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N.03 – Marzo 2016
I sommersi e i salvati
di Alessandro Polizzi
“Molte minacce di allora, che oggi ci sembrano
evidenti, a quel tempo erano velate dall’incredulità
voluta, dalla rimozione, dalle verità consolatorie
generosamente scambiate ed autocatalitiche. Qui sorge
spontanea la domanda d’obbligo: una contro domanda.
Quanto sicuri viviamo noi, uomini della fine del secolo
e del millennio? E, più in particola, noi europei? …
Allora? Le paure di oggi sono meno o più fondate di
quelle di allora? Al futuro siamo ciechi, non meno dei
nostri padri”.
Queste le parole che meglio riassumono il senso de “I
sommersi e i salvati”, saggio “fratello” della più celebre
opera di Primo Levi, “Se questo è un uomo”. Ché se già
non bastasse l’immenso valore di una così puntuale e
rigorosa testimonianza diretta di una triste e unica
pagina storica, di certo le riflessioni in esso contenute,
la denuncia del più che esistente pericolo di vivere, nel
futuro, eventi anche solo parzialmente accostabili alla
Shoa, sarebbero motivo per leggere le 179 pagine che lo
compongono.
Ultima opera di Levi (1986), rappresenta la
conclusione della sua carriera di scrittore e una sorta di
suo testamento spirituale in cui riflette non solo sulla
propria esperienza nei lager, ma anche e soprattutto su
quella dei suoi compagni di prigionia conosciuti
direttamente o tramite i racconti sentiti dopo il ’45.
Capitolo dopo capitolo egli affronta, senza mai
accontentarsi di risposte semplicistiche, un tema
diverso, a partire dalla memoria, esaminata non
casualmente per prima: dovendo scandagliare i ricordi
di vittime e oppressori, parte dalla doverosa indagine
sulla loro attendibilità, ricordando perciò quanto essa
possa essere fallace perché “i ricordi che giacciono in noi
non sono incisi sulla pietra; non solo tendono a cancellarsi
con gli anni, ma spesso si modificano, o addirittura si
accrescono, incorporando lineamenti estranei”. Non si
può dunque riporre fiducia cieca in uno strumento
fallibile, manipolato volontariamente da coloro che si
macchiarono di quegli atti per sgravare la propria
coscienza di un tale, insopportabile peso; comincia tutto
con una bugia raccontata scientemente, finendo poi per
sfociare in un autoconvincimento che porta alla rimozione
accurata di episodi e azioni sgradite al ricordo, edificando
“una verità confortevole che gli consente di vivere in
pace”.
Premesso questo, nel secondo capitolo, cruciale per
ammissione dello stesso Levi, viene affrontato il problema
della “zona grigia”, “la classe ibrida dei prigionierifunzionari … dai contorni mal definiti, che insieme separa
e congiunge i due campi dei padroni e dei servi”. Varie
sono le gradazioni di questo grigio: ci sono quelli che per
mezzo litro di zuppa in più si adattano a svolgere funzioni
“terziarie” (scopini, lava-marmitte, guardie notturne,
controllori di pidocchi e scabbia etc.), ma anche quelli che
finivano con il fare i Kapo, in cerca di salvezza dalla
soluzione finale o solo del potere cui alcuni aspiravano
anche nella miseria generale del campo di
concentramento. Poi la forma forse più sconvolgente di
collaborazionismo, quella dei Sonder-kommandos,
prigionieri selezionati dalle SS e destinati alla gestione dei
forni crematori – e per questo eliminati periodicamente
per far scomparire chi, a conoscenza di tutta la macchina
di morte nazista, avrebbe potuto parlare e provocare
reazioni dentro e fuori la Germania. La storia che forse
colpisce di più è però quella di Chaim Rumkowski, “non
propriamente una storia di Lager, benché nel Lager si
concluda”.
N.03 – Marzo 2016
Piccolo industriale fallito, si ritrovò nel 1940, quasi
sessantenne, a divenire Decano del ghetto di Lodz:
primo dei prigionieri del ghetto, infatuato del potere
finì con il montarsi la testa dotandosi di manto regale e
di un seguito di adulatori, di una polizia di seicento
armati di bastoni per imporre il proprio ordine e
atteggiandosi a capetto con tanto di imitazione della
tecnica oratoria di Mussolini e Hitler nei pochi discorsi
da lui pronunciati davanti al “suo” popolo.
“Rumkowski non fu soltanto un rinnegato ed un
complice. […] Paradossalmente, alla sua
identificazione con gli oppressori si alterna o si affianca
un’identificazione con gli oppressi”; alla fine, come
moltissimi altri, non si salvò e venne mandato alle
camere a gas assieme agli altri “ospiti” del ghetto di
Lodz.
Proprio l’episodio di Rumkowski veicola il messaggio
principale: dice Levi che “in Rumkowski ci
rispecchiamo tutti, la sua ambiguità è la nostra,
connaturata, di ibridi impastati di argilla e di spirito; la
sua febbre è la nostra, quella della nostra civiltà
occidentale che «scende all’inferno con trombe e
tamburi», ed i suoi orpelli miserabili sono l’immagine
distorta dei nostri simboli di prestigio sociale”. Quello
che è successo, quanto compiuto dai nazisti e dai loro
collaboratori potrà ripetersi non in forma identica
al ’39-’45 ma in forme comunque simili, con alcune di
quelle circostanze riproposte. Esposti ad un’intensa
propaganda, ad una “diseducazione” martellante,
chiunque di noi potrebbe compiere le stesse efferatezze
avvenute nei regimi totalitaristi, come chiunque di noi
potrebbe, spinto dalla necessità e
contemporaneamente allettato dalla seduzione,
divenire uno di quei collaboratori della zona grigia.
Bisogna poi ricordare quello che Primo Levi scrive nel
capitolo “Stereotipi”: “bisogna guardarsi dal senno di poi e
dagli stereotipi. Più in generale, bisogna guardarsi
dall’errore che consiste nel giudicare epoche e luoghi
lontani col metro che prevale nel qui e nell’oggi: errore
tanto più difficile da evitare quanto più è grande la
distanza nello spazio e nel tempo”. Giudicare con gli occhi
di oggi i protagonisti e le azioni dell’epoca in maniera
inflessibile è facile, più difficile sarebbe riconoscere per
tempo ed impedire simili situazioni, comportandosi
differentemente dalla generazione di allora.
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