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EDITORIALE
Il licenziamento del dirigente: molto rumore per nulla
Nell’eterno mutare del diritto del lavoro italiano vi è sempre stata
almeno una certezza: l’impossibilità per il dirigente apicale di chiedere
la reintegra nei casi di licenziamento illegittimo, fatta salva l’ipotesi della
discriminazione
(Art.
3,
L.
108/1990).
Tale assunto è stato però modificato con l’entrata in vigore della Legge
Fornero, la quale ha previsto la possibilità per il dirigente di chiedere la
reintegra nel posto di lavoro (e la tutela risarcitoria piena) oltre che in
caso di licenziamento discriminatorio, anche in caso di nullità e “motivo
illecito determinante” del recesso (Art. 18, comma 1 St.lav.).
Ciò nonostante, per comprendere la reale portata della novità menzionata, occorre considerare, da
un lato, la disciplina precipua del licenziamento del dirigente, caratterizzata da un insieme di tutele
di natura economica (ma non solo) previste dalla contrattazione collettiva di riferimento e, dall’altro,
occorre dar conto di come le disposizioni vengono interpretate e applicate dalla giurisprudenza.
Quanto al primo degli aspetti ora indicati, se è vero che il legislatore non obbliga il datore di lavoro a
comunicare contestualmente e puntualmente al dirigente i motivi del recesso (Art. 2 e Art. 10, L.
604/1966), è altresì vero che tale onere viene imposto alle Aziende dalla contrattazione collettiva.
Così, nel caso del CCNL Dirigenti Credito, l’Art. 26 impone alla parte recedente l’obbligo della
comunicazione scritta, mentre, all’Art. 27, è prevista la facoltà del licenziato di domandare, entro
quindici giorni, motivazione del recesso che l’impresa dovrà fornire entro i successivi sette giorni.
In secondo luogo, nel silenzio di legge, si deve alla contrattazione collettiva la tipizzazione delle
causali del licenziamento del dirigente che, di fatto, corrispondono alle ordinarie previsioni
codicistiche della giusta causa, del giustificato motivo, del superamento del periodo di comporto e
del superamento dei limiti di età pensionabile, salvo l’ipotesi precipua della c.d. “giustificatezza”.
In particolare, tale ultima causale viene identificata dai Giudici in qualsiasi motivo apprezzabile sul
piano del diritto, idoneo a turbare il legame di fiducia con il datore, per cui sia la semplice
inadeguatezza del dirigente rispetto ad aspettative riconoscibili ex ante o un’importante deviazione
rispetto alle direttive generali del datore, sia un comportamento extralavorativo, ma incidente
sull'immagine aziendale, possono costituire ragione di rottura del rapporto fiduciario e giustificare il
licenziamento (tra le tante: Cass., sez.lav., 1 febbraio 2012, n. 1424; T. Milano, 21 marzo 2012).
La vera distinzione rispetto al rapporto di lavoro con altre categorie di lavoratori si riscontra,
dunque, nella circostanza per cui, in mancanza di giustificazione (reale) del licenziamento, la
contrattazione collettiva non ha mai posto norme incidenti sull’efficacia del provvedimento
espulsivo, sempre idoneo a sciogliere il rapporto di lavoro, ma si è sempre limitata a sanzionare
tale carenza con il pagamento di un’indennità supplementare, prevista entro limiti minimi e massimi
determinati da ciascun CCNL, in aggiunta ai trattamenti di fine rapporto o, quando dovuta,
all’indennità sostitutiva il preavviso; indennità supplementare, poi, la cui determinazione può essere
rimessa anche ad un Collegio arbitrale, secondo un procedimento interamente disciplinato dal
contratto collettivo di riferimento (Art. 30, CCNL Dirigenti Credito).
Accanto alle fattispecie previste dalla contrattazione collettiva, deve ricordarsi che, a seguito della
sentenza Cassazione, Sezioni Unite, n. 7880 del 30 marzo 2007, le tutele previste dall’Art. 7 St.lav.,
per il licenziamento disciplinare, sono state estese a tutti i dirigenti (apicali e pseudo-dirigenti),
senza però modificare il regime sanzionatorio del recesso (Cass., sez.lav., 11 marzo 2013, n.
5962).
Quanto, infine, all’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l’approvazione della
Legge Fornero e la previsione di una speciale procedura conciliativa per l’intimazione del
licenziamento per motivi economici (Art. 7, L. 604/1966) hanno suscitato perplessità circa la
riferibilità del predetto procedimento anche alla categoria dei dirigenti. Il problema si è dimostrato
tuttavia solo teorico: da un lato, infatti, la Riforma non ha modificato l’Art. 10, L. 604/1966 che
esclude i dirigenti dalle garanzie previste per i licenziamenti di operai ed impiegati, dall’altro lato,
anche la circolare del Ministero del Lavoro n. 3/2013, relativa appunto alla procedura conciliativa,
non
ha
considerato
i
dirigenti
come
destinatari
della
tutela
preventiva.
