Senza titolo - Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale

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Senza titolo - Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale
1. Come eravamo. Il ruolo dei media nell’identità
generazionale
di Fausto Colombo
1.1. Un problema attuale
Il tema delle generazioni è oggi di stringente attualità. Se ne parla, per
esempio, a proposito della revisione del welfare tradizionale, evocando la
necessità di un patto fra gli anziani garantiti e i giovani senza garanzie. O
riguardo alla necessità di rinnovamento della classe politica, soprattutto dopo l’elezione di Barack Obama a nuovo Presidente degli Stati Uniti (2008),
interpretata come l’avvento di una nuova tornata di uomini di governo finalmente al di fuori delle tradizionali (anche di età) filiere dell’establishment
(elezione cui si contrappone, per esempio l’immutabilità della classe politica italiana). Ancora, se ne discute per illuminare il problema educativo,
cercando di evidenziare le difficili emergenze tra genitori e figli, tra formatori e studenti di oggi, appunto riconoscibili nella loro appartenenza generazionale. O recensendo una letteratura che comincia a dare numerose prove di sé, in cui i figli di genitori appartenenti alla grande generazione contestatrice protagonista del ’68 rileggono in nuova prospettiva la loro esperienza infantile inquadrata nella storia e nelle ideologie di allora1.
Insomma, il tema è sull’onda della riflessione pubblica in generale e
scientifica in particolare.
Se dalle questioni generali scendiamo a considerare il campo di interesse di questo volume (cioè il complesso rapporto fra i media e l’identità generazionale) ci accorgiamo di quanto siano frequenti definizioni delle più
recenti generazioni in cui entrano come elementi fondamentali le tecnologie digitali della comunicazione: per fare qualche esempio recente, pensiamo a definizioni quali “Internet generation”, “Nintendo generation”, “Avatar generation”, o anche quella, oggi di grande successo, di “Digital Natives”. Come cercherò di spiegare nel corso di questo articolo, queste definizioni devono essere considerate francamente discutibili dal punto di vista
interpretativo, e anzi, forse pericolose proprio per la loro suggestione e
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La letteratura di questo tipo è ormai quasi sterminata, e ancora in attesa di una rigorosa
catalogazione e analisi critica. Per non fare che qualche esempio si pensi Calabresi 2007,
Tobagi 2009, Negri 2009, Duzzi 2009.
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l’apparente capacità di cogliere con nettezza alcune apparenti evidenze della nostra società (Colombo 2003b). Tuttavia, esse presentano anche qualche
vantaggio, fra cui soprattutto quello di tener viva (nell’opinione pubblica
ma anche fra gli studiosi) l’attenzione ai problemi generazionali e al ruolo
in essi giocato dai media. E da questi vantaggi parte in fondo il presente volume, frutto di un lungo percorso di ricerca di cui rappresenta una prima –
non compiuta, ma almeno speriamo significativa – sintesi.
Ma facciamo un passo indietro, per richiamare il quadro teorico entro il
quale si colloca il dibattito sulle generazioni.
In primo luogo, è utile ricordare che il concetto di “generazione” appartiene alla tradizione sociologica classica e ha coinvolto teorici importanti a
partire dal fondamentale contributo di Karl Mannheim (Mannheim 1928).
Questa tradizione è ancora ben viva, e alcuni autori contribuiscono attivamente a ridisegnarla e aggiornarla continuamente. Nel suo prezioso contributo a questo volume, Piermarco Aroldi ridisegna attraverso un’efficace
sintesi il percorso della riflessione sociologica sulle generazioni come identità collettive, e a quel saggio intendo qui limitarmi a rimandare. Poiché una
prima definizione è comunque indispensabile almeno come punto di partenza, utilizzerò quella piuttosto celebre di Edmunds, Turner (2002b), cui si
deve una riflessione che può costituire anche per noi un eccellente punto di
partenza: secondo i due autori una generazione è “una coorte di età che assume significanza sociale costituendosi come identità culturale”.
L’interesse della sociologia per questo problema non può sorprendere:
parlare di generazioni significa infatti parlare della convivenza umana, nei
suoi aspetti più profondi e immediati, su cui si basa ogni analisi sociologica. Innanzitutto, la contrapposizione tra individuo e società, fra atomo e galassia. Attraverso le “generazioni” ci riferiamo in primo luogo a persone,
ossia a soggetti sociali con un ciclo di vita che li lega insieme alla specie e
alla inattingibile individualità di ciascuno. Ma anche, sull’altro versante,
facciamo riferimento alla dinamica temporale che fa da sfondo a ogni cambiamento sociale, e che si sostanzia in cicli storici di differenti durate, con i
loro spartiacque, le loro caratteristiche specifiche, le loro sovrapposizioni, e
in cui protagonista è piuttosto la collettività.
Infine, ci riferiamo a quei corpi o agenzie intermedie su cui così spesso
l’analisi sociologica si è trovata a porre l’accento: la famiglia, la scuola, i
media. Tutti luoghi in cui le generazioni diverse si incontrano, si parlano, a
volte lottano fra loro. Dove si trasmette (o dovremmo dire: si tramanda)
un’idea di continuità (la famiglia), di tradizione (la scuola), di condivisione
(i media), e dove tuttavia sempre avvengono anche quelle fratture e quei
rifiuti che rendono evidenti le differenze – appunto – generazionali. Come a
dire, insomma, che la sociologia guarda alle generazioni come a una forma
peculiare di identità sociale.
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Possiamo insomma dire che il concetto di generazione rimanda
all’esperienza dialettica con cui il soggetto sociale vive il tempo della storia, da un lato radicato in una identità per così dire orizzontale, condivisa
con i propri coetanei; dall’altro proiettato prospetticamente nel passato e
nel futuro attraverso l’incontro con generazioni precedenti e seguenti, con
cui la sua propria convive2. Data la centralità di questa dialettica
nell’esperienza antropologica, non deve sorprendere il fatto che il concetto
di generazione sia oggetto d’interesse anche di altre scienze umane. Semmai, è importante capire con quale specifica prospettiva ciascuna disciplina
affronti la questione.
Cominciamo dalla demografia, la scienza che probabilmente può maggiormente rivendicare sulle generazioni un’attenzione privilegiata. Si tratta
qui di cogliere del concetto la radice per così dire etimologica, che rimanda
all’atto del generare, e quindi di dare vita a chi ci succederà in futuro. Diventa essenziale dunque, anche nella scienza demografica, il fattore tempo,
che attraverso la successione delle generazioni assume una forma specifica,
una sorta di linea ondulata costituita proprio dal ritmo delle nascite e dei
cicli di vita collettiva. Naturalmente la demografia contemporanea ha abbandonato ogni meccanicismo nella ricostruzione di questa linea, guardando alla complessità dei fattori sociali in gioco (cfr. Di Giulio, Rosina 2007,
Ambrosi, Rosina 2009); ma va detto che alcuni elementi dello sguardo disciplinare sono di assoluta utilità (come vedremo più avanti) nel comprendere la specificità della singola generazione. Per esempio, il peso, ossia la
numerosità di una coorte d’età, viene riconosciuto come un fattore in grado
di contribuire al ruolo che essa è in grado o meno di svolgere nella storia.
