Rompere il vaso per amore del vaso: Ai Weiwei a Londra

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Rompere il vaso per amore del vaso: Ai Weiwei a Londra
Rompere il vaso per amore del vaso: Ai
Weiwei a Londra
- Stefano Jossa, LONDRA,11.10.2015
A Londra, Royal Academy, una personale dell'osannato artista cinese. L’iconoclastia di Ai
Weiwei non intende distruggere la storia cinese ma ri-significarla: al caos dispotico dell’oggi oppone
un impegno dello stile, insieme pop e colto, e del fare artigiano
In principio era la Cina: si tratta in verità di un ritorno, perché Ai Weiwei dalla Cina scappò a 24
anni nel 1981 e vi è tornato solo nel 1993 a 36 anni. Da allora, già ventidue anni di vita sua e di
storia umana, il suo obiettivo è stato ritrovare le origini, naturali e monumentali, di una cultura che
si è persa nella paura della censura e nell’omaggio al regime. Le sue opere dal ritorno a oggi sono
ora esposte alla Royal Academy of Arts di Londra, in una mostra che si propone di valorizzare
l’artista al di là dell’attività politica che l’ha reso famoso in tutto il mondo (Ai Weiwei, fino al 13
dicembre; catalogo con contributi di Tim Marlow, John Tancock, Daniel Rosbottom e Adrian Locke,
Royal Academy of Arts, pp. 240, £ 48,00): chi non ricorda la geniale trasformazione della canzone
più cafona del secolo, Gangnam style, in un geometrico e collettivo grido di protesta contro ogni
repressione della libertà di parola? Oppure il suo dito medio alzato sullo sfondo a distanza di una
spettrale piazza Tienanmen a Pechino?
Il doppio piano – pop e colto, ma anche antico e moderno, nonché naturale e tecnologico – è infatti
una costante nell’opera di Ai Weiwei, che sa sempre stare dentro e accanto alla sua opera, insieme
totalmente immerso e sapientemente distante: qui ci sono io, le mie radici, la mia storia, con tutta la
mia fisicità, il mio corpo, ma qui c’è anche una storia collettiva, di identità e perdita, che l’urgenza di
dirsi porta con sé e non può tuttavia schiacciare. La storia cinese non sarà più un peso, immobile e
soffocante, ma la materia di cui è fatta la vita quotidiana: la Cina è il letto su cui tutti giacciono,
legnoferro piallato e compattato per riprodurre su un piano a rilievo orografie e confini (Bed, 2004).
Qui i falegnami hanno lavorato con le loro mani prima di diventare operai tutti uguali grazie alla
rivoluzione culturale del 1966: restituire agli antichi mestieri la loro dignità preindustriale significa
certo rivendicare la priorità del corpo sulla macchina, in protesta contro la civiltà della tecnica, ma
anche riflettere sull’artigianato dell’opera d’arte, che è manufatto contenente l’idea anziché prodotto
dell’idea.
Umanizzando Duchamp, antiplatonico per vocazione, Ai Weiwei impiega carpentieri, fabbri e
falegnami nel suo laboratorio, ma chiede loro di confrontarsi con il prodotto da fare anziché con la
soluzione al problema compositivo: proibiti chiodi, viti e colla, il materiale si incastra a tenone e
mortasa, come ai vecchi tempi. Nessun rigurgito di ideologicissimo operaismo, però, antimoderno e
protocapitalistico: pezzi di templi abbandonati, dismessi o abbattuti della dinastia Qing riaffiorano
continuamente nelle sue opere, a marcare la transizione tra l’estetica cinese classica,
irrimediabilmente compromessa con il potere e la propaganda, eppure armoniosamente essenziale, e
l’estetica postmoderna, che ammassa e riusa le rovine come materiali da riporto piuttosto che
reliquie. Segnato dall’esperienza avanguardistica del gruppo pechinese Stars e dal passaggio
newyorkese tra 1981 e 1993, Ai Weiwei non può essere, né politicamente né esteticamente, un
nostalgico della Cina che fu: il culto della forma, che dà senso all’insieme, glorifica una poetica della
trasformazione e dell’inutile, alla cui base stanno geometrie primarie, astrazioni concettuali e
impraticabilità oggettive. Il tavolo con due gambe sul muro (1997) e le sedie riunite a grappolo a
formare un cerchio (Grapes, 2010) esaltano il nonsense e sfidano la gravità, facendo dell’opera
d’arte una provocazione assoluta alla società consumistica e alla conoscenza rassicurante. Se non
servono, gli oggetti significheranno: al contrario della pop art, che dà dignità all’oggetto,
l’esperienza di Ai Weiwei lo svincola dalla sua oggettualità e lo traspone sul piano di
un’interrogazione metafisica. Dall’essere prigioniero (gli ammassi di oggetti costretti a forma) si
sprigiona un’eccezionale energia creativa, che sfida la storia e la percezione con un gesto che chiede
di essere decostruito: al dolore non c’è consolazione, ma le barre d’acciaio raddrizzate e composte
orograficamente in un memorial per i 5196 caduti (tutti studenti) del terremoto nella provincia di
Sichuan nel 2008 (Straight, 2008-2012) ricordano la terribile complicità umana nelle conseguenze
delle catastrofi naturali. Erano tutte scuole, infatti, gli edifici che crollarono, circa cinquanta,
costruite malamente per motivi speculativi, le cosiddette «tofu-dregs constructions», edilizia a
rimasugli di tofu: da lì, dalle macerie, provengono le barre, che i lavoratori di Ai hanno riportato alla
forma originale. Il caos ridotto a ordine non ricompone, ma destabilizza e denuncia: un impegno
dello stile, che non è didascalica retorica, ma effetto, shock senza catarsi.
