Le donne e l`Olocausto

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Le donne e l`Olocausto
Le donne e l’Olocausto è uno dei pochi memoriali
che si concentra esclusivamente sulle donne.
Con sincerità straziante, Lucille Eichengreen offre
uno sguardo approfondito e sincero dell’esperienza
femminile nei campi nazisti. Raccontando la storia
della propria sopravvivenza, esplora il mondo delle
altre donne che ha incontrato, dal potere femminile
delle guardie SS, alle prigioniere che erano costrette
a prostituirsi per il cibo.
Le amicizie che nacquero tra le donne spesso durarono
a lungo. Si aiutavano l’una con l’altra, e si dimostravano
un affetto e un’attenzione che era difficile trovare
persino in famiglia. Certo, avevano anche delle nemiche
tra loro. Altre donne le maltrattavano, le denunciavano,
le raggiravano e rubavano il cibo o le scarpe. In tutti
i campi di concentramento era più o meno lo stesso.
Ma in generale c’era fiducia reciproca, le donne
si davano una mano e piangevano insieme.
Con una prosa secca e toccante, la Eichengreen
sa cogliere il nocciolo, l’essenza delle cose ma senza fare
prediche. In più, Lucille scrive con l’autorevolezza
della testimone oculare, un valore che presto spetterà
solo alla pagina scritta e ai documentari filmati, visto
che le fila dei sopravvissuti si assottigliano
drammaticamente ogni anno. Lei è una di loro,
una sopravvissuta che ha ancora voglia di raccontare
la propria storia.
lucille eichengreen è miracolosamente sopravvissuta
a dodici anni di ghetti e a tre campi di concentramento
fino alla liberazione di Bergen-Belsen. Oltre a Le donne
e l’Olocausto, è autrice dei memoriali Ashes to Life
(Mercury House) e Rumkowski and the Orphan of Lodz
(Mercury House), ancora non pubblicati in Italia.
GLI SPECCHI
Lucille Eichengreen
Le donne
e l’Olocausto
Ricordi dall’inferno dei lager
traduzione di Errico Buonanno
Marsilio
Titolo originale: Haunted Memories
© 2011 by Lucille Eichengreen
© 2012 by Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia
Prima edizione digitale 2012
ISBN 978-88-317-3307-6
www.marsilioeditori.it
[email protected]
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata
INTRODUZIONE
Ti prego
fa’ qualcosa
impara un passo di danza
qualcosa che giustifichi la tua esistenza
qualcosa che ti dia il diritto
di vestire la tua pelle e i peli del tuo corpo
impara a ridere e a camminare
impara perché non avrebbe senso
che in tanti fossero morti
e che tu vivessi
senza far nulla della vita tua.
Charlotte Delbo, Una conoscenza inutile
Come Lucille Eichengreen, Charlotte Delbo, l’autrice
di Una conoscenza inutile, sopravvisse ad Auschwitz. E
come la Eichengreen, la Delbo attese molti anni prima
di pubblicare le proprie memorie, esortando i lettori a
godersi la vita, a viverla appieno, almeno come riconoscimento postumo a tutte le donne che non potevano
più ballare, ridere o camminare. È con lo stesso spirito
che Lucille Eichengreen ha scritto i suoi tre libri: Dalle
ceneri alla vita: i miei ricordi dell’Olocausto, Rumkowski
e gli orfani di Lodz e quest’ultimo, la sua opera più nota, Le donne e l’Olocausto: ricordi dall’inferno dei lager.
Lucille incominciò a scrivere intorno ai sessant’anni,
ovvero cinquant’anni dopo i fatti narrati, perché «ricor-
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dare è troppo doloroso, lo è ancora». Ci furono altre
ragioni per cui attese così a lungo, benché forse meno
personali. Innanzitutto, i libri di memorie sull’Olocausto
scritti da donne non erano molto popolari, cinquant’anni
fa: si pensava che gli uomini fossero i soli testimoni attendibili. In più, gli editori erano convinti che i libri
sull’Olocausto non vendessero. Così, buttando giù qualche appunto ma senza nessuna seria intenzione di scrivere, Lucille si limitò a raccontare i propri ricordi ai
figli, quando furono abbastanza grandi per poter capire.
Fu questo il modo in cui tenne quelle storie in vita.
A incoraggiare Lucille a stendere le proprie memorie
fu un poeta dei dintorni di San Francisco. Incominciò
con un certo pudore, scrivendo poesie, alcune delle quali furono tradotte e pubblicate in Israele e in Germania.