Pensiamo, da questo punto di vista, al significato che assume la consistenza demografica delle generazioni nella già citata revisione del welfare, dove il raggiungimento dell’età pensionabile da parte di coorti molto
numerose mette in crisi un sistema fondato sul lavoro attivo di coorti meno numerose. Oppure – per cominciare a mettere in campo temi legati al
nostro interesse – pensiamo a quanto la visibilità e il successo di una innovazione tecnologica o mediatica dipenda anche dal peso demografico
della generazione che ne costituisce il destinatario privilegiato. Così, la
generazione europea dei Baby Boomers, in quanto per definizione molto
“pesante” in termini demografici, ha favorito la fortuna di alcune innovazioni, come i supporti analogici per la musica (45 e 33 giri) o gli apparecchi hi-fi, in misura e con rapidità maggiori di quanto le giovani generazioni non abbiano potuto fare con l’MP3 o l’iPod, che invece hanno tro-
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Il tema della convivenza di differenti generazioni è stato molto trattato anche nella
rappresentazione pittorica. Si pensi ai Tre filosofi di Giorgione (1505-1509) o a Le tre età
della donna di Gustav Klimt (1905). Si tratta di opere in cui le figure rappresentate insieme
illustrano anche metaforicamente la successione delle coorti, con valenze metaforiche ancora non del tutto chiarite.
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vato un terreno fertile nell’intergenerazionalità. E d’altronde, sotto il profilo dei contenuti musicali, bisognerebbe interrogarsi se la fortuna del rock
degli anni Sessanta-Ottanta, che ancora supera quella di generi musicali
popolari successivi, non si debba anche alla solida base demografica del
suo pubblico d’elezione originario.
Un’altra disciplina che utilizza con successo l’idea di generazione è la
storia. Parliamo naturalmente della più recente, che si interfaccia fecondamente con la sociologia (cfr. per esempio Strauss, Howe 1997). La nozione
di “generazione” compare nella storiografia sia come causa che come terreno di azione degli effetti delle trasformazioni sociali. Cominciamo dal secondo punto di vista. È evidente che alcune condizioni storiche peculiari
possono “segnare” i nati in un certo periodo. In Italia, per esempio, dopo la
sconfitta di Caporetto (1917) furono chiamati alle armi, per rafforzare le
truppe al fronte, i nati nel 1999, molti dei quali non avevano ancora compiuto legalmente diciotto anni. Furono i cosiddetti “ragazzi del 99”: una
generazione, appunto, che fu poi protagonista nei fatti post-bellici, sia come
fautrice che come antagonista del fascismo. Secondo Alessandro Baricco
(2005) questa generazione uscì dalla guerra di trincea completamente trasformata, e cercò inconsapevolmente l’occasione di replicare quella tragica
esperienza, fino al secondo conflitto mondiale. In questo senso, i cosiddetti
Millennials (cfr. Strauss, Howe 2000) si possono dire segnati dalla partecipazione come spettatori attoniti (resa possibile a livello globale dai media)
al crollo delle due Torri, e molti altri esempi si potrebbero fare. Tuttavia, è
evidente, nell’accostamento fra i due casi, la questione che interessa lo studioso. Gli eventi fruiti attraverso i media possono essere considerati alla
stessa stregua di quelli che letteralmente travolgono una generazione coinvolgendola fattivamente nella storia? Si potrebbe rispondere che per certi
grandi fatti storici la differenza non è sempre rilevante, almeno per alcuni.
In primo luogo, infatti, i “ragazzi del ‘99” avranno forse colto, durante la
dura esperienza della vita di trincea, il significato profondo e davvero storico che per loro aveva acquisito un fatto lontano (e riportato con tutta
l’enfasi del caso dai media di allora) come l’assassinio di Sarajevo. E viceversa, per molti ragazzi americani e di Paesi alleati, l’attentato alle Torri
Gemelle ha assunto un significato assai più concreto nelle battaglie delle
successive guerre in Afghanistan e poi in Iraq… Come a dire che il confine
tra l’essere spettatore e attore proprio malgrado può essere molto esile…
Una questione diversa è posta dalle cosiddette generazioni “attive”, come quella, sempre evocata negli studi sociologici e storici in termini di
“generazione esemplare”, dei partecipanti al ’68 (Berman 1996, Kurlansky
2004). Certo, nel caso specifico la generazione ha alcuni tratti peculiari:
ebbe in tutti i sensi una dimensione globale, anche e soprattutto grazie alla
diffusione dei media e alla loro capacità di far rimbalzare ovunque nel
mondo fatti nazionali, dagli Stati Uniti e dal Messico alla Cina e al Viet16
nam, dall’Europa occidentale (Francia, Italia, Germania) a quella dell’Est
(con la Primavera di Praga e la sua repressione). Fu inoltre una generazione
fortemente propensa al protagonismo, disposta a (o illusa di) prendere sulle
proprie spalle la storia. Inoltre, a seguito della grande ondata del ’68 (anche
se per la verità non sempre e soltanto a causa di essa), le società occidentali
furono attraversate da cambiamenti epocali nei valori sociali diffusi e nel
riconoscimento di diritti prima negati3.
Anche da questo punto di vista, il ruolo dei media non deve essere sottaciuto. Non solo perché, come già detto, furono anche e soprattutto i media
a raccontare e mostrare ai giovani di tutto il mondo le loro somiglianze e la
loro comune appartenenza; ma anche e soprattutto perché il protagonismo
di quelle generazioni si manifestò in un’accorta e spesso radicalmente innovativa attività di utilizzo dei media, dal ciclostile al giornale, dal cinema
alla radio.
Le differenze fra i due modelli di generazione (per riprendere il filo:
come causa o come terreno di azione degli effetti delle trasformazioni sociali) sono logici più che interpretativi. Certo, esistono generazioni, come
individui, che sembrano essere spettatori piuttosto che attori sulla scena
della storia. Ma è difficile immaginare, nella concretezza dei mutamenti sociali, degli attori che si muovano senza aver costruito una propria idea della
realtà (che i media collaborano a formare: Silverstone 2007); e viceversa,
come si possono ipotizzare spettatori che in un modo o nell’altro non si
trovino nel mezzo del cambiamento e non partecipino in qualche modo ad
esso? Piuttosto, come ci ricorda una certa storiografia, occorre indagare la
specifica modalità in cui una generazione interagisce con le altre, e soprattutto con le precedenti. Ci si potrebbe così accorgere che persino alcuni utilizzi dei media tipici di una generazione (per i baby boomers italiani per
esempio l’invenzione della radiofonia indipendente dal monopolio di stato
negli anni Settanta) sono resi possibili da un lato dalla volontà di contestare
e superare il sistema dei media della generazione precedente, dall’altro da
un’abitudine al consumo che proprio la generazione dei genitori aveva contribuito a presentare e formare.
