1 INTRODUZIONE A “OTELLO”

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1 INTRODUZIONE A “OTELLO”
INTRODUZIONE A “OTELLO”
La storia
Venezia. Iago, “alfiere”, ossia portabandiera personale (una sorta di assistente) di Otello,
prode generale moro al servizio della Repubblica, nutre un malanimo segreto contro
costui, che gli ha preferito come proprio luogotenente Michele Cassio, un fiorentino dalla
scarsa esperienza bellica, e allo scopo di vendicarsi promette a Lodovico, giovane e ricco
patrizio veneziano, di aiutarlo per fargli ottenere i favori di Desdemona, la bella figlia del
senatore Brabanzio, che questa stessa notte sta convolando a nozze segrete col Moro. I
due svegliano il senatore e lo incitano a far arrestare Otello, ma allo stesso tempo il
generale è convocato davanti al Senato della Serenissima, allarmato per la notizia di una
spedizione della flotta turca contro l’isola di Cipro, suo dominio. Davanti al Senato Otello
respinge le accuse di Brabanzio, di avere sedotto Desdemona ricorrendo ad arti magiche,
e la fanciulla, convocata a sua volta, conferma la spontaneità del suo amore per lui.
Brabanzio è costretto ad accettare a malincuore il fatto compiuto, e a Otello viene affidato
il comando di un contingente che dovrà far subito vela per Cipro; Desdemona ottiene di
seguirlo. Rimasto solo con Ludovico, Iago lo convince a arruolarsi e a partecipare alla
spedizione.
Il resto della vicenda si svolge a Cipro, dove le navi di Venezia giungono
separatamente, per via di una tempesta che peraltro ha disperso e praticamente
annientato le minacciose navi turche. Per primo approda Cassio, quindi è la volta di Iago
con Desdemona; arriva quindi Otello, che fa proclamare dei festeggiamenti pubblici per la
vittoria incruenta sugli infedeli, e per le proprie nozze. Ma quando il generale si è coricato
con la sposa, Iago mette in azione il suo piano per screditare Cassio, facendo ubriacare il
luogotenente e quindi coinvolgendolo in una rissa nella quale resta ferito un cittadino
importante dell’isola. Otello interviene sdegnato e rimuove Cassio dal suo incarico. Cassio
è inconsolabile, ma Iago lo esorta a perorare la propria causa con la consorte del
generale. Così la mattina dopo Cassio chiede a Desdemona di intercedere per lui; ma
quando questo avviene, Iago riesce abilmente a insospettire Otello, insinuandogli dubbi
sull’eccessiva familiarità di sua moglie con il galante ex luogotenente. In seguito Iago
manovra Cassio spingendolo a compromettersi, mentre continua a ingannare Lodovico
tenendolo in aspettativa; intanto Otello tratta la moglie con un imbarazzo che la donna non
sa spiegarsi. Iago continua a soffiare sul fuoco esprimendo dubbi sulla lealtà di Cassio,
finché Otello non gli chiede una prova definitiva delle sue sempre meno velate
affermazioni. Tramite la moglie Emilia, che ha seguito Desdemona come dama di
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compagnia, Iago si procura adesso un fazzoletto ricamato che Otello aveva regalato alla
futura sposa, e questo fazzoletto lascia nelle stanze di Cassio. Cassio a sua volta chiede a
Bianca, cortigiana con cui ha una relazione, di copiare il ricamo di questo fazzoletto. A
questo punto Iago offre a Otello la prova richiesta: mentre il generale origlia nascosto,
rivolge a Cassio delle domande sull’infatuazione di Bianca per lui, e sulla gelosia della
donna. Cassio ride e si pavoneggia.
