Lettere dal Kenia 1969-1985 di Annalena Tonelli

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Lettere dal Kenia 1969-1985 di Annalena Tonelli
Lettere dal Kenia 1969-1985 di Annalena Tonelli
Prefazione
L'ho scritto ancora. Ed è un pensiero che non mi abbandona. Credo che Annalena Tonelli,
nella sua vita e nella sua morte, sia come una lettera che lo Spirito ha scritto alla Chiesa.
Con una forza che riecheggia l'esortazione, la certezza, il monito che l'amore attivo di
Cristo attesta nel settenario delle lettere nella prima parte dell' Apocalisse. Lo Spirito
racconta Gesù in noi. E la nostra identità è direttamente legata all'amore di Cristo
sperimentato una volta per tutte nella sua morte.
Quella morte che sul versante del nostro sguardo rappresenta il mistero di una morte
violenta, ignominiosa, insostenibile, sul versante dello sguardo di Dio costituisce il mistero
dell'amore assoluto, il mistero della risurrezione, la capacità messianica di superare il male
in tutte le sue forme, l'invio dello Spirito.
«Non parlate di me!»
Del resto, le testimonianze via via raccolte in questi dieci anni che ci separano dal suo
assassinio, nell'ottobre del 2003, attestano come la sua memoria e la sua opera siano vive,
come Annalena continui ad agire concretamente attraverso le molte e diverse persone che
ha incontrato, come cresca la comprensione di lei.
In questo Annalena è una pagina aperta e misteriosa. Un paradigma del cristiano, lei che
ha scelto di vivere nel nascondi mento i suoi giorni; un'attestazione, lei che ha scritto ai
suoi, in quello che può essere considerato il suo testamento, semplicemente, «non parlate
di me!»,
Scarni ed essenziali i segni della sua testimonianza:
Partii - aveva detto nel 2001, in Vaticano, in occasione della Giornata internazionale per il
volontariato, forse l'unica volta nella quale aveva accettato di parlare di sé - decisa a
gridare il vangelo con la mia vita, sulla scia di Charles de Foucauld, che aveva infiammato
la mia esistenza. Trentatré anni dopo, grido ancora il vangelo con la mia sola vita e brucio
dal desiderio di continuare a farlo fino alla fine [ ... ]. All'inizio tutto mi era contro. Ero
giovane, dunque non degna né di ascolto né di rispetto. Ero bianca ... Ero cristiana ... Non
ero sposata.
Una donna giovane, colta, elegante, laica, che sceglie il vangelo sino alle estreme
conseguenze.
Dell'insegnamento spirituale di Charles de Foucauld ha condiviso la traccia sostanziale
fino al sacrificio della sua vita. Per Charles de Foucauld, «non c'è condizione disperata,
così disprezzabile da cui Tu non tragga fuori le anime, non soltanto per salvarle, ma per
farne le tue preferite, per elevarle a una grande Santità». E ancora: «Gesù per tutta la vita
non ha fatto altro che scendere: scendere incarnandosi, scendere facendosi bambino,
scendere obbedendo, scendere facendosi povero, abbandonato, esiliato, suppliziato» (La
fraternità a costo della vita).
La morte e la vita di Annalena Tonelli richiamano un poco il martirio di una cristiana dei
primi secoli. Ha scelto di operare in un contesto sociale, culturale e religioso a un tempo
di grande bisogno e di grande ostilità.
Parte nel 1969 per il Kenya. Ha ventisei anni, una laurea in giuisprudenza. Vive
diciassette anni tra la popolazione nomade del nord-est del Kenya, impegnata prima nel
lavoro con i disabili motori e psichici e poi incaricata dal governo keniota della direzione
del progetto pilota per il controllo e la cura della tubercolosi a Wajir. Questa sua
esperienza viene presentata al Congresso mondiale sulla tubercolosi tenutosi a Nairobi nel
1978. Il 5 agosto del 1985 termina la sua esperienza in Kenya. Dopo avere subito diversi
attentati, viene espulsa come indesiderata dalle autorità per avere denunciato i massacri
commessi qualche mese prima a Wagalla: un migliaio di morti e la distruzione di interi
villaggi.