Proprio il riferimento alla questione del consumo permette di valutare la
prospettiva di un’altra disciplina che ha molto collaborato – in tempi recenti – alla messa a fuoco del problema generazionale: il marketing. La prima
cosa da chiarire è che l’obiettivo delle indagini di questa disciplina è ovviamente ben distinto da quello delle scienze sociali: se per la sociologia la
generazione è in primo luogo un’identità e per la storia una soggettività at-
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Su questo tema rimando anche agli interventi di Cavalli 2007 e Donati 2007. Il primo
propone un’idea di generazione come identità collettiva intermittente, fortemente connessa
alle temperie storiche del cambiamento. La medesima prospettiva si trova anche in Cavalli
2010. Donati sostiene invece un’ipotesi più “continuista”, che in fondo rivendica all’identità
generazionale un ruolo più stabile nel mutamento sociale.
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tiva, per il marketing essa è un target (Smith, Clurman 2007), ossia un
segmento sociale che può adottare comportamenti (soprattutto di consumo)
coerenti e unitari.
Le definizioni che il marketing ha applicato alle generazioni sono dunque più operative che interpretative, e inoltre fanno riferimento a diversi
criteri classificatori. Potremmo distinguerne tre:
a) definizioni basate su una presunta identità forte, determinata dal complesso dei fattori sociali in cui una generazione si forma (esempio: Baby Boomers);
b) definizioni basate su un’identità debole, di cui non è necessario ipotizzare le caratteristiche, e rispetto alla quale è sufficiente osservare i
comportamenti, soprattutto in termini di consumo (esempio, sintomatico, è la cosiddetta X Generation: cfr. per esempio Craig, Bennett
1997);
c) definizioni deterministiche, in cui la generazione viene designata ricorrendo a un tratto di consumo, tipicamente legato all’utilizzo della novità tecnologica (esempi: le già citate definizioni di Net generation e Nintendo Generation, Morice 2002; Digital Natives: per quest’ultima in
particolare si vedano Palfrey, Gasser 2008, Prensky 2001a e 2001b,
Tapscott 1998). Questo tipo di definizione può essere considerata una
via di mezzo fra la prima - di cui assume la possibilità di designare una
generazione a partire da una caratteristica identitaria riconoscibile - e la
seconda, con cui condivide la centralità del consumo come elemento
identificativo.
Dal punto di vista della nostra trattazione, è evidente che le definizioni
che più ci riguardano sono quelle deterministiche. Ho già accennato nella
parte introduttiva che le reputo inutili per comprendere la complessità della
questione generazionale, ed è arrivato ora il momento di argomentare la
mia posizione.
La motivazione fondamentale della mia critica all’impostazione consiste
nell’osservazione che – nelle definizioni che ho chiamato “deterministiche”
– si dà in fondo per scontato che la tecnologia utilizzata (o – come per
l’etichetta “digital natives” – il complesso delle tecnologie utilizzate) costituisca il fattore di distinzione di una generazione dalle altre. Di solito
l’etichetta si applica alle giovani generazioni, che meglio sanno accogliere
e plasmare la nuova offerta che si presenta sul mercato. La rivoluzione digitale, in particolare, si presta magnificamente come frontiera esemplare fra
il prima e il dopo, perché cambia lo scenario della apparecchiature disponibili modificando le precedenti e offrendone di nuove. Inoltre, permette
nuovi rituali sociali, modificando almeno in apparenza le abitudini relative
alla privacy e alla sociability, il senso e l’uso del tempo, e così via. Un
esempio apparentemente perfetto di come una rivoluzione tecnologica possa guidare un grande cambiamento sociale.
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Naturalmente, una posizione del genere deve in primo luogo spiegare
perché la rivoluzione riguardi soprattutto i giovani. L’argomento abitualmente utilizzato è che essi sono più plasmabili, perché attraversano la fase
formativa della propria vita, e quindi accolgono con maggiore naturalità
degli adulti la trasformazione dello scenario tecnologico, in termini di disponibilità (considerando le nuove tecnologie strumenti “di moda”, essenziali per essere accettati nel peer-group), di literacy (imparando a usare
queste tecnologie nell’arena concreta dell’uso anziché attraverso i tradizionali processi di scolarizzazione), di capacità di innovazione e di cambiamento (non essendo vincolati da abitudini pregresse). L’argomento ha naturalmente un suo valore. È certamente vero, per esempio, che le esperienze
dell’età giovanile plasmano gli individui, e quindi anche le generazioni.
Tuttavia, quando si asserisce questa verità lapalissiana, si intende con
“esperienze” la totalità del vissuto, che è ovviamente difficile da riassumere
in un aspetto o nell’altro. E poi, riconsiderando proprio l’esempio della rivoluzione digitale, quale degli argomenti visti sopra non si applica anche
agli adulti? La disponibilità all’innovazione, per esempio, dipende da una
serie di fattori complessi, come il livello di scolarità, il censo, e anche le
“economie morali”, così opportunamente ricordate da Silverstone e Hirsch
(1992). Inoltre, si può dire che esistano generazioni che storicamente sono
state più aperte alla novità. È il caso dei Baby Boomers, un po’ in tutte le
società occidentali, che hanno vissuto una grande stagione di innovazione
durante la propria giovinezza (la rivoluzione meccanica e analogica delle
tecnologie e dei consumi individuali), e che per tutta la propria vita hanno
visto susseguirsi le novità necessarie a sostenere i mercati a partire
dall’obsolescenza dei prodotti e degli standard (pensiamo alla successione
dei supporti musicali dal vinile al CD fino all’MP3). È dunque probabile
che questa generazione di genitori degli attuali cosiddetti Digital Natives
abbia attitudini positive nei confronti dell’innovazione, e che questo favorisca sia il loro uso della stessa, sia l’atteggiamento positivo e quasi di stimolo nei confronti dei figli. Per quanto concerne poi la disponibilità ad acquisire la literacy per vie diciamo così istintive, o mediate dal peer-to-peer, si
potrebbe osservare che esistono fattori tradizionali, come il gender, per cui
sono state riconosciute sensibili differenze proprio nell’apprendimento (per
esempio, una certa rapidità, istintività e superficialità maschile contrapposta
a una maggiore riflessività e anche a una maggiore tendenza femminile
all’approfondimento e alla completezza dell’uso). Dunque, le etichette generazionali dovrebbero in questo caso essere complessificate tenendo conto
di altri fattori.
Ciò che insomma voglio ribadire è che a mio parere molte delle definizioni o etichette del marketing generazionale – pur essendo utili a porre la
questione del ruolo dei media nella costruzione delle varie generazioni –
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sono spesso molto semplificatorie, e devono essere prese dalla sociologia
più come uno stimolo che come vere e proprie categorie interpretative.
Proverò ora a tracciare il quadro della complessità del rapporto fra media e generazioni sistematizzando quello che in parte la riflessione sociologica ha acquisito, e che le ricerche empiriche – anche quelle rappresentate
in questo volume – sembrano dimostrare in modo attendibile.
