l`eresia del Pontormo nelle «Felicità turbate

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l`eresia del Pontormo nelle «Felicità turbate
DARIO STAZZONE
Dell’irrequietezza e dell’angoscia della mente: l’eresia del Pontormo nelle «Felicità turbate» di Luzi
In
La letteratura degli italiani 4. I letterati e la scena,
Atti del XVI Congresso Nazionale Adi, Sassari-Alghero, 19-22 settembre 2012, a cura di
G. Baldassarri, V. Di Iasio, P. Pecci, E. Pietrobon e F. Tomasi, Roma, Adi editore, 2014
Isbn: 978-88-907905-2-2
Come citare:
Url = http://www.italianisti.it/Atti-diCongresso?pg=cms&ext=p&cms_codsec=14&cms_codcms=397 [data consultazione: gg/mm/aaaa]
© Adi editore 2014 La letteratura degli italiani 4. I letterati e la scena
DARIO STAZZONE
Dell’irrequietezza e dell’angoscia della mente: l’eresia del Pontormo nelle «Felicità turbate» di Luzi
L’aspetto meno studiato dell’opera di Mario Luzi è forse la sua produzione teatrale, uno spazio creativo di assoluto rilievo che
affianca l’intero itinerarium del poeta e che dal testo-incunabolo del 1947, Pietra oscura, approda a Felicità turbate
del 1995. Caratteristica del teatro luziano è la metodica del dubbio connaturata al poiein dell’autore, che dalla poesia
approda all’esperienza drammatica non rinunziando al suo potenziale cognitivo. Un testo come Felicità turbate, da porre in
rapporto con la poesia postermetica dell’autore, ha un ruolo chiave nel movimento del pensiero che riflette su se stesso, sul
mistero dell’uomo e della creazione artistica. All’originalità costitutiva del ‘teatro di parola’ luziano Felicità turbate
affianca un’originalità contenutistica che fa della stessa Memoria un personaggio, nella volontà di esaltare l’opera e la figura
del pittore Jacopo Carucci, detto il Pontormo, nel quinto centenario della nascita. Ma la Memoria è essa stessa fallace e nella
ricostruzione del percorso biografico e creativo del pittore, uno dei personaggi più umbratili e sfuggenti della Maniera
fiorentina, si avvale delle testimonianze di altri artisti quali Baccio Bandinelli, Jacopo Nardi, Bronzino e Vasari. Originale è
l’interpolazione del coro delle lavandaie, del coro dei ragazzi di Castello e del coro delle cose dipinte. Le lavandaie si
interrogano sul mestiere degli uomini di cui ripuliscono le vesti, poveri stracci che spargono colori preziosi, cinabro, turchino,
smeraldo e cilestrino; i ragazzi di Castello descrivono l’irregolarità di vita del Pontormo mentre le cose dipinte affermano la
propria libertà e indipendenza dal pittore che le ha raffigurate, facendole oggetto delle sue tele e incantandole in virtù
dell’incomparabile «dolcezza degli accordi» cromatici e dei «folli colori». La parabola di Pontormo, pur approdando alla
‘sublimità’ artistica, è caratterizzata dall’isolamento, dall’eccentricità e persino dalla follia. Non a caso una delle parolechiave del testo, con più alta frequenza di occorrenze, è ‘malinconia’, accanto a ‘stranezza’, ‘selvaticità’, ‘follia’,
‘vaneggiamento’ ed anche ‘atramento’, un hapax che assume forte significato in rapporto allo stesso etimo di malinconia. Lo
stesso autore della Deposizione di Volterra è definito un «diverso» come il coetaneo Rosso Fiorentino, un «dipintore
eccezionale» e un «sognatore», la sua esistenza è «sordida», la sua vita «grama». La parabola bruciante del Pontormo passa
anche per l’eresia: nel testo si fa cenno ai distrutti affreschi del coro di San Lorenzo a Firenze. Ad esergo della sua indagine
Memoria dichiara l’incapacità di definire la figura del Pontormo: «Ho cercato, frugato,/ mi sono strofinata a molti spigoli/ e
macerie,/ dove sono pervenuta? Si accrescono le ombre al pari delle luci.». La ‘malattia’ che si fa scaturigine d’arte, il
rapporto tra il canone artistico della piena Rinascenza e la devianza dalla norma nell’innaturalità della Maniera,
l’inattingibilità della realtà da parte dell’artista cui allude con ironia il coro delle cose dipinte sono nuclei contenutistici
essenziali di Felicità turbate.
