Oneri probatori 2051 c.c

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Oneri probatori 2051 c.c
“LA RIPARTIZIONE DEGLI ONERI PROBATORI NELLA RESPONSABILITÀ EX ART. 2051
C.C.” – Roberto BOTTERO
Sommario: § 1. Premessa § 2. L’evoluzione storica: dall’insidia o trabocchetto all’art. 2051 c.c.
§ 3. Gli elementi (non) costitutivi dell’art. 2051 c.c. § 4. La visibilità come prova del fortuito?
§ 5. Sul comportamento colposo del danneggiato. La c.d. “prevenzione bilaterale”:
un’inammissibile interpretazione estensiva dell’art. 2051 c.c. § 6. Ancora sul comportamento
colposo del danneggiato. Il falso mito del c.d. principio di autoresponsabilità: nessuna
imprudenza o disattenzione del danneggiato ma rilevanza causale della condotta
§ 7. Conclusioni
§ 1. Premessa
Sono ormai consuete le difese di stile proposte dai custodi convenuti, per lo più pubbliche
amministrazioni, che resistono alle domande risarcitorie opponendo la colpa del danneggiato nella
verificazione del sinistro.
Si assume spesso che il danneggiato che non abbia prestato la dovuta diligenza ed attenzione abbia
causato o concausato l’evento.
Non sono rare le motivazioni che finiscono per attribuire di default una colpa al danneggiato, senza
tuttavia esplicitare cosa in concreto tale comportamento sarebbe consistito: di fatto, la condotta
colposa della vittima viene presunta, vuoi in relazione al contesto, vuoi sulla scorta non già di
circostanze di fatto provate ma, a sua volta, di ulteriori presunzioni poste in chiave meramente
ipotetica e teorica.
Si avverte, nelle pronunce di legittimità come di merito (sono diverse quelle della IV sezione del
Tribunale di Torino1 a firma del medesimo estensore), una sorta di “prudenza protettiva” in favore
delle amministrazioni pubbliche e segnatamente dei comuni e delle di loro compagnie assicuratrici.
La salvaguardia dei sempre più dissestati bilanci comunali sembra essere la reale ispirazione di certe
interpretazioni nella quali si rinvengono inediti aggravi probatori a carico del danneggiato e che i dati
normativi e i principi di diritti vivente non ammettono.
Sebbene la prova possa anche essere indiretta e/o presuntiva, occorre pur sempre che verta su
circostanze di fatto specifiche atteso che la norma di cui all’art. 2051 c.c. richiede la prova a carico
del custode del caso fortuito2.
Ovvero l’allegazione e la prova di una circostanza di fatto (il comportamento concreto del
danneggiato, non già la sua mera ipotetica e teorica colpa) tale da interrompere il nesso di causa tra
cosa ed evento.
Se è vero che è possibile risalire al fatto ignoto (comportamento negligente del danneggiato)
attraverso circostanze di fatto note e/ provate, è evidente che queste ultime non possono essere a loro
volta presunte e/o ipotizzate ma, appunto, dimostrate, secondo i rigorosi principi in tema di
accertamento della rilevanza causale del contegno della vittima serbato nell’uso della cosa pubblica
(su cui infra § 6).
Di fatto, invece, sembra costume giurisprudenziale invalso quello di presumere il comportamento
negligente del danneggiato, mediante un’applicazione dell’art. 2051 c.c. manifestamente contra jus:
Sul punto chiarissima la suprema Corte che con sentenza 10860/2012 della quale si riporta un
significativo passaggio:
Nelle cui motivazioni ricorre sistematicamente l’assunto, tristemente noto ai colleghi del Foro torinese che si
occupano della materia, secondo cui il cittadino non può pretendere di camminare su di “un serico tappeto da
biliardo”.
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“Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso
fortuito”. Come sin troppo noto, si tratta di una forma di responsabilità oggettiva, come tale eccezionale
rispetto al modello “ordinario” ex art. 2043 c.c. e dunque insuscettibile di applicazioni analogiche e/o
estensive in forza delle quali, in sostanza, si finisce per attribuire l’onere di provare l’assenza del fortuito
(leggi: l’assenza di un comportamento negligente) a carico del danneggiato. Per ampi e puntuali
approfondimenti, si v. R. Mazzon, Responsabilità oggettiva e semioggettiva, Utet, 2012.
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"4. …A ciò aggiungasi che, in disparte ogni rilievo in ordine alla sostanziale apoditticità della
svalutazione delle informazioni fornite dal teste V. sul funzionamento del portone, informazioni
riportate sia in sentenza che nel ricorso, il giudice di merito ha in sostanza addossato all'attore
l'onere di provare l'immediatezza e in definitiva l'irregolarità della chiusura dell'anta, così in
sostanza violando il disposto dell'art. 2051 c.c., nella portata assunta per consolidato diritto
vivente. L'errore giuridico in cui è caduto il Tribunale ha avuto una plastica ricaduta
nell'affermazione che il ragazzo era rimasto nel raggio di chiusura dell'anta, affermazione che,
non suffragata da alcun elemento oggettivo, è evidentemente frutto di una presunzione che contra
ius addossa al danneggiato, piuttosto che al custode, l'onere di provare l'insussistenza del caso
fortuito, costituito, nella fattispecie, dal comportamento della stessa vittima.
Non par dubbio infatti che, sotto il profilo dell'art. 2051 c.c., spettasse al P. dimostrare il nesso
causale tra cosa in custodia e danno, e cioè la dipendenza eziologica dei pregiudizi da lui riportati
per effetto della chiusura del portone d'ingresso; mentre incombeva sulla controparte dare la prova
del fortuito, in sostanza deducendo, e dimostrando, il buon funzionamento del dispositivo MAB e
la correlativa addebitabilità dell'evento all'utente che, contro le più elementari regole di prudenza
si era attardato nel raggio di chiusura, rimanendo investito dal rientro del battente".
Chiarissimo l’assunto3: il caso fortuito deve essere provato positivamente dal custode e non può
essere presunto.
In altri termini, nel corso del giudizio, il custode dovrebbe provare l’evento interruttivo del nesso di
causa.
La ripartizione degli oneri probatori è bene evidenziata dalla Suprema Corte4.
