Boschi ed economie nell`Abruzzo dell`Ottocento

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Boschi ed economie nell`Abruzzo dell`Ottocento
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SAGGI
Boschi ed economie nell’Abruzzo dell’Ottocento
di Marco Armiero
1. Il bosco come risorsa.
«Meridiana», n. 30, 1997
Vent’anni fa, nell’introduzione al volume di Bruno Vecchio sul bosco negli scrittori tra Settecento ed età napoleonica, Lucio Gambi denunciava la scarsa attenzione della storiografia italiana per l’organizzazione del territorio ed in particolare per i rapporti esistenti tra situazioni ecologiche ed impianto economico1. Da allora la riflessione su
questi temi si è arricchita di contributi importanti che da più parti ed
in varia misura hanno segnato tappe fondamentali di un itinerario culturale ampio e complesso che sembra aprirsi a nuovi e fecondi campi
di ricerca2. Per ciò che in particolare riguarda il bosco, esso offre l’occasione per riflettere su modelli diversi di sviluppo economico e di organizzazione sociale. Base materiale e, al tempo stesso, risultato di modi storici della produzione sociale, il bosco può essere inteso, infatti,
come parte del territorio e il territorio stesso come risorsa economica,
come luogo e mezzo di produzione3.
Si possono idealmente individuare due percorsi di ricerca: uno che
dal bosco porta verso l’esterno e l’altro che conduce dall’esterno dentro il bosco. Con il primo itinerario è possibile ricostruire i modi e le
forme attraverso i quali il bosco diventava risorsa: si pensi, ad esempio,
agli usi del legname come materia prima e come energia. Il secondo
percorso svela le conseguenze di determinate scelte economiche sul
bosco e, più in generale, sull’ambiente. Oltre a ciò il bosco si è dimo1
B. Vecchio, Il bosco negli scrittori italiani del Settecento e dell’età napoleonica, Einaudi,
Torino 1974, pp. IX-X.
2
Non è questa la sede per una rassegna esauriente degli studi sul tema. Per una bibliografia esauriente rimando al volume L’ambiente nella storia d’Italia, Marsilio, Fondazione Lelio
e Lisli Basso-Issoco (Roma), Venezia 1989; alla rassegna curata da Fabio Salbitano in «Ricerche storiche», 1991, 1; alla nota bibliografica contenuta nella mia tesi dottorale Il territorio come risorsa. Il bosco nell’economia abruzzese (1806-1860).
3
R. Pavia, Cultura materiale, territorio patrimonio culturale, in «Quaderni storici», 1976,
31, p. 334.
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strato luogo di osservazione privilegiato per analizzare i conflitti sociali e per guardare alla chiave di lettura per una più generale storia economica del territorio. Attraverso il bosco è stato possibile esaminare
gli aspetti più diversi della storia di una regione: demografia, settore
primario, manifatture, zootecnia, attività minerarie, rete dei trasporti
ecc. A questo tipo di studio l’Abruzzo è sembrato particolarmente
adatto per la conformazione del territorio, che ha giocato un ruolo
fondamentale nelle dinamiche economiche della regione. L’approccio
regionale, d’altra parte, è stato stimolato dall’esigenza di rispondere a
indirizzi nuovi della storiografia italiana che fanno riferimento non più
ad un unico modello nazionale di sviluppo, ma a modelli in grado di
cogliere le logiche locali ed i meccanismi endogeni di trasformazione4.
Gli Abruzzi si presentano come area di periferia e di confine, sospesi
come sono tra mondi diversi, non solo politici (Roma e Napoli), ma
anche economici e ambientali (Tavoliere e Appennino; mare e montagna; pastorizia e agricoltura).
Quando gli storici si cimentano con tematiche ambientali spesso
utilizzano tempi lunghissimi. Il legno, d’altra parte, rimane la fonte
energetica principale nelle società umane praticamente tra il neolitico e
la rivoluzione industriale. Se la protoindustria costituì la più grande
impresa di destoccaggio per le risorse forestali5, anche le prime manifatture accentrate utilizzarono in alcuni contesti energia organica. Malgrado queste forti continuità, nei primi cinquant’anni dell’Ottocento
alcuni processi di portata generale andarono ad incidere nei meccanismi di interazione tra società e risorse naturali: l’aumento demografico, la trasformazione delle forme della proprietà terriera, la pressione
delle attività manifatturiere, il complessivo cambiamento della mentalità economica trasformarono il rapporto tra comunità e ambiente
rompendo i tradizionali equilibri di sfruttamento.
Attraverso il bosco, dunque, come attraverso tutte le risorse ambientali, è possibile scorgere il passaggio da società precapitalistiche regolate da meccanismi non di mercato all’affermazione delle economie
di mercato. Nel caso preso in esame è evidente che i processi economici e sociali che hanno condotto alla divaricazione tra natura e società
propria del capitalismo erano piuttosto deboli: sarebbe difficile cogliere dinamiche economiche di capitalismo compiuto nel primo Ottocento in una realtà periferica, come la montagna abruzzese, caratterizzata
4
P. Macry, Appunti sulla storiografia ottocentesca, in «Bollettino del XIX secolo», 1993,
1, p. 12.
5
J. C. Debeir, J. P. Deéage, D. Hémery, Storia dell’energia, Ed. Il Sole 24 ore, Milano
1987, p. 124. Ma cfr. anche, su questo stesso numero di «Meridiana», il saggio di P. Malanima.
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da un accentuato autoconsumo. Eppure la denuncia continua del diboscamento era indice di una trasformazione, non solo ambientale, ma
anche economica e sociale. La contrazione delle terre boschive avveniva sotto la spinta modificatrice dei ceti proprietari, che trasformavano
l’orientamento produttivo del suolo attraverso la cerealizzazione delle
terre. L’assalto al bosco, tuttavia, sollecitato dall’espansione demografica, non si verificava solo entro i confini di un’economia di mercato:
anche le classi sociali subalterne costituirono una potente forza di modificazione degli assetti territoriali, strette com’erano tra l’incudine di
una generale privatizzazione delle risorse ambientali collettive e il
martello di un impoverimento delle stesse, causato proprio dalla trasformazione delle forme e dei tempi della loro attivazione.
Di fronte alla scarsità presente o probabile delle risorse e a crisi ambientali che mettano a repentaglio gli assetti ecologici, il mercato è stato considerato ora il responsabile del disastro, ora l’unico «messia» della salvezza. La capacità del mercato di autoregolarsi, attraverso l’attribuzione di un prezzo a tutti i beni – anche a quelli storicamente liberi –
è stata vista come l’unica soluzione al problema della scarsità delle risorse. Tuttavia, se il prezzo di mercato può essere un buon regolatore
della scarsità relativa, esso si rivela inefficace di fronte a quella assoluta e
non implica la regolamentazione a lungo termine degli usi della risorsa
stessa. Inoltre il mercato non risolve, anzi sembra aggravare, l’accumulazione nell’ambiente di esternalità negative; esse si sedimentano nella
natura, senza causare danni immediati, ma, oltre un certo livello, conducono inevitabilmente a crisi ecologiche nelle quali è molto complesso
e costoso intervenire6. Il bosco è un bene collettivo, per lungo tempo
semigratuito; una risorsa ambientale particolare, perché non è esattamente un bene finito, esauribile, ma pure presenta parametri di riproducibilità molto limitati. Esso, inoltre, si colloca al confine tra economie differenti: sul bosco gravitano gli interessi individuali delle economie di mercato, ma pure gli interessi collettivi delle economie morali.
In che modo ambiente, comunità, istituzioni e privati interagirono?
Già nel XIX secolo il dibattito era piuttosto acceso tra i sostenitori di
un’interpretazione che lasciasse mano libera al mercato anche nei boschi e quanti, invece, vedevano in esso la fine dell’albero e la causa
dell’incipiente penuria del legname7.
Si veda sull’argomento M. Bresso, Pensiero economico e ambiente, Loescher, Torino 1982.
Si pensi, ad esempio, al dibattito degli anni venti dell’Ottocento tra Raffaele Netti, liberista contrario ad ogni tipo di intervento statale nei boschi, e Domenico Toro, fautore di una politica statale protezionistica; in W. Palmieri, Boschi, proprietà privata e reazione antiburocratica. Il dibattito forestale nel Mezzogiorno agli inizi dell’Ottocento, dattiloscritto, pp. 33-43.
6
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È a queste domande che il saggio vuole rispondere, offrendo un
contributo alla costruzione di un modello di interazione tra mercato,
società, istituzioni e risorse naturali.
2. Una regione di montagne e boschi.
La montagna è la grande protagonista della storia abruzzese, tratto
distintivo non solo del territorio, ma dei caratteri originari dell’intera
regione. Essa occupa circa il 39 per cento della superficie dell’Abruzzo
che si presenta come la regione più montuosa dell’Italia meridionale.
Le colline si estendono su circa il 13 per cento della superficie abruzzese-molisana, schiacciate tra la montagna e il mare. La montuosità del
suo territorio ha fatto consolidare nel tempo lo stereotipo di una regione «chiusa», intrecciando la scabrosità dell’andamento orografico con i
caratteri etnologici delle popolazioni1. Più di ogni altra parte del regno
davvero gli Abruzzi, tra Stato Pontificio e Adriatico, sembravano
schiacciati tra «l’acqua santa e l’acqua salata».
Come tutti gli stereotipi, anche questo dell’«insularità»2 si fonda su
presupposti ragionevoli: «la montagna è la montagna»3, cioè un ostacolo considerevole, tanto più in epoche nelle quali la tecnica non offriva
gli strumenti necessari per agevolare i trasporti.
L’isolamento spaziale ed economico della montagna è stato in parte
rivisitato dalla storiografia. Lo storico, utilizzando la metafora di Fernand Braudel, ha cominciato a frequentare le zone più alte, sottraendosi alla prigionia delle pianure. La relazione tra monte e piano, essenziale per lo studio della paesistica meridionale, comporta la necessità di
cogliere i legami, più che le fratture, tra i due contesti antropo-geografici4. Gli Appennini abruzzesi non erano una barriera invalicabile,
un’area marginale, ma erano essi stessi un sistema articolato, area di
transito per uomini, animali e merci, luogo di produzione di materie
prime (legnami e lana) e prodotti finiti (cuoiami e formaggi)5.
1
Per una esemplificazione di tale tipo di approccio cfr. E. Piscitelli, Gli Abruzzi e il Molise
nel 1848, in «Archivio storico per le provincie napoletane», XXXI, 1947-1949, Napoli, p. 341.
2
Cfr. C. Felice, Tra geografia e storia: due regioni centrifughe, in «Cheiron», 1993, 19-20,
p. 245.
3
F. Braudel, Civiltà e Imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Einaudi, Torino
1976, p. 24.
4
P. Macry, L’area del mezzogiorno continentale, in Storia d’Italia. Atlante. VI, Einaudi,
Torino 1976, pp. 606-7.
5
F. Bettoni e A. Grohmann, La montagna appenninica, in Storia dell’agricoltura italiana in
età contemporanea, a cura di P. Bevilacqua, Marsilio, Venezia 1989, voll. 3, I, p. 585.