1.2. Come un’onda
In primo luogo occorre ricordare che in sociologia il fatto sociale non è
separato dallo sguardo che lo osserva. Anche le generazioni, come tutti i
fatti sociali, mutano aspetto a seconda del nostro approccio. Ora, è molto
importante essere consapevoli che lo sguardo sociologico declina legittimamente aspetti molto differenti del fenomeno generazionale. Anche se
ciascuno di questi aspetti costituisce una parte dell’osservabilità sociale,
bisogna sempre tenere presente che le varie porzioni osservabili non si possono sommare nella speranza di restituire l’intero. Siamo condannati a vedere le cose per speculum et in aenigmate, come diceva San Paolo. Il che
non toglie che dobbiamo continuare a provarci, e a interpretare le porzioni
dei fenomeni che rendiamo visibili con le nostre metodologie di indagine.
Nel caso delle generazioni, vi sono due grandi punti di vista: il primo
guarda ad esse in quanto inserite nel continuum sociale. Le generazioni sono da questo punto di vista, oggetti fantastici per interrogarsi sui processi di
cambiamento nelle società, il che significa sul modo in cui possiamo vedere
in azione il tempo. Ovviamente, possiamo rappresentare questa temporalità
come un andamento regolare, oppure come una successione di sbalzi catastrofici, seguiti da fasi più o meno calme di assestamento.
Guardare alle generazioni sotto il profilo della regolarità può essere –
anche in relazione al nostro tema – molto utile. Una metafora interessante è
quella della successione di onde. Se infatti è vero, come la demografia ha
progressivamente acclarato, che le generazioni non sono delle scatole di
tempo, tutte di eguale durata, che contengono gruppi di persone, è pur vero
che la successione delle generazioni sembra avvenire con una certa scansione, più o meno precisa, a meno di grandi eventi che siano capaci di alterarne il ritmo. In questo senso, la successione delle generazioni assomiglia
a una serie di onde, con la loro variabilità di distanza fra una cresta e l’altra,
legata a una molteplicità di fattori quali la forza del vento, la profondità
dell’acqua e così via.
Che cosa ci dice la regolarità? In primo luogo ci ricorda che le generazioni sono compresenti allo sguardo del ricercatore che le indaga, così come sono compresenti nella vita sociale. La normalità della vita sociale stessa è data essenzialmente dalla convivenza delle generazioni. Questa convi20
venza è basata sulla dialettica diversità/regolarità: ossia sul fatto che da un
lato ogni generazione riconosce quella precedente o quella successiva come
diversa, ma insieme questa diversità è attribuita alla “naturalità” della successione comportata dall’atto di generare. Ciò che rende possibile questa
integrazione è appunto la convivenza dentro alla famiglia e alle agenzie di
socializzazione. Dobbiamo quindi supporre che anche i media giochino un
ruolo, sia nella loro versione tradizionale sia in quella più recente comportata dalla digitalizzazione. Per fare un esempio, la Chiesa Cattolica vide
nella nascente televisione una specie di baluardo in difesa della famiglia,
immaginando che la natura di consumo entro il nucleo domestico avrebbe
favorito la compresenza e il dialogo fra figli e genitori. Prima della Tv, evidentemente, i padri erano immaginati uscire la sera di casa per il bar, il pub,
o altri locali di “dubbia moralità”. La preghiera del mattino dell’uomo civilizzato, come Hegel definiva la lettura del giornale (al proposito si veda il
commento in Habermas 1962), era evidentemente assai meno familiare e
intergenerazionale; così come lo sarebbe diventato il consumo di neotelevisione con la moltiplicazione degli schermi nelle case e le diverse scelte di
consumo fra genitori e figli, a partire dagli anni 80. Ma si può supporre che
attualmente, con la trasformazione del televisore del salotto in terminale
centrale, spesso in versione HD, e quindi capace di catalizzare di nuovo
l’attenzione del gruppo familiare, le cose siano di nuovo cambiate, e le generazioni dei genitori e dei figli abbiano ancora qualche occasione di convivere davanti alla Tv.
La distanza variabile fra le creste di una serie di onde ci ricorda anche
che le complesse condizioni dell’ambiente in cui esse si formano possono
avere una qualche conseguenza sulla loro struttura. Torneremo più tardi su
questa acquisizione, ma vale la pena di ricordare fin d’ora che i media possono essere non soltanto catalizzatori intergenerazionali, ma anche elementi
d’ambiente in grado di costituire il bacino di successione delle onde: insomma, esattamente quelle condizioni che danno forma all’onda, e la rendono diversa dalle altre. Possiamo per esempio immaginare che una certa
stabilità nel contesto sociale tenda a produrre una successione di generazioni diversa da quella che si genera in un contesto in forte mutamento. Le cose diventano ancora più chiare quando la regolarità delle onde viene interrotta da un’onda anomala, come uno tsunami. È la situazione in cui una generazione assume non soltanto una forma peculiare, ma acquisisce la capacità di un impatto storico così forte e così riconoscibile da determinare effetti non prevedibili, destinati a conseguenze durevoli nel tempo. È questa
appunto la metafora migliore per descrivere una generazione come quella
del ’68: una generazione numerosa (figlia del dopoguerra), globale (ossia
omogenea praticamente in quasi tutto il mondo), con comportamenti caratteristici (la contestazione), e per di più capace di rispecchiarsi in una immagine unitaria offerta dall’informazione mediatica del grande mezzo
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istantaneo e globale, ossia la televisione, in questo capace di un’influenza
persino superiore alla sua antesignana: la radio (Kurlansky 2004).
Come hanno osservato vari autori, i media sono in questo senso davvero
capaci di ingigantire gli eventi, come è accaduto più volte, su scala globale
e locale, con oggetti piccoli e grandi. Per esempio, è difficile immaginare
l’impatto sociale dell’11 settembre senza il potere diffusivo dei media vecchi e nuovi, analogici e digitali, che hanno fatto rimbalzare ovunque e in
diretta il crollo delle due torri. Ma anche eventi meno capaci di attivare partecipazione e identificazione possono risultare utili nella costruzione
dell’identità generazionale, agendo sulla memoria delle persone. È così, per
esempio, per un evento globale come il moonlanding del 1969; o di fatti in
sé minuscoli, come l’agonia di un bambino caduto in un pozzo nella provincia romana4, che sono comunque capaci di inculcarsi fra i ricordi di una
o più generazioni di spettatori, e di andare a costituire una sorta di patrimonio memoriale condiviso, in grado di orientare la percezione del tempo di
intere coorti di età. In questi casi le (varie) generazioni partecipi come spettatrici dell’evento si differenziano radicalmente – riconoscendosi come testimoni – da quelle successive che possono solo vantare un racconto indiretto dell’evento stesso.
Questa discussione della metafora dell’onda, dunque, soprattutto per
quanto concerne l’eccezionalità di alcune generazioni, ci offre la possibilità
di cogliere un aspetto ulteriore del peso generazionale. Esso riguarda infatti
sia la numerosità demografica che l’estensione su scala planetaria, fra locale e globale. Il primo elemento riguarda la generazione in sé, in quanto appunto generata, senza propria responsabilità, ma per effetto del comportamento procreativo della generazione precedente (la quale generazione si
assume anche il compito della cura dei figli, e quindi incide generazionalmente sul loro orientamento). Il secondo elemento, invece, vede per certo i
media fra i propri protagonisti. Sono essi, infatti, a sviluppare nella generazione il senso della propria estensione geografica, a consentire ad essa il
rispecchiamento e il riconoscimento. Si tratta di un ottimo esempio di come
il ruolo dei media possa essere considerato saldamente imbricato nella costruzione stessa delle generazioni.