Otello crede stia parlando di Desdemona, e la
situazione precipita quando vede sopraggiungere Bianca che restituisce a Cassio proprio
“quel” fazzoletto. Bianca e Cassio escono, e Otello ordina a Iago di far uccidere Cassio; a
Desdemona penserà lui. Ma ecco un’ambasciata da Venezia condotta da Graziano, zio di
Desdemona, allo scopo di richiamare Otello in patria e di conferire a Cassio il governo di
Cipro. Otello riceve l’ambasciatore in stato quasi confusionale, e arriva a percuotere
Desdemona davanti a lui. Intanto Iago convince Lodovico a pugnalare Cassio a
tradimento, ma l’attentato è un mezzo fallimento, ché Cassio è solo ferito a una gamba,
mentre Lodovico è ucciso; Iago intervenendo cerca di fare incriminare Bianca, dalla quale
Cassio aveva cenato.
La sera Desdemona si appresta mestamente a coricarsi, accudita da Emilia; le due
donne si scambiano vedute sulla fedeltà matrimoniale, e Desdemona canta la triste
canzone di una antica ancella di sua madre, morta per un amore infelice. Sopraggiunge
Otello, che licenzia Emilia e ingiunge a Desdemona di dire le sue preghiere: è venuto a
ucciderla. Sordo alle proteste di innocenza di lei, le comunica che il suo presunto amante
Cassio è già morto, e la strangola. Emilia rientra e trova Desdemona ancora viva, che con
l’ultimo respiro scagiona Otello. Arrivano poi, richiamati da Emilia, Lodovico e altri, e ben
presto si fa luce sull’accaduto: viene Cassio ferito, viene Iago che è stato arrestato e che
dopo avere ucciso Emilia che lo accusava si chiude nel silenzio ed è portato via per
essere torturato a morte. Disarmato e agli arresti, Otello riesce a suicidarsi con un pugnale
che aveva nascosto, dopo avere pronunciato un’ultima tirata in cui rivendica la sua fedeltà
alla Repubblica di Venezia.
Le fonti
Come si sa, Shakespeare attinse direttamente dalla settima novella nella terza decade
degli Hecatommithi di Giovanbattista Giraldi Cinthio, raccontata da tale Curzio alla brigata
che ascolta storie il cui tema generico, nella decade in questione, è l’infedeltà di mariti e
mogli. Non esisteva una traduzione inglese degli Hecatommithi, e da riscontri lessicali
appare quasi certo che il Bardo li abbia conosciuti direttamente nel testo italiano, dal quale
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derivò anche la vicenda di Misura per misura. La novella contiene la maggior parte degli
elementi fondamentali della pièce compreso il fazzoletto (in seguito deplorato in Francia,
quando alla Comédie la parola mouchoir, introdotta in un adattamento in alessandrini di
Alfred de Vigny [1823], parve indegna di figurare in una tragedia); ma gli interventi di
Shakespeare sul materiale sono importanti. Ne fanno parte tutto il prim’atto con l’antefatto
a Venezia, mentre la novella comincia con l’invio a Cipro del Moro e di sua moglie dopo un
certo periodo di felicità coniugale; l’invenzione del personaggio di Lodovico, il
corteggiatore sfortunato di Desdemona gabbato da Iago; l’elevazione di Cassio a
luogotenente, mentre nella novella è un semplice caporale; l’introduzione dei nomi di tutti i
personaggi, che in Giraldi Cinthio sono indicati solo con le loro funzioni (l’alfiere, il
caporale) tranne Desdemona (veramente, Disdemona, con l’osservazione che si trattava
di un nome sfortunato, in quando significante “infelice” in greco). Questi nomi sono
vagamente allusivi al destino di chi li porta nel caso di Cassio, che verrà “cassato”
(“cashiered”, degradato), e soprattutto di Iago, come il santo spagnolo noto con
l’appellativo di Matamoros, grande avversario degli invasori islamici. Del nome di Otello
peraltro nessuno ha trovato finora una spiegazione soddisfacente; pare esistesse in Italia,
ma che fosse molto raro, anche prima di Shakespeare, cui certamente se ne deve, se non