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L’elemento caratterizzante della flora abruzzese è, oggi come ieri, la
foresta6. Il bosco è stato un tratto distintivo del paesaggio regionale, anche se non è facile darne le dimensioni e verificarne l’andamento dinamico. Oltre all’incertezza semantica (non era facile infatti definire il
bosco, distinguendolo magari dall’incolto, dal pascolo ecc.)7, le statistiche e i dati numerici presentano ancora altre difficoltà. Inutile dilungarsi sulle imprecisioni della statistica del secolo scorso8, sulle sue rilevazioni approssimative; il metodo più diffuso di stima forestale era «il
colpo d’occhio», che comportava naturalmente non lievi limiti di approssimazione9. Sebbene tutti lamentassero la contrazione del patrimonio forestale, i dati forniti attestavano al contrario la crescita dell’estensione boschiva regionale. Cambiamenti amministrativi e legislativi,
mobilità semantica del concetto di bosco, pluralità e difformità spaziale
delle unità di misura potrebbero spiegare, almeno in parte, questo strano andamento del patrimonio forestale regionale (tab. 1).
I dati qui presentati, più che smentire una consolidata tradizione storiografica che ha sempre denunciato la progressiva erosione del patrimo6
M. Fondi, Abruzzo e Molise, in Le regioni d’Italia, collana diretta da Elio Migliorini,
Utet, Torino 1970, p. 103.
7
Per il problema della definizione del bosco si rimanda a S. Anselmi, La selva, il pascolo,
l’allevamento nelle Marche dei secoli XIV e XV, in «Studi urbinati», XLIX, 1975, n.s. B, 2, pp.
41-2, nota 44; e «Storia urbana», 1996, 76-77, fascicolo monografico sull’argomento.
8
Cfr. C. M. Cipolla, Tra due culture. Introduzione alla storia economica, il Mulino, Bologna 1988.
9
M. Gangemi, Boschi e legnami in Calabria nel XVIII secolo (1734-1806), tesi di dottorato in Storia Economica, II ciclo, p. 74.
Tabella 1. Quadro sinottico dell'estensione dei boschi abruzzesi
dal Decennio francese alla metà del secolo (in moggi).
Province
Abruzzo Citra
Abruzzo Ultra I
Abruzzo Ultra II
1808
1814*
1820
1830**
1830***
1851
85.868
14.205
44.495
63.662
30.606
105.623
105.880
37.170
209.373
91.902
38.935
222.368
91.852
38.935
222.667
216.625
* Esclusi i boschi di proprietari privati
** Secondo i dati forniti da G. Del Re
*** Secondo i dati forniti da L. Granata
Fonti: ASN, Ministero dell’Interno, Stati dei boschi e selve delle provincie abruzzesi, inventario
f. 2205; ASN, Ministero delle Finanze, Quadro comparativo della quantità de' Boschi dipendenti dall'amministrazione secondo le ultime rattifiche della statistica forestale col numero delle
guardie destinate alla di loro conservazione, f. 2259; P. N. Giampaolo, Lezioni di agricoltura,
parte II, Napoli 1820; G. Del Re, Descrizione topografica fisica economica politica dei reali
domini al di qua del faro nel regno delle due Sicilie, Tipografia dentro la Pietà de' Turchini,
Napoli 1830; L. Granata, Economia rustica per lo Regno di Napoli, vol. I, dai torchi di Nunzio
Pasca, Napoli 1830; ASN, MAIC, Intendenza del II Abruzzo Ultra, Aquila 26.4.1851, f. 392.
I,
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nio forestale, testimoniano una volta di più l’impossibilità di fornire dati
quantitativi attendibili sul bosco e sul suo andamento diacronico10, specie prima delle statistiche postunitarie.
Sebbene difficile da realizzare l’analisi qualitativa dei boschi abruzzesi può rivelarsi di estremo interesse sia dal punto di vista naturalistico
che da quello economico: alle diverse varietà di essenze forestali corrispondevano, infatti, diversi impieghi produttivi delle stesse. Tuttavia la
distinzione della vegetazione arborea per specie era necessariamente approssimativa.
Dati analitici erano forniti in relazione a tipi particolari di bosco, di
speciale interesse per il governo. La presenza di abeti era scrupolosamente segnalata dalle Amministrazioni forestali; quest’essenza costituiva una risorsa fondamentale per l’arsenale del Regno e concentrava così
interessi di natura economica e militare (tabb. 2 e 3).
Anche le querce godevano di un particolare interessamento del governo: si trattava di una risorsa-prodotto dai molteplici impieghi, con
una forte duttilità merceologica che ne consentiva diverse utilizzazioni
(tab. 4).
10
Le difficoltà di utilizzazione delle statistiche forestali sono denunciate praticamente da
tutti coloro che si sono cimentati con la storia del bosco e del suo andamento dinamico: per
la Capitanata: S. Russo, Grano, pascolo e bosco in Capitanata tra Sette e Ottocento, Edipuglia, Bari 1990; per la Basilicata: F. Tichy, Die Walder der Basilicata und die Entwldung im
19. Jahrhundert, Heidelberg-Munchen 1962 e M. Morano, Storia di una società rurale. La
Basilicata nell’Ottocento, Laterza, Roma-Bari 1994 p. 33; per la Calabria: M. Gangemi, Boschi, acque interne e territorio in Calabria, in Lo Stato e l’economia tra Restaurazione e Rivoluzione a cura di I. Zilli, ESI, Napoli 1997, voll. 2, I, pp. 77-9; per il Mezzogiorno in generale: P. Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale dall’Ottocento a oggi, Donzelli, Roma 1993, p. 11; Id., Tra natura e storia, Donzelli, Roma 1996, p. 94; W. Palmieri, Il bosco e il
parlamento napoletano del 1820-21, in «Storia urbana», 1997, 80, pp. 35-61.
11
Nel dialetto abruzzese il termine «zappino» sta per cipresso; in E. Giammarco, Diziona-
Tabella 2. Stato delle abetaie del Regno.
Provincie
Estensione
Abruzzo Ultra I
Abruzzo Ultra II
Abruzzo Citra
Basilicata
Calabria Citeriore
----2377
3950
158
Totale
6485
Fonte: ASN, Ministero delle Finanze, lettera del direttore generale al Ministro delle Finanze,
Napoli 28.4.1815, f. 2270.
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Descrizioni generiche fornivano notizie sulle altre essenze arboree
presenti sulle montagne abruzzesi. Il faggio, che nutriva mandrie di
maiali con i suoi frutti e alimentava fornaci e camini con il suo legno, risultava dominante su gran parte dell’Appennino abruzzese, misto alla
quercia e all’abete. Olmi selvatici, frassini, aceri, carpini e tigli costituivano la rimanente vegetazione arborea dell’interno; nell’Abruzzo marittimo si segnalavano agrumeti, zappini11, carrubi, pini marittimi.
rio Abruzzese e molisano, Edizioni dell’Ateneo e Bizzarri, Roma 1979, ad vocem.
1
A. De Matteis, Ai margini dello sviluppo: il caso dell’economia agro-silvo-pastorale
Tabella 3. Stato delle abetaie miste (in moggia).
Provincie
Estensione
Abruzzo Ultra I
Abruzzo Ultra II
Abruzzo Citra
Molise
Basilicata
Calabria Citeriore
Calabria Ulteriore
520
190
90
3440
39989
630
48228
Totale
93087
Fonte: ASN, Ministero delle Finanze, lettera del direttore generale al Ministro delle Finanze,
Napoli 28.4.1815, f. 2270.
Tabella 4. Stato dei querceti veraci attualmente esistenti nel
Regno (in moggia).
Provincie
Estensione
Abruzzo Ultra I
Terra di Bari
Abruzzo Ultra II
Terra d'Otranto
Abruzzo Citra
Basilicata
Napoli
Calabria Citra
Terra di Lavoro
Calabria Ultra
Molise
Principato Citra
Capitanata
Principato Ultra
6251
85457
8285
38510
8877
31727
2192
28784
7308
14061
32084
4677
31992
1837
Totale
302042
Fonte: ASN, Ministero delle Finanze, lettera del direttore generale al Ministro delle Finanze,
Napoli 28.4.1815, f. 2270.
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3. L’agricola adversarius silvarum:
boschi e campi coltivati.
L’economia abruzzese dovette misurarsi ben presto con il pressante
problema della scarsità delle risorse. Il settore primario si confrontò
con la penuria della risorsa fondamentale per un sistema economico su
base organica: la scarsità di terre coltivabili in pianura. La conformazione del territorio farebbe pensare a vocazioni alternative e a lungo si è
identificata l’economia della regione con il sistema pastorale della transumanza. In realtà, in quest’area, la limitata disponibilità di terreni pianeggianti adatti alla coltivazione ha conferito all’agricoltura caratteri
propri. L’espansione verticale delle colture, a scapito di boschi e pascoli,
ha costituito, con la migrazione della forza-lavoro, uno dei fattori di
equilibrio e dinamicità dello sviluppo economico regionale1.
La forzatura dei vincoli ambientali avvenne attraverso l’intervento
sul sistema regionale di un fattore interno, seppure correlato ad un fenomeno di dimensioni più vaste: l’aumento demografico2. Tra la fine del
Settecento e la metà dell’Ottocento la popolazione abruzzese raddoppiava, arrivando a circa un milione di individui alle soglie dell’unità (tab.
5)3. Pasquale Villani ha calcolato che nella provincia di Chieti la popolazione triplicò nel giro di quattro o cinque generazioni4. La mutata dinamica demografica trasformava radicalmente, e non solo negli Abruzzi, i
tradizionali equilibri tra popolazioni e risorse5: la conquista di aree mardell’Aquilano nell’Ottocento, in Il Mezzogiorno preunitario, a cura di A. Massafra, Dedalo,
Bari 1989, pp. 80-1.
2
Sul rapporto aumento demografico-diboscamento cfr. P. Bevilacqua, Breve storia
dell’Italia meridionale cit., pp. 9-11.
3
Tabella 5. La popolazione negli Abruzzi.
1770
1802
1830
1860
Abruzzo Citra
220.785
233.159
278.064
339.148
120.508
145.193
182.621
240.965
Abruzzo Ultra I
Abruzzo Ultra II
147.005
228.337
273.577
339.519
Totale
488.298
606.689
734.262
919.632
Fonte: G. Galasso, Mezzogiorno medievale e moderno, Einaudi, Torino 1975, Appendice.
4
P. Villani, Documenti e orientamenti per la storia demografica del Regno di Napoli nel Settecento, in «Annuario dell’Istituto Storico Italiano per l’età moderna e contemporanea», voll. XVXVI, 1963-1964, Roma 1968, p. 32; citato da P. Macry, Mercato e società nel Regno di Napoli,
Guida, Napoli 1974.
5
Si veda per l’area d’influenza del Regno sabaudo D. Brianta, Boschi, pascoli e incolti negli
Stati Sabaudi durante la prima metà dell’Ottocento, in «Storia urbana», 1994, 69; per l’Appennino ligure-emiliano G. Salvi, Continuità e cambiamento in una comunità dell’Appennino:
Bertassi nei secoli XIX e XX, in «Quaderni storici», 1980, 46.
6
De Matteis, Ai margini dello sviluppo cit., p. 78.
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ginali, spesso con sistemi sbrigativi come il debbio, non era solo frutto
di una scarsa coscienza ecologica, ma piuttosto l’unica chance possibile
all’interno di un’economia contadina debole, povera di capitali e funzionale a un contesto ambientale non favorevole. In questo senso si
preferisce rifuggire categorie come quella di «sfruttamento razionale»
delle risorse: le razionalità sembrano, infatti, più di una e tutte legittime
se messe in relazione con le possibilità cognitive e con gli interessi economici degli attori sociali in gioco.