1.3. Prospettive
Abbiamo dunque osservato che il fatto sociale “generazione” può essere
osservato dalla sociologia sia in termini di regolarità che di eccezionalità.
Ciascuno dei due aspetti deriva evidentemente dalla correlazione di fatti
diversi, anche se bisogna dire che il ruolo dei media tende ad emergere so-
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Sulla vicenda di Vermicino è fiorita una vasta letteratura. Qui basti citare Gamba 2007.
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prattutto laddove si voglia sottolineare la natura specifica e differenziale di
una generazione sulle altre. In effetti, i media partecipano alla diffusione
degli eventi storici, e ancor di più, essi stessi possono costituire, su una scala minore, eventi, nel senso che la stessa comparsa di una tecnologia mediatica, di una specifica configurazione del sistema dei media e così via può
essere considerata un evento storico che entro certi limiti plasma una generazione, per esempio costituendosi come importante ricordo condiviso. Tuttavia, a questo punto diventa importante introdurre una nuova distinzione
nei modi in cui lo sguardo sociologico mette a fuoco le generazioni. Prendiamo un caso storico: la nascita delle emittenti radiofoniche indipendenti,
che in Europa avvenne fra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, in diverse
forme e con storie particolari in ogni Paese. Quell’avvento fu certo reso
possibile dall’innovazione tecnologica, dall’abbassamento dei costi delle
apparecchiature, da alcune falle negli apparati legislativi e istituzionali che
diedero la possibilità ad alcuni imprenditori, tecnici, DJ, musicisti e giornalisti di mettere in piedi una nuova offerta industriale “dal basso” per il pubblico giovanile. Quel pubblico si trovò dunque in una nuova posizione rispetto al panorama dei media, posizione che può essere descritta a partire
dalle novità nei panorami tecnologico, economico, giuridico, e dell’offerta
e la ricezione di contenuti culturali. Tutto questo emerge da una prospettiva
per così dire esogena, da un’osservazione dall’esterno. Ma se vogliamo
chiederci quanta importanza ebbe quella rivoluzione per quella generazione, dovremmo chiederci anche come le novità sono state vissute, utilizzate,
raccontate5. Potremmo allora anche assumere una prospettiva diversa, endogena o dall’interno, con risultati sorprendentemente diversi. L’esempio
che ho appena fatto delle emittenti radiofoniche indipendenti è interessante
perché ha dei punti di contatto con alcune delle innovazioni rese possibili
dal digitale: penso alla blogosfera, ai social networks, alle varie applicazioni della wikilogic, in cui evidentemente bassi costi, superamento dei tradizionali constraints legali e nuovi modelli di business sono all’opera. Può
essere insomma interessante chiedersi perché nessuno abbia definito i giovani degli anni sessanta e settanta una radio generation, mentre si può immaginare di usare il termine internet generation. Una possibile risposta risiede nella distinzione tra le due prospettive che ho appena citato: quella
esterna e quella interna.
Abbiamo già sfiorato il tema della prospettiva esterna, soprattutto a proposito della descrizione degli eventi che possono essere considerati capaci
di influenzare una svolta generazionale. Essenzialmente, abbiamo detto, essi possono avere dimensioni diverse, da quella assolutamente globale (un
buon esempio è la caduta del Muro di Berlino del 1989) a quella rigorosa-
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Per le narrazioni di questo periodo, con cadenze diverse da Paese a Paese, si vedano
per esempio i film Radiofreccia (Italia 1998, di Luciano Ligabue) e I love radio rock (UK
2009, di Richard Curtis).
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mente locale (per esempio in Italia il rapimento e l’uccisione di un importante uomo politico come Aldo Moro nel 1978), ma ciò che conta è l’idea
che fatti esterni possano condizionare e, entro certi limiti, costruire una generazione. Come abbiamo già ricordato, i media svolgono in questo caso un
compito apparentemente puramente strumentale. La diversità dei vissuti
emotivi collettivi dipende certo anche dalla struttura dei sistemi mediatici,
perché abitualmente noi leghiamo ciò che veniamo a sapere alla voce di chi
ce lo racconta, e alle circostanze del racconto. Ci sono differenze dunque, e
piuttosto rilevanti, fra assistere a un media event come l’allunaggio del
1969 o il matrimonio di Carlo e Diana, o apprendere un fatto di dimensione
planetaria imprevisto, come l’uccisione del presidente Kennedy, la Caduta
del Muro di Berlino nel 1989 o la distruzione delle torri gemelle l’11 settembre 2001. Ma fra i tre ultimi casi citati vi sono differenze sostanziali
anche nella disponibilità di apparati mediatici e nella loro configurazione,
visto che l’11 settembre è certamente il primo evento di assoluta rilevanza
storica in cui il ruolo di internet gioca una parte fondamentale dal punto
di vista dell’accelerazione dell’informazione e della sua diffusione.
D’altronde, accade anche che la memoria generazionale poggi su emotività collettive differenti per generazioni. Questo spiega, per esempio, perché nelle mappe presentate da Rossi e Stefanelli nel saggio in questo volume le memorizzazioni da parte delle diverse generazioni dello stesso decennio (gli anni Ottanta) presentino differenze rilevanti, a testimonianza
che le differenti coorti hanno assegnato valori di memorabilità diversi agli
stessi eventi e oggetti culturali vissuti da ciascuna coorte in stagioni differenti della propria vita (maturità, giovinezza, infanzia...).
Come ho già ricordato, la dimensione della trasmissione dell’evento (e
anche quella della sua costruzione o co-costruzione, come nel caso dei media events) è solo una delle sfaccettature da cui è possibile osservare
l’identità generazionale “dall’esterno”. Un’altra, altrettanto interessante, è
costituita dall’ambiente di coltura della generazione, inteso come l’insieme
dei fattori ambientali, nel privato e nel pubblico, che i soggetti della medesima generazione esperiscono e condividono.
Questi fattori sono ovviamente di natura sia strutturale che culturale. Per
esempio, la crisi del welfare o la riforma del mercato del lavoro, con la loro
capacità di incidere in modo specifico su alcune generazioni più che su altre (le più anziane nel primo caso, le più giovani nel secondo) sono probabilmente determinanti nel favorire un certo specifico sentiment nelle diverse coorti di età. Questo significa anche collaborare alla costruzione generazionale attraverso la modifica della percezione del proprio futuro. I cambiamenti istituzionali e politici sono un altro di questi fattori. Al di là del
ruolo di spartiacque epocale della caduta del muro di Berlino, è ovvio che
una generazione cresciuta durante la Guerra Fredda guarderà il mondo da
una prospettiva assai diversa di una che non l’ha mai conosciuta e la ap24
prende (quando la apprende) sui libri di scuola o attraverso i racconti dei
più anziani.