Quando andò in pensione, negli anni ottanta, sentì finalmente che era giunto il momento di mettere ordine ai
suoi appunti. «Parte del materiale» confessa «mi sembrava difficile da riportare sulla carta... Quello che era successo a mia sorella, ad esempio... mi era impossibile da
scrivere. Era tutto così difficile!»
Per molti anni, Lucille lavorò al primo libro insieme
alla sua amica, la professoressa Harriet Hyman Chamberlain. Scrisse e riscrisse quei capitoli fino a dieci volte
di seguito. Poi, con l’aiuto di un agente, trovò un editore, la Mercury House: il manoscritto venne accettato e
affidato a un editor di fama. «Il problema» spiega Lucille «è che l’editor ne voleva trarre un romanzo. Voleva
che fosse leggibile, scorrevole, pulito. Ma i fatti che raccontavo non avevano nulla di pulito! Io volevo che fosse un libro aspro, duro!» Cambiò editore e il suo libro,
Dalle ceneri alla vita, fu finalmente pubblicato nel 1994.
La storia di Lucille era dura davvero. Strappata dal
seno di un’agiata famiglia di origine polacca, aveva patito
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ogni aspetto dell’odio razziale nazista, prima nella sua
città natale di Amburgo, poi, successivamente, nel ghetto
di Lodz, ad Auschwitz, a Neuengamme e a Bergen-Belsen.
Era sopravvissuta a ogni sorta di umiliazione, dai lavori
forzati alla fame più nera. Aveva perso la famiglia, aveva
perso la sua casa, ma non aveva perso mai la sua dignità
di essere umano. Dopo la liberazione, aveva aiutato le
truppe alleate a identificare i colpevoli. Era immigrata
negli Stati Uniti, si era sposata, aveva messo su famiglia,
ed era riuscita a costruirsi una carriera di successo.
Fu attraverso quel libro che giunsi a conoscere Lucille di persona. Come docente e studiosa dell’Olocausto,
e come curatrice di un libro di memorie di recente pubblicazione, avevo letto decine di opere del genere. E
tuttavia decisi di adottare proprio Dalle ceneri alla vita
per tenere lezione ai miei studenti. Lo stile lucido di
Lucille, la sua visione chiara dei fatti, l’intensità della sua
storia e l’efficacia con cui illustrava la sistematicità della
barbarie nazista nei confronti degli ebrei rendevano il
suo testo un perfetto strumento di insegnamento. Cynthia Ozick, autrice di Lo scialle, ha detto del libro di
Lucille: «Colpisce il lettore con la forza della sua assoluta autenticità; ci si rende conto immediatamente che
in esso nulla è “costruito”: ogni cosa è stata vista, odorata, provata, sofferta... Mi hanno sconvolta la sua veridicità, la sua essenzialità, la secchezza della sua dolente
morale.»
Nel 2006, Lucille pubblicò il suo secondo libro di
memorie, Rumkowski e gli orfani di Lodz. Ne rimasi
assolutamente impressionata. Vi si raccontavano le violenze e gli abusi sessuali che donne e bambini avevano
subito a opera di Chaim Rumkowski, il responsabile
ebreo del ghetto di Lodz nominato dai tedeschi. Rum­
kowski e gli orfani di Lodz è un contributo immenso
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allo studio della condizione femminile durante l’Olocausto.
Lucille Eichengreen, al secolo Cecilia Landau, nacque
ad Amburgo, in Germania, il 1° febbraio del 1925. Prima della sua nascita, i genitori erano emigrati dalla Polonia in cerca di lavoro e per fuggire dai pogrom. Lucille ricorda una vita familiare felice, sicura, fatta di corsi
di musica, lezioni alla scuola ebraica e vacanze estive.
Martin Buber, il celebre filosofo ebreo, era tra i frequentatori abituali dello studio, stracolmo di libri, nel quale
il padre di Lucille teneva conversazioni su argomenti
filosofici e politici.
Poi, nel gennaio del 1933, due giorni prima dell’ottavo compleanno di Lucille, Hitler salì al potere. Nel capitolo di apertura di Dalle ceneri alla vita, significativamente intitolato Presentimento, Lucille rievoca quel tempo, il modo in cui si sforzava di capire il senso di quella parola, “antisemitismo”, che sentiva pronunciare dai
suoi genitori. Ricorda gli scherzi sempre più frequenti
dei suoi vecchi compagni di giochi, le paure crescenti
– che finirono per influire negativamente sul suo rendimento scolastico –, l’obbligo, infine, per tutta la famiglia,
di lasciare il proprio appartamento.