La mancanza di informazioni certe sulle rese per unità di superficie
seminata e di studi sulle aziende rendono difficile quantificare la produttività del settore primario nella regione. Si calcola, generalmente, che
il frumento abbia mantenuto per tutto l’Ottocento una resa media
pressoché costante di 3-3,5:1. In relazione a questo andamento la crescita progressiva del raccolto granario verificatasi tra 1810 e 1850 sarebbe imputabile, dunque, non tanto ad un aumento di produttività, quanto piuttosto ad una espansione delle aree coltivate6. Sono molte le testimonianze in questo senso; valga per tutte la riflessione fatta dal Consiglio provinciale dell’Abruzzo Citeriore:
È vero che la crescente riproduzione dell’umana specie aumentando la
massa del popolo l’obbliga quasi a dilatarsi anche là dove una volta il piede
dell’uomo sapeva appena penetrare [...]7.
D’altronde non sempre era possibile cogliere le trasformazioni colturali che stavano avvenendo. Nel 1812 il marchese Antonio Gonzaga,
sottoispettore di Abruzzo Citra, denunciava quello che egli definiva
con una formula di grande efficacia il diboscamento invisibile: l’assenza,
cioè, di confini certi tra boschi e terreni coltivati rendeva possibile la
quotidiana erosione dei primi «a causa dell’ingordigia dei coloni limitrofi», senza che l’amministrazione forestale potesse registrare o quantificare tali fenomeni8.
Malgrado le molte difficoltà, l’attenzione della burocrazia statale si
concentrava essenzialmente sui casi di diboscamento che stravolgevano
gli equilibri ambientali con maggiore incisività, dunque soprattutto sui
dissodamenti delle terre in pendio.
La compilazione degli stati delle terre in pendio richiesta in quegli
anni dall’Amministrazione generale delle acque e foreste rendeva più
esplicito il conflitto tra bosco e seminato, tra ager e sylva, traducendolo
7
ASN, Ministero dell’Interno, Deliberazioni del Consiglio provinciale di Abruzzo Citeriore, anno 1840, II inventario, f. 4079.
8
ASN, Amministrazione forestale, Lettera del sottoispettore della provincia di Abruzzo
Citra a Sua Eccellenza il Direttore Generale, Lanciano 7.7.1812, f. 534.
9
ASN, Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio (d’ora in avanti MAIC), Supplica
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nel continuo scontro tra agenti forestali e gruppi di dissodatori abusivi.
Un fondo coltivato, compreso negli stati delle terre in pendio, doveva
essere rinsaldito, in genere rimboscato o, nel migliore dei casi, doveva
subire una serie di interventi (costruzioni in muratura, terrazzamenti,
filari di alberi) necessari a proteggere i territori sottoposti dai danni di
una poco avveduta coltivazione. Sindaci e decurioni schierati in genere
con le popolazioni locali, a difesa delle moggia di terreno strappate alla
montagna, sulla sponda opposta l’amministrazione forestale con i suoi
funzionari, sospesi tra il rispetto delle norme e la corruzione generalizzata; in mezzo gli intendenti, impegnati in una difficile mediazione tra
istanze locali e piani economici generali: era questa la geografia del
conflitto in atto.
«La cittadinanza abbisogna di terre e non di boschi; questi sono fatti
per comodo delle popolazioni e non le popolazioni per i boschi»9. Così
scriveva l’amministrazione del comune di Casalbardino che tra il 1842 e
il 1849 aveva visto aumentare la sua popolazione di circa trecento abitanti. Fin dal 1836 il comune aveva chiesto di dividere tra i «poveri cittadini» le terre di un bosco comunale, già notevolmente danneggiato e
difficilmente controllabile, a causa delle continue piene del fiume Ofento. Per l’amministrazione comunale l’opposizione al dissodamento del
guardia generale10 era dettata unicamente dalla volontà di estorcere denaro in cambio dell’assenso. Il parere favorevole alla coltivazione espresso
dalla Commissione forestale era dovuto certamente alla antichità della
pratica dissodatoria e soprattutto alla presenza nel territorio comunale
di altri due boschi, per l’estensione complessiva di 1960 moggia legali.
Molti comuni avrebbero sottoscritto l’asserzione dell’amministrazione di Casalbardino: i boschi sono fatti per gli uomini, non gli uomini
per i boschi. Suppliche al re perché venisse concessa la coltivazione di
del Sindaco e dei Decurioni del Comune di Casalbardino (Abruzzo Citra) a Sua Eccellenza il
Ministro delle Finanze, 1.7.1845, fasc. 7, f. 657.
10
Può essere utile una presentazione schematica dell’organigramma delle amministrazioni
governative preposte alla tutela dei boschi. L’Amministrazione di Acque e Foreste del 1811
era così strutturata: ministero delle Finanze - Direttore generale - Ispettore generali - ispettori
provinciali - sottoispettori - guardia generali - guardia boschi. L’organigramma della Direzione di Ponti e Strade, Acque, Foreste e Caccia, che assorbiva nel 1826 l’Amministrazione Forestale, conservava per la parte relativa ai boschi, sostanzialmente la stessa struttura: ministero
delle Finanze - 1 direttore generale - 1 segretario generale - 3 ispettori generali (consiglio di acque e strade) - 2 ispettori forestali (consiglio forestale) - 1 commissione di revisione - 1 corpo
di ingegneri di Acque e strade - 1 scuola di applicazione - 1 corpo di agenti forestali (ispettori,
guardia generali, brigadieri, guardia boschi, guardia acque) - 1 corpo di guarda cacce e guardia
lagni; in Archivio di Stato di L’Aquila (d’ora in avanti ASA), Intendenza, s. I, cat. VI, Reale decreto de’ 25.2.1826 sull’organizzazione della Direzione Generale di Ponti e Strade e delle Acque e Foreste e della Caccia, b. 1104.
11
Nel 1840 un gruppo di 88 contadini chiedeva al re di poter continuare a coltivare circa
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Armiero, Boschi ed economie nell’Abruzzo dell’Ottocento
terre in pendio giungevano praticamente da tutti i comuni della regione; solo a titolo di esempio le documentazioni prodotte dai comuni di
Vittorino11, Introdacqua12 e Anversa13, tutti nell’Abruzzo Ulteriore II.
Il problema di fondo era il rapporto tra terreno in pendio, terreno
coltivabile e popolazione. La normativa sugli stati delle terre in pendio
rischiava, cioè, di paralizzare l’agricoltura d’alta quota, in una contingenza demografica che vedeva i comuni di montagna reggere il peso
della maggiore densità di popolazione14. A richiamare l’attenzione sulla
necessità di un’applicazione meno letterale della norma sulle terre in
pendio, che tenesse conto della generale morfologia del territorio, era
il Consiglio provinciale dell’Abruzzo Citeriore:
L’articolo 21 della legge forestale prescrive di lasciarsi salde le terre in pendio ancorché dissodate prima del 1815 quando da tal coltivazione possa derivarne danno a’ terreni sottoposti. Ora gli agenti dell’Amministrazione forestale, senza punto incaricarsi delle condizioni di siffatte disposizioni e del fine
ch’essa propone, han formato amplissimi stati di terre in pendio tralasciando
d’incaricarsi della natura di esse del niun danno che le coltivazioni han finora
arrecato a’ proprietari de’ sottoposti terreni e del niun reclamo per parte di
quest’ultimi [...]. Quasi due terzi del territorio della provincia si compongono
di terre in pendio e se per questa sola ragione dovessero lasciarsi inculte, le stesse popolazioni rimarrebbero senza mezzi di sussistenza [...]15.
Il Consiglio provinciale di Chieti poneva, in effetti, un problema
reale: la convivenza tra terreni in pendio, copertura forestale e agricoltura. In contesti fortemente dominati dalla montagna, l’agricoltura d’alta
quota è sempre stata una necessità ineludibile per il sostentamento delle
40 moggia legali in pendio, data la montuosità del territorio e l’aumento della popolazione; in
ASN, Amministrazione Forestale, Supplica a S. R. Maestà Ferdinando II Re delle Due Sicilie,
a. 1840, f. 508.
12
Tra il 1835 e il 1836 un gruppo di 340 contadini rivendicava il diritto di seminare lungo
le pendici dei monti, adducendo l’antichità del dissodamento (precedente al 1815) e la montuosità del territorio del comune, che non consentiva il sostentamento dei suoi 4000 abitanti
con le sole terre di pianura; in ASN, Amministrazione Forestale, Supplica di 340 contadini al
Re, a. 1835-1836, f. 504.
13
Il comune sosteneva che proibire la coltura delle 837 moggia di terreno demaniale in
pendio equivaleva a cancellare la cittadina dall’elenco dei comuni della provincia; in ASN,
Amministrazione Forestale, Lettera dell’ispettore al direttore generale, 10.2.1827, f. 505.
14
Nell’Abruzzo ottocentesco il tipo d’insediamento più diffuso era quello d’alta quota: oltre il 50 per cento dei comuni centrali era situato al di sopra dei 750 m sul livello del mare e solo il 10 per cento rientrava nella fascia tra 0 e 500 m. d’altitudine; complessivamente la popolazione di montagna ammontava a circa l’80 per cento della popolazione complessiva. In A. De
Matteis, Terre di mandre e di emigranti. L’economia nell’Aquilano dell’Ottocento, Giannini,
Napoli 1993, p. 40. Più in generale su aumento demografico, insediamenti d’alta quota e diboscamenti nel Mezzogiorno cfr. Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale cit., p. 9.
15
ASN, Ministero dell’Interno, Processo verbale delle deliberazioni emesse dal Consiglio
generale della provincia di Abruzzo Citeriore nelle sessioni del corrente anno 1838, II inventario, f. 4079.
16
L. Dau, Del modo di rivestire di alberi forestali i monti e le terre atte alla loro coltura con
51
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comunità. In alcuni casi si tentò l’integrazione tra bosco e coltivo; era
possibile una sistemazione delle aree in pendio con gradoni e palizzate
o alternando colture seminatore a vegetazione arborea. Era il caso delle
terre dissodate del comune di Antrodoco, citate come esempio di un’attenta espansione verticale dei seminativi:
Questo mezzo [muri a secco e terrazzamenti] l’abbiamo osservato posto in
pratica in molti luoghi del Genovesato e nella valle di Antrodoco in provincia
di Abruzzo Ultra II, senza che arrechi alcun pregiudizio ai fondi sottoposti16.
Anche la Società Economica17 del I Abruzzo Ulteriore, pur dichiarando in linea di principio l’inammissibilità delle coltivazioni in pendio, prescriveva poi alcune norme per effettuare le stesse con il minimo
rischio: lasciare fasce inculte, munirle di accigliamenti e di canali di scolo per le acque18.
In genere, però, gli espedienti proposti richiedevano investimenti
troppo cospicui e a lungo termine; così la coltivazione d’alta quota si
traduceva in una rottura degli equilibri tra monte e piano, tra bosco e
campo coltivato.