Ancora di recente, il Tribunale di Torino si è epresso molto chiaramente sul tema, evidenziando
come “…deve ritenersi provato, nel senso sopra chiarito, ‹che l’evento si è prodotto come
conseguenza normale della particolare condizione, potenzialmente lesiva, posseduta dalla cosa›,
senza che sia stata offerta dalla controparte prova di una condotta del danneggiato o di un fattore
‹estrenao alla sua sfera di custodia, avente impulso causale autonomo e carattere di
imprevedibilità e di assoluta eccezionalità›, tenuto anche conto ‹della natura della cosa e della
modalità che in concreto e normalmente ne caratterizzano la fruizione› (Cassazione civile, sez. III,
24/02/2011, n. 4476)”.5
Dunque occorre che il custode fornisca la prova del comportamento negligente del danneggiato,
avente sicura efficienza interruttiva del nesso causale, allegando e provando contegni
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4.3. Infatti la considerazione oggettiva del fortuito, inteso come avvenimento obbiettivamente non
prevedibile come verisimile, è l'unica compatibile con la teoria della causalità adeguata. Il punto è che qui
anche l'imprevedibilità dell'evento va osservata oggettivamente, cioè sul piano causale, e serve a porre in
relazione tra loro accadimenti sulla base del calcolo delle probabilità. Non si tratta di stabilire se il custode
potesse o meno prevedere l'evento dannoso con l'ordinaria diligenza dell'uomo medio, ma di valutare se
verosimilmente, in quelle circostanze di tempo e di luogo, l'evento fosse da mettere in relazione alla custodia
ed in quale misura. 4.4. La giurisprudenza costante ritiene che la responsabilità del custode, ai sensi
dell'art. 2051 c.c. è esclusa dall'accertamento positivo che il danno è stato causato dal fatto del terzo o
dello stesso danneggiato, il quale ha avuto efficacia causale esclusiva nella produzione del danno (Cass.
21/10/2005, n. 20359; Cass. 23/10/1998, n. 10556). Per ottenere l'esonero dalla responsabilità, al custode è
richiesta la prova che il fatto del terzo abbia i requisiti dell'autonomia, dell'eccezionalità,
dell'imprevedibilità, dell'inevitabilità, quindi, dell'idoneità a produrre l'evento, escludendo fattori
causali concorrenti (Cass. 27/01/2005, n. 1655; Cass. 4/02/2004, n. 2062; Cass. 21/10/2005, n. 20359).
(Cass. sez. III 29 marzo 2012 n. 5072).
“La responsabilità prevista dall’art. 2051 c.c. per i danni cagionati da cose in custodia presuppone la
sussistenza di un rapporto di custodia della cosa e una relazione di fatto tra un soggetto e la cosa stessa, tale
da consentire di controllarla, di eliminare le situazioni di pericolo che siano insorte e di escludere i tersi dal
contatto con la cosa stessa; detta norma non dispensa il danneggiato dall’onere di provare il nesso causale tra
cosa in custodia e danno, ossia di dimostrare che l’evento si è prodotto come conseguenza normale della
particolare condizione potenzialmente lesiva della cosa, mentre resta a carico del custode la prova contraria
del caso fortuito (avente impulso causale autonomo, imprevedibile ed eccezionale”. (Cass. sez. VI Ord. 14
maggio 2013 n. 11517)
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Tribunale di Torino GU Castellino sentenza 18 novembre 2013 n.6712
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causalmente efficienti nella produzione dell’evento e non mere disattenzioni, negligenze,
imprudenze, ecc.
Con specifico riferimento al fatto del danneggiato, si è affermato che “la responsabilità del custode,
di cui all’art. 2051 c.c., ha natura oggettiva e presuppone non la colpa del custode, ma la mera
esistenza di un nesso causale tra la cosa ed il danno. Essa è perciò esclusa solo dalla prova del
fortuito, nel quale può rientrare anche la condotta della stessa vittima, ma, nella valutazione
dell’apporto causale da quest’ultima fornito alla produzione dell’evento, il giudice deve tenere conto
della natura e delle modalità che in concreto e normalmente ne caratterizzano la fruizione (cfr.
Cass. civ. 7 aprile 2010, n. 8229; Cass. civ. 19 febbraio 2008, n. 4279; Cass. civ. 5 dicembre 2008,
n. 28811)” (Cass. Civ. sez. III 24 febbraio 2011 n.4476).
Ciò non toglie comunque che il ragionevole affidamento che l’utente riposa sulla sicurezza del bene
pubblico non può ritorcersi a suo danno in chiave di contegno ex se colposo e/o riprovevole.
§ 2. L’evoluzione storica: dall’insidia o trabocchetto all’art. 2051 c.c.
L’impostazione giurisprudenziale tradizionale – espressa in un consolidato filone6 anteriore al 2005 –
riconduceva la responsabilità della p.a. per la manutenzione delle strade entro il paradigma dell’art.
2043 c.c., negando l’applicabilità alla fattispecie dell’art. 2051 c.c.
In particolare la funzione nomopoietica di una costante giurisprudenza pretoria ha elaborato la
discussa figura della c.d. insidia o trabocchetto, consistente in una situazione di pericolo occulto per
l’utente della strada non visibile e non prevedibile, pertanto non evitabile attraverso il ricorso alla
normale diligenza. Detto filone giurisprudenziale ha progressivamente specificato ed ampliato il
contenuto di siffatta figura, qualificandola dapprima alla stregua di un’opzione sintomatica
dell’attività colposa della p.a. e successivamente come un necessario elemento costitutivo della
responsabilità dell’amministrazione7. L’onere della prova circa la sussistenza dell’insidia o
trabocchetto era peraltro allocato in capo all’utente della strada danneggiato8.
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Cfr., ex multis, Cass. 4 giugno 2004 n. 10654, Cass. 28 gennaio 2004 n. 1571; Per Cass. 3 dicembre 2002 n.
17152, “La responsabilità colposa della p.a. in caso di insidia o trabocchetto stradale, che trova fondamento
nella Generalklausel di cui all'art. 2043 c.c., è astrattamente compatibile con il concorso del fatto colposo dei
danneggiato tutte le volte in cui il fatto stesso non sia idoneo ad interrompere tout court il nesso causale tra
l'evento ed il comportamento colposamente omissivo dell'ente pubblico, non essendo predicabile, in astratto,
l'opposto principio dell'interruzione del detto nesso causale per il solo fatto che l'utente abbia tenuto, a sua
volta, un comportamento irregolare, ma dovendosi, per converso, valutare in concreto (in sede di giudizio di
merito) l'entità dell'apporto causale del comportamento colposo del danneggiato nella produzione dell'evento
dannoso”.
