Licenziamento individuale_Tursi

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Licenziamento individuale_Tursi
Studio Associato Servizi Professionali Integrati
Member Crowe Horwath International
Licenziamento individuale
del Prof. Avv. Armando Tursi
Trib. Bologna ordinanza 15 ottobre 2012 (in
Boll. ADAPT, 2012, n. 38).
Ingiustificatezza e mancanza di proporzionalità del licenziamento disciplinare rispetto al fatto
contestato - Riconducibilità del fatto contestato a una fattispecie per la quale il contratto collettivo
prevede una sanzione conservativa - Regime sanzionatorio applicabile.
Laddove il contratto collettivo preveda l’applicazione di sanzioni conservative in ipotesi di «lieve
insubordinazione nei confronti dei superiori», spetta al giudice decidere se il fatto contestato vada ricondotto
a tale ipotesi, con la conseguente applicazione della tutela reintegratoria.
Trib. Bologna ordinanza 15 ottobre 2012 (in
Boll. ADAPT, 2012, n. 38).
Ingiustificatezza del licenziamento e insussistenza del fatto contestato - Regime sanzionatorio
applicabile.
Ai fini della «insussistenza del fatto contestato», deve farsi riferimento al c.d. fatto giuridico, inteso come il
fatto globalmente accertato, nell’unicum della sua componente oggettiva e della sua componente inerente
l’elemento soggettivo. Non può ritenersi che l’espressione «insussistenza del fatto contestato» faccia
riferimento al solo fatto materiale, posto che tale interpretazione potrebbe giungere a ritenere applicabile la
sanzione del licenziamento indennizzato, anche a comportamenti esistenti sotto l’aspetto materiale e
oggettivo, ma privi dell’elemento psicologico, o addirittura privi dell’elemento della coscienza e volontà
dell’azione.
Il nuovo articolo 18 post-riforma Fornero alla prima prova giudiziaria: una norma di applicazione
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impossibile?
Sommario:
Il nuovo rito sui licenziamenti al suo esordio.
La graduazione delle sanzioni per gravità o per tipologia di violazione: un problema (di
interpretazione e qualificazione) del giudice o della contrattazione collettiva?
Il problema dell’“insussistenza del fatto”: come distinguere il fatto dalla sua ingiustificatezza?
Sussistenza del fatto e illecito contrattuale: il fatto non illecito e il fatto di gravità trascurabile.
Il nuovo rito sui licenziamenti al suo esordio.
L’ordinanza in commento è una delle prime pronunce giudiziali applicative della riforma dell’art. 18 Stat. lav.,
introdotta dall’art. 1, comma 42, della l. n. 92/2012, e del procedimento speciale per le controversie sui
licenziamenti rientranti nel campo di applicazione del riformato art. 18, introdotta dall’art. 1, commi 48 ss.,
della stessa legge.
Intanto, osserviamo che il procedimento ha dato buona prova di sé: non si desume, dal testo dell’ordinanza,
quando il ricorso per l’impugnazione del licenziamento sia stato presentato, ma è certo che l’ordinanza
giudiziale che ha concluso la «fase urgente a struttura sommaria» - che precede l’eventuale «processo a
cognizione piena, semplificato e accelerato» (D. BORGHESI, Conciliazione e procedimento speciale dei
licenziamenti per la riforma Fornero, in LG, 2012, 10, 915) - segue di soli due mesi e mezzo il licenziamento.
Non è dato sapere quanto avrebbe impiegato il giudice a emettere un’ordinanza (eventualmente a seguito di
decreto inaudita altera parte), ex art. 700 c.p.c.; ma si deve almeno rilevare che il meccanismo processuale
basato sulle accelerate scansioni temporali interne alle singole fasi (peraltro ordinatorie, nella parte in cui
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Pubblicato su “Diritto delle Relazioni Industriali”, n. 47/2012
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riguardano il giudice), sulla “corsia privilegiata” imposta dall’art. 1, comma 65, L. n. 92/2012 e sulla
limitazione dell’oggetto della domanda alla sola impugnazione del licenziamento (salvo la domanda
presupposta di riqualificazione del rapporto, e salve le domande diverse ma basate sui medesimi fatti
costitutivi di quella attinente al licenziamento), è stato, in questa prima prova, rispettato.