La normativa sulle terre in pendio mirava essenzialmente a contenere i danni di tali disequilibri. L’opzione per il diboscamento comportava, infatti, una privatizzazione degli utili e una socializzazione delle
perdite: frane, smottamenti, dilavamenti, inondazioni furono i frutti
più o meno diretti dell’espansione verticale dei seminativi. Non si tratta, però, di fenomeni extraeconomici, «naturali», ma piuttosto di diseconomie esterne, ossia dei costi sociali di determinate scelte economiche operate da singoli o da gruppi, che ricadevano sulle collettività,
fuori da ogni negoziazione volontaria19.
un progetto di legge relativo a questo oggetto, a. 1850, in ASN, MAIC, f. 391, p. 60
17
Sorte nel 1810 con Gioacchino Murat dal ceppo delle precedenti «Società Patriottiche»
furono conservate dal restaurato governo borbonico con un decreto del 1817. Si trattava di una
forma spuria di associazionismo, sospeso tra associazione volontaria e struttura paragovernativa. Le Società Economiche dipendevano, infatti, dal ministero dell’Interno e dall’Istituto di Incoraggiamento alle Scienze Naturali, almeno fino al 1848, anno della costituzione del ministero
di Agricoltura, Industria e Commercio, che ne assunse il controllo. I soci erano prevalentemente di nomina regia, anche se era ammessa qualche forma di cooptazione. Sulle Società Economiche abruzzesi cfr. G. De Lucia, Le società economiche abruzzesi, in «Abruzzo» 1967, 2-3; M.
Petrusewicz, Agromania: innovatori agrari nelle periferie europee dell’Ottocento, in Storia
dell’agricoltura italiana cit., III; I. Zilli, Le Società Economiche abruzzesi dalla loro origine
all’unità, in Le Società Economiche alla prova della storia (secoli XVIII-XIX), Busco editrice,
Rapallo 1996.
18
ASN, Ministero dell’Interno, Società Economica del I Abruzzo Ulteriore, Teramo 15.1.1813,
II inventario, f. 457.
19
J. P. Barde e E. Gerelli, Economia e politica dell’ambiente, il Mulino, Bologna 1980, p. 74.
20
ASN, Amministrazione Forestale, Secondo stato di verifica delle terre salde da rinsal-
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In margine a molti stati delle terre in pendio gli agenti forestali denunciavano i danni che una malintesa coltura arrecava ai terreni sottoposti, sottolineando la contraddittorietà tra il guadagno, comunque
momentaneo, di chi dissodava in montagna e le conseguenze disastrose di queste attività sull’economia pubblica, con danni ai campi coltivati a valle, alle strade, al sistema idrogeologico. La casistica su frane e
disordine idrogeologico nella regione è particolarmente ricca: a Gagliano, nel II Abruzzo Ultra, il dissodamento di 200 moggia di bosco
aveva messo a repentaglio tutti i terreni seminativi sottostanti20; a Ortona l’ispettore forestale denunziava i continui dissodamenti, causa di
ripetute frane, verificatesi nella zona21; problemi simili si verificavano
sui terreni sottoposti alla Maiella e al monte Morrone22; piene e inondazioni erano i frutti nefasti degli sboscamenti avvenuti nel comune di
Tagliacozzo23. E gli esempi potrebbero moltiplicarsi24.
La fine di una società fondata sugli usi comuni delle risorse non segnò, dunque, la razionalizzazione delle stesse; al contrario, il territorio
fu fortemente sconvolto dai nuovi assetti sociali ed economici25.
La trasformazione del bosco in campo coltivato non fu, comunque,
un fenomeno dalle caratteristiche univoche; dunque gli esiti, cioè la distruzione/contrazione del manto forestale e le conseguenze causate da
questo evento sull’intero ecosistema, non possono amalgamare in nessun modo opzioni e strategie economiche diverse e, spesso, opposte.
Non un diboscamento, ma più diboscamenti; non una irrazionalità, ma
più razionalità limitate e soggettive, in genere in competizione tra loro.
In genere nella costruzione di strategie economiche più o meno
consapevoli i soggetti procedono alla valutazione dei vantaggi individirsi del comune di Gagliano, 3.10.1858, f. 532.
21
ASN, MAIC, Lettera dell’ispettore al direttore generale, 7.11.1835, fasc. 3, f. 655.
22
ASN, MAIC, Lettera dell’ispettore all’amministrazione generale, 19.9.1854, f. 655.
23
ASN, Amministrazione Forestale, II Abruzzo Ultra, Comune di Tagliacozzo, terreni
in pendio, f. 508.
24
Frane erano segnalate a Vacri e Taranta (1813; in E. Michitelli, Memoria sulle cause
produttive delle lamature e i rimedi onde evitarle, manoscritto, 1815 in ASN, Ministero
dell’Interno, II inventario, f. 2579); a Montefreddo (1837; in ASN, MAIC; fasc. 6, f. 655); a
Torrebruna (1840; in ASN, MAIC, Verbale di verificazione del bosco Difesa del comune di
Torrebruna, 26.7.1840, fasc. 18, f. 655); a Vasto (1844; in ASN, MAIC, Processo verbale di
verificazione dello stato del bosco denominato Le Fratte, 27.6.1844, f. 654); a Gessopalena
(1847; in ASN, Ministero dell’Interno, Corpo ingegneri di acque e strade, Chieti 21.9.1847, I
inventario, f. 3669). Per un inventario dei centri dell’Abruzzo citeriore soggetti a frane e per
una lucida disamina delle ragioni di tale dissesto si veda E. Colapietro, Memorie sulle rovine
della città di Vasto in Abruzzo citeriore avvenute nel mese di aprile dello scorso anno 1816,
del socio corrispondente dottor Erasmo Colapietro: letta nell’adunanza de’ 20 febbraio 1817,
in «Atti del Real Istituto d’Incoraggiamento», tomo III, 1822.
25
P. Bevilacqua, Tra natura e storia, Donzelli, Roma 1996, p. 97.
1
Metodo di tagliare le piante a faglie larghe in modo che il tronco scapezzato getti alla som-
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duali o del gruppo al quale appartengono; e spesso la massimizzazione
del profitto ha effetti positivi solo sul breve periodo, segnando, al contrario, un impoverimento progressivo a danno delle generazioni future. Il mito di un homo oeconomicus mosso unicamente da una razionalità ottimizzatrice fa i conti con le concrete esperienze storiche; emerge
con chiarezza che le razionalità non furono solo economiche e furono
fortemente influenzate dai contesti nei quali maturarono. L’ambiente,
come pure le conoscenze tecniche, le stratificazioni culturali, la disponibilità di capitali, produssero esiti che non sempre coincisero con una
razionalità economica astratta portatrice di un’ottimizzazione complessiva dei fattori di produzione.
4. Le attività silvo-pastorali:
tra scontro e integrazione.
Il bosco è quasi naturalmente ai confini tra terra coltivata e pascolo.
La zootecnia riguardava in vario modo quasi tutte le superfici forestali
del Mezzogiorno, che erano utilizzate attraverso la capitozzatura1 per
la produzione di frasca da foraggio e attraverso i pascoli alberati di
querce e di faggi per la produzione di semi per alimentare gli animali2.
In particolare l’economia degli Abruzzi era fortemente condizionata
dall’allevamento (tab. 6):
Le zone più elevate e inaccessibili delle montagne che coprono quasi per
intero la superficie dell’Abruzzo Ultra I sembrano destinate dalla natura al pascolo di queste immense greggi3.
Il rapporto tra allevamento e bosco era dipinto dalla pubblicistica
coeva, come dai funzionari dell’amministrazione, con tinte piuttosto fosche. Nel suo volume di istruzioni per gli agenti silvani Matteo Tondi4
definiva il pascolo come il primo male che gli uomini potevano cagionamità ed ingrossi a giusa il capo; da F. G. Licer, Dizionario tecnico teorico-pratico forestale, Società Tipografica, Modena 1874.
2
A. Zanzi Sulli e G. De Pasquale, Funzioni delle matricine dei cedui nella teoria selvicolturale del XVIII e XIX secolo, in «Rivista di Storia dell’Agricoltura», 1993, 1, p. 113.
3
R. Keppel Craven, La transumanza, in Aa.Vv., Memorie dal Sud, Benevento, 1985, p. 81.
4
Su Matteo Tondi sembrano interessanti alcuni accenni biografici. Nato a Sanseverino nel
1762 si laureò in medicina a Napoli, studiando in particolare botanica e chimica. Visitò molti
paesi europei (Germania, Inghilterra, Scozia, Irlanda, Islanda, Olanda, Belgio, Svizzera); in Inghilterra fece il minatore per vedere da vicino i nuovi forni di fusione. Dopo aver riordinato la
Mongiana in Calabria fu nominato nel 1812 ispettore generale delle Acque e Foreste. Morì nel
1835. Notizie tratte da Cenni sulla vita di Matteo Tondi, in «Il Gran Sasso d’Italia», anno II
(1840), numero 4, p. 401.
5
M. Tondi, La scienza selvana ad uso de’ forestali, voll. 3, Angelo Trani, Napoli 1821, pp.
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re alle selve5. Altrettanto netta la condanna al pascolo sui fondi boschivi
in un manuale di selvicoltura francese tradotto e pubblicato a Napoli nel
18596. Bruno Vecchio ha già fornito una esauriente rassegna degli scrittori che tra Sette ed Ottocento denunciarono i danni arrecati dall’allevamento all’economia forestale; per molti di loro il pascolo sui fondi boscosi comprometteva la riproduzione della vegetazione arborea con la
distruzione dei germogli più teneri e più bassi da parte degli animali ed
anche con i danni alle fronde, alle cortecce ed alle radici. In particolare le
capre erano indicate come gli animali più dannosi per le foreste7.
Tuttavia anche nella selvicoltura ufficiale della prima metà del XIX
secolo erano presenti talune suggestioni volte a recuperare una maggiore complementarità tra allevamento e coltura forestale.
70-1.
6
M. Lorenz, Corso elementare di coltura de’ boschi, Luigi Spinelli, Napoli 1859, pp. XXVI-
XXVII.
7
Si veda, ad esempio, L. Dragonetti, Memoria sulla necessità e maniera di ripristinare i boschi nella provincia di Aquila: letta son molti anni in questa Società Economica dal marchese
Luigi Dragonetti, in «Il Gran Sasso d’Italia», II, 1839, Aquila, p. 93.
8
G. Gautieri, Sulla pascolabilità de’ boschi, in «Annali Agricoltura Italiana», 1819, tomo I
Tabella 6. Animali di allevamento negli Abruzzi.
Ab. Ul. II
Ab. Cit.
Ab Ul. I
Decennio francese
pecore 550.000
Anni venti
Animali lanuti 758.843 ------Animali grandi 25.935
---
Anni trenta
Pecore 700.000 (’30); Pecore 130.000 (’30);
663.000 (’34)
158.325 (’37);
162.986 (’38)
Capre
5500
Capre
9000
Porci
45.000
Porci 105.000
Muli
4000
Muli
4000
Asini
18.000
Asini
10.000
Cavalli 30.000
Cavalli 30.000
Bovi e vacche 22.000
Pecore 113.093 ('36);
114.856 (’38)
Anni quaranta
---
Pecore 165.652
Pecore 132.281
Anni sessanta
Pecore 584.000
---
Pecore
--------
pecore 300.000
Porci
Muli
Asini
Cavalli
Buoi
40.000
800
4800
300
6500 (aratro)
24.000
(Fonti: ASN, Ministero dell’Interno, Stati indicanti il numero degli animali lanuti ed il loro prodotto, inventario II, f. 545; L. Dorotea, Rapporti diversi sulle cose agrarie e di pastorizia della
provincia di Teramo, in ASN, MAIC, f. 123; A. De Matteis, Ai margini dello sviluppo: il caso
dell'economia agro-pastorale dell'Aquilano nell'Ottocento, in Il Mezzogiorno preunitario, a cura
di A. Massafra, Dedalo, Bari 1989, pp. 83-4; Del Re, Descrizione topografica fisica economica
cit.; I. Carli, Sul modo di moltiplicare nella provincia del Secondo Apruzzo Ultra l’industria delle
pecore pagliarole ossia stalligne, in «Annali di Agricoltura italiana», a. 1819, tomo II).