Nel 1986 segue un corso di specializzazione sulla lebbra a Fontilles, in Spagna. Nel 1988
conseguirà il diploma in medicina tropicale presso l'Università di Liverpool. Dal 1987 si
trasferisce in Somalia. Diviene responsabile del controllo della tubercolosi nella regione di
Hiraan - Galgaadud; qui lavora nell'ospedale di Belet-Weyne e in vari ambulatori fino
all'agosto del 1990 e poi a Mogadiscio fino alla fine dell'anno. Costretta ad abbandonare
temporaneamente la Somalia a causa della guerra civile in corso nel paese, vi rientra nel
marzo del 1991. Inizia un programma di controllo della tubercolosi a Merca (50 km a sud
di Mogadiscio). Accoglie migliaia di affamati. Salvata in extremis da un'esecuzione, è
costretta nuovamente a fuggire. Nel 1996 rientra nel più tranquillo Somaliland, a Borama,
dove avvia un programma contro la tubercolosi. Quando vi arriva, l'ospedale ha 30 posti
letto. Quando muore, sette anni dopo, sono 350. Estende la sua azione alla prevenzione e al
controllo dell'HIV; apre una scuola per bambini non udenti e portatori di handicap; con il
contributo di un'équipe di chirurghi oftalmici provenienti dal Kenya, restituisce la vista a
3.700 persone affette da cataratta. Lotta contro la mutilazione genitale femminile e questo
le attira ostilità profonde da parte di alcuni gruppi islamici.
Compiuti i sessant'anni ad aprile del 2003, a giugno torna in Italia per poi andare a Ginevra
a ricevere il premio Nansen per l'opera svolta in favore dei rifugiati. Aveva accettato il
premio, uscendo dal nascondimento, per i suoi malati e per la Somalia. Poi l'uccisione.
Sapeva di essere in un grave e crescente pericolo. Era minacciata a motivo della sua
testimonianza, della sua opera, della sua denuncia. Il 5 ottobre, verso le 19, mentre entra in
casa, dopo la giornata trascorsa in ospedale, due sicari armati di fucile le spa­ rano alla
nuca.
Delle centinaia di lettere scritte ai familiari e agli amici, unico legame narrativo con la sua
prima vita, qui vengono pubblicate solo alcune inviate ai familiari, in un arco di tempo che
va dall'inizio della sua esperienza nel 1969 fino al 1985. Esse attestano l'affinamento di
una fedeltà spirituale e professionale, umana e credente che può essere oggi proposta per la
prima volta come un giacimento aureo che viene alla luce. La Chiesa, anche la Chiesa di
oggi è ricca di oro, di molto oro fino, infuocato e incandescente. Si tratta di un amore
esigente e rispettoso, proposto nell'esperienza concreta della storia, secondo la logica
eucaristica del Cristo risorto: «lo sto alla porta e busso. Se uno ascolta la mia voce e apre la
porta, entrerò da lui e cenerò con lui e lui con me» (Ap 3,20).
Dio sa. lo non so nulla
Ascoltiamo alcuni passi della sua riflessione. Nella lettera del 4-10 maggio 1971, da
Nairobi scrive:
Il problema è che qui in Africa si può venire anche solo per gli uomini, ma qui in Africa si
rimane solo per Dio. Se non c'è Dio, di qui si scappa a gambe levate finché si è ancora in
tempo o qui si muore nel senso più vero della parola: ci si insabbia nelle sabbie che non
hanno nulla a che fare con quelle pur dure del mio amato deserto: le sabbie
dell'indifferenza, dell'egoismo, del «comodismo», di un cristianesimo, quando c'è, in
pantofole, che mi fa orrore ... e si capisce bene come tutto questo possa accadere e accade
ogni giorno in un mondo in cui pare che gli africani abbiano imparato da noi solo la corsa
al guadagno.
Il 15 aprile 1978 scrive da Wajir di fronte al dolore inconsolabile:
Tanti malati molto gravi nella Bismillhai manyatta. Amina, una bellissima sposa
giovanissima, che mi si era attaccata come ci si attacca alla vita, è morta anche per gli
errori di chi non l'ha saputa curare ... Solo Dio permette che io possa continuare a vivere
saldamente arroccata in Lui forte [ ... ] dopo lacerazioni come questa.