I cambiamenti e le specificità del panorama sociale in cui si vive la propria giovinezza si possono verificare anche a livello della vita e della cultura quotidiane, passando, per così dire, da una dimensione macro a una microsociale. Anche qui, alcuni esiti empirici aiutano a collocare questa dimensione dei media (nel caso specifico intesi come strumenti di conoscenza e narratori del mondo) nella più complessa mediazione culturale che colloca il soggetto contemporaneamente nella sua identità collettiva e nel proprio tempo. In particolare, una serie di acquisizioni che derivano sia dalla
ricerca presentata in questo volume sia da altre ricerche precedenti (Aroldi,
Colombo 2003 e 2007a), mostrano ad abundantiam l’incredibile capacità
correttiva delle memorie generazionali, che spesso alterano il vissuto storico a partire da bias condivisi – appunto – con le coorti di età di appartenenza. Rimando qui alle fonti per indicazioni più precise. Tuttavia vale la pena
di segnalare che le origini di questi bias possono consistere:
a) per le vicende storiche, in classici bias mediatici (la ricostruzione della
vicenda di Ermanno Lavorini, bambino ucciso a Viareggio alla fine degli anni Sessanta, e allora presentata dai media come un caso di pedofilia, e così rimasto nella memoria dei bambini di allora una volta divenuti adulti, a dispetto di una sentenza definitiva che ha ricostruito una
vicenda molto diversa: Colombo 2008);
b) ancora per le vicende storiche, in alcune inattualità dei fatti (eventi legati per esempio al fenomeno terroristico, collocato negli anni Settanta,
i cosiddetti anni di piombo, anche se svoltisi, per esempio, dopo). In
questi casi il bias è prodotto ragionevolmente da definizioni sociali dei
periodi storici come time boxes (nell’esempio citato, il terrorismo è
collocato dalla memoria condivisa negli anni Settanta), cui i media partecipano;
c) per i prodotti dei media, in bias relativi alla ripetizione di messe in onda, che rendono alcuni prodotti (per esempio la serie televisiva Happy
Days) parte della memoria di diverse generazioni.
Questo segnale costituisce la preziosa indicazione che una semplice ricostruzione storica non può essere ritenuta sufficiente a definire le memorie
generazionali, giacché i punti di vista endogeni delle generazioni sono in
grado di plasmare per così dire il passato a misura della propria appartenenza, e non solo il contrario.
Pensiamo, nel caso dei baby boomers, alla camera dedicata ai bambini,
o a certi di tipi di bicicletta, o più in generale all’esistenza di certi mezzi di
trasporto pubblico o privato, al design, eccetera. In questa accezione i media sono parte del paesaggio quotidiano, sia per quanto concerne la dimensione pubblica che per quella privata. Pensiamo da un lato al diverso “peso” dei diversi media in fasi diverse, con differenti intrecci fra i media stes25
si. Negli anni Sessanta in Europa il mix cinema televisione fu certamente
essenziale come esperienza di vita quotidiana dei minori. D’altronde le sale
cinematografiche erano assai diverse da quelle attuali, e la loro peculiare
conformazione, le ritualità della loro frequentazione, ben descritte nel film
di Tornatore Nuovo cinema Paradiso (Italia 1988), fanno certamente parte
dell’identità generazionale del loro allora giovane pubblico. D’altronde, la
Televisione era a uno stadio di sviluppo tecnologico primitivo, in bianco e
nero, con una limitata disponibilità di programmi e con un design piuttosto
tradizionale, tendente a integrare l’apparecchio nel mobilio del salotto. Più
tardi, negli anni Ottanta, il ruolo della televisione mutò radicalmente, e
d’altronde il nuovo design degli apparecchi, il colore, la maggiore disponibilità di canali e programmi appartengono con forza alla memoria e
all’identità dei giovani di quegli anni. Proprio in quel periodo il cinema subisce una trasformazione (grandi film spettacolari, prime grandi innovazioni nei sistemi audio), e l’equilibrio fra i due media cambia. Ad essi inoltre
si aggiungono le console per i videogiochi come nuova componente degli
arredi di vita quotidiana. Oggi, cinema e Tv appaiono completamente trasformati (il cinema dalle multisale, dalla continua integrazione tecnologica,
da una fortissima rinascita di pubblico giovanile; la Tv dalla digitalizzazione e dalla sfida dei nuovi portali sul web) e internet stessa si è imposta come un nuovo medium, accanto al telefono cellulare, mentre la rincorsa dei
videogames non si ferma, anzi esplode con sempre maggior forza. È naturale rilevare che l’incidenza dei media nell’ambiente domestico collabora
alla costruzione di una sorta di panorama familiare e collettivo che si trasforma in un’abitudine percettiva prima, e in una memoria condivisa poi.
Ho insistito prima sul ruolo dei rituali, sottolineando soprattutto quelli
relativi al cinema e alla Tv, ossia alla fruizione dei media. Ma non bisogna
sottovalutare i rituali relativi ai media che presiedono alla comunicazione
interpersonale, dalla telefonia fissa a quella mobile, per spingersi fino ai
servizi di messaggeria e ai social networks. Anche in questo caso possiamo
rilevare il codificarsi di abitudini, di una sorta di familiarità con certi usi
tecnologici. Si tratta di ciò che il marketing indica con le proprie definizioni “deterministiche”? Molto probabilmente no, per diverse ragioni, di cui
vale la pena ricordare le due principali. In primo luogo perché queste ritualità (per esempio nella definizione del confine fra pubblico e privato, nelle
regole di cortesia, nel senso del valore della proprietà intellettuale…) dipendono da una serie molto complessa di fattori, di cui la presenza di una
certa tecnologia non costituisce che un elemento. Le ritualità telefoniche,
per esempio, dipendono in larga parte da fattori culturali complessi, alcuni
dei quali riguardano le culture nazionali più che quelle generazionali. Se in
Europa i teens usano i loro cellulari soprattutto per la comunicazione fra
coetanei e in Corea per la comunicazione con i genitori, per esempio, è
chiaro che i dispositivi non hanno in sé una forza propria, ma devono inve26
ce integrarsi nella complessità delle identità culturali cui ciascuno appartiene (Thomas et al. 2005).
In secondo luogo, le ritualità sociali si codificano come abitudine generazionale quando la generazione si riconosce come tale, non nella fase della
sua formazione. In altre parole: i giovani che usano internet, che costruiscono attraverso di essa certe ritualità condizionate dalle loro appartenenze
multiple (gender, censo, territorio, culture e subculture…), riconosceranno
il proprio uso di internet come specifico solo in una seconda fase, quando –
guardando al proprio passato formativo - cominceranno a guardare a se
stessi come a una generazione. Allora, probabilmente, la ricostruzione del
loro uso della rete sarà diversa da quella che altre generazioni, osservando
al presente ciò che i giovani fanno, colgono come peculiarità. Questo punto
è molto importante, perché introduce un ulteriore passaggio del mio discorso, relativo alla prospettiva dall’interno, così importante nella valutazione
della generazione come fatto sociale.