l’invenzione, la grande diffusione successiva. Alcuni pensano a una deformazione del
nome dell’imperatore Ottone (Otho), ma se dietro c’era una allusione deliberata, questa
rimane oscura. I nomi mirati
fanno parte della prassi shakespeariana di esplorare le
psicologie individuali, cosa che nella novella non avviene. Giraldi Cinthio si limita a
registrare i fatti, e in particolare le motivazioni del suo alfiere per tradire così crudelmente il
generale sono tangibili: costui è innamorato di Disdemona e non riuscendo a conquistarla
crede, sbagliando, che occorra eliminare il caporale di cui ella sarebbe segretamente
presa; in un secondo momento l’amore si muta in odio, e il fellone vuole semplicemente
vendicarsi di lei. Lo Iago di Shakespeare è invece una creatura estremamente complessa,
che si autodescrive più di una volta, anche se i suoi monologhi, diversamente da quelli di
Amleto, non contribuiscono a chiarirne il lato segreto. Non sembrano convincenti infatti le
ragioni che Iago dà a Lodovico, ma anche al pubblico in generale, per giustificare il suo
astio verso Otello. A Lodovico Iago racconta di essere amareggiato per la preferenza
accordata da Otello a Cassio, un damerino accademico; al pubblico comunica inoltre di
sospettare che Otello si sia infilato a suo tempo sotto le lenzuola di Emilia. Ora, della
prima ragione non possiamo giudicare il fondamento, solo osservare che nessun altro
nella pièce sembra condividerla (e comunque la crudeltà della reazione di Iago sembra
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esagerata); e la seconda appare smaccatamente pretestuosa, ché nel rapporto tra Otello
e la moglie di Iago non si nota mai il minimo accenno a una familiarità meno che formale.
Ma se queste sono giustificazioni che Iago dà soprattutto a se stesso, senza crederci
davvero, bisogna aggiungere che lo spettatore elisabettiano non aveva difficoltà a
identificare l’infida creatura come una ennesima reincarnazione del Vizio medievale, ossia
del falso amico, il cui scopo nascosto è portare l’uomo alla rovina anche se esternamente
si presenta come affidabile. “Onesto” è l’aggettivo che quasi tutti accoppiano al nome di
Iago nella pièce, e la schiettezza militaresca dell’uomo è sottolineata dalle bestemmie e
dalle oscenità con cui egli colorisce le sue battute (ma vedi sotto, a proposito del testo).
Inizialmente Iago dice di voler solo sabotare Cassio e mettersi al suo posto, ma una
volta raggiunto tale obbiettivo, non si accontenta. Nelle sue lezioni americane degli anni
1940 W.H.Auden parlò per lui di acte gratuit, concetto familiare a lettori allora freschi di
Camus. Oggi si può anche vedere Iago come un artista della manipolazione che si
innamora della propria efficienza - un torero che incontra l’avversario ideale, ossia una
bestia che lo carica a testa bassa, senza ragionare, a ogni sventolio della muleta; e quindi,
inebriato della propria bravura, insiste nel numero anche quando ogni prudenza gli
imporrebbe di smettere. Verdi e Boito trovarono impossibile rendere un carattere così
contorto, e quindi inserirono il famoso “Credo”, in cui Iago proclama la propria devozione al
Male assoluto. Forse però la migliore spiegazione del personaggio la diede Orson Welles
nel film in cui commenta la lavorazione del suo Otello cinematografico: “Io non so perché
Iago faccia quello che fa, so solo che io Iago nella vita lo ho incontrato. Tre volte.”
Le innovazioni veramente decisive di Shakespeare rispetto alla novella sono però
altre due, entrambe studiatissime da tutti i commentatori. Una riguarda la compressione
del tempo. La vicenda raccontata da Giraldi Cinthio dura parecchi mesi, e anche il finale si
trascina parecchio (il Moro, per esempio, non ammette mai di avere assassinato la moglie;
viene torturato a lungo ma poi rilasciato, e finalmente raggiunto e ucciso dai parenti di lei.