Il fatto che, in questa fase sommaria, il giudice abbia potuto procedere «nel modo più opportuno agli atti di
istruzione indispensabili» (mentre in fase di opposizione dovrà adottare gli «atti di istruzione ammissibili e
rilevanti» - comma 57, art. 1, comma 65, L. n. 92/2012) spiega forse una certa sbrigatività nell’aver ritenuto
che la condotta contestata al dipendente costituisse «lieve insubordinazione» e non giustificasse il
licenziamento (rileva l’«incompatibilità» tra «la valutazione sulla sussistenza o meno dei fatti contestati,
suscettibili di valutazioni differenziate», e «il procedimento di cognizione sommaria incentivato» F. SANTINI,
Il licenziamento per giusta causa e giustificato motivo soggettivo, in M. MAGNANI, M. TIRABOSCHI (a cura di),
La nuova riforma del lavoro, Giuffrè, Milano, 2012, 241).
Ricordiamo il fatto, come desumibile dal testo dell’ordinanza: all’ordine impartito tramite e-mail dal superiore
gerarchico, di effettuare controlli urgenti su alcuni disegni, il dipendente aveva risposto, qualche giorno dopo,
affermando di «confidare» che detti controlli sarebbero stati effettuati entro una certa data. Alla ulteriore
e-mail del superiore, che lo invitava a stabilire una data certa, il dipendente aveva risposto affermando che
«parlare di pianificazione nel gruppo […] è come parlare di psicologia con un maiale»; che «nessuno ha il
minimo sentore di cosa voglia dire pianificare una minima attività in questa azienda»; e che la consegna del
lavoro ordinato sarebbe avvenuta nella data indicata «se Dio vorrà».
La graduazione delle sanzioni per gravità o per tipologia di violazione: un problema (di
interpretazione e qualificazione) del giudice o della contrattazione collettiva?
Si trattava di una questione attinente alla valutazione di proporzionalità del licenziamento rispetto alla
violazione commessa: il giudice ha compiuto la consueta operazione di riconduzione della fattispecie
concreta sottopostagli alla confacente fattispecie astratta, ritenendo che quest’ultima fosse da individuarsi
nella «lieve insubordinazione verso i superiori», prevista dal Ccnl metalmeccanici applicabile al rapporto di
lavoro.
Si potrà convenire o meno sulla correttezza dell’operazione ermeneutica compiuta in casu dal giudice (per un
caso analogo, risolto in maniera analoga, vedi App. Potenza 25 gennaio 2011, n. 711); senza peraltro
dimenticare che «in tema di licenziamento disciplinare, la valutazione della gravità del comportamento e della
sua idoneità a ledere irrimediabilmente la fiducia che il datore di lavoro ripone nel proprio dipendente
(giudizio da effettuarsi considerando la natura e la qualità del rapporto, la qualità ed il grado del vincolo di
fiducia connesso al rapporto, l’entità della violazione commessa e l’intensità dell’elemento soggettivo), è
compito del giudice di merito che, adeguatamente motivata, è insindacabile in sede di legittimità» (tra le
tante, vedi Cass. n. 1788/2011).
Ma ove si convenga sulla correttezza del procedimento logico che ha indotto il giudice, sulla scorta degli
elementi sommariamente acquisiti e valutati, al convincimento circa la “levità” dell’insubordinazione
contestata, si dovrà riconoscere la correttezza della individuazione del regime sanzionatorio
conseguentemente operata: infatti, proprio il comma 4 del novellato art. 18 impone la c.d. “tutela
reintegratoria attenuata” (vedi la terminologia adottata da M.T. CARINCI, Il rapporto di lavoro al tempo della
crisi, relazione introduttiva al XVII congresso nazionale AIDLASS, Pisa, 7-9 giugno 2012) nel caso in cui il
giudice accerti che «il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle
previsioni dei contratti collettivi».