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Sul punto Cass. 1 dicembre 2004 n. 22592, per cui “La presunzione di responsabilità per danni da cose in
custodia, di cui all'art. 2051 c.c., non si applica agli enti pubblici ogni qual volta il bene, sia esso demaniale o
patrimoniale, per le sue caratteristiche (estensione e modalità d'uso) sia oggetto di - una utilizzazione generale
e diretta da parte di terzi, che limiti in concreto le possibilità di custodia e vigilanza sulla cosa; in questi casi,
l'ente pubblico risponde secondo la regola generale dettata dall'art. 2043 c.c., e quindi può essere ritenuto
responsabile per i danni subiti da terzi a causa di una insidia stradale solo quando l'insidia stessa non sia
visibile, e neppure prevedibile. (Nella specie, la Corte cass. ha confermato la sentenza di merito che aveva
escluso la responsabilità di un Comune per il danno subito da un ciclista a seguito dell'urto contro un paletto
conficcato nel manto stradale, ritenendo che il paletto fosse visibile, e quindi evitabile, in quanto l'incidente si
era verificato in pieno giorno e il paletto sporgeva di circa un metro dal suolo, e ritenendo, per contro, non
rilevante che esso fosse inclinato e di colorazione simile a quella dell'asfalto)”
8
Si vd. Cass. 8 novembre 2002 n. 15707, per cui “per quanto concerne i danni subiti dall'utente in
conseguenza dell'omessa o insufficiente manutenzione di strade pubbliche, il referente normativo per
l'inquadramento della responsabilità della p.a. è costituito - non dall'art. 2051 c.c., che sancisce una
presunzione inapplicabile nei confronti della p.a., con riferimento ai beni demaniali quando essi siano oggetto
di un uso generale e diretto da parte dei terzi - ma dall'art. 2043 c.c. che impone, nell'osservanza della norma
primaria del neminem laedere, di far sì che la strada aperta al pubblico transito non integri per l'utente una
situazione di pericolo occulto; detta responsabilità, pertanto, è configurabile a condizione che venga provata
dal danneggiato l'esistenza di una situazione insidiosa caratterizzata dal doppio e concorrente requisito della
non visibilità oggettiva e della non prevedibilità subiettiva del pericolo stesso”.
3
Una tale disciplina rinveniva il proprio fondamento nel generale favor che tradizionalmente
accompagnava l’esplicazione dell’azione amministrativa secondo moduli privatistici e non già
autoritativi.
Tuttavia la predetta opzione interpretativa è stata aspramente criticata da attenta dottrina9 che ha
rilevato come la figura dell’insidia o trabocchetto costituisse un quid pluris non richiesto dalla
generale disciplina in tema di responsabilità aquiliana. Ed infatti l’illecito extracontrattuale –
come configurato dalla norma cardine dell’art. 2043 c.c. – annovera fra i suoi elementi
costitutivi il fatto doloso o colposo, l’ingiustizia del danno ed il nesso eziologico fra la condotta
del danneggiante e l’evento lesivo.
Non rientrano invece in tale fattispecie né la natura occulta del pericolo né la sua
imprevedibilità.
Si vedrà (cfr. infra § 3) come anche alcuna recentissima giurisprudenza di legittimità escluda
dall’art. 2051 c.c. i caratteri della non visibilità ed imprevedibilità del pericolo.
§ 3. Gli elementi (non) costitutivi dell’art. 2051 c.c.
Vi sono pronunce che chiariscono come l’insidia o il trabocchetto non rappresentino elementi
costitutivi dell’art. 2051 c.c. e come, dunque, della loro prova non possa onerarsi il danneggiato.
Ciò che non può non avere riflesso sulla pretesa visibilità ed evitabilità del pericolo: se questo, inteso
quale insidia o trabocchetto, non è elemento costitutivo della responsabilità ex art. 2051 c.c., diventa
inaccettabile che si pretenda di individuare caratteristiche (“visibilità”, “evitabilità”) di elementi che
sono estranei alla fattispecie che resta comunque speciale rispetto a quella ex art. 2043 c.c. (non
richiedendo difatti la prova della colpa del danneggiante)
In questo senso Cass. 4234/2009:
In materia di responsabilità civile da manutenzione di strade pubbliche statali, l'insidia o
trabocchetto determinante pericolo occulto non è elemento costitutivo dell'illecito aquiliano ex
art.2043 c.c., sicché della prova della relativa sussistenza non può onerarsi il danneggiato,
risultandone altrimenti, a fronte di un correlativo ingiustificato privilegio per la pubblica
amministrazione, la posizione inammissibilmente aggravata, in contrasto con il principio cui risulta
ispirato l'ordinamento di generale favore per colui che ha subito la lesione di una propria posizione
giuridica soggettiva rilevante e tutelata a cagione della condotta dolosa o colposa altrui, che impone
a chi questa mantenga di rimuovere o ristorare, laddove non riesca a prevenirlo, il danno inferto. A
tale stregua l'insidia o trabocchetto può ritenersi assumere semmai rilievo nell'ambito della prova
da parte della pubblica amministrazione di avere, con lo sforzo diligente adeguato alla natura
della cosa e alle circostanze del caso concreto, adottato tutte le misure idonee a prevenire che il
bene demaniale presenti per l'utente una situazione di pericolo e arrechi danno, al fine di far
valere la propria mancanza di colpa o, se del caso, il concorso di colpa del danneggiato.
Cass, Sez. III Civ. Sent. 19 febbraio 2013, n.4039 osserva:
Per di più, il riferimento effettuato dal ricorrente ai concetti di 'insidia' e 'trabocchetto' appare del
tutto privo di rilievo, in quanto la teorica del cd. 'pericolo occulto' è connessa all'accennato e
ormai superato orientamento giurisprudenziale il quale, ponendo un regime estremamente
favorevole alla PA, riteneva non sufficiente una colpa generica della PA per attribuire ad essa la
responsabilità, ma necessario che il difetto di manutenzione si traducesse in un'insidia,
trabocchetto o tranello, cioè un pericolo non visibile, non prevedibile, non controllabile, quindi
idoneo a determinare una responsabilità (allora ex art. 2043 c.c.). Tale orientamento
giurisprudenziale considerava sussistente la colpa della PA solo quando il difetto di manutenzione
si fosse tradotto in uno stato di fatto pericoloso, non visibile ed occulto e quindi per questa ragione
maggiormente pericoloso.