L’alfiere torna al suo paese – mai specificato – e qui commette altri delitti, è a sua volta
torturato per quelli, e muore di conseguenza). In Shakespeare invece, dopo l’antefatto a
Venezia che si svolge tutto nella stessa notte, tra l’arrivo a Cipro e la morte violenta dei
personaggi principali non trascorrono che un paio di giorni. Il Dottor Johnson affermò che
togliendo l’atto di Venezia (come avrebbero poi fatto Verdi e Boito), Otello rispetta le
regole aristoteliche di unità di tempo, luogo e azione; e in effetti alla rappresentazione il
pubblico, catturato nel vortice della progressiva, inarrestabile caduta nel baratro del
protagonista tralascia di soffermarsi su parecchie contraddizioni. Cassio è appena
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sbarcato a Cipro, eppure la sua relazione con Bianca è di lunga data (fosse venuta anche
lei da Venezia, al seguito della flotta? Alludesse a lei Iago nella prima scena, quando
inesplicabilmente dice di Cassio che è “almost damned in a fair wife”?). Lodovico piomba
da Venezia con l’ordine per il rimpatrio di Otello neanche quarantotto ore dopo che la
guerra contro i turchi è stata vinta: come hanno fatto in patria anche solo a sapere cosa
era successo, non diciamo a fare arrivare una nave? Che l’ordine sia stato spiccato in
seguito a mene di Brabanzio? Ma Brabanzio, lo si apprende subito dopo l’arrivo di
Lodovico, è morto di crepacuore per l’abbandono della figlia! – Si è dunque parlato di un
tempo teatrale, diverso da quello logico; e giustamente, per un palcoscenico dove il
drammaturgo ha la possibilità di comprimere o espandere il tempo a suo piacimento. Gli
esempi di questa prassi nel repertorio elisabettiano non si contano.
La seconda innovazione di Shakespeare riguarda il colore della pelle del
protagonista. In Giraldi Cinthio costui è definito un Moro, ossia, presumibilmente, un
oriundo del vicino Oriente o del Nordafrica, dall’incarnato olivastro o comunque non troppo
scuro, convertito alla religione e ai costumi di Venezia. E’ uno straniero, ma perfettamente
assimilato, e la sua origine non ha molto peso nello sviluppo nella storia. Anche l’Otello di
Shakespeare è assai rispettato per le sue imprese militari, e gode di una indiscussa
autorità (poche parole gli bastano per spegnere ogni velleità alla torma armata guidata da
Brabanzio, venuta per arrestarlo: “mettete via quelle spade luccicanti, o la rugiada le farà
arrugginire…”): ma a differenza del Moro di Giraldi Cinthio, ha due motivi per sentirsi a
disagio nella sua unione con Desdemona. Uno è quello dell’età: Otello è anziano, molto
più anziano della giovane sposa, che ha conquistato proprio con il racconto di una lunga
vita piena di avventure e di sofferenze. L’altro è la sua negritudine. In una società dove il
bianco è bello, e il nero è mostruoso – dove anche l’abbronzatura è un indice di
degradazione (partendo per la guerra, il poeta John Donne più meno in questi anni
prepara l’amata a trovarlo, se e quando tornerà, coi capelli bianchi e la mano scurita dai
raggi del sole) – Otello viene descritto come nero, anzi, nerissimo, un “caprone nero che
monta una bianca pecorella”: ha il petto fuligginoso e i labbroni, è insomma fisicamente
un primitivo, l’opposto del modello di un gentiluomo civilizzato. E proprio questa sua
caratteristica, che a Venezia nessuno per educazione o convenienza gli ha mai fatto
notare, Iago tira fuori allo scopo di minare la sua autostima: davvero Otello pensa che una
fanciulla aristocratica possa amare davvero uno così? Ovvero, che possa, toltosi un
capriccio, continuare ad amarlo a lungo? Nella situazione rielaborata da Shakespeare
questo dato ha un peso decisivo. L’alfiere di Giraldi Cinthio è un astuto traditore che
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raggira un marito normalmente geloso. Iago è un fine psicologo, e identifica il punto debole
di un uomo che tutti credevano invulnerabile perché valorosissimo, avendo intuito che
proprio questo valore è il portato di un terribile complesso di inferiorità.
