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RASSEGNA STAMPA
mercoledì 11 marzo 2015
L’ARCI SUI MEDIA
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
WELFARE E SOCIETA’
DIRITTI CIVILI
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da CinemaItaliano del 10/03/15
"N-Capace" ad Astradoc
"N-Capace" ad Astradoc Proseguono con grande successo di pubblico gli appuntamenti
del venerdì sera al cinema Astra di via Mezzocannone con Astradoc 2015 – Viaggio del
Cinema del Reale, rassegna sul documentario d’autore a cura di Arci Movie e Parallelo 41
Produzioni in collaborazione con Università degli Studi di Napoli Federico II e COINOR.
Venerdì 13 marzo, sempre alle 21.00, in anteprima nazionale a Napoli,
N-CAPACE di Eleonora Danco, premiato al 32° Torino Film Festival con una menzione
speciale della Giuria. Autrice, regista, attrice, performer, Eleonora Danco, che ha scritto
diretto e interpretato il film, sarà presente in sala per salutare il pubblico.
Prodotto e distribuito da Bibi Film in collaborazione con Rai Cinema,
N-CAPACE racconta di una donna, un’anima in pena, che si aggira tra Roma e Terracina,
dove vive l'anziano padre. Vaga tra campagne, mare e città, con un letto e in pigiama.
Spesso con un piccone in mano, vorrebbe distruggere la nuova architettura che ha tradito i
suoi ricordi.
Il rapporto con il tempo e la memoria è motivo di struggimento per lei, unico personaggio
lucido del film, il più sofferente. Comunica solo con adolescenti e anziani, compreso suo
padre, interrogandoli sull’infanzia, la morte, il sesso, attraverso delle provocazioni, degli
stimoli, anche fisici.
Il corpo e i luoghi diventano sogni, incubi, ricordi. Una intimità tanto personale quanto
universale.
Da Adn Kronos dell’11/03/15
Festival nazionale teatro spontaneo: XX
edizione
Il Festival Nazionale di Teatro Spontaneo, la manifestazione teatrale che caratterizza la
primavera aretina, nella sua XX edizione, regalerà agli amanti del palcoscenico spettacoli
di alta qualità artistica, grazie a compagnie provenienti da molte regioni italiane: Lazio,
Veneto, Marche, Toscana e Campania. “Da un felice intuizione oramai del 1996 - ha
sottolineato l'assessore Barbara Bennati - è nata questa manifestazione per promuovere
esperienze di teatro popolare. L'aspetto più innovativo è stato fin da subito quello di uscire
dalla consuetudine di fare teatro a teatro a favore di spettacoli diretti a una platea più vasta
possibile, dai giovani ai meno giovani, dalle casalinghe alle famiglie. È oramai un evento di
tutta la città che rilancia il ruolo dei centri di aggregazione sociale che dopo la fine delle
circoscrizioni si pongono come spazi essenziali della vita comunitaria”. “Lo sforzo per il
centro di aggregazione sociale - hanno dichiarato il suo rappresentante Franco Guidelli e
Donato Caporali dell'Arci - è enorme, anche economico. Il centro non ha grandi risorse,
ma le convogliamo tutte in questo evento per il quale, attualmente, lavorano 68 persone”.
Il direttore artistico Sandra Guidelli: “otto le serate a concorso ma undici gli spettacoli: dal
teatro sociale al dialetto chianino. Chi porta i classici, potrà pure chiamarsi 'compagnia
dilettantistica' ma poi dimostra una qualità da poter competere con i professionisti.
L'aspetto artistico è importante ma ricordo che con questo evento, in questi due decenni,
si è creato un pubblico di cittadini disponibili all'ascolto. Dunque, buon teatro a tutti”.
