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L’INTERVISTA
di Piera Ponta
Crisi economica, mercati esteri,
green growth: Genova Impresa
ne parla con il Vice Segretario
Generale dell’OCSE.
“ Quando scoppiò
la crisi non si capì
che si trattava
dell’insostenibilità
dei bilanci di
imprese, banche,
famiglie e governi”
“ Penetrare i mercati
dei BRICS rappresenta
un appuntamento
imprescindibile
per le imprese
dei paesi avanzati”
“ La green growth
non è solo lotta
al cambiamento
climatico, è una
strategia di
lungo periodo
per uscire dalla crisi”
Pier Carlo Padoan
Nuovi
modelli
dicrescita
Pier Carlo Padoan è Capo Economista e Vice Segretario
Generale dell’OCSE, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico. Professore di Economia
all’Università “La Sapienza” di Roma, è stato Direttore di
Italianieuropei, fondazione di politica culturale, economica e sociale. Dal 2001 al 2005 è stato il Direttore Esecutivo italiano presso il Fondo Monetario Internazionale con
responsabilità su Grecia, Portogallo, San Marino, Albania
e Timor Est.
•••
Professore, nel 2009 l’OCSE presentò una propria proposta per un approccio strategico alla crisi finanziaria
ed economica, nella quale si sottolineava la necessità
di molte riforme strutturali e non solo nel breve periodo. Dal Suo punto di vista, dopo quattro anni, quali
azioni, tra quelle segnalate dall’OCSE, sono state efficacemente implementate e quali, invece, faticano a essere decise ai diversi livelli di governo?
La “Riposta Strategica alla Crisi”, lanciata subito dopo lo
scoppio della crisi del subprime negli Usa, si basava su
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due elementi: rimettere in moto la crescita evitando di tornare al “business as usual”, bonificare il sistema finanziario e di corporate governance per metterlo la servizio della crescita e dell’occupazione. Il primo obiettivo è ancora
lungi dall’essere centrato. L’economia globale sta ancora
attraversando una fase di debolezza che nel caso della
zona euro significa ancora recessione. Le cause sono
tante, ma si possono riassumere nel fatto che quando la
crisi scoppiò non ci si rese conto (e non solo all’OCSE)
che ci si trovava di fronte a una recessione da “saldi di bilancio”, non semplicemente legata alla caduta della domanda aggregata ma alla insostenibilità dei bilanci di imprese, banche, famiglie e governi. Uscire da una crisi simile, dunque, avrebbe richiesto un aggiustamento di bilancio (deleveraging) che è ancora in corso e che solo negli Stati Uniti si sta avviando a compimento. È per questa
ragione che l’economia globale è passata per una “doppia caduta”, dopo una illusoria ripresa nel 2010. La crisi
globale poi ha innescato la crisi “specifica” della zona euro, che ha fatto emergere i profondi limiti della struttura
economica e istituzionale della moneta unica. La risposta
dell’OCSE metteva anche in evidenza la necessità di definire un nuovo modello di crescita. Più dinamico e sostenibile che in passato, basato su “nuove fonti” di crescita legate a innovazione e crescita verde e su più uguaglianza
ed equità. Per quanto riguarda il secondo pilastro, i progressi sono ancora meno evidenti. È certamente vero che
i principali paesi nell’ambito del G20 hanno avviato un vasto programma di ridefinizione delle regole dei sistemi finanziari. Ma la loro adozione a livello globale è ancora
molto lontana. Nel frattempo sono stati avviati importanti
processi di riforma in vari paesi, tra cui negli Stati Uniti e
nel Regno Unito. Il dibattito è avviato anche nella zona
euro, dove la crisi ha messo il luce la assoluta necessità
di completare la moneta unica con una unione bancaria.
Rimane il rischio che processi separati di riforma diano vita in futuro a forme di arbitraggio istituzionale, per cui i
capitali si dirigeranno verso le giurisdizioni dove la regolamentazione sarà più permissiva ma dove ci potranno essere maggiori rischi di instabilità.
Ritiene che l’attuale apprezzamento dell’euro rispetto
ad altre monete concorrenti (in primis yen e dollaro) sia
destinato a consolidarsi e, se sì, con quali effetti sull’economia europea?
