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n° 314 - marzo 2004
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Direttore Responsabile Lucia Aleotti - Redazione, corrispondenza: «Minuti» Via Sette Santi n.1 - 50131 Firenze - www.fondazione-menarini.it
Pontormo tra letteratura e arte nel ‘900
Tra la categorie dello spirito
e dell’arte che ricorrono ciclicamente ripresentandosi
in epoche diverse, quella del
“manierismo” ha sorprendenti affinità con la crisi esistenziale di cui è intriso tutto
il Novecento. In tale contesto storico-culturale emerge
con un’identità peculiare il
caso Pontormo, l’artista cinquecentesco che per la tormentata biografia e il carattere misterioso delle sue opere
ha saputo risvegliare in alcuni artisti contemporanei
reminiscenze cariche di suggestione e pregnanza. Le motivazioni della predilezione
per Pontormo si accentrano
in primo luogo sulla sua dolente biografia, resa leggendaria anche grazie al Diario,
compilato negli ultimissimi
anni della sua vita (dal gennaio 1554 all’ottobre 1556)
che ha contribuito alla creazione di questo mito. Il motivo centrale dell'anacoretica
esistenza di Pontormo è enucleato fin dalle fonti antiche,
che hanno cristallizzato
l’aspetto dell’artista malinconico: un aspetto reso tanto
più lacerante dalla testimonianza del Diario, che per la
sua ipocondriaca severità si
avvicina a molte delle nevrosi
dell’epoca attuale. In esso
l’artista registra un elenco
ossessivo di cibi ingeriti e
minuzie quotidiane che confermano l’immagine del misantropo, un uomo chiuso
nella sua ascesi estetica per
ultimare gli affreschi del coro
di San Lorenzo.
Per cogliere questa tonalità
spirituale ci appaiono di straordinario acume le parole di
Mario Luzi, che ha rivolto
una particolare attenzione al
geniale manierista ricostruen-
done il tormento interiore
nella pièce teatrale Felicità turbate del 1995, rappresentata
al 58° Maggio Musicale Fiorentino e diretta da Federico
Tiezzi. Luzi per illuminare
le implicazioni del titolo
scelto ha individuato la discrasia tra l’esteriore floridezza di un momento storico, tronfio delle sue conquiste conoscitive e materiali, e un fattore negativo
che in quell’edificio si insinua mutandone l’aspetto fino
a renderlo mostruoso: «un
sentimento nuovo e inquieto che
si stava insinuando nella presunta armonia rinascimentale
ed è rimasto nella nostra psiche:
un allarme, un rimorso, un turbamento nella troppo ostentata
serenità». E nel reinventare
le canzonature per la proverbiale “astrattezza” o per il frequente “incantamento” dell’artista, Luzi riproduce l’iconografia stessa del malinconico: «ma non ha la testa ferma.
// Passa giorni strani, / se la
tiene fra le mani / […] / Si incanta nelle cose, sogna, / le guarda
le vede e non se ne accorge». E
ancora allo stesso temperamento malinconico e alle perturbanti inquietudini religiose del nostro sono ricondotte dal poeta la straordinaria esuberanza delle ardite
proposte stilistiche pontormesche: «Si sono fatti sempre
più chiari e soffici i miei colori, / come a contrastare quello
scuro che ho dentro di me / e a
sfidarlo. Chiaro, chiaro, quasi
trasparente il giallo nell’incontro con il sole / e il blu che profondamente lo traversa … senza
ombre, pare; / ma c’è l’ombra,
c’è: è un rattristarsi, un ottenebramento lieve / che non spicca
ma pervade quel chiarore. / È la
nostra malattia. La morte s’in-
filtra nel fulgore, / ci manda così
l’avvertimento. Ho orrore della
morte, / poco commendevole cristiano, la fuggo, mi nascondo, /
mi rintano, non voglio vederla,
non voglio se ne parli. / Solo il
Cristo l’ho dipinto morto non
una ma più volte. / Mettevo in
Lui tutta la morte e lui ne sosteneva il peso- / perché fosse liberato da morte il mondo intero e
anche io…».
Sono proprio i colori di Pontormo con gli imprevedibili
effetti cangianti ad aver colpito gli increduli spettatori,
come un’impronta retinica
accecante che resta silente
per secoli o sottaciuta e poi,
a distanza di tempo, esplode
nei virtuosismi dell’acrilico,
del medium elettronico o nelle
prismatiche sfaccettature del
lessico descrittivo. In tal direzione si registra la straordinaria sceneggiatura della
Ricotta di Pier Paolo Pasolini, più ancora forse che il
tableau vivant semiserio dell’omonimo mediometraggio
del 1962, che ricostruisce la
Deposizione di Santa Felicita
in un difficile equilibrio tra
il grottesco e il sublime. È
nelle pagine di Pasolini che
troviamo indicazioni cromatiche di prorompente sensualità, in una allucinata
ricostruzione associativa delle
tonalità pontormesche in
grado di cogliere appieno il
carattere “mentale” delle
gamme manieriste, sospese
tra lo statuto del naturale e
dell’estremo artificio: «rosso
violento e prezioso», un «azzurro che si fa verde», «un
pallore, un vuoto, un nulla
carico di qualcosa che fu rosso,
ed è: ma come spettro fragrante», «un giallino di spighe», «Un rosa più squisito
di così, così femminile, è im-
Pontormo: Deposizione (part) - Firenze,
Chiesa di Santa Felicita, Cappella Capponi
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possibile pensarlo» Ma vale
la pena di leggere almeno in
parte la ricostruzione verbale
tentata da Pasolini della Deposizione fiorentina, attentissima e tuttavia trasfigurante,
forse quanto l’opera pontormesca: «In cima – verde rozzo,
papavero svanito, e giallino opaco
– una santa e un angelo, che
guardano, pietosi. Sotto, a destra, la Madonna, tutta avvolta
in una grande roba del verde
delle foglie subacquee, raccolto
intorno all’ovale della faccia
senza sopracciglia. Sotto, […]
due donne con cuffia a fragola
stinta e abiti verdi d’acqua
[…]». Spiccano poi le intenerite notazioni relative agli
angeli portatori, «soldataglia bionda», che Pasolini
riesce a trasformare nei suoi
fulvi “ragazzi di vita”: «due
angioli riccioloni e un po’ rosci, hanno l’aria contadina: ma
cresciuti in città. Il fondo dell’espressione è perduto o piuttosto citrullo». Si rivolge infine
all’ultimo in basso, innegabilmente individualizzato
già nella pala cinquecentesca, e che appare quasi imbarazzato: «accucciato, un pochino stempiato – con sotto la
chioma ricciolona mezza roscia,
gli occhi infossati, le ciglia spioventi e le mascelle un po’ troppo
tonde e grosse […] un manto lo
cerchia fino a raccogliersi sulla
coscia, giallo grano, sopra la
mutanda di quel solito, stinto,
crudele, disseccato verdino». Per
perdersi infine nella contemplazione di un sublime dettaglio: «un braccio bello come
una mandibola d’elefante levigata da un mare color pesca».