Anche quest’anno il Festival sarà a ingresso gratuito e si svolgerà ogni venerdì alle 21,15
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al Centro di Aggregazione Sociale Fiorentina, Via Vecchia 11 (dentro porta San
Clemente). Otto saranno le compagnie in gara che si contenderanno il premio per il miglior
spettacolo in lingua italiana e in vernacolo, oltre ai premi per il miglior attore e la migliore
attrice decisi dalla giuria di esperti. Altri ambiti premi sono quello di gradimento del
pubblico e quello alla regia dedicati rispettivamente a due pilastri della manifestazione:
Mauro Nocentini e Attilio Vergni, morto prematuramente lo scorso anno. Molte delle opere
a concorso sono frutto di drammaturghi contemporanei italiani, caratterizzati da un forte
senso dello humour, come Antonella Zucchini, Bruno Alvino, Pietro Romagnoli e Gaetano
Troiano - gli ultimi tre sono anche registi - e di stranieri di fama mondiale quali Pascal
Quignard e Roger Ruef. Non potevano mancare autori classici come Eduardo De Filippo
con “Natale in casa Cupiello” (venerdì 24 aprile) e Victor Hugo con “Notre Dame de Paris”,
da cui la bravissima Roberta Costantini ha tratto l’imperdibile spettacolo “La Cattedrale”
(venerdì 15 maggio), vincitore di numerosi riconoscimenti internazionali. Il Festival è già
partito con due serate fuori concorso, dedicate al teatro sociale con la compagnia di
ragazzi e adulti, diversamente abili e non, “I Contaminati” di Barbara Peruzzi e con una
versione della “Mandragola” di Machiavelli, tradotta in dialetto chianino da Giulio Vignoli,
regista della compagnia di Montagnano. Terminerà il 22 maggio con la serata di
premiazione, presentata dal giornalista Luca Caneschi, dal presidente Sergio Franchi e
dalla direttrice artistica Sandra Guidelli. Durante la festa finale si esibirà la Compagnia
Primancera, diretta da Moreno Betti, nello spettacolo “Le comiche”, testi di Eduardo de
Filippo, Lunari, Wolinsky, Claude Bretecher, Fabrizi, Pietro de Vico, Nino Taranto.
Prossimo appuntamento: venerdì 13 marzo. Una cicogna che tarda a portare i suoi frutti, i
malevoli pettegolezzi dei paesani curiosi, vecchi screzi familiari che tornano a
riaccendersi, il tutto condito dalla irresistibile simpatia del dialetto maceratese: ecco gli
ingredienti dello spettacolo “Che carogna la cicogna!” messo in scena dalla compagnia
Teatrale G. Lucaroni di Mogliano (Mc). Le altre date, oltre a quelle suddette, sono: venerdì
20 marzo con “La panacea di tutti i mali” di Antonella Zucchini, regia di Michele Coppelli.
Venerdì 27 marzo, “Nun la voglio mmaretà!” di Gaetano Troiano, che firma pure la regia.
Venerdì 10 aprile, “E tutti risero felici e contenti”, di Bruno Alvino, che è anche regista.
Venerdì 17 aprile, “Hospitality suite” di Roger Rueff, regia di Antonio Moselei e Bruno
Alvino. Venerdì 8 maggio, “Una pura formalità” di Pascal Quignard, regia di Alfredo
Scarpato.
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ESTERI
dell’11/03/15, pag. 1/33
Lettera a Teheran
Lo sgambetto dei repubblicani al presidente
Indegno, mai visto niente di simile nei 36 anni che ho passato al Senato: le parole
durissime del vicepresidente Joe Biden riflettono l’umore furibondo della Casa Bianca per
la lettera aperta che 47 senatori repubblicani hanno inviato al regime di Teheran con
l’obiettivo esplicito di far fallire i negoziati Usa-Iran sul nucleare. Per loro Obama non può
siglare accordi non concordati con le Camere. Falso, replica Biden: quando Nixon
riconobbe la Cina e poi per la fine della guerra in Vietnam e il rilascio degli ostaggi detenuti
in Iran, l’America ha preso impegni senza un voto del Congresso. Ma è di inaudita
violenza anche la replica da destra: i veti incrociati che bloccano da anni la politica interna
Usa rischiano ora di paralizzare anche le iniziative internazionali di Washington.