La forza dell’euro di queste settimane si spiega soprattutto con la debolezza delle altre principali monete, dollaro e
yen in primo luogo. E questa debolezza a sua volta si
spiega con una politica monetaria, attuata o anche solo
annunciata, di Washington e di Tokyo, super espansionistica. Un dollaro troppo forte naturalmente non fa bene
alla economia della zona euro, che sta con fatica cercando di uscire dalla recessione e di arrestare la crescita della disoccupazione. Ma va anche detto che un tasso di
cambio dell’euro forte colpisce diversamente la competitività dei paesi membri dell’unione monetaria, e in particolare penalizza maggiormente i paesi del sud, Spagna,
Portogallo Grecia e anche Italia, e dove l’aggiustamento
degli squilibri deve fare ancora molta strada perché il recupero di competitività è ancora lungo. Al contrario, in un
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paese come la Germania le cose vanno decisamente meglio perché la produttività cresce di più grazie a riforme
nelle relazioni industriali e del mercato del lavoro introdotte prima dello scoppio della crisi.
È di dominio pubblico la convinzione che, nell’attuale
congiuntura, le opportunità migliori risiedano nei rapporti economici con i BRICS, dove i tassi di crescita si mantengono elevati. Per massimizzare le opportunità, cosa
bisognerebbe innovare nelle relazioni con questi paesi?
I BRICS continuano a crescere a tassi sostenuti anche se
mostrano segni di rallentamento, in parte dovuto allo
stesso rallentamento dei paesi avanzati. In ogni caso è
ragionevole prevedere che queste economie continueranno a crescere a tassi elevati anche per il prevedibile futuro. Penetrare i mercati interni di questi paesi rappresenta un appuntamento imprescindibile per le imprese dei
paesi avanzati dove invece la domanda interna continua
a rimanere debole. Ma non si tratta di una strategia semplice né di breve periodo. Entrare efficacemente in mercati dinamici richiede non solo prodotti competitivi ma anche la capacità di introdursi in una “catena del valore”,
cioè stabilire legami con altre imprese e non solo con altri
mercati, che consentano una presenza stabile in mercati
lontani. Difficilmente imprese piccole, per quanto dinamiche, potranno conseguire risultati positivi e duraturi in isolamento. Come dimostra una ricerca recente dell’OCSE
le catene del valore globale rappresentano una parte crescente del commercio globale.
Passato Rio +20, come si stanno evolvendo le prospettive della “green growth”?
La crisi finanziaria ha distolto attenzione dal dibattito sulla
sostenibilità ambientale che, invece, con il riscaldamento
globale era sulle prime pagine prima della crisi. Una strategia di crescita verde, che è qualcosa di più della lotta al
cambiamento climatico, dovrebbe invece fare parte della
strategia di lungo periodo per una uscita durevole e sostenibile dalla crisi. Una strategia di crescita verde, secondo l’OCSE, dovrebbe riguardare sia gli incentivi allo
sviluppo di tecnologie pulite sia le politiche necessarie
per il riorientamento della domanda di famiglie e imprese
verso prodotti a limitato impatto ambientale. Non ci si deve illudere però che una crescita più verde sia necessariamente meno costosa di altri modelli di crescita. In alcuni casi le tecnologie e le fonti di energia più pulite sono
invece più costose e richiedono incentivi pubblici che implicano pressioni di bilancio anche rilevanti. Questo pone
problemi che richiedono soluzioni nuove su come conciliare, in modo diverso che in passato, la crescita con la
pressione sulle risorse e sull’ambiente. Riconoscere questi trade off fa parte delle sfide per un modello di crescita
diverso. Ma la crescita verde può anche rappresentare
una “nuova fonte di crescita” se ci si rende conto che da
questa prospettiva possono emergere innovazioni che
oggi non sono ancora tali da essere introducibili sul mercato a costi accettabili. Questo significa che la politica
pubblica per la “innovazione di frontiera” nel campo delle
tecnologie sostenibile deve svolgere un ruolo più rilevante che in passato.l