Nell’ottobre del 1938 il suo amatissimo papà venne
arrestato e deportato in Polonia. Tornò nel maggio del
1939, solo per essere arrestato di nuovo in settembre e
spedito a Dachau, dove morì agli inizi del 1941.
Lo stesso anno, in ottobre, i nazisti deportarono Lucille, sua madre Sala e sua sorella minore Karin nel ghetto di Lodz. Nell’intero arco dei dodici anni in cui durarono le persecuzioni naziste, i tre anni che vi trascorsero
furono, sotto molti aspetti, i più duri. Sua madre morì
di fame nel ghetto diciotto mesi dopo il padre. Così,
all’età di diciassette anni, Lucille, insieme alla sorella, si
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ritrovò a essere orfana. Sala l’aveva scongiurata di prendersi cura di Karin ma, quando la sorella venne mandata a est, non poté fare altro che restare a guardare impotente. Ora, era totalmente sola.
Ciò nonostante, le voraci attenzioni che ricevette da
Chaim Rumkowski non furono affatto benvenute. Rum­
kowski aveva il controllo assoluto degli ebrei rinchiusi
nel ghetto. Se aggiungeva il nome di qualcuno a una
lista di deportazione, ciò equivaleva a una condanna a
morte. I nazisti, che lo avevano scelto per ricoprire il
ruolo di responsabile, non erano certo interessati alle
suppliche degli ebrei soggetti ai suoi capricci. Così, il suo
potere e la libertà di pretendere favori sessuali finivano
per essere praticamente illimitati.
Le testimonianze di altre vittime, che l’autrice incontrò
nel ghetto di Lodz o che rintracciò dopo l’Olocausto,
aiutarono a convalidare i suoi racconti e a dimostrare
quanto estesi fossero stati i crimini di Rumkowski. Come
direttore dell’orfanotrofio di Lodz prima della guerra,
aveva abusato regolarmente dei bambini e delle bambine
che gli erano stati affidati. Come responsabile del ghetto,
aveva chiesto favori sessuali in cambio di buoni per il
cibo, incarichi di lavoro e alloggi. Lucille racconta dei
vari incontri che ebbe con quest’uomo nel suo secondo
libro, Rumkowski e gli orfani di Lodz. Le sue descrizioni
sono vivide, di una crudezza insostenibile.
Nell’agosto del 1944 il ghetto di Lodz venne sgomberato. Lucille fu deportata ad Auschwitz. Non aveva mai
sentito parlare di quel posto fino al giorno del suo arrivo, e nulla sapeva di quel che vi avveniva. Forse la giovane età la salvò dal peggio: dopo poche settimane, i
nazisti la spedirono in un campo di lavoro ad Amburgo,
sua città natale, per riparare i danni causati dai bombardamenti nella zona portuale.
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Con il trasferimento a un altro campo di lavoro, venne impiegata nella costruzione di edifici destinati ai tedeschi che erano rimasti senza casa dopo i raid alleati.
Nel marzo del 1945 fu trasferita di nuovo, questa volta
a Bergen-Belsen, da cui fu liberata il 15 aprile del 1945.
Da quel momento, la storia di Lucille prosegue attraverso un campo profughi, un lavoro con l’esercito inglese
per identificare i colpevoli dell’Olocausto, la fuga in
Francia, fino all’arrivo in America dove incontrò il marito Dan Eichengreen.
Le opere di Lucille tuttavia – e questo è il loro pregio
– vanno molto al di là del semplice resoconto di un’esperienza personale.
La conferenza che si tenne allo Stern College di New
York, nel 1983, sul tema Le donne sopravvissute all’Olo­
causto, viene generalmente ricordata come la prima ad
aver posto attenzione alla questione femminile nella
Shoah. Curiosamente, le sopravvissute, persino quelle
che parteciparono alla conferenza, si sono spesso dimostrate scettiche davanti alle analisi di genere della propria
esperienza. I tentativi di stabilire quanto le cause e gli
effetti della Shoah differissero tra gli uomini e le donne
agli occhi dei diretti interessati non sono sembrati altro
che pose intellettuali. I loro ricordi dolorosi non si conciliano facilmente con la teoria e le astrazioni.