Uno degli aspetti meno indagati dell’opera di Mario Luzi è la produzione teatrale,
uno spazio creativo di assoluto rilievo che dal testo-incunabolo del 1947, il
radiodramma intitolato Pietra oscura,1 procede attraverso le ipostasi del Libro di Ipazia
(1978), Rosales (1983), Hystrio (1987), Corale della città di Palermo per Santa Rosalia (1989), Il
Purgatorio (1990), Io, Paola (1992), per giungere a Felicità turbate del 1995.
Come ha sostenuto Marco Marchi2 il teatro luziano nasce per espansione ed
approfondimento dei nuclei contenutistici che la poesia, fin dalle sillogi Nel magma e Su
fondamenti invisibili, parallelamente ha messo a fuoco. Va comunque evidenziato che
diverse occorrenze lessicali ed alcuni nuclei semantici potrebbero essere retrodatati alle
prove poetiche d’esordio dell’autore. Centrale nell’intero opus drammatico è l’elemento
interrogativo che spuma in un indistinto meditativo, il movimento del pensiero che
riflette su di sé, sul mistero dell’uomo e della creazione artistica. Il teatro di parola del
fiorentino impresta dunque la sua forma rituale e dialogica alla metodica del dubbio ed
alla capacità conoscitiva del pensiero poetante. In questa difficile interrogazione Felicità
turbate assume una posizione centrale.
Il dramma del 1995 è stato concepito per commemorare il pittore Jacopo Carucci,
detto il Pontormo, nel quinto centenario della nascita, ed è stato rappresentato al
Il testo del radiodramma è stato pubblicato per le cure di S. VERDINO, Pietra oscura, Porretta Terme, I
Quaderni del Battello Ebbro 1994.
2 M. MARCHI, Invito alla lettura di Mario Luzi, Milano, Mursia 1998, 86. Per un accorto studio lessicale e
semantico dell’opera teatrale luziana cfr. L. PIAZZA, Il gesto, la parola, il rito. Il teatro di Mario Luzi, prefazione
di F. Tiezzi, Genova, Il Menangolo, 2012.
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Piccolo Teatro Comunale di Firenze con la regia di Federico Tiezzi e
l’accompagnamento dei raffinati Interludi per Quartetto d’archi composti da Giacomo
Manzoni. Il testo convoca idealmente altri artisti della Maniera fiorentina a testimoniare
sulla vicenda pontormesca, da Baccio Bandinelli a Jacopo Nardi, da Agnolo Bronzino a
Giorgio Vasari.
Con originalità l’indagine sul pittore umbratile, una delle personalità più sfuggenti e
complesse del Manierismo, è condotta dalla Memoria che si fa essa stessa personaggio.