La data e il testo
Si sa con certezza che i King’s Men recitarono Otello nella “Banqueting House” del
palazzo reale di Whitehall il 1° novembre 1604. All’origine della scelta di questo lavoro può
esserci stata la constatazione dell’interesse del sovrano per il conflitto tra turchi e cristiani,
avendo egli composto un poema sulla vittoria di Lepanto (1571) uscito nel 1591 e
ristampato da poco, nel 1603; può anche darsi che il colore della pelle del protagonista
coincidesse con una moda di quell’inverno, poiché poco dopo a Corte fu rappresentato il
masque di Ben Jonson intitolato Blackness, in cui la regina Anna e le sue dame si
esibirono tinte di nero, come le figlie del Niger. Non è necessario peraltro supporre che
l’esecuzione di quel primo novembre fosse una prima assoluta, ché anzi gli attori
tendevano a presentare a Corte solo lavori già collaudati; e considerando che nel 1604 i
teatri erano stati chiusi a lungo, per una epidemia di peste e prima ancora, nel marzo
1603, durante l’agonia della regina Elisabetta, molti ritengono probabile che Otello sia
stato scritto addirittura nel 1602. Il testo tuttavia non fu stampato che diversi anni dopo la
morte dell’autore, quando ne videro la luce in rapida successione due edizioni, un
volumetto in-quarto nel 1622 (Q), e l’in-folio con la raccolta quasi completa delle opere di
Shakespeare, nel 1623. Nel 1630 infine uscì una seconda edizione in-quarto (Q2) il cui
dettato è anch’esso utile e interessante, perché costituisce una ristampa di Q con
correzioni suggerite dal confronto con F e dalla sensibilità di un curatore anonimo ma non
sprovveduto.
Diversamente da quanto accade con altri testi di Shakespeare, in cui le edizioni inquarto sono parecchio diverse da quella dell’in-folio (è il caso di Amleto e di Re Lear), le
differenze tra Q e F non sono clamorose, consistendo soprattutto nella sparizione di 63 tra
imprecazioni e bestemmie presenti in Q, indubbiamente conseguenza dell’ordinanza con
cui nel 1606 il linguaggio sporco o blasfemo fu vietato nel teatro a partire dal 1606, e le
commedie già esistenti dovettero essere espurgate. L’edizione in-quarto del 1622 dovette
dunque basarsi su di un copione di prima della censura, e quella dell’in-folio del ’23, su di
un testo censurato. Questa epurazione comportò, almeno secondo alcuni, la rinuncia a un
effetto che Shakespeare aveva calcolato: sempre più succube del turpiloquente Iago, a un
certo punto Otello comincia a esprimersi come lui. Per risarcire in qualche modo il
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personaggio defraudato, Shakespeare gli avrebbe in un secondo tempo assegnato, sia
pure a costo di allungare una pièce già tutt’altro che concisa, alcune battute in più, tra cui
la memorabile tirata sulla Propontide e l’Ellesponto in III. 3. L’altra aggiunta principale di F
rispetto a Q è la canzone del salice in V.