9
Cfr., ex pluribus, Sangiorgio, Appunti sulla responsabilità civile della p.a. per danni conseguenti alla omessa
manutenzione di strade pubbliche, in Dir. Inf., 2001, 279 ss.; Salvago, La perdurante incertezza
giurisprudenziale circa la responsabilità ex art. 2051 c.c. dell’ente per omessa o insufficiente manutenzione
della strada, in Giust. Civ., 2007, 1, 167 ss.; Cappuccio, La pubblica amministrazione e l’art. 2051 c.c., in
Nuovo Dir., 2000, 697 ss.; Balzarotti, Insidie e trabocchetti nelle pubbliche strade, in Nuova Giur. Civ.
Comm., 1998, 39 ss.; Peila, La responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia: nozione ed
applicazione alla Pubblica Amministrazione, in Resp. Civ. Prev., 1996, 72 ss.
4
Al contrario, nell'ipotesi di specie, la base giuridica dell'art. 2051 c.c. fonda il titolo della
responsabilità a carico del Comune di Campobello, nel senso che l'insidia e il trabocchetto non
hanno alcuna rilevanza come condizioni necessarie per l'applicabilità della norma medesima, la
quale invece risulta applicabile ad ogni tipo di danno cagionato dalla res, indipendentemente dal
fatto se il rischio sia visibile o nascosto.
Al più, la presenza di un vizio occulto avrebbe potuto assumere rilievo ai fini della minore o
maggiore difficoltà della prova liberatoria che la PA avrebbe dovuto fornire per non incorrere in
responsabilità ex art. 2051 c.c..
Infatti, per andare esente da responsabilità, la PA deve provare, con lo sforzo diligente adeguato
alla natura delle cose e alle circostanze del caso, di aver adottato tutte le misure idonee a prevenire
che il bene demaniale - strada presenti per l'utente una situazione di pericolo occulto ed arrechi
danno, al fine di far valere la propria mancanza di colpa. Al contrario, nel caso di specie, la PA non
è stata in grado di fornire tale prova liberatoria, avendo la Corte territoriale ritenuto insussistente
un'ipotesi di pericolo occulto (onere della prova pertanto non assolto, da parte del Comune, nei
gradi di merito e non più possibile oggetto di discussione in sede di legittimità) e a fortiori
inesistente, dal punto di vista materiale, l'adozione da parte del Comune di ogni misura idonea a
prevenire la situazione di rischio invisibile e nascosto.
Inoltre, il primo motivo va rigettato anche sotto il profilo della censura di vizio motivazionale ex art.
360 comma 1 n. 5 c.p.c., in quanto la Corte territoriale ha sufficientemente e coerentemente
motivato, nel senso anzidetto, i profili di responsabilità del Comune e dell'impresa, non essendovi
alcuna contraddizione logica con la ritenuta assenza di insidia-trabocchetto né con la condotta
imprudente della vittima (rilevante sotto il diverso profilo del concorso di colpa). Intatti, il Comune
non solo ha omesso l'adozione di misure volte a prevenire il rischio occulto (peraltro nella specie
indimostrato e non ritenuto esistente dalla Corte territoriale), ma ha anche omesso il controllo
sull'adempimento dell'obbligo, da parte dell'impresa, di adottare misure per evitare danni a terzi
(rivelatesi del tutto insufficienti), incombendo prima di tutto sulla medesima l'obbligo di curare che
lo sbarramento fosse completo ed impedisse, realmente, l'ingresso a mezzi e persone.
La Corte territoriale ha ritenuto applicabile alla fattispecie la regola posta dall'art. 1227 comma 1
c.c., che prevede la riduzione del risarcimento in presenza della colpa del danneggiato e
proporzionalmente all'incidenza causale di tale colpa sull'evento dannoso (ex plurìbus Cass. nn.
21328 del 2010, 9546 del 2010, 1002 del 2010).
Se il comportamento (omissivo o commissivo) colposo del danneggiato rileva a livello concorsuale
nella produzione del danno, parimenti il medesimo, qualora sia da solo sufficiente a determinare
l'evento, esclude il rapporto di causalità delle cause precedenti: l'interruzione del nesso di causalità,
astrattamente, può essere anche l'effetto del comportamento sopravvenuto del danneggiato, quando
il fatto di costui si ponga come unica ed esclusiva causa dell'evento di danno, ad esempio in caso di
uso del tutto improprio del bene demaniale o al di fuori delle regole prescritte, sì da privare
dell'efficienza causale e da rendere giuridicamente irrilevante il comportamento dell'autore
dell'illecito (per tutte, cfr. Cass. n. 9546 del 2010).
In quest'ottica, la diligenza del comportamento dell'utente della strada demaniale va valutata in
relazione all'affidamento che era ragionevole porre nell'utilizzo ordinario di quello specifico bene
demaniale, con riguardo alle specifiche condizioni di luogo e di tempo: in questi termini il
colpevole comportamento del danneggiato modula la corretta applicazione del principio di
regolarità causale (o causalità adeguata) ai fini del nesso causale, escludendo o configurando un
apporto concorrente.
La Corte territoriale ha fatto buon governo degli anzidetti principi in tema di concorso colposo del
danneggiato e nesso di causalità ex art. 1227 comma 1 c.c., riconoscendo un apporto concorsuale
del comportamento colposo del danneggiato nella causazione dell'evento, affermando che “doveva,
pertanto, ritenersi imprudente il comportamento della vittima la quale, certamente non esperta per
la giovane età, in situazione di completa oscurità si era avventurata su un tratto di strada che. per la
presenza dei massi suddetti, poteva ragionevolmente ritenersi non ancora aperta al traffico, a
velocità sicuramente non adeguata allo stato dei luoghi”, non ritenendo affatto, però, che l'apporto
del danneggiato alla causazione dell'evento fosse stato tale da far venir meno la corresponsabilità
ex art. 2051 c.c. dell'impresa e del Comune, anzi rideterminando la percentuale di concorso della
vittima, riducendola al 50%, e riliquidando l'importo dei danni risarcibili.