Bill Viola: The Greeting, videoistallazione 1995
foto Kira Perov
a destra: Pontormo: La Visitazione
Carmignano (FI), Pieve di San Michele
Pasolini riesce forse a toccare
i tasti più alti delle possibilità evocative della parola in
emulazione con un’esperienza
figurativa di straordinario
spessore stilistico, caso unico
nell’ecfrasis se non nell’arte.
A livelli più umbratili, ma
non meno significativi, si
trovano altri autori (ad esempio Carlo Emilio Gadda e
Leonardo Sciascia) che furono
affascinati sotto diversi aspetti
dalla singolare figura dell’artista cinquecentesco: Pontormo diventa un punto di
riferimento raro quanto ricercato per reminiscenze letterarie o dichiarazioni di poetica, occasione di citazioni
per le sue note idiosincrasie
biografiche. Pontormo appare sempre più una figura
novecentesca ante litteram e
Pontormo: Deposizione - Firenze, Chiesa di
Santa Felicita
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non sorprende il fatto che alcuni artisti contemporanei
lo abbiano eletto compagno
di strada privilegiato. Riferimenti a Pontormo si rintracciano, ad esempio, in Vanessa Beecroft, giovane artista uscita dall’Accademia di
Brera nel 1993, ma consacrata ben presto a livello internazionale. Uno dei suoi
primi lavori si intitola Il libro del cibo, un diario dove
raccoglieva gli elenchi degli
alimenti che aveva ingerito
giorno per giorno dal 1983,
suddivisi per gamme cromatiche. Queste annotazioni di
pontormesca memoria si traducono poi in una vera e propria performance durante la
quale la Beecroft chiama le
compagne di accademia ordinando loro di camminare
per Brera e caratterizzandole
con precise note cromatiche.
In questa e nelle perfomance
successive ricorre l’ossessione
per il corpo, tematica già pontormesca e oggi comune a
una generazione che ha fatto
i conti di volta in volta con
anoressia e bulimia. Ancora
numerose e nei media artistici più disparati sono le riprese a livello figurativo del-
l’opera di Pontormo. Troviamo la citazione parziale già tipica del manierismo che utilizza formule collaudate come nel caso di Tamara
de Lempicka che ha saputo
fondere l’instabilità di certe
pose pontormesche con il lucore algido della materia bronzinesca. Nel cambiare genere
artistico si deve menzionare
il cineasta danese Carl Theodor Dreyer, che nei primi
piani della sua Passion de Jeanne D’Arc, film cult del 1928,
ha colto tutto il dolore insostenibile e represso del San
Quintino pontormesco. Davvero singolare è anche la ricostruzione dello dimensione
spazio-tempo nella videoinstallazione The Greeting di
Bill Viola, opera del 1995
presentata alla XLVI edizione
della Biennale veneziana. Il
celebre videoartista americano racconta, dilatandolo
con la sospensione del ralenti,
l’incontro fra tre donne per
strada sulla scia della celebre
Visitazione di Pontormo a
Carmignano. Viola tenta di
ricreare non solo le atmosfere
sospese tipiche del pittore
manierista, ma anche i suoi
colori saturi e squillanti at-
traverso il mezzo elettronico.
Giungiamo infine a rivisitazioni contemporanee divise
tra l’hommage à e la vera e propria sfida. In tutto questo
universo di immagini colte
e derivate, uno statuto particolare va riconosciuto a due
opere, indiscussi capolavori
pontormeschi: la Deposizione
di Santa Felicita e la Visitazione di Carmignano, che sembrano quasi ossessionare la
memoria visiva del Novecento. Ne possiamo avere
conferma nelle inesauste prove
compositive di Virgilio Guidi
che dagli anni Quaranta varierà un centinaio di volte sul
tema degli “Incontri” o “Visite” in un percorso di ricerca
formale che ruota intorno alla
Visitazione pontormesca. I
tempi per cogliere la modernità di Pontormo sembrano
ormai maturi: Giovanni Fago,
regista televisivo e cinematografico, ha realizzato nel
2000 una biografia cinematografica di Pontormo, una
lettura attualizzante della
sua vicenda che uscirà nei
prossimi mesi.
francesca pellegrino
federico poletti