Lunghi, dotti e ingegnosi dibattiti tra gli studiosi hanno tentato di stabilire, a partire
dal 1930 fino a oggi, il rapporto tra le due versioni di Q e F: se entrambe derivassero da
uno stesso manoscritto, con correzioni e aggiunte nel caso di F; se si tratti di due redazioni
autonome; se F sia il lavoro completo e Q, il copione abbreviato per la recitazione (a
favore di quest’ultima tesi sta il fatto che Q è assai più ricco di didascalie, ma contro,
quello che i presunti tagli, solo circa 160 versi in tutto, non alleggeriscono sufficientemente
un dettato piuttosto lungo). Nell’impossibilità di stabilire convincentemente la superiorità
definitiva di un testo sull’altro, la maggior parte degli editori si comporta come Michael
Neill, editor del recentissimo volume Oxford (2006): ossia integrando F, che delle due offre
la versione più lunga, con le didascalie e le imprecazioni che da esso mancano, e tenendo
presente la lezione di Q per decidere su qualche passo che appare corrotto o poco chiaro.
La fortuna sulle scene
Solo in tempi relativamente vicini a noi Otello sarebbe diventato la prima e la più
celebre opera letteraria sul conflitto razziale: i contemporanei di Shakespeare, che
vivevano in una Inghilterra dove gli stranieri erano rarissimi e comunque nessuno li
considerava una minaccia, vi trovarono semplicemente una ottima storia di amore e di
morte e gli decretarono un successo di cui rimangono tracce nella registrazione di
frequenti riprese. Quando nel 1660 i teatri furono riaperti dopo un ventennio di chiusura
imposta dai puritani, e l’attività ripartì da zero, Otello fu tra i lavori subito rispolverati dal
vecchio repertorio, e anzi proprio un allestimento di Otello ebbe la distinzione di ospitare la
primissima attrice di sesso femminile ufficialmente autorizzata a esibirsi su di un
palcoscenico pubblico, quando il sovrano Carlo II, che aveva apprezzato la recitazione
femminile durante il suo lungo esilio in Francia, abrogò il veto che era stato in vigore fino
allora. Nel Settecento la tragedia continuò a tenere le scene, sempre con un prim’attore
adeguatamente annerito, ma a partire dall’epoca romantica e fino al Novecento inoltrato le
strade dell’interpretazione del personaggio seguirono due concezioni abbastanza diverse,
quella tradizionale (e aderente alla lettera del testo) di un Otello molto nero, diciamo
africano, e quella relativamente nuova di un Otello caffellatte, arabo, talvolta quasi bianco
– diciamo, orientale. Il primo di questi Otelli schiariti fu il supremo attore Edmund Kean,
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contemporaneo del poeta e critico Samuel Taylor Coleridge, il quale sostenne la tesi di un
moro nel senso (forse) in cui lo aveva inteso Giraldi Cinthio: ossia di un nativo del vicino
Oriente, esponente di una civiltà non meno raffinata di quella dell’Italia rinascimentale – un
uomo fine, educato, eloquente – un uomo magnanimo, incapace di doppiezze, e perciò
tanto più esposto alla mancanza di scrupoli di uno Iago. Sulla scia di Kean, il cui Moro
leggeva ostentatamente brani del Corano, le scene inglesi conobbero dunque tutta una
schiera di nobili generali dalla carnagione appena un po’ più scura – gentiluomini dal
costume pittoresco, ma dal contegno impeccabile (così William Charles Macready, Henry
Irving, Herbert Beerbohm Tree, Johnston Forbes-Robertson, ecc., ecc., fino ai
novecenteschi Anthony Quayle e John Gielgud). In America però, dove la schiavitù vigeva
ancora (in Inghilterra era stata abolita nel 1803), Otello era visto come un uomo uscito
dalla giungla e poco addomesticato, e il suo accoppiamento con Desdemona, come
qualcosa di estremamente sconveniente per non dire inaccettabile. L’Otello nero e
passionale, il leone in gabbia, si riaffermò con forza a partire dagli anni 1870, soprattutto
con l’interpretazione dell’italiano Tommaso Salvini. Salvini per la verità non si scuriva più