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In altri termini, la Corte territoriale ha valutato il comportamento colposo della vittima danneggiata
non determinante perché non idoneo ad interrompere tout court il nesso causale tra il
comportamento omissivo colposo dell'ente pubblico e l'evento dannoso, valutando in concreto in
sede di giudizio di merito l'entità di tale apporto causale nella misura del 50%. Tale valutazione è
del tutto insindacabile in sede di legittimità, in quanto logicamente e congruamente motivata rispetto
al comportamento della vittima, in relazione all'affidamento che sarebbe stato ragionevole
attendersi nell'utilizzo della strada in quelle concrete circostanze di luogo e di tempo.
Pertanto, nessuna contraddizione logica può ravvisarsi tra il concorso di colpa ed il comportamento
imprudente della vittima, che anzi è alla base della ripartizione concorsuale degli apporti causali tra
danneggiante e danneggiato; inoltre, nessuna rilevanza può essere ascritta alle prospettazioni del
ricorrente, laddove si lamentano circostanze asseritamente non prese in considerazione nella
sentenza d'appello ai fini di un maggiore concorso di colpa della vittima, quali l'eccesso di velocità
(già valutato dalla Corte) e il mancato uso del casco protettivo obbligatorio (non desumibile dalle
risultanze processuali).
3.4.3. - Con il quarto motivo, il Comune denuncia violazione per mancata applicazione dell'art.
2697 c.c. ccnsurabile ex art. 360 n. 3 c.p.c.; nonché motivazione illogica, erronea, insufficiente e
contraddittoria circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, censurabile ex art. 360 n. 5
c.p.c.
Conferma il ragionamento Cass. 16 maggio 2013 n. 11946 per la quale l’insidia o il trabocchetto
assumono rilievo nell’ambito dell’ordinaria azione ex art. 2043 c.c., unica proposta dalla parte nel
giudizio poi giunto in Cassazione.
Nel caso di specie, il danneggiato non aveva dimostrato la specifica non visibilità della grata.
"L'insidia stradale non è un concetto giuridico, ma un mero stato di fatto che, per la sua oggettiva
invisibilità e per la sua conseguente imprevidibilità, integra una situazione di pericolo occulto. Tale
situazione, pur assumendo grande importanza probatoria in quanto può essere considerata dal
giudice idonea ad integrare una presunzione di sussistenza di nesso eziologico con il sinistro e della
colpa del soggetto tenuto a vigilare sulla sicurezza del luogo, non esime il giudice dall'accertare in
concreto la sussistenza di tutti gli elementi previsti dall'art. 2043 c.c.".
Ancora più di recente, Cass.sez. III civ. sentenza 18 febbraio 2014 n. 3793 ha rilevato come
“…erroneamente, quindi, la Corte di merito ha fondato la propria decisione sulla non applicabilità
della norma di cui all’art. 2051 c.c., ma di quella dell’art. 2043 c.c., imponendo al danneggiato
l’onere di provare l’esistenza dell’insidia o del trabocchetto”, implicitamente ma chiaramente
escludendo che l’attore che agisca ex art. 2051 c.c. debba provare anche la sussistenza
dell’insidia e/o del trabocchetto.
Con altre pronunce, la Corte sembra invece dare per pacifici insidia e trabocchetto, quali dati ormai
acquisiti dall’elaborazione giurisprudenziale anche in seno alla fattispecie ex art. 2051 c.c.
In tema di danno da insidia stradale, la concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o
prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo occulto vale ad escludere la
configurabilità dell’insidia e della conseguente responsabilità della P.A per difetto di manutenzione
della strada pubblica (così Cass. civ. sez. III 22 ottobre 2013 n. 23919).
Grava inoltre sul danneggiato l’onere della prova della non visibilità dell’insidia e della non
prevedibilità dell’evento (Cass., 26 aprile 2013, n. 10096).
E’, quest’ultimo, un aspetto che accolla un onere probatorio di fatto insuperabile da parte del
danneggiato.
§ 4. La visibilità come prova del fortuito?
Pare principio tralaticio quello in forza del quale, laddove l’insidia e/o il trabocchetto o comunque la
situazione di pericolo sia visibile sia anche, come tale, evitabile e quindi, verificatosi l’evento lesivo,
il danneggiato vedrà precipitare la chance di accoglimento della domanda risarcitoria.
In sostanza, la prova del fortuito viene raggiunta (anche d’ufficio ex art. 1227 c.c.) mediante
l’individuazione della visibilità dell’insidia: se questa lo era, non basta che sia stata raggiunta la
prova del nesso di causa e della circostanza che il custode abbia omesso di approntare quelle cautele
atte a prevenire il danno.
In tale evenienza, il danneggiato che poteva vedere il trabocchetto ma non ha visto potrà spuntare un
concorso ma nulla di più.
6
Con la conseguenza paradossale che tanto più è vistosa la situazione di pericolo (e quindi tanto
peggio è custodita la cosa pubblica), tanto meno sarà possibile ottenere il giusto risarcimento.
Bizzarrie interpretative che superano il dato testuale del 2051 onerando l’attore di una duplice prova
(quella in sostanza di mancanza di visibilità dell’anomalia e di avere tenuto un comportamento non
negligente) non previsto dalla norma.
Sul punto, le pronunce non sono univoche.
Una prima sentenza (Cass. sez. III civ. 2 settembre 2013, n.20055 Est. Petti) sembra escludere che
la visibilità del pericolo possa costituire la prova del caso fortuito (sub specie colpa del danneggiato):
1. In tema di responsabilità extracontrattuale ai sensi dell'art. 2051 c.c., al fine di provare il
rapporto causale tra la cosa in custodia ed il danno, l'attore parte lesa deve allegare un elemento
estrinseco o intrinseco come fatto costitutivo idoneo a radicare il nesso eziologico, senza però poter
modificare nel corso del giudizio la allegazione iniziale - vedi sul punto il recente arresto di questa
Corte sez. 3, 21 marzo 2011 n.6677. Orbene nel caso di specie mentre la parte lesa adduce lo
elemento estrinseco della pavimentazione bagnata, cui segue la rovinosa caduta, avvertita dai
testimoni presenti nel negozio, e tale elemento costituisce, per la cliente, una insidia imprevista e
imprevedibile, non tempestivamente segnalata, ad esempio con un cartello o segnale di pericolo che
vietava lo ingresso, tale da determinare la perdita di equilibrio e la caduta, assolvendo così
all'onere di provare circostanze che costituiscono fatti idonei a radicare il nesso eziologico tra la
caduta,il danno e la responsabilità del custode; per contro in alcun modo il custode, per liberarsi
della presunzione di responsabilità per il danno cagionato dalla cosa, ha provato il caso fortuito
tale da prevenire lo evento dannoso o da ridurne le conseguenze, non avendo chiesto né dedotte
prove su tale punto - vedi sul punto l'arresto di Cass. 3, 27 gennaio 2005 n.1655. Pertanto del tutto
apodittica ed illogica è la considerazione svolta dalla Corte di appello in ordine al fatto che alle
ore 10 del mattino vi era la piena visibilità dell'umido e che la situazione di pericolo era
prevedibile ed evitabile con la dovuta attenzione, posto che il dato di fatto della comune esperienza
cui il giudice del riesame fa riferimento postula invece che, nella situazione di rischio che
proviene dal pavimento bagnato, il custode debba prevenire il pericolo della caduta con adeguate
misure di sicurezza o segnalazioni di pericolo ed esercitando i poteri di vigilanza che gli
competono.