L’autore, attraverso il suo astratto commutatore, cerca dantescamente di «accarnare»3 il
maestro della Deposizione di Santa Felìcita, ben consapevole che la memoria è di per sé
ingannevole, vanificatrice di certezze ed appartenente al perenne trasformarsi delle cose,
costretta dunque ad affidarsi ad una pluralità di testimonianze che permettono di
sperimentare come la storia o la leggenda dell’artista siano spesso infedeli al vero. Le
moderne consapevolezze epistemiche di Luzi non possono restituire a Mnemosine i
tratti netti delle evocazioni classiche, insinuano piuttosto forti dubbi sulla verità, sulla
leggenda dell’artista e sulle narrazioni storiche: «Ma quale storia mai/ non è infedele al
vero?/ La verità non è mai uguale a sé./ Si forma e si modifica/ all’interno della vita/
in quel laboratorio/ che di lei si appropria…».4 La stessa Memoria si chiede
problematicamente se gli artisti non possano «travedere» la realtà, usando un predicato
che occorre nel Cannocchiale aristotelico di Emanuele Tesauro proprio là dove l’autore
riflette sulla metafora e dunque sulla dilatazione tropica della scrittura e sull’operazione
poetica.5 Di rimando il Nardi, in un celebre inserto sapienziale del dramma, afferma:
«Così o mia signora,/ è la storia degli uomini e delle loro imprese:/ che ingannevole ci
svaria sotto gli occhi della ragione,/ e non riposa mai in una verità di fatto,/ uguale a sé
medesima, invece continuamente si tramuta./ Pontormo o la leggenda di Pontormo?/
Non riesco oramai più a circoscrivere/ bene l’argomento./ E non giova a nessuno
farlo».6
Oltre all’indubbia singolarità di una rievocazione che di per sé si dichiara fallace,
demandando apertamente alla parola poetica la realizzazione di un monumentum
letterario che non vuol essere documento, il testo luziano si caratterizza per
l’interpolazione di alcuni momenti corali che evocano a loro modo gli stasimi classici,
come il «coro delle lavandaie», la «Tiritera dei ragazzi di Castello» e il «coro delle cose
dipinte». Si tratta di inserti che mettono in scena una parola collettiva e determinano,
talvolta, un’articolazione e un urto dei piani linguistici non lontani da certi momenti di
sperimentazione della lirica luziana.
Il dialogo delle lavandaie presso la gora è piegato ad una singolare partitura, dal
momento che ogni lavandaia si dedica ad abiti che alludono ad un diverso mestiere. La
prima lavandaia, bella «come l’Aurora», lavora agli stracci di bottega dei «maestri
dipintori e dei loro garzoni», mentre l’acqua della pozza, sinesteticamente, sembra
fiorire «tutta impreziosita» e l’Arno diventa avvenente nella «variopinta fantasia». Con
questo espediente Luzi può cantare il colorismo manieristico recuperando un motivo
topico della sua poesia, l’acceso cromatismo che già in Avvento notturno tendeva alle
Cfr. M. LUZI, Prefazione a Felicità turbate, Milano, Garzanti 1995, 8.
Ivi, 15.
5 Il verbo «travedere» evocato da Luzi, da sempre anfibologicamente sospeso tra il valore semantico
negativo di ‘veder falso’ e quello positivo di ‘veder oltre’, ricorre con quest’ultima connotazione nel testo
capitale della poetica barocca, il Cannochiale aristotelico di Emanuele Tesauro, a proposito della metafora:
«La metafora tutti [gli obietti] a stretta li rinzeppa in un vocabulo: e quasi in miraculoso modo gli ti fa
travedere l’uno dentro l’altro».
6 LUZI, Felicità turbate, 28.
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tonalità di viola, rosso, blu, verde e giallo. Per non dire dei vibranti intarsi cromatici e
figurativi che caratterizzano il Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, tra citazioni
petrarchesche e riferimenti all’oro ed al lapislazzulo della tradizione pittorica goticosenese. Nelle Felicità turbate è una delle lavandaie ad osservare con stupore lo spandersi
dei preziosi colori: «Come si spande, come scorre/ quella gioielleria,/ si mischiano nella
gora/ e scendono al fiume/ il cinabro ed il turchino/ lo smeraldo cilestrino».7 Quasi ad
explicit dell’opera l’incendio dei «folli colori» è indicato come una delle cause della
«sublimità» pittorica pontormesca ed è qui il caso di ricordare la contiguità lessicale tra
le determinazioni luziane e i «colori che sfolgorano in pieno petto» della sceneggiatura
de La ricotta, il mediometraggio in cui Pasolini evocava, attraverso l’inserto di due
tableaux vivants, le Deposizioni degli allievi di Andrea del Sarto, Rosso Fiorentino e
Pomtormo.8
La Tiritera dei ragazzi di Castello afferma l’irregolarità del pittore empolese, la stessa
cui alludevano i sonetti berneschi dell’allievo Agnolo Bronzino e le Vite del Vasari.