Sono anni che i repubblicani costringono la Casa Bianca a combattere una guerra di
trincea su tutte le questioni interne, a cominciare dalla riforma sanitaria che la destra ha
cercato di bloccare in ogni modo anche dopo la sua attuazione: interventi del Congresso,
dei governatori dei singoli Stati e anche dei magistrati conservatori.
Sulla politica estera, però, Barack Obama ha sempre goduto di maggiore autonomia sia
perché quella della sicurezza nazionale è una responsabilità ampiamente affidata, nel
sistema costituzionale Usa, alla presidenza, sia perché almeno a livello internazionale la
superpotenza ha cercato, almeno fino a due anni fa, di mostrarsi compatta.
Le cose sono cambiate col ritiro Usa da Iraq e Afghanistan, le incertezze di Barack Obama
nella crisi siriana, l’emergere della minaccia dello Stato islamico e, soprattutto, col
negoziato con l’Iran sul nucleare che, secondo i conservatori, rischia di consentire a
Teheran di dotarsi, tra qualche anno, di armi atomiche: una trattativa condivisa dalle
capitali occidentali, dalla Russia e dalla Cina, ma avversata, oltre che dai Paesi arabi
sunniti, dal governo israeliano di Benjamin Netanyahu che parla di minaccia mortale.
Una lettera davvero illegittima e senza precedenti, quella dei 47 senatori? In realtà, come
detto, i repubblicani da tempo hanno messo in piedi una sorta di diplomazia parallela a
quella della Casa Bianca: basti pensare ai tanti viaggi di John McCain in Medio Oriente
per cercare di aiutare i ribelli siriani anti-Assad che la Casa Bianca, pur ostile al dittatore di
Damasco, non ha mai voluto armare.
Ma gli atti clamorosi delle ultime settimane — prima l’invito a Netanyahu a parlare davanti
al Congresso all’insaputa del presidente degli Stati Uniti, poi la lettera mirante a far fallire
un negoziato internazionale — rappresentano di certo un salto di qualità inquietante.
Senza precedenti? Su questo i pareri possono divergere. I repubblicani, ad esempio,
ricordano che nel 2006, riconquistata la Camera, la speaker democratica Nancy Pelosi
promise di costringere il presidente Bush a ritirare le truppe dall’Iraq. L’anno dopo Pelosi
— sarcasticamente chiamata dai conservatori «general Pelosi» — andò, contro la volontà
della Casa Bianca, a Damasco a negoziare con Assad (che allora i democratici volevano
coinvolgere in una soluzione per l’Iraq, mentre Bush lo voleva isolare).
Ci sono anche altri precedenti, dal conflitto del Kosovo (il Congresso vietò a Bill Clinton di
mettere truppe in campo) al blocco degli aiuti di Reagan ai Contras in Nicaragua (un voto
parlamentare del 1987, aggirato dal governo di allora con atti che portarono allo scandalo
Iran-Contra).
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La differenza, stavolta, è che la lettera, più che a incidere su un negoziato specifico,
sembra destinata, col suo linguaggio che trasuda disprezzo nei confronti del presidente, a
minare il ruolo della Casa Bianca in una fase diplomatica delicatissima.
Un precedente assai grave per la credibilità negoziale degli Usa, già messa in dubbio in
altre trattative recenti come quelle per gli accordi di libero scambio.
dell’11/03/15, pag. 14
Iran, la destra Usa boicotta Obama
La rabbia della Casa Bianca per la lettera dei senatori repubblicani a
Teheran
DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK «Delle due l’una: o i repubblicani volevano aiutare gli
ayatollah nella trattativa Usa-Iran sul nucleare o volevano minare la posizione del
commander-in-chief degli Stati Uniti. In tutti e due i casi l’episodio è di una gravità
inaudita». Dopo il vicepresidente Joe Biden, anche Hillary Clinton, ex segretario di Stato e
probabile candidato democratico alla Casa Bianca nel 2016, condanna con durezza la
lettera aperta scritta da 47 senatori conservatori ai leader iraniani: una missiva che trasuda
disprezzo nei confronti di Obama e nella quale si sostiene che, in termini giuridici, il
presidente non ha il potere di siglare accordi internazionali senza il consenso del
Parlamento.