A tale proposito, quel che va rilevato non è l’eccessivo ampliamento dello spazio lasciato all’interpretazione
giudiziale (vedi M.L. GALANTINO, La riforma del regime sanzionatorio dei licenziamenti individuali illegittimi: le
modifiche dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori, in G. PELLACANI (a cura di), Riforma del lavoro, Giuffrè,
Milano, 2012, 243), ma semmai la praticabilità non scontata e non priva di aspetti problematici (vedi
M. MAGNANI, La riforma del mercato del lavoro, in Boll. ADAPT, 2012, n. 14; M. MARAZZA, L’art. 18, nuovo
testo, dello Statuto dei lavoratori, in ADL, 2012, 3) del meccanismo immaginato dalla legge come idoneo a
escludere la tutela reintegratoria in caso di licenziamento disciplinare irrogato a fronte di una condotta
contrattualmente punibile con sanzione conservativa.
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La previsione legislativa confida, a ben vedere, nella possibilità di distinguere con geometrica precisione le
infrazioni disciplinari, per tipi di condotta, piuttosto che per gravità: solo ove le sanzioni fossero distintamente
riferite a diverse figure materiali di illecito, infatti, resterebbe esclusa la possibilità di applicare sanzioni
conservative alle violazioni di minore gravità rientranti nella medesima figura di illecito (gravità da valutarsi, a
sua volta, sotto il profilo del grado della colpa, dell’intenzionalità, del danno attuale o potenziale arrecato
all’azienda, e di altre circostanze esterne rispetto al fatto materiale).
In realtà, è poco plausibile che si possa in assoluto evitare una graduazione per gravità nell’ambito di
determinate tipologie di condotta: per esempio, è difficilmente immaginabile che possa sanzionarsi col
licenziamento la violazione del divieto di fumare, senza distinguere il fumo in ufficio, in corridoio, sul balcone,
nelle vicinanze di impianti petroliferi; così come è difficile immaginare che i contratti collettivi possano
disegnare sanzioni conservative solo per tipologia di condotta, e non anche per gravità.
Non è, dunque, per incompetenza tecnica o superficialità che sono molto diffuse le previsioni contrattuali che
sanzionano le “negligenze” o le “mancanze” in base alla loro gravità, comminando il licenziamento per quelle
gravissime, e le sanzioni conservative per quelle gravi, a fronte di condotte individuate solo per categorie
generali: il caso del Ccnl metalmeccanico, considerato dall’ordinanza in commento, non è l’eccezione, ma
piuttosto la regola.
Paradigmaticamente, può ancora citarsi il Ccnl delle aziende del terziario, della distribuzione e dei servizi
(che, pure M. TREMOLADA, Il licenziamento disciplinare, adduce come esempio di regolazione
sufficientemente precisa). In quel contratto (art. 225), se da un lato si sanziona conservativamente (con la
multa) la «negligenza nell’esecuzione del lavoro affidato», dall’altro si prevede il licenziamento in caso di
«grave violazione degli obblighi di cui all’art. 220»: articolo che fa riferimento, tra l’altro, all’«obbligo di
osservare nel modo più scrupoloso i doveri d’ufficio». Dunque, il lavoratore che viola i doveri d’ufficio è punito
con la sanzione conservativa se la violazione non è grave, e col licenziamento se la violazione è grave.
O ancora, si consideri l’art. 55 del Ccnl del settore energia e petrolio, dove si sanziona conservativamente
(ammonizione scritta o sospensione) la mancanza di «assiduità» o la «negligenza» nell’esecuzione del
lavoro (parte III, lett. c), ma con l’eccezione generale dei «casi di particolare gravità» (oppure di «recidività»).
A questa previsione corrisponde quella (contenuta nella parte IV dell’art. 55) che prevede il licenziamento, in
generale nei casi di «gravi infrazioni alla disciplina o alla diligenza nel lavoro», ed esemplificativamente (n. 3)
nei casi di «inadempimento degli obblighi contrattuali […] quando […] la gravità dell’inadempimento comporti
l’applicazione diretta della sanzione prevista nella presente Parte IV».