La recente riflessione sociologica sulle generazioni insiste sul we-sense,
ossia su quell’insieme di sentimenti, contenuti, auto definizioni che sono
condivise dai membri di questa identità collettiva. Questo we-sense interagisce con le definizioni esterne, date da altri gruppi sociali (altre generazioni), dalle istituzioni, dal marketing delle aziende e dai media. È difficile
non riconoscere, per esempio, la natura profondamente generazionale di un
film come The big chill (Usa 1983, di Lawrence Kasdan), che non solo parla di una generazione americana, ma anche si rivolge in qualche modo ad
essa, con un messaggio autoriflessivo. D’altronde, questo richiamo generazionale si ritrova molto in prodotti culturali come la canzone, e qui vale la
pena di ricordare un testo importante come My generation (1965), degli
Who:
People try to put us d-down (Talkin' 'bout my generation)
Just because we get around (Talkin' 'bout my generation)
Things they do look awful c-c-cold (Talkin' 'bout my generation)
I hope I die before I get old (Talkin' 'bout my generation)
This is my generation
This is my generation, baby
Why don't you all f-fade away (Talkin' 'bout my generation)
And don't try to dig what we all s-s-say (Talkin' 'bout my generation)
I'm not trying to cause a big s-s-sensation (Talkin' 'bout my generation)
I'm just talkin' 'bout my g-g-g-generation (Talkin' 'bout my generation)
This is my generation
This is my generation, baby
La capacità di una generazione di raccontarsi è ovviamente cruciale nel
rendere possibile la sua osservabilità sociologica in termini di prospettiva
endogena. Solo attraverso l’autonarrazione possiamo cogliere il we-sense.
27
Anzi, dovremmo dire che dal punto di vista sociologico il we-sense esiste
solo nell’autonarrazione generazionale.
Nel 2008 ho pubblicato un libro, intitolato Boom. Storia di quelli che
non hanno fatto il 68, frutto di una serie di interviste ai miei coetanei (appartengo in effetti a quella generazione). Le interviste hanno spesso assunto
la forma di vere e proprie narrazioni, e mi ha sorpreso accorgermi che persino gli stili narrativi dei vari soggetti avevano dei punti in comune. Per
presentare il volume, ho tenuto delle letture pubbliche, accompagnato da tre
amici, un musicista e due attori. Il primo eseguiva canzoni e temi tipici della nostra adolescenza e giovinezza. Gli altri due leggevano brani di testi di
autori generazionali o riferiti ad eventi generazionali. Queste performances
hanno provocato un’altra ondata di autoracconti, confessioni, commenti,
con cui avrei potuto scrivere un nuovo libro. Il motivo per cui ho reso pubblica questa tranche de vie è far capire che la capacità di raccontarsi di una
generazione da un lato manifesta in modo compiuto il suo we sense,
dall’altro è interrelata con l’esistenza di narrazioni “pubbliche” - come romanzi, film, canzoni e quant’altro – che danno ai membri della coorte la
possibilità di riconoscersi e di aderire. L’intervento di Francesca Pasquali
in questo volume sottolinea d’altronde le complessità inevitabili di qualunque tentativo di definizione di letterature “generazionali”. Gli autori individuati come esemplari di una generazione “Anni Ottanta” rifiutano naturalmente l’etichetta, anche se i loro lavori possono in qualche modo essere
raggruppati in base a un’attenzione ai temi e agli stili, oltre che ai contenuti
in senso stretto del racconto. Ma ciò che conta – si può forse dire – è cogliere la relazione stretta fra l’identità generazionale e la narrazione, nel
senso che quest’ultima svolge un ruolo essenziale nella costruzione del wesense, nel caso delle generazioni come in ogni altro tipo di identità collettiva. Ciò che è in gioco, cioè, è la metabolizzazione di un’esperienza comune
che viene descritta e ri-costruita in un immaginario condiviso. E qui è importante cogliere due distinzioni fondamentali. La prima riguarda
l’ambigua definizione di “narrazioni generazionali”. Tale definizione può
contenere un genitivo soggettivo, e quindi essere operata da soggetti pienamente e consapevolmente inseriti in una generazione; o un genitivo oggettivo, e in questo senso la generazione è la protagonista o lo sfondo della
narrazione stessa. Infine, la generazione può anche essere semplicemente
destinataria della narrazione, come avviene nel caso di quelli che potremmo
definire “successi generazionali”.
Con questo termine possiamo indicare la grande diffusione di prodotti di
consumo il cui pubblico è eminentemente riconoscibile in una coorte di età.
Laddove questi prodotti siano prodotti culturali (film, libri, fiction televisive, fumetti, canzoni, e così via), possiamo ritenere che essi producano una
forma (più o meno parziale) di rispecchiamento, e anche di autoriflessione:
insomma, rendano possibile a persone della medesima coorte di età di pro28
nunciare quel “noi” che costituisce appunto il passaggio essenziale per la
nascita di una generazione. È del tutto ovvio che l’industria culturale utilizza strumentalmente queste possibilità di rispecchiamento e il fascino che il
meccanismo può esercitare. Ne è una prova lampante la specializzazione di
una produzione culturale per teens, come ad esempio la recente filiera di
Twilights (libri, film, merchandising, diffusione virale, eccetera). Così come ne sono una prova le tante icone giovanili che lo show business ha costruito più o meno a tavolino nella sua storia, da James Dean a Britney
Spears (con le debite differenze). Tuttavia, la produzione culturale – anche
quella industriale – non deve i suoi effetti soltanto alla straordinaria macchina in grado di cogliere la domanda del suo pubblico e di realizzarne le
aspettative. Accade anche che essa intercetti quasi casualmente delle istanze che sono presenti, anche se sopite, e che l’offerta culturale riesce a rappresentare. Si noti che nei casi citati (perfettamente congruenti con la prospettiva del marketing, che ho analizzato in apertura di questo saggio), è
soprattutto la generazione adolescente, o meglio ancora la coorte d’età adolescente, trattata dal marketing come una generazione di consumatori. Il
processo non attinge dunque a fondo alla generazionalità come identità,
quanto piuttosto alla condivisione di tratti comuni da parte di un target. Lo
studio qui pubblicato di Brodesco, Giovanetti e Zanatta mostra il medesimo
meccanismo all’interno della chick lit intesa come genere letterario. In quel
caso è possibile cogliere i riferimenti alla trasformazione generazionale delle lettrici, senza tuttavia che quella generazionalità sia colta se non come
insieme di tratti utilizzabili nella produzione della merce culturale come
“ganci” comunicativi.
Al di là delle precisazioni, comunque, la difficoltà di valutare l’equilibrio
tra strategie di marketing culturale e autentico autoriconoscimento consiste
nella natura generazionalmente ambigua degli adolescenti di tutte le epoche. Essi infatti – come ho accennato sopra - non costituiscono ancora una
generazione compiuta, ma solo – per così dire – una “promessa di generazione”, che si andrà costituendo nel tempo. Ciò che infatti manca, nella
produzione culturale per adolescenti, è proprio la voce degli adolescenti,
che sono ancora ai margini di essa: non scrivono libri, non producono film,
non parlano alla radio. Sono consumatori, ma non produttori. Non a caso,
qualche studioso, ricostruendo la nascita dell’attenzione istituzionale e
scientifica all’adolescenza, ha parlato di “invenzione dei giovani” come di
un effetto dei discorsi e dell’organizzazione sociale (cfr. per esempio Savage 2007).
