rabbia e doppiezza è un “otello” a tinte scure

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rabbia e doppiezza è un “otello” a tinte scure
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DOMENICA 23 FEBBRAIO 2014
LIBRI
LA
VETRINA
■ XIV
Al teatro Massimo la bella regia
di Brockhaus per l’opera di Verdi
Il volume di Basile e Dominici
LE MONACHE IN CUCINA
CLAUSURA AFRODISIACA
Tre domande a...
AMELIA CRISANTINO
L CIBO si riveste di aneddoti e colte divagazioni in Mangiare
di festa. Tradizioni e ricette della cucina siciliana, Gaetano Basile racconta e Maria Anna Musco Dominici arricchisce con
ricette poco conosciute ma sempre interne ai cardini dolce/salato, dolce/amaro, agro/dolce. Il libro segue la scansione della
liturgia cattolica, unica concessione alla modernità è San Valentino che però consente intriganti annotazioni sull’eros fra i fornelli. Perché per Basile il cibo siciliano è «zona di sensualità consentita», la tavola è seduzione ma anche tempo ritrovato che arricchisce il vivere «allontanandoci dal cibernetico incombente».
Si apre con la cucina monacale, anzi con le «audacie monacali», a base di paste farcite che accontentano tutti. Possono trasformarsi in morbide brioche con ripieno dolce o salato: ci sono
le ravazzate con ricotta cucinate dalle monache di Santa Elisabetta, il monastero palermitano oggi sede della Squadra mobile. A un tiro di schioppo le monache della Badia Nuova, oggi seminario arcivescovile, preparavano cannoli, teste di turco e cassatelle. E le suore del Santissimo Salvatore, il monastero più antico della città, cucinavano il riso dolce al cacao. Cucina sensuale e afrodisiaca, elaborata da donne segregate dal mondo che
non rifiutano il nome arabo isfang— spugna — per le “sfinci” con
cui oggi si continua a onorare san Giuseppe.
I
“Mangiare di festa”, Kalòs, 175 pagine, 16 euro
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“Il gioco delle sette pietre”
CAPODANNO GIALLO
NEI VICOLI DI ORTIGIA
EMANUELA E. ABBADESSA
CAPODANNO e in una Siracusa inquietante, tra le strade di
Ortigia, il commissario Paolo Portanova si aggira osservando
luoghi e persone ed elaborando la sua personale teoria sui
concittadini, fino a quanto un efferato delitto non lo scuote dalla
meditazione e lo butta all’interno di una storia di sangue, molto
sangue, nella quale però manca il cadavere.
Alberto Minnella è un giovane giornalista agrigentino, con la passione per il noir e qualche racconto alle spalle uscito su riviste e blog.
Ha scritto le tre stesure del Gioco delle sette pietresu una Olivetti Lettera 32 regalatagli, fumando una delle sue amate pipe Amorelli e ha
pubblicato nella collana dei Fratelli Frilli un giallo in cui sesso, mafia e politica aggrovigliano una matassa assai difficile da dipanare.
A fare da sfondo c’è una città umida e affannata nel festeggiamenti di fine anno, raccontata con molta enfasi, in cui si muovono
gli uomini del commissariato, aderenti al genere giallo fin nelle loro piccole manie, nei tic e nella loro umanità. L’agente Camurro, l’agente Iannelli, l’ispettore Gurciullo cui soprattutto l’autore riserva
momenti di particolare abbandono.
Uno stile forse un po’ troppo descrittivo rallenta l’azione regalando però un’immagine fedele della città.
È
Alberto Minnella, Fratelli Frilli, 118 pagine, 9,90 euro
I MANCUSO
CONQUISTANO
L’AMERICA
OPO 20 giorni di repliche al prestigioso La
MaMa di New York e
altre tappe in New Jersey, Enzo e Lorenzo Mancuso hanno concluso proprio ieri a
Chicago il tour statunitense
di “Rumore di acque”, opera
della Compagnia Teatro delle Albe di Ravenna con la regia di Marco Martinelli. Entusiastiche le recensioni della
critica americana che ha definito «deliziosamente surreale» il ruolo canoro dei fratelli siciliani.
Che spettacolo è “Rumore
di acque” e quale il vostro
ruolo?
«Racconta il massacro che
ogni giorno si consuma nel
Mediterraneo e di quanti annegano, dopo aver sofferto
inenarrabili violenze. È l’oratorio dei sacrificati, il tentativo necessario ma impossibile di tenere il conto delle vittime. La musica è l’urlo di chi
perisce, il rito ancestrale che
riporta ad una lingua universale il senso profondo del sacrificio».
Pubblico e critica americani come hanno affrontato
la difficoltà della lingua?
«Il monologo è stato recitato in italiano e in inglese e con
i sopratitoli per offrire una
migliore comprensione».
Prossimi impegni?
«Al rientro, l’1 marzo riceveremo dal comune di Sutera, dove siamo nati, il riconoscimento «Cittadini benemeriti». Poi ripartiremo con
le repliche di “Verso Medea”
con la regia di Emma Dante.
Anche in questa opera siamo
in scena con le nostre musiche».
g.r.