La missiva ha il tono di una lezione di diritto costituzionale, ma il vincolo di ratifica degli
accordi con un voto del Congresso riguarda i trattati internazionali. Al di fuori di questi,
avvertono i senatori, ci sono semplicemente accordi esecutivi che possono essere
cancellati. La lettera, scritta dal senatore Tom Cotton dell’Arkansas, esemplifica:
«Un’intesa sul nucleare iraniano sarebbe un accordo esecutivo tra il presidente Obama e
Khamenei che il successore di Obama potrebbe revocare in ogni momento».
Insomma, i senatori della destra che solo dieci giorni fa hanno fatto parlare al Congresso il
premier israeliano Netanyahu, ostile all’accordo, ora avvertono Teheran: non vi conviene
negoziare con un presidente «azzoppato». Inaudito, insorge Biden, che cita una sfilza di
accordi internazionali raggiunti senza voti del Congresso, a partire dal riconoscimento
della Cina da parte dell’amministrazione Nixon. Biden usa parole di fuoco: accusa i
senatori di voler compromettere i poteri di un presidente in carica con un comportamento
«che è al di sotto della dignità di un’istituzione, il Senato, per la quale ho un profondo
rispetto. Ma nei 36 anni che ho passato in quell’aula non ho mai visto niente di simile».
Teheran sembra non volersi far influenzare da una lettera considerata un atto di lotta
politica interna, ma l’accusa mossa da Biden ai repubblicani di minare i poteri presidenziali
in materia di sicurezza nazionale suona quasi come il preavviso di una possibile crisi
istituzionale. E tuttavia, anche se 7 senatori della destra hanno preferito non firmare la
lettera, il grosso del fronte conservatore tira dritto e replica al vicepresidente con ancora
maggior durezza: «Hai sbagliato tutto in politica estera per 40 anni» dice il governatore
della Louisiana (e possibile candidato repubblicano alle presidenziali) Bobby Jindal. E
invita Biden a scusarsi con Cotton (l’estensore della lettera, ndr ) che, «almeno, è un
veterano che ha combattuto in Iraq». Lo stesso Cotton replica: «Ma cosa ne sa Biden di
politica estera?». Domanda curiosa, quella rivolta da un neosenatore eletto quasi solo
perché ha rischiato la pelle in Iraq, all’ex presidente della Commissione Esteri del
Congresso. Effetti di una conflittualità politica esasperata che ora invade anche il terreno
delicato delle relazioni internazionali.
M. Ga.
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dell’11/03/15, pag. 14
L’ultimo video dell’orrore
Il boia bambino dell’Isis giustizia la «spia del
Mossad»
E in Nigeria fa strage la kamikaze ragazzina di Boko Haram
Ancora bambini utilizzati come boia dallo Stato Islamico, l’Isis, per minacciare e uccidere.
Nel nuovo video, diffuso ieri sera sui siti jihadisti, un ragazzino dall’apparente età di 12 o
13 anni punta senza tremare la pistola alla testa di un giovane uomo descritto come
«agente del Mossad», il servizio segreto israeliano.
Accanto a lui un guerrigliero barbuto con l’accento della Francia meridionale (a Parigi si
sospetta possa essere cugino di quel Mohamed Merah responsabile dell’attacco alla
scuola ebraica di Tolosa nel 2012, che causò quattro morti) minaccia Israele e le comunità
ebraiche della diaspora. «Oh ebrei! Presto i leoni del Califfato attaccheranno le vostre
terre e le vostre roccaforti in Francia per liberare Gerusalemme!» recita il jihadista.