Il rispecchiamento degli adolescenti nei prodotti che la produzione culturale dedica loro appare dunque in genere passivo. Ben diversa è la vicenda delle generazioni compiute, che spesso hanno dei cantori che si interrogano sulla propria appartenenza. Torniamo qui alle altre forme di narrazione generazionale cui facevo riferimento sopra: quella dei cantori di una ge29
nerazione nel doppio senso di “appartenenti a” e “narranti la” propria generazione. Le due prospettive si incontrano sovente: lo abbiamo già visto a
proposito del film Il Grande Freddo o della canzone degli Who. La canzone, la letteratura e il cinema italiano offrono ottimi esempi. Si pensi in letteratura alla narrazione degli anni Ottanta come luogo della progressiva perdizione presente in Silvia Ballestra o in Nicola Lagioia, in cui gli anni Ottanta di una o più generazioni vengono raccontate con una prospettiva interna, farcita di ricordi mediatici. O all’edizione filmica di La solitudine dei
numeri primi di Saverio Costanzo (Italia 2010, dal romanzo omonimo di
Paolo Giordano, 2008), in cui un’aggiunta non irrilevante alla narrazione
riguarda proprio un episodio di fruizione mediatica apparentemente insignificante come una puntata di Lady Oscar, serie d’animazione giapponese
sugli schermi italiani appunto in quegli anni. E, venendo al cinema, si pensi
a un film come Il grande Blek (Italia 1987, di Giuseppe Piccioni), che ricostruisce con malinconia la stagione movimentista in una città del centro Italia. Il lato interessante di tutte queste forme narrative è che un soggetto appartenente a una certa generazione, giunto alla fase matura, ricostruisce il
percorso suo e di tutta la generazione durante la fase formativa, quindi nel
passato. È uno sguardo che ingloba il tempo sotto il profilo generazionale,
costruendo quel senso che solo può essere alla base di ogni identità collettiva.
Da questo punto di vista l’esempio perfetto si può forse trovare in una
esplicita invettiva generazionale e autoriflessiva scritta da Giorgio Gaber e
Sandro Leporini, e cantata dal primo nel 2001. La canzone si intitola Razza
in estinzione, e riflette amaramente sui reduci di quella generazione già
cantata dagli Who. Eccone un brano:
La mia generazione ha visto
migliaia di ragazzi pronti a tutto
che stavano cercando
magari con un po' di presunzione
di cambiare il mondo
possiamo raccontarlo ai figli
senza alcun rimorso
ma la mia generazione ha perso
Ho parlato in precedenza di una doppia ambiguità della narrazione generazionale. È ora arrivato il momento di definirla. Essa riguarda il mandato a narrare, ossia il ruolo che una generazione attribuisce ad alcuni “cantori” di se stessa. Tutti gli esempi portati sin qui sembrano suffragare
l’esistenza di “bardi” generazionali, in nome di una sorta di specializzazione di alcune figure più o meno tradizionali. D’altronde non vi è dubbio che
l’esistenza di figure-simbolo agevoli una sorta di identificazione collettiva,
come accade per alcuni fenomeni di divismo. E tuttavia, c’è da chiedersi se
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davvero questo modello sia fondato. Esso infatti deriva in larga parte dal
paradosso tipico delle forme letterarie, per cui una determinata forma di visibilità sociale rende alcune figure autoriali e alcune opere rappresentanti
esclusive di un tempo e uno spazio dati. Vi è in fondo, invece, tutta una
complessa rete di figure e narrazioni che incarnano la generazione cui appartengono, e c’è da credere che il potenziale narrativo presente nei discorsi
sociali (per esempio nelle ricorrenze con cui nonni e genitori raccontano le
proprie esperienze storiche a nipoti e figli) sia molto più elevato di quanto
non appaia.
L’ambiguità di cui si parla qui riguarda allora da vicino una teoria delle
generazioni e del loro rapporto con i media, perché da un lato essa deve riguardare il we sense di una larga comunità, dall’altra sembra destinata a
coglierlo soltanto attraverso le narrazioni emergenti anche e soprattutto attraverso i media.
La ricerca da cui questo volume prende le mosse mostra tuttavia una
possibile via d’uscita da questo cul de sac. Da un lato infatti, la metodologia di ascolto costituita dai focus groups e dalle interviste (e più in generale
dai vari tipi di etnografia) ha permesso di attivare in modo relativamente
naturale il rapporto fra coscienza generazionale e esperienze individuali,
ottenendo (come dimostrato nel saggio di Rossi e Stefanelli) a partire dal
racconto storico-esperienziale una progressiva focalizzazione dell’identità
generazionale. In secondo luogo, un monitoraggio dei social media ha consentito di assistere all’emergere di forme di appartenenza che si codificano
nel ricorso a contenuti e prassi formulaici, che a loro volta scorrono liberamente nelle conversazioni on line (come dimostrato qui nel saggio di Boccia Artieri). Viene da dire che per quanto concerne i media, non solo è possibile oggi cogliere, con le metodologie microsociali e l’esperienza
dell’audience research, i discorsi che non compaiono nella vetrina dei
grandi mezzi; ma ancor più a fondo, si può leggere nei nuovi media la manifestazione di una visibilità sociale dei processi di definizione delle generazioni come forse mai sinora era stato possibile osservare.
Dunque, le generazioni consolidate trovano nei media la possibilità di
prendere la parola attraverso alcuni propri rappresentanti, che possono produrre un rispecchiamento non “sintetico” o artificiale, ma basato sulla comune appartenenza fra scrittore e lettore, produttore e spettatore. Bisogna
dire che lo sviluppo del web 2.0, della produzione grassroots e dei social
networks ci mette da questo punto di vista di fronte a una svolta autentica.
Se l’autoproduzione adolescenziale era limitata fino a ieri nel campo del
privato, attraverso i diari, la socializzazione limitata, il passaparola, oggi
essa diviene visibile nella sfera pubblica, grazie ai bassi costi, alla semplicità d’uso delle tecnologie e alla diffusa alfabetizzazione digitale (molto
maggiore nelle coorti di età giovanili). Ecco dunque che la nuova autoespressività giovanile, la possibilità di condividere le proprie emozioni e i
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propri punti di vista costituisce forse il più autentico dei cambiamenti sotto
il profilo dell’appartenenza generazionale, permettendo l’ipotesi non già
che le future generazioni siano davvero determinate dalle tecnologie che
usano, quanto piuttosto che queste ultime abbiano aperto la porta a precoci
sentimenti di we sense e di condivisione. Il che non dice nulla sullo specifico identitario delle future generazioni, ma ci richiama al ruolo integrato dei
media nella loro costruzione. Un ruolo che, con il mutare delle opportunità
(offerte per esempio dalla diffusione della banda larga) non sembra separare nettamente le nuove generazioni dalle vecchie, ma anzi, in fondo le rende più simili, accelerando i processi definitori delle prime.
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