che tanto, in compenso sconvolgeva il pubblico con le esplosioni di una energia che
sembrava primordiale, al punto che diventò difficile trovare una Desdemona per le sue
tournée inglesi (all’estero recitava in italiano, spesso in mezzo ad attori del luogo: anche la
lingua inconsueta contribuiva alla costruzione di un selvaggio), data la violenza con cui
scaraventava la partner sul letto prima di strangolarla. Ammiratissimo da Henry James e
da Stanislavskij, seguito a ruota da un altro interprete italiano poco meno esagitato,
Ernesto Rossi, Salvini era stato preceduto nel suo Otello-belva umana dal primo interprete
della parte che non ebbe bisogno di truccarsi, l’americano Ira Aldridge, figlio di uno
schiavo fuggito, il quale negli anni 1850 incontrò reazioni più commosse in Europa e in
Russia di quante ne avesse avute in patria. Sulle tracce di Aldridge, con la figlia del quale
aveva avuto contatti, fu un memorabile Otello a partire dal 1930 un altro afroamericano, il
gigantesco cantante Paul Robeson, in una edizione che nacque in Inghilterra e che dei
critici condannarono almeno in parte per un eccesso di naturalezza, Robeson avendo
accentuato i caratteri etnici del personaggio con gesti e accenti che andavano a scapito
della dizione dei versi, cui il gusto dell’epoca dava importanza suprema. All’Otello
nerissimo, dopo varie oscillazioni del pendolo tra le due tendenze, si tornò con la prova
epocale di Laurence Olivier nel 1964, quando il direttore del recentemente fondato
National Theatre si trasformò in un impressionante, atletico barbaro, quasi un dittatore
africano pronto a buttar via la civiltà occidentale e a tornare ai suoi riti primitivi. Questa
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estrema caratterizzazione del personaggio era nata anche dalla paura dell’attore di essere
sopraffatto dal suo Iago, paura comune a molti interpreti, giustificata dal fatto che la parte
di Iago, il quale tra l’altro ha più battute di Otello, risulta spesso di resa eccellente (non per
nulla molto spesso la star desidera cimentarvisi, e sono frequenti le coppie di attori che
fanno Otello e Iago a turno – Henry Irving e Edwin Booth, entrambi con più successo
come Iago, e via dicendo fino ai nostri Vittorio Gassman e Salvo Randone). In ogni caso il
risultato fu una prova eccelsa, che riuscì a conciliare la metamorfosi fisica con la
puntigliosa declamazione del “blank verse” shakespeariano, e rimase il precedente sul
quale ogni primattore successivo si sarebbe misurato: chi riprendeva la concezione
dell’africano seguiva Olivier, chi si rifaceva all’altra tradizione, dell’Otello orientale, ne
prendeva le distanze. Ma gradualmente si fece strada il concetto di impiegare, almeno
nelle edizioni di lingua inglese, attori dell’etnia giusta, come il cantante caraibico Willard
White in una celebrata edizione diretta da Trevor Nunn nel 1989 (dove peraltro il vero
trionfo andò allo Iago di Ian McKellen). Più recentemente, nell’era del politically correct, c’è
chi osserva che l’atteggiamento di Shakespeare verso il personaggio è ancora troppo
paternalista – James Earl Jones, un altro grande attore negro che ha impersonato Otello,
cita il rifiuto di Sidney Poitier di salire sul palco “a far vedere un uomo nero che si fa
menare per il naso” – ma tentativi di modificare la situazione come quello di un
allestimento a Washington, con Patrick Stewart come Otello unico bianco in un cast
completamente nero, o come l’Otello bianchissimo, un vero gigante del nord, diretto
dall’illustre regista lituano Eimuntas Nekrosius sembrano episodi isolati più che aperture
verso possibili sviluppi successivi. Se a Otello si toglie il colore e con quello il complesso di
inferiorità, restiamo con un personaggio di vecchio guerriero geloso e incline a
commiserarsi melodiosamente senza altri motivi che la coscienza di avere esaurito il
proprio ciclo, dunque molto simile a un altro personaggio shakespeariano, il Marc’Antonio
di Antonio e Cleopatra.
