13 febbraio 2016 d 54

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13 FEBBRAIO 2016
Foto di fotografo
Il ritorno della
FORESTA
NEWS
Boschi che avanzano,
natura selvaggia
anche in città. La buona
notizia è che il futuro
non sarà un deserto
di cemento. Ma
la nuova urgenza è
imparare a convivere
con l’onda verde
Foto di Shutterstock
di Laura Traldi
La foresta attorno ai
grattacieli di Hong Kong.
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A
Bergamo Alta il sottobosco è arrivato
in città», dice Lucia Nusiner di Arketipos, l’associazione che ogni anno
organizza una tra le più importanti
manifestazioni del mondo sul tema del
verde, I maestri del Paesaggio. «È incredibile il numero di rovi, edere, persino robinie pseudoacacie selvatiche
che si trovano nelle vie meno frequentate e lungo i sentieri
che circondano le mura». Bisogna essere agronomi come
Nusiner per cogliere l’importanza di certi dettagli, segnali
di un cambiamento nel paesaggio tradizionale. Ma basta
una conoscenza botanica di base per notare la presenza
massiccia di nuovi, giovanissimi frassini - piante pioniere
per eccellenza - un po’ ovunque nelle valli orobie, a ridosso
degli agglomerati urbani.
Per gli studiosi, l’avanzata della natura selvaggia è un
argomento di scottante attualità. «Dimenticate la deforestazione. Non siamo in Amazzonia. Il ritorno del bosco
e l’inselvatichimento della natura vicino ai centri abitati è,
insieme al cambiamento climatico, il vero grande fenomeno paesaggistico da comprendere e fronteggiare in questo
momento», dice Luigi Latini, docente di Architettura del
paesaggio allo Iuav dell’università di Cà Foscari e presidente della Fondazione Benetton che a questo tema dedicherà le giornate internazionali di studio il 18 e 19 febbraio. Non è quindi un caso che al wild landscape siano anche
dedicate le iniziative di Milano Green City (a maggio) e i
Maestri del paesaggio di Bergamo (dal 7 al 25 settembre). I numeri parlano chiaro. Il censimento 2015 dell’Inventario Nazionale delle Foreste ha misurato una crescita costante del bosco alla velocità dello 0,6% all’anno dal 2005
al 2015. Negli ultimi dieci anni, spiega il rapporto, 600mila
ettari di terreno sono stati liberati dallo sfruttamento dell’uomo e si sono
trasformati in «selva, con animali
selvaggi», mentre il numero di alberi
pro-capite è salito da 199 a 210, per
un totale di 20 miliardi di alberi diffusi
su 10,9 milioni di ettari di boschi (una
curiosità: le regioni più alberate sono
Emilia Romagna, Umbria, Marche e
Veneto). Di pari passo cresce il numero delle enclave selvatiche nelle città, fotografate da Claudio Longo (Milano: isole di selvatico in città, ed. Archivio Dedalus) e Daniele Fazio
(Giungla sull’asfalto. La flora spontanea delle nostre città, Blu
Edizioni) e trasformate da paesaggisti e botanici in percorsi
di bio-diversità aperti al pubblico (come quelle dell’Italian
Botanical Heritage, creazione dell’agronoma e giornalista
Margherita Lombardi).
È un mondo pieno di sorprese. Pochi sanno, infatti, che il
numero delle specie di piante presenti a Roma è doppio
rispetto a quelle presenti lungo la costa incontaminata tra
Scopello e San Vito Lo Capo, in Sicilia. O che, secondo il
censimento delle foreste, stiamo vivendo nell’era in assoluto più selvosa della
storia d’Italia.
La natura si riafferma, la bio-diversità
arriva nelle metropoli: stiamo finalmente riparando i paesaggi che abbiamo
rovinato in passato? Quando si tratta
di ecologia, purtroppo, le risposte non
sono mai semplici.
La vera domanda infatti è cosa fare
di questa natura, come conviverci.
Capire se sia meglio lasciare che il bosco
continui ad avanzare oppure contenerlo. E se l’arrivo del selvaggio a ridosso
delle abitazioni sia un evento positivo o
negativo per l’ambiente. Una possibile risposta è giunta qualche
mese fa dal neonato movimento degli
EcoModernisti. Ed è sorprendente:
«Rifiutiamo l’idea che le società umane
debbano armonizzarsi con la natura»,
si legge sul Manifesto del movimento.