D
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RARITÀ
Mai stampato
in dvd, fece
scandalo per
l’aggiunta dei
personaggi
di Moro
e Andreotti
© RIPRODUZIONE RISERVATA
PIERO VIOLANTE
hiama l’opera, sa, che
Otellodi Verdi è l’opera sua più complessa,
sottile, ammaliante.
Sa ancora come emani irresistibile un senso di nostalgia e di commozione, perché nel
cercare nuove strade, la nuova
prosa musicale, si congeda da se
stessa. Come quando nel primo
atto Desdemona e Otello si scambiano la linea di una melodia
struggente che si contrae e che dice che l’una amava l’altro per le
sue sventure e l’altro l’amava per la
sua virtù. Questa finale quadratura a specchio chiude l’epoca della
C
RABBIA E DOPPIEZZA
È UN “OTELLO”
A TINTE SCURE
certezza del sentimento, dell’univocità della passione mentre l’amore si avverte come precario. A
chiusura dell’atto, nella notte
splende Venere ed è per Otello l’ultima volta. Non è più sicuro del ripetersi dell’attimo divino per l’ignoto avvenire del suo destino dominato dalle sventure. Nella chiusa del secondo atto c’è il dio vendicatore; nel terzo trionfa il feticismo del fazzoletto e della parola
orrenda: cortigiana che poi Boito
rinforza in prostituta. Venere si
eclissa nella ricerca della prova
dell’infedeltà, per sancire l’insicurezza, la malaise.
Un’ombra diabolica ottenebra
Otello: la precarietà trionfa sulla
certezza dell’amore e della gloria,
dell’epica eroica del guerriero. Ecco il leone, dice trionfante Jago su
un Otello che giace ai suoi piedi,
privo di sensi. Il quarto atto si chiu-
de con due cadaveri mentre il corpo bianco di Desdemona cattura
l’ultimo bagliore di Venere ma risplende come un incubo di Füssli.
È l’ultima immagine dell’Otello
visto in prima al Massimo venerdì
diretto da Renato Palumbo, con la
regia di Henning Brockhaus, scene di Nicola Rubertelli, costumi di
Patricia Toffolutti. Una regia colta, a volte eccessivamente simbolica: madonne e figure che vengo-
“TODO MODO”, COSÌ PETRI TRADÌ SCIASCIA
UMBERTO CANTONE
D ALCUNI film non è dato invecchiare perché sono condannati all’invisibilità fin dalla loro uscita. È il
caso di “Todo modo” che Elio Petri girò nel
1976 traendolo dal più oracolare dei romanzi di Leonardo Sciascia, scritto nel’ 74 e
quindi 40 anni fa.
Sottoposto a una censura non solo di
mercato (perché politicamente offensivo e
poi presago della furia brigatista che sacrificò Moro), questo cine-pamphlet metafisico prova a inscenare il “processo alla Democrazia Cristiana” auspicato da Pasolini.
Mai stampato in Dvd e raramente trasmesso in Tv, oggi pochi lo ricordano.
È un film che tradisce il romanzo (e quindi lo interpreta) condividendone l’intreccio
A
da giallo fantapolitico. Se il libro del raisonneur di Regalpetra è un magnifico scherzo
letterario d’ispirazione pascaliana, il lavoro
di Petri si fa ideologicamente tranchantammantandosi di Camus e Kafka. Sono due
opere dallo stile opposto ma unite dalla
stessa indignazione.
Corruzione, mafioseria, rapacità, cinismo: ecco i peccati dei notabili Dc riunitisi
nel labirintico eremo di Zafer per eseguire
gli esercizi spirituali secondo le regole di
Sant’Ignazio di Loyola (suo è l’input del titolo: “Todo modo para buscar la voluntad
divina”).
A istigare all’autodistruzione il gregge dei
contriti provvede l’officiante dell’eremo,
l’eccentrico don Gaetano. E l’ironica trama
di Sciascia prevede l’assassinio di due notabili, un’indagine poliziesca fallita e l’eliminazione dello stesso prete padrone giustiziato (forse) dall’io narrante. Per la sua versione, il regista rincara la dose: il don Gaetano di Mastroianni è un invasato fustigatore
che sottopone i propri ospiti a un’espiazione da rituale sadiano. E mentre nel bunker i
cadaveri si moltiplicano, all’esterno una
peste collettiva annuncia la nemesi finale.
Nel film fecero scandalo l’Aldo Moro interpretato da Volonté come una melliflua
maschera d’impotenza e l’Andreotti di Michel Piccoli, crudele puparo trovato morto
a chiappe scoperte (personaggi entrambi
assenti nel libro). La soluzione pirandelliana dell’intrigo, prospettata da Sciascia per
alludere alle stragi di Stato irrisolte, non bastò a Petri che preferì invocare l’Angelo sterminatore. Così la Balena bianca Dc ha avuto almeno un grande romanzo e un film
straordinario che seppero prevederne la rovina.
Per gli attuali epigoni al potere restiamo
ancora in attesa del capolavoro che possa
denunciarne il miserabile andazzo da pescecani. Il titolo si potrebbe rubare a Kundera: “La festa dell’insignificanza”.
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Repubblica Palermo