Dunque, anche in questo caso, la negligenza non grave nell’esecuzione del lavoro dà luogo alla sanzione
conservativa, mentre quella grave comporta il licenziamento. Si potrebbe poi dubitare se l’infrazione non
grave alla disciplina del lavoro comporti una sanzione conservativa, considerato che il Ccnl energia e
petrolio, sulle orme del codice civile (art. 2014 c.c., rispettivamente commi 2 e 1), distingue l’osservanza della
disciplina del lavoro dal c.d. “obbligo di diligenza”, prevedendo espressamente la sanzione conservativa solo
per la «negligenza nell’esecuzione del lavoro». Ma il dubbio sembra superabile se si considera l’ulteriore
inclusione, tra i casi di sanzione conservativa, degli «atti che comportino pregiudizio […] alla disciplina»
(parte III, lett. g).
Si consideri, però, la diversa disciplina riservata, sempre dal Ccnl energia e petrolio, proprio alla fattispecie
dell’insubordinazione (art. 55, parte IV, n. 6), oggetto del caso esaminato dall’ordinanza in commento:
diversamente dal Ccnl metalmeccanico, il Ccnl energia e petrolio non distingue l’insubordinazione lieve da
quella grave; l’insubordinazione è sempre sanzionata con il licenziamento, e non si prevede una sanzione
conservativa per l’insubordinazione lieve.
Il problema che potrebbe porsi a riguardo, è quello della legittimità di una siffatta previsione contrattuale, che,
in sostanza, impone il licenziamento anche per una insubordinazione lieve.
A tale proposito, la giurisprudenza ammette il sindacato sulla conformità delle clausole contrattuali collettive
di “tipizzazione” delle cause di licenziamento alle nozioni legali di giusta causa e di giustificato motivo
soggettivo, salvo che si tratti di tipizzazioni in bonam partem, ossia escludenti il licenziamento in casi che
invece lo giustificherebbero alla luce delle suddette nozioni legali (vedi, tra le più recenti, Cass.
n. 10337/2012; Cass. n. 4060/2011; Cass. n. 7600/2008).
In dottrina si registra maggiore incertezza, anche richiamandosi l’art. 30 della l. n. 183/2010, che vincola il
giudice a «tener conto» delle «tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti
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collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi» («ovvero nei contratti
individuali di lavoro ove stipulati con l’assistenza e la consulenza delle commissioni di certificazione di cui al
titolo VIII del d.lgs. 276/03». Vedi M. TREMOLADA, Norme della legge n. 183/2010 in materia di certificazione e
di limiti al potere di accertamento del giudice, in M. MISCIONE, D. GAROFALO (a cura di), Il collegato lavoro
2010, Ipsoa, Milano, 2011, 177; A. CORVINO, M. TIRABOSCHI, Il rilancio della certificazione: nuovi ambiti di
operatività e tenuta giudiziaria, in M. TIRABOSCHI (a cura di), Collegato lavoro, Giuffrè, Milano, 2010, 14 ss.
Ma vedi, condivisibilmente, A. VALLEBONA, La riforma del lavoro, Giappichelli, Torino, 2012, 57, il quale
sottolinea la «netta differenza» tra la formulazione vincolante del nuovo art. 18, comma 4, riferita alla
«tipizzazione favorevole al lavoratore», e il «mero “tiene conto” relativo alle tipizzazioni favorevoli al datore di
lavoro», di cui all’art. 30, comma 3, della l. n. 183/2010).
Ma la questione esula da quella del regime sanzionatorio applicabile al licenziamento ingiustificato: ove il
giudice dovesse ritenere che la clausola contrattuale collettiva, la quale sanzioni col licenziamento una
insubordinazione anche lieve, sia illegittima per violazione delle nozioni legali di giusta causa e di giustificato
motivo soggettivo di licenziamento, ovvero per violazione del principio di proporzionalità stabilito dall’art. 2106
c.c., ciò, di certo, si rifletterebbe sulla legittimità del licenziamento, il quale dovrebbe ritenersi ingiustificato;
però, quando si passasse a esaminare le conseguenze di tale illegittimità, si dovrebbe prendere atto che il
legislatore – il quale avrebbe potuto addirittura escludere sempre e comunque la tutela reintegratoria in caso
di licenziamento sproporzionato – ha voluto una soluzione meno drastica e più graduale, prevedendo, per il
licenziamento sproporzionato, la tutela reintegratoria solo nel caso in cui il datore di lavoro abbia irrogato il
licenziamento nonostante il contratto collettivo contemplasse una sanzione conservativa.