§ 5. Sul comportamento colposo del danneggiato. La c.d. “prevenzione bilaterale”:
un’inammissibile interpretazione estensiva dell’art. 2051 c.c.
Gli interventi manipolatori della giurisprudenza si spingono a sbilanciare il riparto degli oneri
probatori attraverso un ragionamento che rende la tutela del danneggiato ex art. 2051 c.c.
estremamente labile introducendo, di fatto, una sorta di responsabilità concorrente presunta iuris et
de iure a carico del danneggiato.
Cass. 5 novembre 2013 n. 24793 propone la seguente impostazione: “la responsabilità dell’ente
proprietario della strada prescinde dalla maggiore o minore estensione della rete e deve invece
esser accertata o esclusa in concreto in relazione alle caratteristiche della stessa, alle condizioni in
cui solitamente si trova, alle segnalazioni di attenzione, e all’affidamento che su di esse fanno gli
utenti, tra cui gli interventi di manutenzione, secondo criteri di normalità.
Pertanto spetta all’ente proprietario provare di aver assolto, con efficace diligenza, gli oneri di
organizzazione dell’attività di sorveglianza per garantire la sicurezza dell’uso della strada,
comprese le opportune indicazioni di attenzione nel caso di dislivelli accentuati della
pavimentazione, e dell’attività di manutenzione della stessa onde eliminare le anomalie più
pericolose e prevedibili in ragione del materiale di rivestimento, quale il basolato, per sua natura
non regolare e stabile, potenziando di conseguenza diligentemente anche l’illuminazione notturna e
la
pulizia
della
strada
onde
consentirne
la
visibilità.
Al contempo è onere della danneggiata provare che, soprattutto se a conoscenza dello stato dei
luoghi, ha prestato la dovuta attenzione nell’uso della strada, nelle particolari condizioni di tempo
– ora notturna – in cui è accaduto l’infortunio, avuto riguardo anche al tipo di calzatura quella
sera indossato, in applicazione del principio secondo cui la cosa intrinsecamente pericolosa
assume tanto minore efficienza causale dell’evento quanto più il possibile pericolo è suscettibile di
essere previsto e superato attraverso l’adozione delle normali cautele da parte dello stesso
danneggiato (Cass. 19 febbraio 2008, n. 4279, 14 febbraio 2013 n. 3662). Infatti è da riaffermare
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che i danni da caduta sono originati da incidenti a prevenzione bilaterale in cui sia danneggianti
che vittime devono adottare opportune misure preventive idonee a diminuire i rischi di incidenti
(c.d. comparative negligence)”
Il ragionamento non ha esitato a propagarsi anche tra le Corti di merito.
E’ recentissima la sentenza della Corte d’Appello di Torino 29 gennaio 2014 n. 172 la quale,
conformemente all’indirizzo giurisprudenziale di legittimità prevalente, ha osservato come la
responsabilità da custodia ex art. 2051 c.c. possa “…essere esclusa solo dal caso fortuito, da
intendersi quale fattore attinente al profilo eziologico dell’evento, riconducibile ad un elemento
esterno, imprevedibile ed inevitabile, che può essere costituito anche dal fatto del terzo o dello stesso
danneggiato. Era quindi onere del COMUNE provare la riconducibilità al caso fortuito della caduta
della sig. TIZIA a causa del ghiaccio sul passaggio pedonale che stava attraversando.
A giudizio della Corte tale prova non è stata data”.
La Corte ha dunque escluso la prova del fortuito – e dunque anche la colpa della danneggiata
costantemente eccepita dal Comune in entrambi i gradi di giudizio quale fattore integrante appunto il
fortuito – che competeva al Comune fornire e che tuttavia non ha fornito.
La Corte ha quindi escluso la prova del comportamento colposo della sig.ra Pisciotta proprio perché
la caduta della stessa non è riconducibile al caso fortuito.
Ha però ravvisato però un concorso di colpa della danneggiata ritenendo che “con la responsabilità
del COMUNE concorre peraltro quella della sig. TIZIA, la quale non solo non prova, ma neppure
deduce di aver prestato la necessaria attenzione e precauzione nell’attraversare una zona ghiacciata
e di aver indossato scarpe adeguate. La Corte ritiene che tale corresponsabilità vada stabilita nel
50%”.
Tale statuizione appare errata e manifestamente contraddittoria.
Difatti, non si vede come, dal momento che è stata esclusa la prova del caso fortuito (che competeva
al Comune fornire) dovesse essere la stessa danneggiata ad allegare e provare un proprio
comportamento diligente (che la Corte individua genericamente in “necessaria attenzione e
precauzione” e nell’utilizzo di scarpe adeguate) idoneo ad escludere un proprio concorso di colpa
nella causazione del sinistro.
Se è pur vero che il giudice del merito può fare applicazione d’ufficio dell’art. 1227 c.c. occorre pur
sempre che vi ponga a fondamento delle circostanze di fatto allegate dalle parti nel giudizio.
La “necessaria attenzione e precauzione nell’attraversare la strada” non sembra una circostanza di
fatto ma una mera qualità della condotta che, tuttavia, non può presumersi come assente
pretendendone la prova da parte della danneggiata.
Perché se così è, si finisce per addossare a carico del danneggiato un onere probatorio non previsto
dall’art. 2051 c.c. e soprattutto impossibile.
Come fornire la prova – dopo aver, ben inteso, provato il nesso di causa – della necessaria attenzione
e precauzione nell’utilizzare il bene demaniale?