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Giuseppe Gautieri, che non era certo favorevole all’utilizzo delle
aree boschive per l’allevamento, ammetteva, tuttavia, la necessità di trovare le modalità giuste per rendere possibile tale forma di attivazione
della risorsa forestale. Egli proponeva alcune condizioni per consentire
la pascolabilità in determinati tipi di boschi: escludere capre, muli, asini e porci, selezionare le aree boschive sulla base dell’età delle piante,
controllare i mandriani, che dovevano considerarsi responsabili penalmente della buona tenuta del bosco pascolato, costruire un sistema di
strade che consentisse l’accesso alle aree pascolabili senza arrecare danni
al bosco8. Interessante la proposta di Gautieri di permettere la raccolta
delle erbe nelle zone forestali: si trattava di riconoscere la legittimità di
una pratica di fatto già diffusa e, riconoscendola, stabilirne regole e
strumenti di controllo9. Inoltre l’autore ribadiva la relazione esistente
tra tecniche selvicolturali e pascolo, incoraggiando l’apertura al bestiame dei boschi cedui tenuti a capitozza (1 canna da terra): l’albero poteva essere modellato dall’uomo e così utilizzato ai propri fini10.
Altri, più sinteticamente, distinguevano tra pascolo smodato e pascolo
ben regolato, come l’ingegnere Luigi Dau, fortemente impegnato nella
riflessione sui problemi della tutela e dell’utilizzo della risorsa forestale:
«La causa più potente che ha distrutto i boschi e che cospira a rovinare i
rimanenti è senza dubbio il mal regolato pascolo degli animali [...]»11.
Si trattava, comunque, di voci piuttosto isolate: il coro, al contrario,
avrebbe a lungo continuato a denunciare l’incompatibilità di alberi e
allevamento.
Era soprattutto la capra a sedere sul banco degli imputati nel processo contro gli animali dannosi alla vegetazione forestale. La denuncia
del pascolo caprino percorre l’intero arco cronologico esaminato, senza escludere nessuna delle provincie abruzzesi: nel 1812 l’amministrazione forestale di Teramo riteneva di dover concentrare il suo impegno
nella lotta contro quei «dannosissimi animali»12; nel 1820 Francesco
Antonio De Angelis nella sua statistica agronomica del circondario di
Caramanico (Abruzzo Citeriore) denunciava la distruzione dei migliori boschi della provincia al fine di accrescere l’estensione dei pascoli,
con esiti negativi tanto per la selvicoltura che per l’allevamento13; nel
pp. 129-30.
9
Ivi, p. 133.
10
Ivi, p. 148.
11
Dau, Del modo di rivestire di alberi forestali cit., pp. 9-10.
12
ASN, Amministrazione Forestale, Lettera del 7.11.1812, f. 534.
13
F. A. De Angelis, Statistica agronomica del circondario di Caramanico, in «Annali Agricoltura Italiana», 1820, tomo V, pp. 206-7.
14
ASN, MAIC, Intendenza del II Abruzzo Ultra, 26.4.1851, f. 392.
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Armiero, Boschi ed economie nell’Abruzzo dell’Ottocento
1829 si faceva risalire la distruzione di un intero bosco nel comune di
Taranta (Abruzzo Citra) al pascolo abusivo delle capre; nel 1851 l’intendenza del II Abruzzo Ulteriore denunziava lo smodato numero di
capre presenti nei comuni della Marsica14.
D’altronde non era condannato solo l’allevamento caprino. Il pascolo ed il transito di qualsiasi tipo di animale sui fondi alberati era da
considerarsi nocivo per la vegetazione, come emergeva, ad esempio,
nei verbali di verificazione dei boschi dei comuni di Montenerodomo15
e di Campo di Giove16.
Questa lettura fortemente conflittuale delle attività silvane e pastorali incise, naturalmente, sulle normative volte alla protezione del patrimonio forestale. All’indomani di un taglio regolare era prevista la
messa a difesa del bosco, ossia il divieto assoluto di pascolo fino a nuovo avviso dell’amministrazione. La legge del 1826 giunse a prevedere
non solo le ammende, ma il carcere per chi fosse stato sorpreso a far
pascolare greggi sui fondi protetti.
Di fronte a questo tipo di documentazione è necessario chiedersi se
le cose nella realtà stessero davvero così come venivano presentate. In
altri termini bisogna chiedersi se allevamento e bosco fossero davvero
così alternativi come la scienza e la legislazione forestale lasciano intendere. È indubbia la duplice funzione del pascolo, in grado di attivare risorse economiche (produzioni legate all’allevamento) ed ecologiche (riproduzione di particolari biotipi)17. Nella pratica quotidiana,
estranea in genere tanto ai trattati di agronomia, quanto alle leggi forestali, sembra che questa complementarità resista e faccia parte del rapporto tra comunità e ambiente. Tuttavia le fonti archivistiche non lasciano molte tracce di questa selvicoltura empirica, delle mille pratiche
locali18 che attivavano in vario modo la risorsa forestale. È comunque
possibile fornire alcuni esempi in questa direzione.
Nel territorio di Civita d’Antimo (Abruzzo Ultra II) le foglie di
quercia erano raccolte e riunite in frondai, cioè in cilindri di 100-200 e
più palmi e lasciate seccare per poi essere utilizzate come foraggio19.
15
ASN, Amministrazione Forestale, Verbale di verificazione dello stato attuale del bosco
detto Montemajo del comune di Montenerodomo, 30.9.1863, fasc. 4, f. 421.
16
ASN, MAIC, Verbale di verificazione dello stato del bosco cerreto e malvone del comune
Campo Giove, 26.8.1842, fasc. 4, f. 615.
17
D. Moreno, Dal documento al terreno, il Mulino, Bologna 1990, p. 216.
18
Cfr. sul tema D. Moreno, Per una storia delle risorse ambientali. Pratiche agro-silvo-pastorali e copertura vegetale in alta val di Vara, in «Quaderni storici», 1989, 69, p. 943.
19
ASN, Ministero dell’Interno, Provincia di Aquila, Rapporto statistico intorno alla caccia, pesca ed economia rurale, I inventario, f. 2181.
20
L. Dorotea, Rapporti diversi sulle cose agrarie e di pastorizia della provincia di Tera-
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Nel Teramano si proponeva l’impiego dell’olmo per rifornire di frasca
da foraggio gli animali durante gli inverni20.
Nel compilare una statistica agronomica sul circondario di Vasto
(Abruzzo Citeriore) il barone Nicola Durini segnalava la presenza di
una sufficiente quantità di boschi atti a nutrire colle erbe, colle fronde e
colle boscaglie i bovini presenti nella zona, come pure metteva in relazione la prosperità delle tenute silvane della famiglia D’Avalos con la
possibilità di trarre ottime rendite dalle fide per il pascolo, dall’ingrasso
dei suini e dalla vendita del legname ottenuto da una strategia di tagli regolari21. Non c’era traccia, dunque, di conflittualità, quanto piuttosto
veniva proposto un esempio di complementarità di attività silvo-pastorali. E se l’Istituto di Incoraggiamento di Napoli denunciava che i diboscamenti nel Teramano stavano distruggendo l’allevamento suino22, la
Società Economica, più ottimista affermava che i boschi della provincia
riuscivano non solo a nutrire le mandrie di neri di erbe, gramigne e radiche, ma anche a produrre un sovrappiù di ghiande da destinare alla
commercializzazione23: in questo caso la conservazione del bosco, non
risultava affatto in contraddizione con le attività zootecniche.
Ancora, si può segnalare la posizione fortemente non convenzionale
espressa nella statistica agraria del circondario di Casoli: gli autori propugnavano la relegazione delle capre nei boschi allo scopo di salvaguardare
i campi coltivati dalla loro invasione, sovvertendo la tradizionale opposizione capre/copertura forestale24.
Che i boschi fossero i luoghi deputati al pascolo era non solo una verità assodata, ma una garanzia di equilibrio e stabilità del territorio, secondo una memoria sulle frane del Chietino:
Egli è facile invenire che la causa di tanti disastri [...] dallo sconsiderato sboscamento dei luoghi montuosi, dalla mania di aver voluto mettere a coltura terre
che la natura aveva destinate al solo pascolo. [...]. Le montagne che quasi dalla loro formazione ricoperte di folte boscaglie parevano destinate per i soli pastori furono floride finché gli abitanti di quelle contrade si tennero nei limiti che la natura indicava loro25.
mo, manoscritto in ASN, MAIC, f. 123.
21
N. Durini, Statistica agronomica dei circondari di Vasto Paglietta in Apruzzo Citeriore, in
«Annali Agricoltura Italiana», 1820, tomo VI, pp. 241 e 244.
22
ASN, Ministero dell’Interno, Reale Istituto d’Incoraggiamento alle Scienze Naturali, Napoli 12.1.1835, II inventario, f. 457.
23
ASN, Ministero dell’Interno, Società Economica del I Abruzzo Ultra, Teramo 27.2.1835, II
inventario, f. 457.
24
S. De Nobili, C. Fini, C. De Vincentiis, Statistica agraria del circondario di Casoli in
Apruzzo Citeriore, in «Annali Agricoltura Italiana», 1821, tomo IX, p. 51.
25
E. Micheletti, Memoria sulle cause produttive delle lamature e i rimedi onde evitarle, manoscritto, a. 1815, in ASN, Ministero dell’Interno, II inventario, f. 2579.
26
De Matteis, Terre di mandre e di emigranti cit., p. 47.
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In provincia di L’Aquila la maggioranza dei terreni pascolativi posseduti dai comuni era costituita da terreni montani o sub montani a vegetazione arborea e ciò confermerebbe la profonda compenetrazione di
attività pastorali e forestali26.
Le denunce degli scrittori, le norme legislative non rispondevano,
dunque, a reali esigenze di organizzazione dell’uso del territorio? In alcuni casi sembra che esse siano astratte, dettate da norme e considerazioni teoriche, che ignoravano le concrete situazioni in esame. La difesa dei
boschi comunali San Valentino e Ripa d’Orta in Abruzzo Citeriore aveva causato danni alla pastorizia, poiché non vi erano altri terreni incolti
dove nutrire gli animali; inoltre la loro chiusura aveva impedito l’accesso
al fiume Orta necessario come abbeveratoio27. L’interdizione del pascolo
nei boschi comunali di Roccaspina aveva reso impossibile l’allevamento,
schiacciato tra campi coltivati e terreni alberati28. D’altronde nel caso del
comune di Barisciano sarebbe stata la stessa amministrazione forestale a
rifiutare la chiusura assoluta di tutti i boschi al pascolo caprino, sostenendo che un divieto del genere avrebbe causato danni maggiori degli
eventuali benefici arrecati dalla conservazione dei boschi comunali29.
La condanna del pascolo in bosco non era, però, dettata solo da un
rigido conservazionismo, magari eccessivo: si trattava piuttosto di difendere non tanto il novellame dagli animali quanto la proprietà privata dagli usi collettivi.
Era questo il caso della lite intercorsa tra il comune di Pettorano e
la famiglia Tocco di Montemiletto; i cittadini avevano alterato i confini
del bosco Montagna di Fascia nel tentativo di accrescere il pascolo loro
assegnato. Tra falsificazioni di verbali di guarda boschi e memorie del
sindaco e del primo eletto, l’intendente non poteva che invocare una
misurazione del fondo con periti di parte30. Ed un conflitto per il diritto di pascolo si sarebbe verificato anche tra il duca di Gesso e il comune di Villa Santa Maria, in particolare per la fida sull’erbatico e il
ghiandatico del feudo Montebello31. Problemi simili si agitavano in
quegli anni tra il comune di Vasto e i D’Avalos, per l’esercizio dei diritti di pascolo e di legnatico su tre boschi di proprietà della famiglia32.