Avremo, allora, un licenziamento ingiustificato in quanto basato su una previsione del contratto collettivo
illegittima; ma avremo, anche, una tutela solo indennitaria, perché l’illegittimità della previsione contrattuale,
che punisce col licenziamento una lieve insubordinazione, non equivale alla previsione contrattuale di una
sanzione conservativa per detta infrazione.
Va solo osservato che si porrebbe, in tale ipotesi, il problema della individuazione della sanzione
legittimamente applicabile al lavoratore: se quella espulsiva non potrebbe considerarsi legittima, in quanto
sproporzionata (e tuttavia sanzionata solo con la corresponsione dell’indennità risarcitoria e non con la
reintegrazione), nemmeno potrebbe applicarsi una sanzione conservativa, stante l’assenza di una previsione
specifica; con la conseguenza, di certo singolare, che quella determinata condotta sarebbe sanzionabile solo
con un licenziamento... illegittimo!
Questa osservazione conduce al vero punto critico della questione: la ricerca, in sede contrattuale, del
migliore e più razionale punto di equilibrio tra l’esigenza aziendale di minimizzare i rischi di reintegrazione a
fronte di licenziamenti sproporzionati (cui si contrappone l’opposta esigenza dei sindacati dei lavoratori di
massimizzare l’applicabilità di tale tutela), riducendo al minimo (e, in linea astratta e tendenziale, addirittura
eliminando) le sanzioni conservative, e l’esigenza di coprire adeguatamente tutti gli spazi di sanzionabilità,
evitando lacune.
È per questa ragione che, a nostro avviso, non si profila tanto lo spettro di una eccessiva dilatazione
dell’interpretazione giudiziale, quanto il problema del radicale ripensamento delle previsioni della parte
disciplinare dei contratti collettivi, che diventerà un tema di cruciale importanza e delicatezza nei futuri rinnovi
contrattuali.
Clausole del tipo di quelle oggi assai diffuse, che graduano le sanzioni in funzione della gravità oggettiva e
soggettiva dell’infrazione, piuttosto che in funzione della tipologia della condotta, non sollevano problemi di
interpretazione estensiva (o addirittura analogica), ma semplicemente aprono spazi vastissimi alla
qualificazione (non alla interpretazione) giudiziale.
La “contromisura” che le parti sociali potranno adottare se vorranno governare la materia disciplinare dovrà
essere quella di ridurre al minimo quel tipo di clausole adottando uno stile regolativo di stampo penalistico,
articolato per fattispecie (figure d’illecito) tipiche e specifiche (vedi però, in proposito, i rilievi di F. CARINCI,
Il legislatore e il giudice: l’imprevidente innovatore ed il prudente conservatore, in Boll. ADAPT, 2012, n. 38).
Ma con almeno due difficoltà.
La prima: l’operazione non sarà affatto semplice sotto il profilo tecnico, per le ragioni sopra illustrate.
La seconda: l’operazione sarà ancora più difficile sotto il profilo politico-sindacale, perché quella che fino ad
oggi è stata una materia a basso tasso di conflittualità, diventerà oggetto di contrapposizione frontale su
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posizioni antitetiche. È peraltro possibile che il tema diventi oggetto di partite di scambio, nella logica del
bilanciamento tra flessibilità funzionale e flessibilità salariale.
Il problema dell’“insussistenza del fatto”: come distinguere il fatto dalla sua ingiustificatezza?
La parte criticabile dell’ordinanza in commento non è, dunque, quella che attiene alla applicazione della tutela
reintegratoria a un licenziamento riconducibile a fattispecie cui lo stesso contratto collettivo, operando per
gravità di colpa e non per tipo di condotta, ricollega sanzioni conservative; ma piuttosto quella in cui si
afferma che l’illegittimo licenziamento oggetto di controversia comportava la tutela reintegratoria anche e
soprattutto (l’argomento è tecnicamente assorbente) perché nella fattispecie ricorreva la prima e più
importante, tra le due ipotesi legali di applicabilità della tutela reintegratoria al licenziamento disciplinare
ingiustificato: quella della insussistenza del fatto contestato.