Evidente che capi di prova testimoniali sarebbero inammissibili perché valutativi.
In buona sostanza, la giurisprudenza da ultimo citata – di legittimità come di merito – sembra
ricostruire la fattispecie ex art. 2051 c.c. sulla scorta del modello presuntivo di cui all’art. 2054
comma 2 c.c. nel quale, come noto, al danneggiato che assuma la esclusiva responsabilità del
conducente antagonista, compete provare la colpa avversaria e la mancanza della propria mediante la
prova di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno.
Un orientamento del genere sembra contrastare non solo con il dato letterale dell’art. 2051 c.c. ma
anche con quello dell’art. 2697 comma 2 c.c.
Infatti, allorquando è dato leggere che “ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che
ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito” (nel quale rientra anche il comportamento del
danneggiato), occorre che sia il custode a fornire la prova dell’eventuale comportamento del
danneggiante quale fatto impeditivo del diritto fatto valere ex art. 2697 comma 2 c.c.
Non può pretendersi che debba essere il danneggiato a fornire la prova idonea ad escludere il fatto
impeditivo: questo infatti rientra nel novero delle eccezioni ex art. 2697 comma 2 c.c. che compete al
custode danneggiante allegare e provare.
Non senza rilevare che, il “fatto colposo” del creditore di cui all’art. 1227 comma1 c.c. viene int eso
come sinonimo di comportamento oggettivamente in contrasto con una regola di
condotta, e non quale sinonimo di comportamento colposo (Cass. civ. sez. III 13 febbraio
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2013 n.3542): ne deriva quindi che non appare sufficiente rimproverare all’utente la
mancanza di “prudenza”, di “attenzione” o “diligenza” nell’uso della cosa demaniale se non
con riferimento ad un concreto comportamento “oggettivamente in contrasto con una regola
di condotta” e quindi con un contegno che si esplichi in qualche modo.
Ne consegue quindi la mancanza di quella “necessaria attenzione e precauzione” di cui
predica la citata sentenza della Corte d’Appello di Torino non può integrare un
comportamento (omissivo) oggettivamente colposo perché totalmente disancorato da quella,
questa sì necessaria, oggettivizzazione che substanzia la colpa del creditore ex art. 1227
comma 1 c.c.
D’altra parte – e qui sembra essere il punto – il contesto o lo stato dei luoghi non può far
presumere il comportamento colposo del danneggiato, là dove tale contesto (per le sue
caratteristiche) avrebbe dovuto indurre maggiori cautele ed attenzioni da parte
dell’utente bensì, in maniera esattamente contraria, è proprio il contesto a far
presumere la sussistenza del nesso di causa, non già l’ipotetico evento interruttivo in
tesi riconducibile al contegno del danneggiato.
In proposito, di recente, Secondo la Cassazione, infatti, “in casi quali quello di specie la
causa è sempre individuata presuntivamente in relazione al contesto”.
“Così, ad esempio - prosegue la Corte -, se un’autovettura slitta in un punto della strada
dov’è presente del brecciolino, la causa dello slittamento ben potrà essere attribuita alla
presenza di quel materiale anche se non vi siano stati testi che abbiano assistito alle
modalità del fatto. Lo stesso vale per le cadute su pavimento bagnato, o lungo scale con
gradini sconnessi e così via”. Dunque, il vizio della motivazione sta “nell’aver escluso la
sussistenza di nesso causale solo perché non v’erano testi che avessero assistito alle
modalità della caduta (il che dipende esclusivamente dal caso), senza scrutinare se a
diverse conclusioni potesse in ipotesi pervenirsi sulla scorta dell’apprezzamento di fatti
idonei ad ingenerare presunzioni, così consentendo di inferire la ricorrenza del fatto ignoto
(causa della caduta) da quello noto (presenza di materiali di risulta) alla luce delle nozioni
di fatto comune esperienza, che integrano com’è noto una regola di giudizio”. (Corte di
cassazione - Sezione III civile - Sentenza 16 aprile 2013 n. 9140).
Il ragionamento collima con la struttura dell’art. 2051 c.c. che presume la responsabilità del
custode, salvo appunto la prova del fortuito.
Ha confermato il principio la recente pronuncia del Tribunale di Torino sez. IV (Est.
Castellino) sentenza 18 novembre 2013 n. 6813 per la quale, nel richiamare Cass. 2013/9140
citata, osserva: “…il rigore probatorio richiesto dalla giurisprudenza circa il nesso causale
tra la condizione potenzialmente lesiva della cosa e il danno non si spinge sino al punto di
esigere che il testimone abbia esattamente visto il momento e le modalità concrete della
caduta desumibili in via presuntiva dal contesto spazio-temporale: in altre parole non è
necessario che il testimone abbia prestato attenzione proprio all’istante in cui la vittima
mette il piede nella bica ed inciampa, essendo prova presuntiva idonea l’aver visto la parte
nell’immediatezza del fatto a terra davanti alla buca. La forte valenza presuntiva di tale
circostanza, unita all’assenza di altre ipotesi causali concorrenti, è stata anche di recente
ribadita a chiare lettere dalla sentenza Cassazione civile, sez. III, 16/04/2013,n. 9140…”.
§ 6. Ancora sul comportamento colposo del danneggiato. Il falso mito del c.d. principio
di autoresponsabilità: nessuna imprudenza o disattenzione del danneggiato ma
rilevanza causale della condotta.
Questo singolare principio postula che, ciascuno, nel momento in cui entra a contatto con la
realtà circostante, deve adottare le opportune cautele ed osservare le regole di comune
prudenza al fine di evitare il verificarsi dell'evento dannoso, poiché in caso contrario, dovrà
sopportare le conseguenze di tale condotta negligente o imprudente.
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Secondo la dottrina classica, nel nostro ordinamento esisterebbe, quindi, un principio di
autoresponsabilità, segnatamente previsto dall'art. 1227, primo comma c.c., che imporrebbe
ai potenziali danneggiati doveri di attenzione e diligenza.
Il principio aveva trovato riconoscimento dalla Corte Costituzionale che con sentenza n.
159 del 10 maggio 1999 (in www.personaedanno.it), la quale secondo la giurisprudenza di
merito, trova il proprio fondamento giuridico nell'art. 1227 c.c., comma 1: "il creditore,
infatti, non ha diritto, ex art. 1227 c.c., alla rifusione dei danni da lui evitabili con l'uso
dell'ordinaria diligenza. In tal caso, infatti, gli effetti dannosi sono riferibili esclusivamente
a fatto e colpa dell'utente medesimo in virtù del principio di autoresponsabilità che
costituisce la frontiera estrema della responsabilità civile" (Corte App. Napoli, 15 giugno
2006).