Anche lo storico dell’arte Giulio Carlo Argan, sulla scorta delle note vasariane, ha dato
una vivida rievocazione del tormentato artista: «Jacopo Carucci detto il Pontormo è la
più inquietante e inquieta figura del primo Manierismo toscano: sempre in cerca di
difficoltà e sempre scontento del proprio lavoro, cosicché, dice il Vasari, “guastando e
rifacendo oggi quello che aveva fatto ieri, si travagliava di maniera il cervello, che era
compassione”».9 Nel testo luziano il «pittore eccezionale» ma scontroso «non ha la testa
ferma», si perde in «troppi pensamenti». Il rutilare di aggettivi riferiti all’artista,
«strano», «stranito», «diverso», «spiritato», «fantastico», «infermo», «ritorto»,
«balzano», «pazzo», «ostinato», «fiero» e «orgoglioso» appartiene al campo semantico
che già il ben informato Filippo Baldinucci, nelle sue Notizie de’ professori di disegno da
Cimabue in qua, riassumeva usando la determinazione «astratto», ricca di sfumature
semantiche e occorrente nella novellistica boccaccesca e in quella successiva,
segnatamente del XVI secolo fiorentino. Cercando di tracciare per labili sinopie
etopeiche il ritratto dell’autore della Visitazione dell’Annunziata, Luzi fa riferimento alla
«vita penitenziale», all’«esistenza sordida», «angusta», «squallida» ed «autodenigrativa»
da lui condotta. È evidente in questi cenni, come nel ricorso all’aneddotica che
restituisce l’immagine del primo grande pittore «non integrato»,10 il recupero delle
pagine ossessive del Libro mio, il «documento squallido» di cui ha parlato Cecchi e di cui
si ricordava Sciascia nel Contesto, facendo riferimento al «diario di un pittore fiorentino
del Cinquecento: una cosa piuttosto squallida, un documento di nevrosi».11 Il singolare
libello è stato riproposto da Salvatore Silvano Nigro in appendice al saggio L’orologio del
Ivi, pp. 38-39
Si noti che nella sceneggiatura pasoliniana de La ricotta la sesta scena, dedicata alla descrizione della
Deposizione di ispirazione pontormesca, è l’unica caratterizzata da una scrittura compatta, da una lunga
descriptio che interrompe l’andamento dialogico del mediometraggio. La «DEPOSIZIONE DEL
PONTORMO a colori, coi colori che sfolgorano in pieno petto» è caratterizzata da un «filo di rosso
violento e prezioso», dal verde che si confonde con l’azzurro «delle foglie», dal bruno «evanescente», dal
giallo e dal rosa «che empiono il gran vuoto dei corpi dagli orli schiumeggianti di papaveri, mosto, fragole
e foglie lacustri». Nella resa della tavolozza manierista, ricca di similitudini e valori sinestetici, rifulge
l’occorrenza aggettivale «melanconico»: il tono cromatico egemone è introdotto infatti dal sintagma
incipitario «luce del sole di un pomeriggio melanconico». Cfr. P.P. PASOLINI, Per il cinema, vol. I, Milano,
Mondadori, 2001, 343-346.
9 G. C. ARGAN, Storia dell’arte italiana, Firenze, Sansoni 1989, vol. III, 126-127.
10 L’espressione è usata da P. ADORNO, Storia dell’arte italiana, Firenze-Sansoni, Casa editrice G. D’Anna.
1987, vol. II, 551.
11 L. SCIASCIA, Il contesto, in ID., Opere. 1971.1983, a cura di C. Ambroise, Milano, Bompiani, 2001, 34.
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Pontormo. Invenzione di un pittore manierista.12 Da questo horologium in cui l’artista
ipocondriaco annotava i dettagli più insignificanti e persino scatologici della sua vita,
auscultando continuamente se stesso, cedendo alla pulsione archivistica e verrebbe da
dire all’archiviolitica della più piana e insignificante quotidianità, sono tratti i motivi che
da sempre hanno nutrito la sua legenda nera, la fiera solitudine, l’ossessiva paura della
morte, la vita grama, la casa sbilenca e la scala retrattile che lo proteggevano da
indesiderati commerci col mondo.