A questa conclusione il giudice bolognese perviene in base al rilievo che «la norma in questione, parlando di
“fatto”, fa necessariamente riferimento al c.d. “fatto giuridico”, inteso come il fatto globalmente accertato,
nell’unicum della sua componente oggettiva e nella sua componente inerente l’elemento soggettivo»; e
negando che «l’espressione “insussistenza del fatto contestato”, utilizzata dal legislatore, facesse riferimento
al solo fatto materiale, posto che tale interpretazione sarebbe palesemente in violazione dei principi generali
dell’ordinamento civilistico, relativi alla diligenza e alla buona fede nell’esecuzione del rapporto lavorativo,
posto che potrebbe giungere a ritenere applicabile la sanzione del licenziamento indennizzato, anche a
comportamenti esistenti sotto l’aspetto materiale ed oggettivo, ma privi dell’elemento psicologico, o addirittura
privi dell’elemento della coscienza e volontà dell’azione».
Il ragionamento risente di alcune prime reazioni dottrinali alla riforma dell’art. 18, che hanno criticato il
legislatore per aver preteso di isolare il fatto inteso in senso oggettivo, nella sua materialità, ossia nella
accezione di azione od omissione (in tal senso, invece, vedi A. MARESCA, Il nuovo regime sanzionatorio, in
RIDL, 2012, I, 438, 443; M. TREMOLADA, Il licenziamento disciplinare, cit., 877), senza considerare la ritenuta
inerenza strutturale, al “fatto”, dei profili soggettivi della condotta, ossia della «specifica volontà e finalità» che
qualificano l’«azione del lavoratore» come «causa legittima di licenziamento» (così, V. SPEZIALE, La riforma
del licenziamento individuale tra diritto ed economia, relazione al convegno del CNSDL “Domenico
Napoletano”, Pescara, 11 e 12 maggio 2012, su Il licenziamento individuale tra diritti fondamentali e
flessibilità del lavoro); ovvero senza considerare la complessità del “fatto”, costituito normalmente da una
pluralità di circostanze (F. CARINCI, Complimenti dottor Frankenstein: il disegno di legge governativo in
materia di riforma del mercato del lavoro, in LG, 2012, 540 ss.; ID., Il legislatore e il giudice: l’imprevidente
innovatore e il prudente conservatore, cit.); o addirittura senza considerare la identità concettuale tra
ingiustificatezza, mancanza di causa e nullità/discriminatorietà del licenziamento, sostenuta da una recente
dottrina, a nostro avviso in contrasto frontale con la lettera e la ratio della riforma del 2012 (M.T. CARINCI,
op. cit., §§ 5.3.3. e 5.3.4., sulla base del duplice assunto teorico che la causa sia la giustificazione concreta
dell’atto e non la sintesi dei suoi effetti essenziali; e che la giustificatezza del licenziamento attenga al
requisito causale e non ai presupposti di fatto dell’atto).
La decisione in commento, pur evocando l’ultima di tali posizioni dottrinali – laddove afferma la necessità di
fare «riferimento al c.d. fatto giuridico» – si ispira in realtà alle prime due. Essa, infatti, intende per «fatto
giuridico» non la fattispecie astratta, costituita dal licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo
soggettivo, bensì la fattispecie concreta costituita dalla condotta del lavoratore, la quale include l’«elemento
psicologico» e la «coscienza e volontà dell’azione».
Dalla lettura complessiva del provvedimento si comprende, peraltro, che per «elemento psicologico» il
giudice intende la «diligenza» (e la «buona fede») «nell’esecuzione del rapporto lavorativo», nel senso che il
fatto contestato, onde poter attingere alla qualificazione di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo,
debba coinvolgere la diligenza impiegata nell’adempimento dell’obbligazione lavorativa, e quindi il grado di
colpevolezza del lavoratore, da valutarsi alla luce di tutte le circostanze del caso (quali l’assenza di pregresse
sanzioni, le scuse porte, lo stato di tensione derivante dalla pressione lavorativa ecc.).