Armonioso (He Xie), parola-chiave della propaganda governativa cinese, è sinonimo di «granchi di
fiume», presso i quali Ai Weiwei invitò amici e seguaci a radunarsi per celebrare il completamento e
la demolizione dello studio a Malu Town che il governo di Shanghai gli aveva richiesto, ma il governo
federale aveva proibito e ordinato di distruggere: smontare la contraddizione ha prodotto un’urna
funeraria di 2 metri x 5 con i resti dei mattoni dopo la demolizione (He Xie, 2011). Vittima della
censura di regime, incarcerato per 81 giorni e privato di passaporto dall’aprile 2011 fino al luglio
2015, Ai Weiwei porta su di sé lo stigma della ribellione, perché suo padre, il grande poeta Ai Qing,
fu arrestato e perseguitato per aver difeso l’amico e scrittore Ding Ling dall’accusa di essere un
uomo di destra, contrario alla collettivizzazione e fautore del capitalismo, durante la grande
repressione del 1957-’59 (Weiwei era appena nato): di qui un vitalismo estremo, che lo ha portato a
sperimentare materiali straordinariamente vari (legno, ceramica, marmo su tutti) e linguaggi ormai
codificati (dalla performance pubblica all’istallazione museale) ma spinti al confine, in modo da
esplorare i margini di un’umanità che non conosce riscatto perché vive l’obbedienza come paura
anziché come scelta. Distruggere un vaso della dinastia Han, pitturargli sopra la scritta Coca-Cola e
rifarlo in ceramica ricoperta di acrilico sono lo stesso gesto iconoclasta, demistificante e
decostruttivo, di chi l’autorità è disposto ad assorbirla per metterla in questione, ma mai a subirla,
introiettandola senza farsene schiavo.
La carica politica è innegabile, ma appunto non passa solo attraverso i gesti scandalosi, l’attivismo
militante e la divulgazione ideologica: è piuttosto un atto formale, di chi sa guardare all’estetica
oltre che all’etica del messaggio. Dare forma significa far implodere dall’interno le contraddizioni
che quella forma, in condizioni abituali, cercherebbe di ricomporre o di nascondere: nessuna nuova
Cina esisterà se la vecchia Cina è ridotta in macerie, senza memoria e senza coraggio. Fino a
subirne la nemesi, perché tre anni fa, parodia della distruzione da lui operata, il collezionista
svizzero Uli Sigg distrusse la famosa Coca-Cola Urn di Ai, fotografato da Manuel Salvisberg per
Fragments of History, e l’anno scorso durante una mostra a Miami un vaso Han ridipinto da Ai fu
distrutto da un vandalo, con successiva condanna a diciotto mesi di carcere: fino a che punto
l’artista è legittimato a distruggere perché il suo gesto è significante, mentre l’uomo comune deve
solo osservare e contemplare? Il discrimine è nella percezione, che immette il primo gesto nella
tradizione e costringe il secondo all’attualità; ma forse non basta.
Gigantesco nelle dimensioni e scandalistico nelle provocazioni, Ai Weiwei è e resta assolutamente
cinese, e in questo essere cinese è mondiale: stare a casa, nella terra e nella cultura in cui si è nati,
significa attraversarne i frammenti del passato e ricomporli per l’oggi. I confini si oltrepassano
accettandoli e le diversità convivono solo se coesistono: l’ingresso di oggetti domestici (una poltrona
in marmo nero in una foresta di alberi oppure un passeggino in un marmoreo prato d’erba alta)
ricorda come gli imperatori costruivano l’immagine del potere mostrando oggetti di uso comune in
materiali preziosi. Sdoppiarsi per guardare dall’altro punto di vista, sempre: un lampadario la cui
montatura è costituita da telai di biciclette chiude la mostra, a unire memoria storica e cultura di
massa in un abbraccio che illumina, bello e razionale.
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