27
ASN, Amministrazione Forestale, Provincia di Abruzzo Citeriore, Disposizioni della
Commissione in merito di un bosco comunale, 16.12.1814, f. 534.
28
ASN, Ponti e Strade, Lettera del sindaco al sott’ispettore, Roccaspinalveti 17.4.1819, f. 101.
29
ASN, Ministero dell’Interno, Proposta del decurionato di Barisciano per impedirsi il pascolo delle capre in quel territorio. Negata, II inventario, f. 547.
30
ASN, Archivio Tocco di Montemiletto, Memoria, a. 1809, b. 59.
31
ASN, Archivio Caracciolo di Villa, fasc. 3, f. 111.
32
Archivio Comunale di Vasto, Delibere, 10.1.1810, vol. 73.
33
ASN, Ministero dell’Interno, Supplica del comune di Atessa, Atessa 29.11.1830; Estratto
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Il conflitto, tuttavia, non si innestava solo nella contrapposizione
tra proprietà privata e usi collettivi. In alcuni casi erano intere comunità a scontrarsi per l’accesso alle risorse boschive, ed in particolare per
il pascolo del bestiame, come accadde negli anni trenta del XIX secolo
tra i comuni di Atessa e di Tornareccio per il bosco di Costapuntella33.
L’esito prevalentemente distruttivo della teorica integrazione di attività silvo-pastorali era legato, dunque, agli aspetti sociali della questione: il problema dell’accesso alle risorse comuni, la distribuzione
delle terre nelle comunità rurali, la sostituzione delle tradizionali essenze vegetali con colture arboree più redditizie, come il mandorlo o
l’ulivo, condussero ad una alterazione degli equilibri montani.
5. Boschi e manifatture:
espansione produttiva e sfruttamento sostenibile della risorsa forestale.
Meno indagati, rispetto all’agricoltura e all’allevamento, i rapporti
tra bosco e industria, ma non per questo meno rilevanti. Fino a Ottocento inoltrato il carbone vegetale costituì una preziosa fonte energetica per le manifatture ed il bosco nel suo complesso forniva materie prime essenziali per i più diversi rami dell’attività industriale.
i boschi forniscono il legno di costruzione a molte città come principale ed
unico elemento della loro formazione; alle fabbriche civili e militari idrauliche;
a quasi tutte le macchine e strumenti agrari, alle macchine e alle fortificazioni
ed altre arti ed industrie; da boschi si ha la pece, la resina, la vernice, ed il catrame [necessario] alla navigazione. I boschi provveggono il legname necessario
da far carboni per gli usi di domestici e per moltissime fabbriche ed industrie; da
boschi si ha la scorza, le cupole delle ghiande, le foglie, le galle, ed i molli [necessari] alle conce dei cuoi ed alla tintoria; i boschi forniscono le bacche, la manna,
la gomma, il terebinto, il catrame, il mastice le contaridi alla medicina, l’incenso
alla Religione, le ceneri di potassa per le fabbriche di vetri e di cristalli1.
Le società del legno e del carbone vegetale2 erano fondate su un’economia a base organica: esse dipendevano, cioè, dalla capacità di intercettare e utilizzare parte dell’energia solare giunta sulla terra, mantenendo
attivo il bilancio tra energia ricavata ed energia impiegata per ottenerla. I
de’ registri della segreteria generale della Gran Corte de’ Conti nella causa tra il comune di Atessa contro il comune di Tornareccio; in II inventario, f. 72.
1
ASN, MAIC, Memoria per sua Eccellenza il Sig. Comm. Moreno Direttore del Ministero
dell’Interno, redatta il 4.11.1850 dall’ufficiale di carico Giuseppe de Martino, f. 387.
2
F. Braudel, Capitalismo e civiltà materiale, Einaudi, Torino 1977, p. 273.
3
Si vedano E. A. Wrigley, La rivoluzione industriale in Inghilterra, il Mulino, Bologna
1992 e P. Malanima, Energia e crescita nell’Europa preindustriale, NIS, Roma 1996.
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boschi costituivano un deposito di energia e furono da sempre utilizzati
a questo scopo. Fu l’impatto delle prime manifatture su tale tipo di risorsa energetica ad essere traumatico: lo sfruttamento dei giacimenti
carboniferi avrebbe segnato un passaggio epocale, sostenendo la transizione da un’economia dipendente dal flusso di energia organica a una
dipendenza parziale da energie inorganiche3.
Ambiente e industria negli Abruzzi: il tema è piuttosto suggestivo,
dal momento che l’accidentata orografia dei luoghi ha fatto più volte
parlare di un’assenza di tale attività nella regione4. Una visione, questa,
piuttosto deterministica dei vincoli ambientali, che non ha tenuto sufficientemente conto delle molte opportunità – latenti e non – presenti sul
territorio regionale5. D’altra parte proprio il difficile rapporto uomo-risorse ha spinto a costruire strategie plurime e complementari di sopravvivenza. Secondo il modello protoindustriale la povertà del suolo e la
scarsezza del raccolto costituivano una spinta potente a cercare un reddito aggiuntivo in altre attività produttive. In questo senso si spiegherebbe
la concentrazione di industrie rurali soprattutto in aree montuose6. In
un tempo nel quale la tecnica non forniva ancora gli strumenti necessari
per accorciare le distanze, immagazzinare l’energia e trasportarla, la localizzazione della produzione industriale era strettamente legata – come è noto – alle opportunità ambientali, alla fruibilità delle risorse.
Non si trattava solo dei boschi, ma anche dei corsi d’acqua o dei giacimenti minerari. In molti casi si assisteva ad una vera migrazione delle
manifatture che si spostavano seguendo le dinamiche delle risorse naturali delle quali si servivano. Giuseppe Melograni, ad esempio, definiva
le fonderie «mandrie viaggiatrici», riferendosi alla necessità di quelle di
spostarsi alla ricerca di «boschi novelli»7. Nel caso delle risorse forestali
si trattava di una pluralità di apporti alla produzione industriale: l’albero, infatti, non era solo una preziosa fonte energetica, ma forniva anche
la materia prima per molte manifatture.
Se le ferriere, le manifatture di liquirizia, di maioliche o i forni per
laterizi costituivano un immenso bacino di assorbimento per il carbone
Cfr. F. Milone, L’Italia nell’economia delle sue regioni, Einaudi, Torino 1955.
Giuseppe Maria Galanti, ad esempio, pur esprimendo un giudizio piuttosto negativo
sul sistema manifatturiero della regione, segnalava altresì le possibilità insite nel territorio; in
G. M. Galanti, Della descrizione geografica e politica delle Sicilie, a cura di F. Assante e D.
Demarco, ESI, Napoli 1969, p. 494.
6
P. Kriedte, H. Medick, J. Schlumbohm, L’industrializzazione prima dell’industrializzazione, il Mulino, Bologna 1984, p. 38.
7
G. Melograni, Istruzioni fisiche ed economiche dei boschi, Napoli 1810, p. 150.
8
Un sistema economico può definirsi sostenibile dall’ambiente sul quale insiste se non
mina radicalmente la resilienza dell’ecosistema, cioè la sua capacità di fornire prestazioni e di
4
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vegetale, non meno rilevante era il consumo di legname da parte delle
fabbriche di cuoiami, di manufatti in legno, o dell’edilizia pubblica e
privata. Piuttosto modesto l’impiego del legname abruzzese, invece, per
la cantieristica navale perché il sistema viario rendeva molto complesso
e dispendioso l’arrivo di forniture abruzzesi ai cantieri napoletani.
La questione fondamentale per l’economia ambientale è la riproducibilità della risorsa e, di conseguenza, le forme e i tempi di uno sfruttamento sostenibile8. Il rapporto tra risorse ed economie è necessariamente mediato dalla tecnica che ne consente l’interazione; il bosco, dunque,
non fu una risorsa naturale, ma fu esso stesso il prodotto di un’azione
sociale, più o meno consapevole, delle comunità sul territorio. Non si
trattava di un’azione comune, uniforme e omogenea: si sono già sottolineate le molteplici razionalità, spesso alternative e contraddittorie, che si
dispiegarono nei boschi abruzzesi. Nel caso delle manifatture appare
chiaro che, se è vero che il loro intervento incideva in modo consistente
sul patrimonio forestale almeno in alcuni casi, non per questo si deve indulgere ad una facile vulgata ecologista, secondo la quale le industrie distruggono l’ambiente. Le manifatture imponevano, in realtà, i loro ritmi,
i loro metodi e i loro interessi per lo sfruttamento del patrimonio forestale; e non si trattava sempre e comunque di sistemi distruttivi o, quanto meno, più distruttivi di altri. È evidente che la questione è strettamente connessa alle dimensioni della produzione manifatturiera. Entro i limiti di impianti modesti il bosco poteva sostenere la produzione, a scapito, naturalmente, degli equilibri ecologici e sociali tradizionali. C’è chi,
a sua volta, ha sottolineato l’impulso dato dallo sviluppo manifatturieroindustriale alla selvicoltura, come scienza ausiliaria della produzione9.
Si presentano due casi di interazione tra boschi e manifatture che
consentono di intravedere modelli e dinamiche diverse di sfruttamento
delle risorse forestali: la Ferriera marsicana e le maioliche di Castelli.
Alle vicende della Ferriera marsicana parteciparono i proprietari
della fabbrica (una società marsigliese), le comunità dell’area intorno
all’impianto e l’amministrazione governativa di acque e foreste.
Quando la Ferriera marsicana, sita nel distretto di Avezzano, iniziò
a sfruttare le riserve legnose del monte Argatone, la questione fu non
tanto un approvvigionamento selvaggio dell’impresa, ma piuttosto il
resistere a futuri pressioni e shock. A tale proposito cfr. Bresso, Per una economia ecologica
cit., p. 78.
9
Si veda J. F. Belhoste, Une sylviculture pour les forges, XVIe-XIXe siècles, in Forges et
forets, a cura di D. Woronoff, École des Hautes Etudes en Sciences Sociales, Paris 1990, pp.
219-61.
10
ASN, Ministero dell’Interno, Manifesto, Aquila 25.1.1851, II inventario, f. 670 bis.
11
ASN, MAIC, Al sig. direttore generale di Ponti e strade, acque, foreste e caccia da Char-
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suo tentativo di imporre regole d’uso volte a limitare i diritti delle popolazioni locali. Il taglio di legname da parte della ferriera doveva avvenire, infatti, rispettando precise regole volte a tutelare la riproducibilità
dei boschi dell’Argatone: la conservazione di quindici alberi di speranza a moggio, l’esecuzione del taglio a regola d’arte, la messa a difesa
della tagliata, il divieto di trasportare legname e carboni attraverso le sezioni già recise e in via di riproduzione, l’obbligo a chiedere comunque
il permesso di carbonizzazione. La presenza di un guardaboschi stipendiato dalla ferriera sanciva il controllo dell’impresa sul territorio10. Non
si trattava, però, prevalentemente di un approccio distruttivo alla risorsa forestale, o più distruttivo di quello locale. Si trattava, di certo, di un
approccio diverso, funzionale a interessi economici alternativi non tanto al bosco, ma alle forme tradizionali di attivazione di quella risorsa.