Il «coro delle cose dipinte» è un altro momento originale della scrittura drammatica
luziana. A prender parola sono gli oggetti rappresentati nelle tele e negli affreschi di
Pontormo, quasi a sancire, nella rottura mimetica delle forme e delle cromie, la distanza
tra la rappresentazione pittorica e il suo referente. Non a caso in questo stasimo le «cose
dipinte» dichiarano la loro autonomia e la loro dissimiglianza dalle creazioni del grande
artista: «No, non ci avevi, non eravamo con te./ Siamo passate per il tuo sguardo e per i
tuoi pensieri/ ma non ci hai trattenute, noi cose/ noi uomini e donne, noi mondo». Ma
le stesse «cose dipinte» non possono nascondere di esser affascinate dalla fictio
pontormesca: «Eppure ci mettevi a fuoco/ e ci incendiavi con i tuoi folli colori. Ma chi
dava/ tenerezza a questa follia? Non io, non io/ gridiamo tutte in coro, noi uomini,
donne/ cose, santi con Maria./ Non ti veniva da noi quella dolcezza degli accordi,/ ma
tu l’avevi e a noi non la rendevi, noi ci investivi/ con la chiarità della tua vampa, ci
stordivi con la tua sublimità».13 Con quest’arguta invenzione il poeta tocca uno dei nodi
tematici che gli sono più cari, l’interrogazione sulla creazione artistica, sull’inafferrabilità
della realtà, sull’illusione referenziale, sulla frantumazione e sull’assenza. In effetti
«assenza» e «ombra» sono occorrenze centrali in Felicità turbate, a connotare l’intera
epoca inquieta in cui lavorava il Pontormo e la sua consustanzialità col Novecento, a
rappresentare il passaggio dal rigore mimetico al tormento della forma, dal titanismo
michelangiolesco alle epigonali torsioni serpentinate cui sembrano alludere gli stessi
compiacimenti prolettici della prosa lirica luziana. Le costellazioni semantiche del testo
parlano del dramma personale del Pontormo e del dramma di un’intera epoca,
descrivono per umbras il venir meno della pienezza medicea e fiorentina: un sentimento
di tristezza saturnina che pervade la descrizione del Carnevale del 1512. Non a caso la
parola chiave del dramma è «malinconia», di cui si registrano due occorrenze in stretta
sequenza già ad incipit dell’opera. Lo stesso artista è consapevole della sua natura
malinconica, del suo perdersi nei «pensamenti»: «A me piace la festa, talora vi sono
trascinato,/ mi infervoro, mi entusiasmo,/ mi ubriaco un po’. Chi non mi ha veduto?
Ma poi mi viene la malinconia. Da dove non lo so./ Non so proprio spiegarmelo quel
tetro/ umore che mi prende, quell’atramento:/ dalla nascita? dai morti? Beati/ coloro
che non la conoscono».14 «Atramento» è un interessante hapax nel corpo drammatico
luziano, un termine dalla complessa storia semantica: atramentum occorre infatti nella
Naturalis Historia di Plinio con un significato propriamente pittorico, mentre in Orazio e
Ovidio è già riferito alla malattia fisiologica e dell’anima. La sua etimologia rinvia
12 S. S. NIGRO, L’orologio del Pontormo. Invenzione di un pittore manierista, in appendice Il libro mio, Milano,
Rizzoli, 1998, recentemente riproposto per i tipi Bompiani ed arricchito, in appendice, da Il libro mio, la
Lettera al Varchi e i versi di Burla del Bronzino al maestro. Una prima trascrizione integrale del Diario
pontormesco fu pubblicata da F. M. CLAPP, Jacopo Carucci da Pontormo: his life and work, Yale University
Press 1916, 310-316. Seguì, quarant’anni dopo, l’edizione autonoma del testo curata da E. Cecchi in una
nuova trascrizione, Diario di Jacopo da Pontormo fatto nel tempo che dipingeva il coro di San Lorenzo, Firenze, Le
Monnier, 1956.