E il 19, dopo avere pregato intensamente dalle tre del mattino per la vita di Aldo Moro,
scrive:
La Deynaba sta morendo nella TB manyatta con un ventre enorme, il respiro mozzo. Lei
soffre disperatamente. Non una parola, una invocazione di fede sulle sue labbra ... è
convinta di essere preda dell'hayana [demone] [ ... ] Ho dovuto gridare più forte del suo
diavolo perché lei si acquietasse ... si è calmata, ma Allah grande, Allah misericordioso,
Allah da cui dipende la vita di ogni uomo è assente dalla sua vita, non abita la sua anima.
Vorrei darle Dio, un barlume di fede, un brandello di forza mai conosciuto prima ... ma
assisto itnpotente alla sua disperazione, alla sua paura, il respiro affannosissimo, spezzato,
il visino gonfio, il ventre enorme, gli occhi dilatati, gonfi, atterriti ... Dio sa. lo non so nulla.
Il 5 marzo del 1981 da Wajir conclude su se stessa:
Sono nell'eremitaggio. Ma ancora una volta vedo con assoluta chiarezza e unica certezza
che non è né il deserto, né una vita donata, né il contatto diretto con la realtà dell'uomo
povero, in bisogno, nella sofferenza, che può trasformare un'anima. È la grazia di Dio.
Ma vorrei continuare e concludere con due lettere che non compaiono in questo libro.
Esse appartengono al periodo successivo, quello somalo e sono state scritte nel momento
di maggiore difficoltà, nel 1991, in piena guerra civile. È indispensabile farlo per far
percepire il filo che lega la sua intera esperienza, per rendere appieno l'immagine del suo
amore per la Somalia e la sua gente, dopo quello per il Kenya. Per dire della sua
condivisione totale del­ le sofferenze dei poveri. Quell'umanità che non poteva non amare.
Fino alla morte.
Parte inscindibile di loro
Annalena ama la bellezza del creato come delle creature che Dio predilige, i poveri:
La bellezza della terra, dei frutti, degli alberi, dei fiori, degli uccelli, del cielo che oggi ci
faceva saltare e gridare di gioia, forse non ha mai fatto prorompere in grida di esultanza
nessuno di quei contadini bruciati dal sole e risucchiati dalla miseria. Ci vuole un
giardiniere che ama per fare sbocciare una rosa. Di giardinieri per le masse dei poveri non
se ne trovano, se non rarissimi, viaggiando per tutte le contrade del mondo (7 giugno 1991).
Allo stesso modo non riesce a non stigmatizzare ogni ragionamento che muova dal
primato del calcolo, del riultato misurabile da ottenere:
Ed ecco che il Signore mi benedice. È troppo straziante stare lontano dalla mia gente. Il
popolo, i poveri, gli ammalati soffrono in misura che va al di là di ogni possibilità di
narrazione. lo, grazie a Dio, sono in molti sensi parte di loro inscindibile. Per me è molto
facile condividere con loro, servirli, essere di sollievo, conforto, motivo di speranza per
loro. Come fare a rimanere lontana? Certo è rischioso, ma non ho timore. Se Dio vuole,
prestissimo io sarò di nuovo con loro, e sarà gioia grande e gratitudine infinita pur nel
dolore del loro dolore, della loro sofferenza, pur nello sgomento di fratelli che si
massacrano fra loro, pur nella necessità da cui non riesco a fuggire di dover essere
testimone ogni giorno di uno dei più grandi misteri di iniquità della mia vita: dei grandi che
per una sete sfrenata, smisurata di potere hanno portato alla violenza, all'odio, alla brutalità
più efferata dei fratelli contro i propri fratelli e hanno precipitato in un baratro un'intera
nazione. Ma i piccoli, i senza voce, quelli che non contano nulla agli occhi del mondo, ma
grandemente agli occhi di Dio, i suoi prediletti hanno bisogno di noi e noi dobbiamo essere
con loro e per loro ... e non importa nulla se la nostra azione è come una goccia d'acqua
nell'oceano. Gesù Cristo non ha mai parlato di risultati. Lui ha parlato soltanto di amarci
gli uni gli altri, di lavarci i piedi gli uni gli altri, di perdonarci sempre ... E poi se avessimo
tanto timore a esporci, se stessimo a fare calcoli di convenienza, come faremmo mai a
vivere la carità che non cerca il suo interesse, che non tiene conto del male ricevuto: la
carità che tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta? Perdonate. Non sono certo
qui per insegnare a nessuno, è solo per dirvi ciò in cui credo, ciò che mi muove. E qualsiasi
cosa succeda, state tranquilli. Dio sa e tutto è sicuramente grazia. lo la vivo così. Se potete,
continuate ad aiutare la Somalia. I poveri ci attendono. Dio ha bisogno di mani per servirli.