Lucille Eichengreen rappresenta una sorta di eccezione alla regola. Se qualcuno ritiene che concentrarsi sul
genere significhi banalizzare l’accaduto, spostando l’attenzione sul sessismo a scapito dell’antisemitismo, Lucille è convinta che solo prendendo in considerazione il
genere si possa comprendere l’Olocausto appieno. Rum­
kowski e gli orfani di Lodz riesce a mostrare, con un
notevole impatto emotivo, quanto l’esperienza di una
donna fosse diversa da quella di un uomo: gli abusi
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sessuali che le donne patirono a opera di Rumkowski
furono frequenti, e semplicemente spaventosi. Altri sopravvissuti avevano già raccontato casi simili, ma si erano sempre concentrati su quel che era avvenuto ad altri,
mai a se stessi. Una reticenza, questa, che si può forse
spiegare come una sorta di pudore, di vergogna, o con
il tipico senso di colpa che arrivano a provare le vittime.
La Eichengreen, al contrario, ha avuto il coraggio di
parlare di quanto ha vissuto personalmente. Un coraggio
doppio, richiesto per scrivere Rumkowski e gli orfani di
Lodz: quello di narrare i crimini compiuti da un altro
ebreo, e di svelare tutta la propria umiliazione e tutti gli
orrori dei quali fu vittima.
Rumkowski e gli orfani di Lodz rappresenta una sfida
ai capisaldi della cosiddetta letteratura dell’Olocausto: il
predominio dell’esperienza maschile e l’idea errata che
quanto vissuto dalle donne fosse identico a quanto vissuto dai sopravvissuti uomini. Eppure la pubblicazione
di nuovi e documentati studi sul tema delle donne e
l’Olocausto dimostra come l’approccio di genere sia ormai sempre più accettato. Sì, il genere faceva la differenza, e non si può non concordare con quanto affermò
Joan Ringelheim alla conferenza del 1983: se è vero che
metà delle vittime dell’Olocausto furono donne, «in nome dell’Olocausto e di tutte le persone che vi furono
coinvolte, come potremmo non parlare di donne?» È
questo il compito che Lucille Eichengreen e tante altre
sopravvissute e studiose hanno deciso di assumersi.
I riconoscimenti che la Eichengreen ha ricevuto per i
suoi libri sono assolutamente meritati. Le sue opere, alcune delle quali tradotte in tedesco, appaiono in varie
antologie. La «Kirkus Review» ha definito Dalle ceneri
alla vita «il più significativo libro di memorie sull’Olocausto, notevole per la coerenza tra lo stile della narra-
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zione e il tema trattato... una miscela abile, drammatica
ma mai sentimentalistica, di introspezione e di azione».
Nel 1994, Dalle ceneri alla vita venne selezionato dallo
«School Library Journal», tra altri millecinquecento candidati, come uno dei tredici migliori libri per giovani
adulti. A proposito di Rumkowski e gli orfani di Lodz, il
«Publisher’s Weekly» ha affermato: «La Eichengreen lancia contro Rumkowski un’accusa che sembra impossibile
smontare... La descrizione secca e agghiacciante dei suoi
abusi sessuali fornisce il più egregio dei resoconti riguardo alle difficoltà materiali ed emotive vissute nel ghetto,
capaci di rendere praticamente impossibile la sopravvivenza della dignità umana. L’autrice ci fornisce un’immagine perfetta di tutto lo sfruttamento e la falsità che minavano ogni relazione intima all’interno del ghetto.»
Ho avuto il privilegio di lavorare come editor della
prima stesura di Le donne e l’Olocausto. Per me si trattò di un autentico onore, perché sono convinta che questo libro costituisca una risorsa preziosa tanto per gli
studenti che per gli esperti di Olocausto. Ogni capitolo,
tra i tanti – più di una dozzina – che compongono l’opera, racconta la storia di una donna diversa, vittima degli
orrori del Terzo Reich. Sono le storie che Lucille ricorda:
una madre che guarda sua figlia morire; una guardia
nazista di buon cuore; una pericolosa relazione lesbica;
una coppia rifiutata dagli altri ebrei per essersi convertita al cristianesimo; una relazione disfunzionale tra fratello e sorella; una coraggiosa dottoressa di Auschwitz;
una donna coraggiosa, condannata ai lavori forzati, che
si rifiuta di lasciarsi andare. E, tra le altre, in una prosa
secca e toccante, Lucille racconta anche di Sala, sua
madre, in fin di vita su un letto del ghetto.