Sempre con riferimento al licenziamento per motivo economico, è opportuno evidenziare che,
secondo la giurisprudenza più recente, ogniqualvolta vengano dedotte esigenze di riassetto
organizzativo, finalizzate ad una più economica gestione dell'azienda, può considerarsi
licenziamento ingiustificato del dirigente solo quello non sorretto da alcun motivo, vale a dire il
recesso meramente arbitrario o sorretto da un motivo che si dimostri pretestuoso e quindi non
corrispondente alla realtà, ma finalizzato unicamente a liberarsi della persona del dirigente (Cass.,
sez.lav., 3 giugno 2013, n. 13918). Dunque, per stabilire se sia giustificato il licenziamento di un
dirigente, intimato per ragioni di ristrutturazione aziendale, non e' dirimente la circostanza che le
mansioni da questi precedentemente svolte vengano affidate ad altro dirigente in aggiunta a quelle
sue proprie, in quanto quel che rileva e' che presso l'azienda non esista più una posizione
lavorativa esattamente sovrapponile a quella del lavoratore licenziato, per cui il licenziamento del
dirigente e' consentito in tutti i casi in cui sia stato adottato in funzione di una ristrutturazione
aziendale dettata da scelte imprenditoriali non arbitrarie, non pretestuose e non persecutorie
(Cass., sez.lav., 26 novembre 2012, n. 20856).
Sul quadro normativo ora sintetizzato è intervenuta la Riforma Fornero che ha esteso l’applicazione
della tutela reale ai dirigenti solo quando il licenziamento si riveli discriminatorio oppure nullo (per
violazione di norma imperativa o nei casi espressamente previsti dalla legge) o, ancora, intimato
per “motivo illecito determinante”. In realtà, la portata dirompente della norma è mitigata da
un’interpretazione molto restrittiva della giurisprudenza, sia con riferimento alla nozione di “motivo
illecito”, sia in punto di prova che deve essere fornita dal lavoratore quando viene invocato il
comportamento
discriminatorio
del
datore
di
lavoro.
Infatti, quanto al motivo illecito, non solo esso viene definito dalla giurisprudenza prevalente, anche
successiva l’entrata in vigore della L. 92/2012, come l'ingiusta e arbitraria reazione ad un
comportamento legittimo del lavoratore che attribuisce al licenziamento il connotato della
ingiustificata vendetta, ma la stessa ritiene che il licenziamento sia nullo quando il motivo ritorsivo
sia stato l'unico determinante il recesso, con onere della prova, in punto di esistenza di un motivo di
ritorsione e suo carattere determinate, in capo al lavoratore (si vedano, ad esempio: Cass., sez.lav.,
18 marzo 2013, n. 6710; Cass., sez.lav., 11 ottobre 2012, n. 17329; T. Milano, ord. 20 novembre
2012). Inoltre, è stato riconosciuto che, una volta accertata l'obiettiva esistenza dei fatti necessari a
radicare il potere di recesso, restano irrilevanti eventuali profili di arbitrarietà e irrazionalità dei
motivi
dell'atto
(Cass.,
sez.lav.,
3
agosto
2011,
n.
16925).
Nell’ipotesi invece della condotta discriminatoria del datore di lavoro, la giurisprudenza ha chiarito
che le disposizioni vigenti si sono limitate ad un alleggerimento dell’onere probatorio, anche rispetto
alla regola posta dall’art. 2729 c.c., avendo richiesto che la discriminazione si fondi su presunzioni
precise e concordanti, non anche gravi, senza però attuare alcuna inversione dell’onere probatorio.
Pertanto, il lavoratore che invochi la condotta discriminatoria deve fornire elementi precisi,
concordanti e seri, dai quali desumere, con ragionamento probabilistico, la discriminazione e, solo
in presenza di tali elementi, controparte avrà l’onere di dimostrare l’insussistenza del
comportamento discriminatorio (Cass., sez. lav., 5 giungo 2013, n. 14206 relativa al caso di una
dipendente bancaria che aveva invocato la discriminazione a fronte del mancato riconoscimento del
grado di funzionario).
In conclusione, sebbene la Riforma Fornero abbia introdotto per la prima volta nel nostro
ordinamento la possibilità per il dirigente di richiedere la tutela reintegratoria, le reale portata della
novità pare residuale tenuto conto degli orientamenti giurisprudenziali consolidati che limitano, di
fatto, l’operatività delle ipotesi in cui il lavoratore apicale potrebbe domandare siffatta tutela.
Olimpio Stucchi - Partner LABLAW
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