Il concetto di autoresponsabilità, inteso, quindi, come rilevanza del fatto compiuto dal
danneggiato, è stato severamente criticato (e si crede a ragione) dalla Corte di Cassazione
nella sentenza n. 4279 del 19 febbraio 2008, nella quale è stata data adesione ad un nuovo
orientamento dottrinale, che abbandona l'idea secondo la quale la regola di cui all'art. 1227
c.c., comma 1, sia espressione del principio di autoresponsabilità, ravvisandovi, piuttosto,
un corollario del principio della causalità, per cui al danneggiante non può far carico
quella parte di danno che non è a lui causalmente imputabile: "pertanto la colpa, cui fa
riferimento l'art. 1227 c.c., va intesa non nel senso di criterio di imputazione del fatto
(perchè il soggetto che danneggia se stesso non compie un atto illecito di cui all'art. 2043
c.c.), bensì come requisito legale della rilevanza causale del fatto del danneggiato. La
regola di cui all'art. 1227 c.c., va inquadrata esclusivamente nell'ambito del rapporto
causale ed è espressione del principio che esclude la possibilità di considerare danno
risarcibile quello che ciascuno procura a se stesso (Cass. 26/04/1994, n. 3957; Cass.
08/05/2003, n. 6988)"
Si è molto chiaramente evidenziato che “ciò che diviene realmente importante e rilevante,
perciò, non è tanto la qualificazione della condotta del danneggiato (colposa, illegittima,
imprudente, poco diligente, e chi più ne ha più ne metta) quanto il reale apporto causale
che detta condotta ha avuto nel verificarsi del danno.
In tale ottica, l'applicazione dell'art. 1227 c.c. comporta, da un lato un effettivo confronto
tra contributo causale del comportamento della vittima e di quello del danneggiante, che
varrebbe a tutelare il primo, imponendo, comunque, l'analisi della condotta del secondo e la
sua rilevanza causale; da altro lato si avrebbe una più equa distribuzione delle
responsabilità in relazione alle circostanze delle fattispecie concrete.
In buona sostanza, la eventuale (e spesso ipotetica) colpa del danneggiato, troppo sovente
posta a fondamento di un presunto concorso ex art. 1127 c.c. in maniera apodittica, non può
sopperire alla carenza dell’esame della concreta rilevanza causale della condotta da questi
tenuta”.10
Le sezioni unite (Cass. Sez. Un. 21 novembre 2011 n. 24406) hanno abbandonato l'idea che
la regola di cui all'art. 1227, primo comma, cc. sia espressione del principio di
autoresponsabilità, ravvisandosi piuttosto un corollario del principio della causalità, per cui
al danneggiante non può far carico quella parte di danno che non è a lui causalmente
imputabile.
Ne deriva, pertanto, che la colpa, cui fa riferimento l'art. 1227 c.c., va intesa non nel senso di
criterio di imputazione del fatto (perché il soggetto che danneggia se stesso non compie un
10
Alessandro Menin, Art. 2051 c.c.: il danneggiato poco diligente va risarcito?, nota a Trib. Dolo sent.
126/2013 in www.personaedanno.it
10
atto illecito di cui all'art. 2043 c.c.), bensì come requisito legale della rilevanza causale del
fatto del danneggiato.
Una volta riconosciuta all'art. 1227, primo comma, c.c., la funzione di regolare, ai fini della
causalità di fatto, l'efficienza causale del fatto colposo del leso, con conseguenze sulla
determinazione dell'entità del risarcimento, ed una volta ritenuto che detta norma trova il suo
inquadramento nel principio causalistico, secondo cui se tutto l'evento lesivo è conseguenza
del comportamento colposo del danneggiato, risulta interrotto il nesso di causalità con le
possibili cause precedenti, rimane da esaminare quando il comportamento omissivo del
danneggiato possa essere idoneo a costituire causa esclusiva o concausa dell'evento lesivo.
Difatti, “danneggiato e custode della cosa ‘presunto responsabile’ risultano in definitiva
accomunati quanto al thema probandum, posto che entrambi sono in definitiva chiamati su
fronti opposti a misurarsi con la stessa questione: quella appunto relativa al nesso
eziologico tra la specifica cosa e il danno intervenuto”11.
Ne consegue che l’applicazione dell’art. 1227 c.c. non può onerare il danneggiato di fornire
la prova dell’assenza del nesso di causa sub specie di una propria colpa ricavata in via
presuntiva ed ipotetica.
§ 7. Conclusioni
Se il danneggiato deve fornire la prova dell’evento lesivo e del legame causale con la cosa,
occorre che sia il custode a fornire la prova del caso fortuito, se del caso allegando e
provando come nella fattispecie concreta questo possa e debba essere ricondotto al contegno
del danneggiato, senza che possa giovarsi di presunzioni o prospettare mere ipotesi a carico
del danneggiato medesimo il quale non risulta affatto onerato ex art. 2051 e 2697 c.c. di
fornire la prova della mancanza di un proprio contegno negligente o imprudente.
Tale inammissibile onere probatorio, non previsto dall’art. 2051 c.c., finirebbe per addossare
in capo al danneggiato l’onere di fornire la prova della mancanza di un fatto impeditivo del
diritto fatto valere.
L’assurdo è logico prima ancora che giuridico.
Né può pretendersi che il danneggiato alleghi e provi la propria diligenza atteso che non si
vede in quale modo tale prova possa essere fornita.
Il Giudice deve dunque esaminare se e quale eventuale rilevanza causale concreta abbia
avuto il comportamento della vittima che incappi nella cosa mal custodita.
Se cosi è, le ripetute petizioni di principio per le quali l’attore non avrebbe allegato e provato
di essere stato attento, prudente, diligente et similia, devono ritenersi errate e da sostituirsi
con valutazioni della condotta della vittima, in concreto causalmente idonea ad escludere il
nesso di causa o a mitigarlo.
Torino, 27 febbraio 2014
Avv. Roberto Bottero
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A. Jannarelli, Sub. 2051, in Commentario al Codice Civile, Dei fatti illeciti artt. 2043 – 2059, Utet, 2011, 284.
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