Voi e io, solo che lo vogliamo, possiamo essere quelle mani (7 dicembre 1991).
Libertà e grazia
Annalena ha condiviso la vita dei poveri attraverso la sua esperienza professionale. Ha
scelto il nascondimento, rimanendo lontana il più possibile dai media; è rimasta laica: non
si è fatta religiosa, né ha fondato congregazioni; dai nomadi del deserto ha imparato a non
strutturare pressoché in nulla la sua opera (se non nell'indispensabile), sapendo che chi
opera in zone di conflitti può perdere tutto da un momento all'altro e deve poter
ricominciare daccapo, subito, senza sprechi.
Un segno, il suo, posto al limite dell'inutilità. Nel centro della sproporzione. Di
quell'inutilità reale di cui ci parla Luca nel suo Vangelo: «Quando avete fatto tutto quello
che vi è stato ordinato, dite: "Siamo servi inutili"» (Le 17,10). Se non fosse che Dio di
quella sproporzione ha fatto il segno e la misura della sua comunicazione con noi
attraverso il Figlio - «lo sto in mezzo a voi come colui che serve» (Le 22,27) -, una simile
esperienza in una simile condizione assumerebbe il significato di un fallimento. E invece
quell'inutilità richiama due condizioni essenziali per il cristiano di oggi: il riconoscimento
della libertà e della grazia. Riconoscersi «servi inutili» rende liberi, sciolti dal peso
insopportabile di dover rendere conto della propria inadeguatezza di fronte alle attese e alle
necessità; della sproporzione tra responsabilità e possibilità, tra volontà ed efficacia. E
tuttavia quella libertà, invece di negare la nostra responsabilità, di volgere noi stessi verso
l'indifferenza, ci chiama a una responbsabilità totale.
Quell'inutilità non è la misura del fallimento, ma della libertà se è ricondotta nello
spazio del riconoscimento che ogni cosa «non dipende dalla volontà né dagli sforzi
dell'uomo, ma da Dio che usa misericordia» (Rm 9,16). Non siamo e non saremo mai
all'altezza delle situazioni storiche. Quell'inutilità esprime il riconoscimento non della
nostra impotenza, dell'insensatezza di ogni nostro sforzo, ma del primato della grazia. Non
si tratta di accomodarsi nell'impossibilità di operare in maniera risolutiva, ma al contrario
di affermare l'opera positiva e necessaria che possiamo compiere. Che ci compete a
imitazione di Cristo. Ma quell'opera non ci appartiene.
Essa attesta il riconoscimento del primato di Dio. Fuori dal primato di Dio abitano gli
idoli ed essi, nelle ideologie di ieri come nei fondamentalismi di oggi, sono intolleranti,
intransigenti e violenti, non misericordiosi.
In Annalena, libertà e grazia rappresentano la condizione e la dimensione della sua
testimonianza. Una libertà affidata alla grazia, mossa e soggiogata dall'amore per gli
uomini. Non un primato di Dio riconosciuto in astratto, pensato e affermato, ma creduto e
cercato, quasi preteso di fronte a quei «brandelli di umanità» che ella ba amato e voluto
per sé.
Invocare il primato di Dio nella condizione in cui ella si è posta ha significato fare
compagnia agli uomini (chiunque essi fossero), nella loro condizione (qualunque essa
fosse); accoglierli e amarli prima di tutto e al di là di tutto (compreso l'uso strumentale e
fanatico della religione); ha significato fare compagnia a Dio nel suo dolore per gli uomini.
Gianfranco Brunelli
Direttore settimanale il Regno
Ottobre 2013