«Per limitare l’impronta ecologica proponiamo una separazione tra il verde
incontaminato, che sta riguadagnando
terreno e che rigenererà se stesso e gli
spazi abitati dall’uomo, dove le attività
di sfruttamento del territorio - agricoltura, estrazioni, silvicoltura, urbaniz-
Con 210
alberi a testa,
siamo nell’era
in assoluto più
selvosa della
storia d’Italia
La spiaggia di False Creek a
Vancouver, lentamente invasa
dai boschi. In alto, Queen Plaza
di New York, riprogettata da
Margie Ruddick come un’isola
con piante selvagge.
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Si confrontano
due scuole
di pensiero: gli
entusiasti della
natura selvatica
e chi ne teme
le conseguenze
per l’ambiente
zazione - andrebbero intensificate e
industrializzate, lasciando il controllo
a tecnologie green». Nessuno avrebbe
preso sul serio i diciotto firmatari di
questo pamphlet (che di fatto mette
in discussione il concetto di sostenibilità) se tra loro non ci fossero consiglieri del Congresso Americano
sul tema del riscaldamento globale,
esporti di fisica e persino un premio
Nobel, l’indiana Joyashree Roy (che
si è aggiudicata il premio per la Pace
nel 2007 insieme ad altri studiosi dell’Intergovernmental
Panel on Climate Change). E così il Manifesto EcoModernista è stato tradotto in dieci lingue, pubblicato sui giornali che contano, e sta facendo il giro del mondo.
Non tutti, ovviamente, sono d’accordo con la sua tesi.
È diametralmente opposta la ricetta di Luigi Latini e di altri studiosi europei come George Monbiot, che ha definito gli EcoModernisti «persone intelligenti ma ignoranti e
comicamente fuori moda». «La coesistenza uomo-natura
garantisce l’equilibrio idrogeologico, la salvaguardia dei
suoli, la gestione delle alberature», dice Latini. «Il fenomeno di inselvatichimento del territorio e di alcune aree delle
città è un’inversione di rotta rispetto al passato, che viene percepita come non traumatica dal Manifesto perché
porta alla creazione di aree verdi. Ma non tutto il verde fa
bene all’ambiente, e chi ha a che fare con le dinamiche del
paesaggio sa che sarebbe più giudizioso gestirne l’avanzata, ridando il timone all’uomo. Il termine ingombrante di
“progetto”, quindi, deve riguardare anche il bosco».
«E la città», aggiunge Margherita Lombardi, autrice de
Il buon giardino selvaggio (ed. Maggioli). «Il giardino urbano sta riscoprendo una sua dimensione più selvaggia,
che però può nascere solo da una progettazione atten-
ta. È una tendenza, nata con Gilles
Clément, che ora ha per capofila
garden designer come Nigel Dunnet, autore dell’Olympic Garden di
Londra e del recentissimo giardino
del Barbican Center. E che sta prendendo piede anche in Italia: penso
al lavoro di Bruno Vaglio e Gian
Marco Bernocchi, che realizzano
giardini a basso impatto ambientale
con minore richiesta idrica e all’impegno di alcune amministrazioni,
come quella di Milano, che ora preferiscono aiuole “selvagge” a basso impatto ambientale e low cost, realizzate
con erbacee perenni e prati di fiori selvatici».
Sulla stessa linea il paesaggista Antonio Perazzi, autore di
giardini naturali dall’Italia all’India. Che precisa: «Sono
ottimista riguardo all’arrivo di piante spontanee e della
nuova sovrabbondanza di boschi, quindi sarei per lasciare
la natura a se stessa perché ritrovi il suo equilibrio con i
secoli. Nel frattempo, però, abituiamoci a un monitoraggio
costante e quando si creano situazioni di rischio interveniamo immediatamente». Un esempio? «L’invasione delle
budleie, piante importate di origine cinese che prosperano
anche sopra i 2000 metri: creano accumuli di scarti vegetali che si trasformano in tappi e impediscono il defluire delle
acque, con conseguenti dissesti idrogeologici gravissimi».
Conclude Luigi Latini: «Più che a riconsiderare il concetto di sostenibilità, il ritorno del bosco dovrebbe spingere a
far evolvere il nostro rapporto con la natura. Che se prima
andava genericamente “difesa”, oggi richiede un atteggiamento più interattivo e responsabile, basato su un progetto
consapevole. La società civile italiana, già all’avanguardia
su temi come il farming e il verde condiviso, è pronta. C’è
da chiedersi se lo siano anche le istituzioni».
Foto di Matteo Carassale
Un’aiuola di piante perenni
(low cost e a basso impatto idrico)
a Milano, zona Corvetto.
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