In tal modo, però, il giudice finisce per ricondurre necessariamente al licenziamento ingiustificato la tutela
reintegratoria, sia pure non per il tramite della identificazione tra ingiustificatezza e difetto causale, bensì per
il tramite della identificazione tra ingiustificatezza e insussistenza del fatto contestato; e ciò, per effetto della
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riconduzione alla sfera del “fatto contestato”, degli elementi oggettivi e soggettivi che concorrono alla
qualificazione di tale fatto in termini di maggiore o minore gravità, e quindi di ingiustificatezza.
Ma in questo modo di ragionare si annida un equivoco.
Che coscienza e volontà dell’atto costituiscano caratteri essenziali di ogni atto giuridico – si tratti di mero atto
giuridico, quale la condotta inadempiente a un obbligo contrattuale, o di un atto negoziale – è indubbio; ma
questo significa solo che nel concetto di “fatto insussistente” rientra anche il fatto involontario; non significa,
invece, che la condotta contestata al lavoratore debba essere qualificata da un determinato grado di colpa o
di dolo.
È necessario non confondere il c.d. “elemento soggettivo” o “psicologico” con il problema della colpa
nell’illecito contrattuale: la responsabilità contrattuale non presuppone la colpa o il dolo nella commissione
dell’illecito, essendo solo concesso al debitore di evitare la responsabilità provando che «l’inadempimento
[…] è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile»
(art. 1218 c.c.).
È altresì necessario distinguere l’elemento psicologico, inteso come coscienza e volontà dell’atto (e,
nell’inadempimento contrattuale, come non imputabilità dell’impossibilità della prestazione), dalla rilevanza
che normalmente assumono in materia disciplinare aspetti attinenti alla gravità dell’elemento intenzionalevolontaristico del lavoratore nella commissione dell’illecito: questi ultimi aspetti influiscono, infatti, per
l’appunto, sulla gravità della violazione (quindi sulla proporzionalità della sanzione e – se si tratta di
licenziamento – sulla sua giustificatezza), ma non sulla sua qualificabilità in termini di inadempimento
contrattuale.
Sicché, l’illecito contrattuale commesso dal dipendente, ma non accompagnato da una intenzionalità di grado
sufficiente (e/o da fatti accessori idonei) a integrare una giusta causa o un giustificato motivo di
licenziamento, pur non costituendo ragione di un legittimo licenziamento disciplinare, costituisce comunque
inadempimento contrattuale, e dunque non può considerarsi basato su fatto “insussistente” (il fatto sussiste,
ma non giustifica il licenziamento, che pertanto è illegittimo, ma passibile di tutela solo indennitaria: così,
piaccia o non piaccia, la legge ha voluto).
Sussistenza del fatto e illecito contrattuale: il fatto non illecito e il fatto di gravità trascurabile.
In verità, il comma 4 del novellato art. 18 della l. n. 300/1970 è formulato in maniera ellittica, perché trascura
di precisare che il fatto contestato deve pur sempre integrare una fattispecie di inadempimento contrattuale;
ché altrimenti perfino un fatto in sé lecito (per esempio, non sorridere ai colleghi), se sussistente, potrebbe
comportare, per il sol fatto di essere stato contestato, l’indennizzo in luogo della reintegrazione (lo rileva
giustamente M.T. CARINCI, op. cit.).
Dunque, fatto insussistente è anche quello che non costituisce inadempimento contrattuale, neppure lieve.
Ammettere il contrario, equivarrebbe a ritenere che il legislatore abbia disciplinato non tanto un’ipotesi di
licenziamento ingiustificato con tutela indennitaria, ma un licenziamento libero accompagnato da un sostegno
economico di carattere non sanzionatorio.
Diverso è però il caso in cui il fatto contestato integri inadempimento contrattuale: in tal caso, quand’anche
l’inadempimento fosse lieve e comunque di gravità non tale da giustificare il licenziamento, ratio e lettera
della norma vietano di comminare la reintegrazione e impongono la sanzione indennitaria.