Al contrario la ferriera sembrava piuttosto sensibile ad uno sfruttamento sostenibile delle foreste dell’Argatone:
D’altra parte occorrendo continuamente i carboni, non conviene al sottoscritto comprarli da coloro che li fanno senza regola e distruggendo i boschi;
anzi il suo interesse lo induce a cooperare alla loro ristorazione ed a dare
l’esempio come si tagliano e si mettono a riproduzione secondo le regole
dell’economia silvana11.
Si registravano, al contrario, continui danni nei boschi in questione
imputati alle popolazioni dei comuni limitrofi, come gli incendi denunciati nel 184412 e i tagli furtivi del 185113. D’altronde furono gli stessi decurioni a schierarsi contro la ferriera a difesa degli equilibri tradizionali14.
Se la Ferriera Marsicana era stata considerata come un corpo estraneo al contesto socio-ambientale nel quale era collocata, al contrario le
manifatture di maioliche di Castelli erano profondamente inserite nel
tessuto locale. L’opposizione, dunque, si giocava tutta tra amministrazione forestale e interessi locali. In questo caso le amministrazioni comunali identificavano i loro interessi con quelli dei maiolicari, costituendo con essi un blocco compatto contro le spinte protezionistiche
dell’amministrazione forestale15.
les Aunè, 21.4.1843, f. 616.
12
ASN, MAIC, Il sottintendente, Avezzano 3.10.1844, f. 616.
13
ASN, MAIC, Verbale di verificazione dei danni commessi nelle proprietà boscose del
comune di Bisegna e riunito villaggio di San Sebastiano, 18.11.1851, f. 616.
14
ASN, MAIC, Il segretario generale al direttore generale di ponti e strade, Aquila
22.8.1843, f. 616.
15
Cfr. F. Vion-Delphin, Forets et chaiers de doléances: l’exemple de la Franche-Conté, in
Révolution et espaces forestiers, a cura di D. Woronoff, Paris 1987.
16
P. Tino, La montagna meridionale, in Storia dell’agricoltura italiana cit., p. 736.
17
ASN, Amministrazione Forestale, corrispondenza coll’ispezione della divisione degli
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Il legname era necessario all’industria di maioliche per la cottura della creta e per la confezione delle vernici. Le fabbriche di Castelli consumavano tra 1812 e 1824 tra 1000-2500 canne [mc 4692-11 734] di legname all’anno (per la fine del secolo si è calcolato un consumo di circa
4000 mc)16. In genere la manifattura vedeva soddisfatte le proprie richieste17. Non mancarono, però, contrasti tra l’istituzione governativa, gli
imprenditori e le amministrazioni locali sul tema dell’approvvigionamento del combustibile. Nel 1830 il sindaco e i decurioni di Castelli
esprimevano la loro doglianza per le inibizioni subite nei loro diritti
tradizionali sul bosco comunale; da sempre quel bosco era appartenuto
alla comune e gli abitanti avevano avuto illimitata facoltà di legnare,
senza pagare alcun prezzo:
Ora però soggiungono che per una cattiva interpretazione della legge forestale dagli agenti di tale amministrazione si pretende non solo il pagamento del
prezzo del legname suddetto, ma ancora che il taglio si esegua non già secondo
il bisogno ma esclusivamente ne’ mesi da ottobre a marzo, tempo in cui il bosco
è inaccessibile perché coverto dalla neve e quindi da questa innovazione per necessità debbono chiudersi tutte le manifatture indicate, di cui una parte sono già
sospese e ridursi alla miseria una intera popolazione18.
L’uso libero del bosco comunale aveva causato ovviamente non pochi problemi: nel 1829 alcune sezioni di boschi destinate alla vendita, essendo state danneggiate dai maiolicari, che avevano reciso gli alberi senza alcuna regola, rimanevano invendute. Sulla vicenda si pronunciava il
procuratore generale della Gran Corte dei Conti:
Restringere l’uso di legnare in modo che non fosse sufficiente al bisogno
della popolazione o imporsi una fida che fosse gravosa potrebbe far mancare il
combustibile in un paese bastantemente infelice e sminuire o anche spegnere
l’industria delle majoliche dalla quale la maggior parte di quegli abitanti trae la
sua sussistenza [...]. Permettere un uso illimitato di legnare menerebbe alla distruzione del bosco19.
All’intendente era affidato il compito di mediare tra le diverse esigenze come un «buon padre di famiglia».
Due le testimonianze degli esiti negativi di questo tipo di gestione:
la frana del 1845, dovuta ai diboscamenti intorno a Castelli20 e la denunAbruzzi, dicembre 1812, f. 534.
18
ASN, Ministero dell’Interno, Doglianza dei cittadini di Castelli sulla inibizione di poter
legnare nei boschi del comune, Nota per lo Consiglio, II inventario, f. 580.
19
ASN, Ministero dell’Interno, Doglianza dei cittadini, il procuratore generale al Ministro
dell’Interno, Napoli 22.9.1830, II inventario, f. 580.
20
ASN, Ministero dell’Interno, Atti del Consiglio Provinciale del I Abruzzo Ulteriore, a.
1845, II inventario, f. 4083.
21
«La principale e forse unica cagione di tanto deterioramento è stato il continuo taglio a
salto abusivamente commesso dai molti fabbricanti di maioliche in quel comune, i quali avendo
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Armiero, Boschi ed economie nell’Abruzzo dell’Ottocento
cia del deterioramento dei boschi comunali fatta dal guardia generale
nel 185821.
Nel caso della ferriera era una manifattura privata prova a organizzare lo sfruttamento del territorio dialogando essenzialmente con l’amministrazione centrale; le comunità reagirono negativamente in nome
del timore della penuria di combustibile.
Il caso proposto mette in crisi alcuni luoghi comuni, come l’idea
che il bosco si distrugga perché gli uomini ne fanno uso22: la ferriera in
questione aveva tutto l’interesse a che il bosco dell’Argatone non si
esaurisse in pochi anni. Il problema rimaneva, naturalmente, tutto
dentro i limiti di una produzione manifatturiera circoscritta: forzare
questi limiti e quindi anche la riproducibilità della risorsa poteva significare compromettere per sempre la risorsa stessa (in Abruzzo si può
citare il caso della ferriera di Morino chiusa a metà del XIX secolo
probabilmente per la fine del combustibile vegetale più che per l’esaurimento del minerale).
Le regole seguite dalla Ferriera marsicana erano stabilite, si è detto,
dall’Amministrazione Forestale in accordo con i proprietari. Il territorio era gestito direttamente dal potere statale e dalla proprietà privata.
L’effetto fu l’antagonismo delle comunità locali, il conflitto.
La paura di rimanere senza combustibile era fondata? Dai documenti sembrerebbe di no, ma il senso di penuria non è un dato oggettivo, ma piuttosto una sensazione soggettiva, magari di gruppo, difficilmente quantificabile23. D’altronde il timore del freddo inverno abruzzese celava, in realtà, altri interessi che la ferriera e la sua organizzazione del territorio mettevano in crisi: nelle sezioni di bosco sottoposte al
taglio regolare le comunità del distretto di Avezzano portavano i propri animali al pascolo, contravvenendo in un sol colpo ai divieti
dell’amministrazione forestale e ai diritti esclusivi dei proprietari della
manifattura24.
Il conflitto sembra la chiave di volta di entrambe le vicende; la gestione del territorio, delle risorse si delinea proprio nella competizione
avuto bisogno di materiali speciali per alimentare le fornaci sceglievano per lo spazio di 30 anni e
molto più nelle fatali emergenze del 1848 e 1849 le migliori piante [...]»; in ASN, Amministrazione Forestale, Il guardia generale all’amministrazione generale, Teramo 6.7.1858, f. 431.
22
Moreno, Dal documento al terreno cit., p. 11.
23
A. Brosselin, A. Corvol, F. Vion-Delphin, Les doléances contre l’industrie, in Forges et
forets, a cura di D. Woronoff, Paris, École des Hautes Etudes en Sciences Sociales, 1990, pp.
13-5.
24
ASN, MAIC, L’ispettore G. Labollita all’amministrazione generale di Ponti e Strade,
Acque, Foreste e Caccia, Aquila 29.9.1854, f. 616.
25
Sul rifiuto di regole esogene per lo sfruttamento delle risorse forestali si veda il caso
francese studiato da Y. Rinaudo, La révolution conservatrice: les bois communaux Varois au
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tra interessi antagonisti. Non tanto comunità provvide difensori dei
boschi contro capitalisti divoratori di alberi, ma nemmeno sfruttamento razionale – perché moderno (quello della ferriera) – contro sfruttamento irrazionale – perché arcaico (quello delle comunità) –.
In questo senso la denuncia di infrazioni da parte della manifattura –
gli incendi ed i tagli abusivi del 1841 e del 1851 – non deve essere interpretata come la testimonianza di un uso irrazionale contrapposto ad
un uso razionale, e non solo perché le razionalità erano molte e differenti tra loro, ma anche perché quelle infrazioni, quei reati non erano
espressione di usi, di pratiche di attivazione ma andrebbero letti come
fenomeni interni al conflitto, manifestazioni di quella resistenza comunitaria al sopravanzare di nuove tecniche e di nuovi usi, funzionali a
nuovi interessi economici.
Il caso delle maioliche di Castelli appare profondamente differente
da quello della ferriera. In esso gli attori sociali si riducono da tre a
due: la comunità e le manifatture, infatti, sembrano identificarsi e l’approvvigionamento della comunità coincide con quello delle manifatture. In questo senso la dinamica dell’azione appare semplificata: comunità/manifatture contro amministrazione forestale. Mi sembra che l’assenza del conflitto locale di interessi e la delega della difesa del territorio all’agenzia governativa si risolva sostanzialmente a danno del territorio stesso. La comunità locale non sembra trovare le forme adeguate
per sfruttare le sue risorse forestali senza comprometterne la riproduzione. Né, d’altra parte, vuole accettare l’imposizione di regole dall’esterno25. E i dissesti idrogeologici, come pure il panorama descritto negli
anni cinquanta del XIX secolo, potrebbero dar ragione ad una tesi: il
conflitto come sistema equilibratore di controllo, motore di strategie di
tutela e di accesso alle risorse stesse.
6. La distruzione del bosco
tra leggi di mercato e norme consuetudinarie.
In Abruzzo agricoltura, allevamento, manifatture trovavano un
ideale raccordo nella risorsa forestale: l’agricoltura si espandeva verticalmente, a scapito delle colture legnose; l’allevamento attivava in
un’altra direzione il patrimonio forestale; le manifatture utilizzavano il
bosco come serbatoio di combustibile e riserva di materie prime.
XIXe siècle, in Révolution et espaces forestiers cit.
1
Cfr. in proposito P. Bevilacqua, Acque e terre nel Regno di Napoli, in L’ambiente nella
storia d’Italia cit., p. 88.
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Armiero, Boschi ed economie nell’Abruzzo dell’Ottocento
La pluralità di apporti del bosco alle economie locali si traduceva,
in genere, in una molteplicità di interessi e di attori sociali coinvolti
nella gestione e nel controllo della risorsa. Una situazione che necessariamente conduceva al conflitto tra gruppi, individui, classi e comunità: il bosco stava cessando di essere un bene semigratuito, luogo di
esercizio di diritti comuni inalienabili; a strategie d’uso complementari
si sostituivano tecniche univoche di attivazione della risorsa che, affermandosi, escludevano gli altri sistemi di impiego volti a sfruttare il patrimonio forestale in direzioni differenti. L’affermazione di una tecnica
e di un modo di utilizzo della risorsa impoveriva non solo i gruppi sociali usciti sconfitti dal conflitto, ma la risorsa stessa, che di quella pluralità di strategie d’uso era frutto.