13 M. LUZI, Felicità turbate, 61.
14 Ivi, 45.
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all’atra bilis che, secondo la pseudo-aristotelica teoria degli umori, è causa della
malinconia e che, come ricorda il saggio di Klibanskj, Panofskj e Saxl, era ritenuta
all’origine del tratto saturnino della creazione artistica.15 Il Pontormo luziano, chiuso
nelle spire avvolgenti della melanconia, finisce per somigliare al Petrarca «padre mite e
dispotico» che il poeta aveva ricordato nel 1984 ritenendolo il primo grande artista ad
aver compreso che «un’opera può esser costruita non in collaborazione con il mondo,
tutt’al più nella commiserazione di esso, chiudendosi in uno proprio che, se non è
sostitutivo dell’altro, almeno lo adegua alla nostra fragilità».16
Oltre che nella parabola esistenziale e nei valori della sua pittura Pontormo,
probabilmente, è stato un artista eretico nell’impianto tematico e iconografico del
grande ciclo d’affreschi del coro di San Lorenzo che, secondo le buone ragioni addotte
da Massimo Firpo, doveva essere ispirato ai dettami dell’eresia valdesiana.17 Pontormo
lavorò agli affreschi della chiesa fiorentina negli ultimi anni della sua vita, tra il 1546 e il
1556. Purtroppo questo ciclo unitario e di grande impegno è andato distrutto nel corso
del XVIII secolo. Doveva trattarsi di un opus magnum di alta drammaticità caratterizzato
dalla scoperta polemica con i canoni tradizionali dell’arte, una singolare
reinterpretazione dell’idioma pittorico michelangiolesco che suscitò i giudizi contrastanti
cui fa riferimento Vasari. Come ha sottolineato Antonio Pinelli18 le Vite vasariane si
espressero in modo molto duro sull’estrema prova pontormesca, al punto che non è
possibile trovare nelle biografie vergate dall’aretino «un giudizio così drastico e
scandalizzato»:
[…] non mi pare […] in niun luogo osservato né ordine di storia, né misura, né tempo,
né varietà di teste, non cangiamenti di colori di carni, ed in somma non alcuna regola né
proporzione, né alcun ordine di prospettiva; ma piena ogni cosa d’ignudi, con un ordine,
disegno, invenzione, componimento, colorito e pittura fatta a suo modo; con tanta
malinconia, e con tanto poco piacere di chi guarda quell’opera, ch’io mi risolvo, per non
l’intendere ancor io, se ben son pittore, di lasciarne far giudizio a coloro che la vedranno:
perciocché io crederei impazzarmi dentro ed avvilupparmi, come mi pare, che in undici
anni di tempo che egli ebbe, cercass’egli di avviluppare sé e chiunche vede questa pittura,
con quelle così fatte figure.19
Nonostante la polemica vasariana, paradigmatica della frattura prodottasi all’interno
della cultura artistica del Cinquecento tra sperimentalismo anticlassicista ed età della
Maniera, è comunque significativo che la famiglia sovrana di Firenze, i Medici,
affidassero al Carucci la decorazione della parte più in vista della loro cappella Palatina,
la cui fondazione, un secolo prima, era stata del Brunelleschi, mentre la Sagrestia nuova
e la Biblioteca erano state realizzate da Michelangelo. Nel dramma luziano il ricordo
dell’ultima impresa pontormesca è affidato al Bronzino, che ebbe l’incarico di
completare l’opera del maestro: «Per undici anni si era chiuso/ in quella disperatissima
officina,/ tagliandosi dal mondo./ Solo in extremis entrai in quel recinto e fui sconvolto
Cfr. R. KLIBANSKY, E. PANOFSKY, F. SAXL, Saturno e la malinconia, Torino, Einaudi, 2002.
