ul lavro me la
s’ero enfilà!”
(Sfila l’ago, lo osserva un attimo ridendo e se la mangia divertito e
torna alla padella)
“Oh! Brusa la carna!”
(Scuote la padella e la agita, quindi con l’altra mano afferra la
padella dove sta la gallina)
“Deo, che parfumi me fàn venì mato! Oh Deo, la polenta la debio
far girare”
(Quindi tenta con l’ agilità di un giocoliere di muovere il bastone e
le padelle e infine decide di infilarsi il bastone nel sedere così da
aver libere le mani a vantaggio delle padelle. Inizia entusiasta una
strana danza del ventre e delle braccia. Dopo un attimo si cava il
bastone dalle natiche e va a sollevare verso il pentolone la padella
con la carne e versa il contenuto nella marmitta insieme alla
polenta, rotea il bastone nella pietanza, quindi va ad afferrare la
gallina per verificare se è cotta al punto giusto. Si scotta e molla
fendenti col coltello staccando cosce e ali dal gallinaccio. Eccitato
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com’è arriva a staccarsi di netto un dito della mano. Lo afferra
disperato.)
“El mè dido! Me son tajà il dido!”
(E se lo mangia in un sol boccone ridendo soddisfatto. A questo
punto rovescia il pollo fatto a pezzi nella grande marmitta, la
solleva con gesto deciso e potente, tanto da porla rovesciata sulla
sua bocca. Va ingoiandosi tutto il contenuto come un assatanato
quindi raccoglie i pezzi di cibo restanti nella marmitta servendosi
del bastone. S’infila la cannella nella bocca spalancata spingendo
in giù il pasto. Spinge con tal potenza che ad un certo punto
s’ingoia tutto il bastone. Qui si trova come letteralmente impalato,
quindi per sciogliersi esegue una danza del ventre con scatti netti e
vivaci, tanto da mandare a pezzi il bastone infilato nello stomaco
giù fino al ventre. Per finire si lascia sfuggire un tremendo rutto
dalla gola)
“Pardon!”
(All’improvviso, come risvegliandosi, manda un grido disperato)
“Non è vèr nient de quel che me son imaginato! L’è sol un sogn,
non ho cusinà na gota, non ho mangià nient, ne manco el dito!”
(Se lo osserva puntandolo agli occhi. Piange e trasforma il pianto
in un suono d’insetto che gli sta svolacchiando intorno al viso)
“ZI, ZI, ZI, ZI, ZI”
(Guarda l’insetto che si agita qua e là e lo minaccia)
“Via! Và via!”
(L’insetto, forse un calabrone, gli si è fermato sul naso, e lo Zanni
muovendo le dita come fossero zampe da giaguaro con un gesto
rapidissimo riesce ad acchiappare l’insetto, lo stringe fra le dita e
poi atteggiandole a tubo mima di guardare in un cannocchiale)
“Bello! Grasso! Grosso!”
(Ora lo Zanni è riuscito a imprigionare il calabro-moscone fra le
dita)
“Và che bestia!”
(Osservandolo con attenzione)
“Varda che alete zentili e culurà!”
(Gliele stacca)
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“E ghe quei che le buta via”
(Così dicendo se le mette sulla lingua e le ingoia, quindi stacca una
zampettina dalla preda)
“Bello! Pare un parsutto!”
(Lo azzanna coi denti ed esclama)
“Dolzo!” (così dicendo afferra anche l’altra zampetta e la stacca)
“Questa l’è anca più grasa! Mmmmmmh!”
(mugula)
“Che bòn!”
(Si porta davanti agli occhi quel che resta del tronco dell’insetto.
Mima di spolverarci un po’ di sale, quindi lo ingoia di netto. Lo
assapora, e alla fine soddisfatto esclama)
“Che magnada!”
(Ed esce di scena quasi danzando).