Le qualità della Eichengreen come scrittrice sono moltissime: sa cogliere il nocciolo, l’essenza delle cose e,
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senza mai mettersi a far prediche, lascia che essa si riveli con tutto il suo carico umano e i suoi problemi morali. Gli studenti mi dicono spesso che, una volta iniziato
a leggere uno dei suoi libri, rimangono svegli tutta la
notte per finirlo. In più, Lucille scrive con l’autorevolezza della testimone oculare, un valore che presto spetterà
solo alla pagina scritta e ai documentari filmati, visto che
le fila dei sopravvissuti si assottigliano drammaticamente
ogni anno. Lei è una di loro, una sopravvissuta che ha
voglia di raccontare la propria storia. Con i primi due
libri, e ora con quest’ultimo, Lucille ha condiviso i suoi
ricordi e ha saputo renderli delle lezioni per il mondo
intero.
elizabeth baer
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Le donne e l’olocausto
a Barry, Martin e Michelle
Le cicatrici ci ricordano dove siamo stati.
Solo chi è morto può dimenticare.
PREFAZIONE
Sopravvivere al ghetto di Lodz, ad Auschwitz, a Neuen­
gamme e a Bergen-Belsen fu quasi un miracolo. Avevo
otto anni e vivevo ad Amburgo, in Germania, quando
Hitler salì al potere. Avevo vent’anni quando la guerra
finì. Dodici lunghi anni di orrore, di privazioni, di umiliazioni, di fame: era stato questo il tributo pagato dalle
donne, dai loro mariti e soprattutto dai loro figli.
Le statistiche riguardo al numero delle donne e degli
uomini rinchiusi nei campi non sono accurate né facilmente stilabili, vista la lacunosità dei registri. Gli storici
non sono sicuri di quante persone fossero già state fatte
prigioniere allo scoppio della guerra, dopo la presa del
potere di Hitler nel 1933, né tra il 1940 e il 1941. Benché si conosca il numero totale dei sopravvissuti, tale
cifra non fa distinzione tra gli uomini e le donne, ed è
ugualmente imprecisa.
Molti dei libri di memorie sull’Olocausto – almeno
fino a una quindicina d’anni fa – furono scritti da sopravvissuti maschi. Forse le donne erano riluttanti a raccontare il passato, o forse gli editori non credevano alla
validità dei loro ricordi: le donne erano considerate inaffidabili, poco obiettive, poco sincere. Ora, grazie agli
studi di genere e alla consapevolezza femminile, gli edi-
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tori sono arrivati a capire che le nostre esperienze sono
altrettanto valide, altrettanto importanti, e allo stesso
tempo estremamente diverse, sotto molti aspetti, da quelle degli uomini.
Se ripensiamo al passato, dobbiamo ammettere che sia
gli uomini che le donne furono soggetti a varie forme di
abuso sessuale. Accettarle, sottomettersi, significava spesso ricevere un po’ di cibo in più. Dovremmo condannare queste persone? Ovviamente no! Piegandosi davanti
a privazioni fisiche e mentali, così come agli scambi sessuali, tutto era possibile. Nei campi femminili c’erano
stupri, ma c’erano anche prestazioni erotiche concesse in
cambio di una fetta di pane o di una patata. Sapevamo,
vedevamo, sentivamo, ma non ne parlavamo mai. Eravamo disperate, e perciò ce ne stavamo zitte.
Le donne in Europa, durante gli anni trenta e anche
oltre, erano cittadini di seconda classe. Lavoravamo come infermiere, segretarie, insegnanti, domestiche, ma era
impensabile vederci a capo di un ufficio, di una fabbrica o di una squadra di lavoro.
Eppure, nel ghetto di Lodz, tra il 1940 e il 1944,
all’improvviso tutto ciò cambiò radicalmente. Per la prima volta, come se nulla fosse, le donne si ritrovarono
alla guida di fabbriche, uffici, cucine e di ogni altro
settore della vita del ghetto. Erano donne capaci, intelligenti, operose e ambiziose. Volevano sopravvivere. Volevano poter decidere di almeno una parte della loro
vita, in condizioni che erano ben lontane dall’essere normali. E ci riuscirono. Persino gli uomini, cautamente,
controvoglia, dovettero ammettere che le donne che raggiungevano qualche posto di comando si rivelavano efficienti, esperte e capaci di lavorare al meglio.
Esattamente come gli uomini, anche loro facevano dei
favoritismi, ma i loro protetti erano in genere dei maschi:
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