In Italia dopo Salvini e Rossi si distinsero come Otello Ermete Novelli, Giovanni
Emanuel, Alamanno Morelli, e poi Ermete Zacconi, Renzo Ricci, Camillo Pilotto, i ricordati
Gassman e Randone, e via dicendo fino a Eros Pagni e a Michele Placido.
Tra i numerosi adattamenti cinematografici di Otello spicca quello diretto e
interpretato da Orson Welles nel 1952, estroso e geniale malgrado le difficoltà produttive
dallo stesso regista, rievocate in un documentario del 1972 (FilmingOthello). Interessante
l’Otello russo di Segej Iosipovič Jurkevič con Sergej Bondarčuk (1959); insufficiente quello
inglese di Stuart Burge (1965) derivato dall’edizione teatrale di John Dexter con Laurence
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Olivier, della quale non riesce a recuperare il fascino; e mediocrissimo quello di Oliver
Parker (1995), con l’attore nero Laurence Fishbourne più, come Iago, Kenneth Branagh, a
sua volta regista di film shakespeariani riusciti assai meglio di questo.
Masolino d’Amico
La tragedia di Otello, il Moro di Venezia:
la trama è celebre, ma ogni nuova lettura, ogni ipotesi di realizzazione scenica, ne mette
in rilievo la complessità.
La storia di amore e gelosia, per spostamenti progressivi, raggiunge ineluttabilmente
l’acme orrendo dell’omicidio e della strage.
Ma la tessitura della tragedia non è lineare. Contempla percorsi accidentali, snodi
impensati: basta un salto di stile nel linguaggio, la reazione imprevedibile di un
personaggio, una osservazione innocua, un gesto immotivato, per aprirci le porte
all’insondabile, in una spirale di emozioni che provocano turbamento e smarrimento.
Il dubbio e l’ incertezza che attanagliano Otello sono sottotraccia la tensione costante del
suo agire. La sua leggenda eroica si stempera e si degrada lentamente nella materialità di
un linguaggio frantumato, che appare perturbante visto in una proiezione distruttiva delle
illusioni individuali. Il sentimento incontrollato si proietta in un destino di distruzione.
Proprio il Moro che conosceva la magia della parola nell’ampio spettro dell’epico e
dell’immaginario cede al dubbio che frantuma ogni certezza ed è indotto a assumere su di
sé la condanna della diversità, e a scandire nel proprio subconscio il crescendo stesso
della propria angoscia.
E il degrado si propaga su quanti entrano nel suo cerchio di azione.
Desdemona con la sua marmorea bellezza, “più bianca della neve e liscia come alabastro
sepolcrale”, non troverà alcun appiglio in un mondo che
appare scardinato dal proprio
asse. L’amore non è estasi e incanto ma passione distruttiva, ossessione, follia.
L’ intreccio degli inganni ordito da Jago con un crescendo implacabile, pur nel ritmo della
improvvisazione, è condotto con la perfidia di un giuoco intellettuale, ma emana nel suo
esplicarsi la forza dirompente dell’odio che condurrà alla definitiva afasia.
I turbamenti sentimentali, la tortura dell’amore tradito, non sono disgiunti da una marcata
morbosità, così come latenti pulsioni aberranti creano un clima erotico che si espande su
tutti come una rete profumata, ma esiziale.
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Il mondo elisabettiano, come il mondo di oggi, è un mondo disgregato, dall’equilibrio
precario. La storia come la natura è crudele: muoiono gli eroi come i folli, gli innocenti
come i colpevoli.
L’immaginazione con la sua forza corrosiva quando segue sentieri tortuosi, si ritorce su sé
stessa. La realtà immaginata si riflette come in uno specchio deformante e si deforma
definitivamente. Rimane il silenzio che assorbe e spegne ogni grido sotto cieli corruschi,
ma indifferenti.
Roberto Guicciardini
San Gimignano, giugno 2007
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