M. LUZI, Padre mite e dispotico, ora in ID., Discorso naturale, Milano, Garzanti, 1984, 101-105.
17 Cfr. M. FIRPO, Gli affreschi di Pontormo a San Lorenzo. Eresia, politica e cultura nella Firenze di Cosimo I, Torino,
Einaudi, 1997, in particolare 339 e segg. Un cenno agli affreschi pontormeschi è anche in M. FIRPO, Dal
sacco di Roma all’Inquisizione: studi su Juan de Valdés e la Riforma italiana, Alessandria, Edizioni dell’Orso 1998,
105. Per uno studio delle inquietudini religiose del XVI secolo italiano cfr. D. CANTIMORI, Eretici italiani
del Cinquecento e Prospettive di storia ereticale italiana del Cinquecento, Torino, Einaudi, 2009.
18 A. PINELLI, La bella maniera. Artisti del Cinquecento tra regola e licenza, Torino, Einaudi 2003, 12. Ma cfr.
l’intero capitolo Vasari e il Pontormo, 5-32.
19 G. VASARI, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori, Firenze, 1568, edizione a cura di G. Milanesi,
Firenze, Sansoni 1906, vol. VI, 286-287.
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e ammirato./ Detti poi come sapete mano alle lunette». In un certame col Vasari,
disputando del valore del coro di San Lorenzo, Bronzino afferma: «Mai ebbe Jacopo
un’idea così irriverente,/ mai fu così blasfemo… guarda meglio, Vasari, quelle pareti a
fresco./ Vedrai tribolazione d’anima, grandezza ed oppressione/ dei pensieri in quei
viluppi di corpi e salme […] Aveva/ Michelangelo con i suoi giganti aperto la stura a
quei rimorsi./ Pontormo nuotava a modo suo in quel mare di luce e di dolore,/ ma non
ne fu travolto, non si spense./ San Lorenzo non fu una disfatta/ come in molti avete
detto, trafiggendo il vecchio…».20 Luzi, attraverso i suoi personaggi, non esprime un
giudizio di valore sugli affreschi andati del resto perduti e sfiora appena il tema teologico
preferendo parlare dell’irregolarità artistica dell’autore, della deviazione dal canone
della Rinascenza, della destrutturazione della norma mimetica: «Erano nella pittura e
nella pittura sono morti;/ avendo nella loro arte/ cercato perfezione non solo di natura/
ma anche d’intelletto e d’anima/ avendo forzato molti limiti/ del vedere e del
dipingere/ sulla scorta dei maestri e del loro insegnamento».21 È proprio al colore, al
colore innaturale che confuta di fatto l’idea aristotelica di mimesis intesa come imitatio
naturae, che Luzi demanda la «profezia segreta» dell’artista in un’epoca di splendori e di
ineffabili rimorsi. Nell’«audacia dei colori, sciolti dall’obbedienza al canone dei classici e
accademici/ e dalla servitù della verosimiglianza…», nelle nuove forme nate dal «grave
e continuo studio degli occhi e della mente», nel «mare di luce e di colore» il poeta
individua la vera eresia e le vere innovazioni apportate dal Pontormo che, attraverso il
terribile Triumphus mortis dei suoi ultimi anni, ideale certame con il Giudizio Universale
della Sistina e personale «Purgatorio» artistico, aveva introdotto nella «compita arte»
fiorentina «l’irrequietezza e l’angoscia della mente».
Lo strumento di un teatro di poesia, ovvero di un teatro che pasolinianamente «porta
in scena il linguaggio della poesia»,22 si rivela consustanziale alla rappresentazione della
complessa vicenda pontormesca, sospesa tra luce e ombra, tra chiarezza delle gamme
cromatiche e atramento dell’anima. Il suggello ultimo all’impossibilità di squadrare e
definire esattamente l’artista, pur circonfuso di gloria, è demandato alle parole della
Memoria: «Si arricchiscono le ombre/ al pari delle luci./ Ma la gloria impera/ e
scioglie la querela/ e acceca me, Memoria».
LUZI, Felicità turbate, 69.
Ivi, 21.
22 L’espressione riferita al teatro luziano è di S. Lombardi, Biografie teatrali, in LUZI, Felicità turbate, 75.
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