In altre parole, la carenza del requisito della proporzionalità tra il fatto contestato e la sanzione irrogata non
impedisce la risoluzione del contratto di lavoro con tutela solo indennitaria; mentre la carenza di antigiuridicità
del fatto esclude la sua sussistenza, e quindi impedisce la risoluzione del contratto e impone la
reintegrazione.
Apparentemente, ancora diverso è poi il caso della «sproporzionatezza manifesta» del licenziamento rispetto
al fatto contestato e sussistente.
Si è suggerito, in dottrina, di ricondurre questa fattispecie alla frode alla legge (A. VALLEBONA, op. cit.).
Tuttavia, pur dovendosi riconoscere a questa proposta il merito di aver individuato un problema che era
inizialmente sfuggito ai più, c’è da dubitare della correttezza della soluzione suggerita, non solo e non tanto
per la difficoltà di inquadrare la fattispecie nella figura descritta dall’art. 1344 c.c. (o in quella, notoriamente
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sfuggente e problematica, dell’“abuso del diritto”), quanto per le conseguenze che ne deriverebbero sul piano
sanzionatorio.
Se, infatti, di frode alla legge si trattasse, e quindi di illiceità della causa (art. 1344 c.c.), allora dovrebbe
parlarsi di nullità; ma la nullità del licenziamento è sanzionata, dal comma 1 del novellato art. 18 (nella parte
in cui si fa riferimento agli «altri casi di nullità previsti dalla legge»), con la tutela reintegratoria “piena” o
“rafforzata” (registrandosi così una singolare convergenza, nei risultati, con la tesi che identifica
licenziamento ingiustificato e licenziamento discriminatorio).
Sicché avremmo l’assurdo che il licenziamento manifestamente sproporzionato sarebbe sanzionato più
severamente (con la tutela reintegratoria piena) del licenziamento basato su fatto insussistente (cui andrebbe
somministrata la tutela reintegratoria attenuata).
Sembra pertanto più ragionevole percorrere la via dell’assimilazione del licenziamento per fatto di gravità
trascurabile al licenziamento per fatto insussistente, con la conseguente tutela reintegratoria attenuata:
soluzione che è confortata, sul piano sistematico, dall’analogo rimedio apprestato dal comma 7 del nuovo
art. 18, il quale contempla la tutela reintegratoria attenuata in caso di «manifesta» insussistenza del fatto
posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Insomma, potrebbe ritenersi che la «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per
giustificato motivo oggettivo» corrisponda non solo alla insussistenza, ma anche alla «manifesta levità», o
«trascurabile gravità» del fatto contestato nel licenziamento disciplinare (o, più semplicemente, corrisponda a
una nozione di «insussistenza del fatto contestato» che ricomprenda al suo interno la «trascurabile gravità»
del fatto).
In conclusione, ci sembra che l’ordinanza bolognese in commento, se per un verso afferma un principio del
tutto condivisibile, nella parte in cui rivendica al potere del giudice la qualificazione del fatto al fine di
ricondurlo alla fattispecie astratta, definita in casu dal contratto collettivo; per l’altro meriti una severa critica,
per avere in pratica affermato che la fattispecie della “insussistenza del fatto contestato”, che il legislatore ha
indubitabilmente voluto distinta da quella dell’ingiustificatezza del licenziamento, non possa in realtà
verificarsi, risolvendosi sempre nella seconda.
Se davvero così fosse, la norma in questione sarebbe incostituzionale, perché tale deve considerarsi – per
palese irragionevolezza o intrinseca contraddittorietà – una norma di legge che prefigura una fattispecie
impossibile.
Ma a nostro avviso il giudice bolognese sbaglia: la fattispecie non è affatto impossibile. Per comprenderne la
possibilità basta prestare ascolto, con l’umiltà dell’interprete, alle parole e alla volontà del legislatore,
sforzandosi, se necessario, di rileggere il sistema alla luce della nuova norma, anziché pretendere di
espungerla sulla base della propria ricostruzione del sistema.
Armando Tursi
Professore ordinario di Diritto del lavoro – Università degli Studi di Milano