Dentro i boschi abruzzesi, accanto ai differenti soggetti, portatori
ciascuno di particolari interessi economici, si muovevano le amministrazioni statali, tanto quelle direttamente impegnate nella gestione
delle risorse forestali, quanto quelle ordinarie, come i decurionati e le
intendenze. Esse svolgevano ruoli differenti: a volte mediavano tra le
parti coinvolte nei conflitti o tra il centro e le periferie, altre volte intervenivano direttamente, in genere a favore dei più potenti, anche se
talvolta non mancavano di dispiegare la loro autorità per la difesa dei
diritti consuetudinari. Ciò che più interessa, tuttavia, è la presenza
dello Stato nella gestione delle risorse naturali: non sembrava possibile, dunque, che il libero dispiegarsi degli interessi economici, il mercato in una parola, potesse assicurare lo sfruttamento continuo della risorsa e, in ultima analisi, la sua sopravvivenza. Sia chiaro che l’intervento dello Stato, attraverso le agenzie di tutela del territorio e le amministrazioni periferiche, non era imparziale e disinteressato: la corruzione generalizzata dei funzionari forestali, i meccanismi di reclutamento degli stessi, la struttura sociale del Regno facevano sì che essa
fosse comunque parte in causa nel conflitto, portatrice di una idea della proprietà e del progresso. Malgrado questi limiti strutturali, all’interno delle burocrazie statali francesi e borboniche si sedimentarono
competenze e saperi preziosi per la gestione e il controllo degli equilibri territoriali1. Usare il bosco significava, infatti, intervenire su un
complesso sistema di relazioni che interessava l’economia delle acque,
la stabilità dei terreni in pendio, il clima e, naturalmente, la composizione floristica e faunistica di intere aree a copertura arborea.
2
3
Bresso, Esternalità intergenerazionali e territorio, in Economia e Ecologia cit., p. 32.
«Noi ammiriamo con invidia molti comuni di questa provincia [...] le quali avendo
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Il confronto tra ambienti ed economie porta con sé di necessità la
questione delle capacità previsionali degli attori sociali. L’alta frequenza
di frane nella regione, tuttavia, testimonia che esse dovevano essere
piuttosto limitate. L’oggi è l’orizzonte nel quale si muovono i dissodatori ottocenteschi, per niente preoccupati di lasciare ai propri figli e nipoti un territorio non solo più brutto, ma soprattutto più povero.
D’altra parte le esternalità non sempre si producono nel breve periodo,
ma più spesso si sedimentano per manifestarsi a distanza di una o più
generazioni. La questione, dunque, diviene la mancata compensazione
tra coloro che beneficiano dell’opzione nel presente e quanti, invece, ne
pagheranno le conseguenze nel medio e lungo periodo2.
I limiti previsionali dei diboscatori ottocenteschi non erano solo di
tempo (l’incapacità a porsi i problemi delle generazioni future), ma anche di spazio. Il raggio d’azione delle scelte operate era estremamente
limitato, circoscritto: molto spesso non si vedeva o non si voleva vedere ciò che accadeva pochi metri più a valle. Fin qui, però, niente di nuovo: già gli intellettuali del secolo scorso avevano denunciato l’avidità
contadina, la mano improvvida e insipiente che distrugge il bosco per
un guadagno momentaneo. Si trattava, però, di una lettura che nascondeva un equivoco di fondo: era l’insipiente società contadina a distruggere l’albero, mentre la nuova civiltà capitalistica e di mercato l’avrebbe
salvato? Nel corso del XIX secolo molti erano di questa opinione3 ed
in fondo la legislazione del 1826 e quella proposta negli anni cinquanta
avrebbero sancito una privatizzazione delle risorse forestali, lamentando l’incuria delle forme comuni di proprietà, ma soprattutto ribadendo
la fede incrollabile nel credo liberista: dal benessere del singolo derivava automaticamente il benessere collettivo.
Sia chiaro che si rifugge in questo saggio dall’idea romantica che divide i buoni e i cattivi, attribuendo tutte le colpe al capitalista e alla comunità i meriti di una sapienza ecologica4. Il problema sta nella trasformazione del modello di società e di economia: dentro un’economia morale, ben salda nei limiti di una visione tradizionale degli obblighi e delle
suddivisi fra cittadini i piccoli loro boschi formano la sicurezza de’ medesimi...», in Statistica
agraria del circondario di Casoli cit., p. 49; o ancora «Siccome la maggior parte de’ boschi
appartengono alla casa D’Avalos così questa li fa gelosamente custodire...», in Durini, Statistica agronomica dei circondari di Vasto cit., p. 244; per il bosco del comune di Montenerodomo il segretario dell’intendenza dichiarava di avere verificato di persona il «florido stato
della parte divisa» e il deterioramento di quella indivisa, in ASN, Ministero dell’Interno, Il
segretario generale di intendenza al Ministro, Chieti 8.12.1838, II inventario, f. 72.
4
P. P. Viazzo, Comunità alpine, il Mulino, Bologna 1990, pp. 52-3.
5
E. P. Thompson, L’economia morale delle classi popolari inglesi nel secolo XVIII, in
Società patrizia, cultura plebea, Einaudi, Torino 1981.
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norme sociali e in una situazione di equilibrio tra popolazione e risorse,
il benessere comune impediva un uso dei beni collettivi in direzione privatistica5. È piuttosto l’incontro tra questo modello, fatto di consuetudini locali, e una economia diversa, di mercato, che sconvolge le modalità tradizionali di utilizzo delle risorse, snaturandone essenzialmente la
forma della proprietà.
L’affermazione di un solo modello di proprietà, quello privato, e di
un solo sistema economico, quello di mercato, conduceva inesorabilmente alla scomparsa della natura come produttrice di valore6. Inoltre
impediva una giusta valutazione di quello che è stato definito il valore
d’uso, cioè l’apporto della risorsa forestale alla sussistenza delle comunità utilizzatrici; si pensi in particolare al rapporto tra boschi e pascoli.
La resistenza della società e delle sue consuetudini emerge nelle
mille pratiche eterodosse di attivazione della risorsa forestale, nella
persistenza di forme collettive di proprietà e utilizzo, nella deroga
quotidiana alla norma. Tali forme di comportamento si manifestavano
con maggiore evidenza in occasione di tumulti e sollevazioni popolari:
in essi è possibile scorgere un modello di comportamento sociale consuetudinario, un’economia morale che legittimava la violazione della
norma, non per fini rivoluzionari quanto piuttosto per riportare la situazione allo status quo. Le fonti fanno riferimento alla furia devastatrice delle masse popolari in occasione di particolari contingenze politiche: nel 1848, ad esempio, era segnalata una forte recrudescenza di
reati forestali di gruppo sia nella provincia di L’Aquila7 che in quella di
Teramo8.
La rivendicazione politica diventava spesso, nelle campagne, rivendicazione sociale ed economica: non si trattava tanto della furia selvaggia delle masse improvvide ed ignoranti quanto di un tentativo di
ripristinare strategie di utilizzo comune della risorsa.
Vi era anche un’altra tipologia di sommossa, che probabilmente fu
più comune e frequente ma certo meno rilevante di quella inserita all’interno del grande momento rivoluzionario: i tumulti locali per rivendicare l’uso del bosco e, soprattutto, l’approvvigionamento di combustibile.
6
Si vedano ancora Bevilacqua, Natura e lavoro. Analisi e riflessioni intorno a un libro
cit.; H. Immler, Economia della natura. Produzione e consumo nell’era ecologica, Donzelli,
Roma 1996.
7
ASN, MAIC, All’intendente della provincia di Aquila, 11.10.1848, f. 322.
8
ASN, MAIC, II classe, f. 387. In questa occasione l’intendente di Teramo ricordava i
disordini avvenuti nei boschi già durante il 1799.
9
ASN, Ministero dell’Interno, Lettera dell’intendente della provincia di Aquila a S. E. il
Ministro dell’Interno, 25.9.1813, II inventario, f. 668 bis.
10
ASN, Ponti e Strade, Lettera del Ciamberlano al Direttore Generale, Chieti 9.10.1813,
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Saggi
Nel 1813 si segnalavano rivolte a L’Aquila9 e a Chieti10; nel 1816 a Roccacinquemiglia11. Nel 1851 l’intendente di L’Aquila descriveva l’ennesima sollevazione popolare per rivendicare i diritti consuetudinari sui
boschi:
Si è a me presentata ieri sera una ciurma di poveri contadini venuti da Torrebruna per espormi che avvicinandosi l’inverno e trovandosi ad abitare in un
paese montuoso posto in clima rigidissimo hanno urgente bisogno di combustibile, di che manca la popolazione intera; e perché non si permette a chicchessia di provvedersene nelle campagne forestali del comune, protestavano vincere
ogni resistenza del custode silvano provvisorio colà esercente per suffragare alla
propria conservazione anzicché perire di freddo12.
È interessante notare come, spesso, da parte delle amministrazioni
locali si applicasse un certo paternalismo benevolente13, che tradiva proprio la caratteristica fondante di tali rivendicazioni: esse sembravano
inserite all’interno di radicate norme sociali, legittimate dalla consuetudine, ma in fase di sgretolamento nell’impatto con le nuove regole del
mercato.
Il mercato, la proprietà privata hanno salvato quel che resta del bosco o, al contrario, lo hanno sprofondato nel baratro? L’ipotesi liberista
ha sostenuto che mantenere il bosco fuori dal mercato, all’interno di
un’economia comunitaria conduceva inesorabilmente alla sua distruzione; solo la sua privatizzazione e monetarizzazione del valore poteva
spingere a salvarlo o, magari, ad incrementarlo. Secondo i critici di tale
impostazione invece, l’avvento della proprietà privata e dell’economia
di mercato ha trascinato i boschi alla distruzione, spingendo gli attori
sociali a realizzare in breve tempo il maggiore guadagno possibile.
In realtà il nodo della questione è, a mio parere, nel concetto di valore e di possesso: moneta e proprietà privata risultavano insufficienti
a dare ragione delle molteplici varianti di valore d’uso e di forme di accesso-controllo della risorsa forestale così come si erano storicamente
f. 101.
11
ASN, Ministero delle Finanze, Lettera del Direttore Generale al Ministro delle Finanze, Napoli 19.6.1816, f. 2273.
12
ASN, MAIC, Lettera dell’Intendente al Direttore Generale, 18.10.1851, fasc. 18, f.
655.
13
Solo a titolo di esempio il caso di Luco (Abruzzo Ulteriore II): i cittadini più poveri
hanno preso d’assalto il bosco comunale, ma il loro comportamento è inserito all’interno
delle difficili condizioni dell’area (il Fucino). La miseria collettiva diventava, dunque, una
sorta di attenuante sociale all’irregolarità commessa. In ASN, Ministero delle Finanze,
All’Ill. Sig. Intendente, Avezzano 20.5.1816, f. 2273.
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determinate. L’equivoco generato tra valore e prezzo, tra proprietà privata e accesso collettivo avrebbe condotto ad una forte contrazione del
patrimonio forestale regionale, anche se la percezione della penuria fu
legata non solo e non tanto alla improvvisa scomparsa dei boschi,
quanto piuttosto alla trasformazione dei modi e delle forme sociali del
loro uso.
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