Il ragazzino resta impassibile, dice di essere stato spinto ad agire dalla famiglia. Il suo viso
sembra lo stesso del piccolo boia che un paio di mesi fa venne filmato da Isis mentre
sparava alla nuca di due uomini, allora definiti «spie russe». Questa volta però la sua
vittima la guarda in faccia. Nel momento cruciale il video gira al rallentatore, lo sparo, il
piccolo foro nella fronte e il prigioniero che rantola a terra. Quindi nuovi colpi alla testa e al
corpo.
Ancora ieri, una bambina kamikaze inviata da Boko Haram ha fatto strage di civili nel
mercato di Maiduguri, nel nord-est della Nigeria, i morti sono almeno una quindicina.
Il nuovo video dell’Isis dura quasi 14 minuti ed è parecchio sofisticato. Isis lo presenta
come fosse un file dell’intelligence. Si richiama al suo annuncio un paio di mesi fa
dell’arresto di Mohammad Said Ismail Musallah, un palestinese diciannovenne di
Gerusalemme est e cittadino israeliano.
Allora il giovane veniva fatto confessare di fronte alla telecamera di essere «un agente del
Mossad» inviato in Siria.
Ma questa volta il racconto è articolato: dice che in passato era un vigile del fuoco, poi
reclutato dai servizi israeliani da un vicino poliziotto con il pieno assenso del padre e del
fratello.
Spiega i suoi primi incarichi da informatore contro «quelli che tirano pietre a
Gerusalemme». Quindi l’offerta di fingersi volontario di Isis col fine specifico di
«individuare le loro basi, i centri di addestramento, i depositi di armi e soprattutto fornire le
identità dei palestinesi militanti con il Califfato».
Il video continua con la sua descrizione dell’arrivo alla «casa di accoglienza» di Isis. Sino
alla sua decisione di comunicare con il padre, rimasto a Gerusalemme, dal vicino internet
caffè. È allora che apparentemente i jihadisti si insospettiscono. Lo arrestano, interrogano.
Lui cede presto. La sua fine è segnata.
Il video termina con la diffusione di una decina di nomi e foto di arabi ed ebrei descritti da
Isis come «uomini del Mossad».
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dell’11/03/15, pag. 16
Noi ragazze del campo prigione
Nella città dei profughi in Giordania, dove la gente soffre e i bambini
ridono, tutti odiano Assad e non si possono fare domande sull’Isis
Shatha alza il mento, lo sguardo perso in qualche infinito lassù. Sopra i libri un po’ stinti
che le ha dato il governo giordano, sopra le ciabatte di due misure più corte che lasciano
scoperto il tallone, oltre il limbo di polvere e fango in cui vive. «Voglio fare il soldato». Non
sei stanca di guerra? No, mi piace. Una risata e vola via, con le amiche che sognano, solo,
di diventare dottore e avvocato. Neanche il tempo di chiederle contro chi o per cosa
combatterà.
Dalla scuola modello del campo, regalo del Qatar, escono teenager e bambine; nel
pomeriggio tocca ai maschi. Le alunne si rincorrono, sfiorando i camion che passano con i
carichi d’acqua per le cisterne. A Zaatari, uno dei campi profughi più grandi al mondo, non
ti aspetti di vedere così tanti sorrisi.
Domenica saranno quattro anni da quando è scoppiata la rivolta a Dara’a, in Siria, l’11
marzo 2011. Da Zaatari, con il fossato di cinta e i tank militari all’ingresso, molti se ne sono
andati. Sono usciti tentando la fortuna in case d’affitto – l’80% degli oltre 600.000 profughi
in Giordania vive di stenti nelle «host communities» – o pagando a caro prezzo la
traversata del Mediterraneo. Altri, alla spicciolata, stanno tornando in Siria, perché non
sopportano più l’esilio o per combattere. Ne restano 85.000, imprigionati nel limbo. E
Zaatari ha sbarrato le porte.
Gli ultimi arrivati — pochi, le frontiere sono di fatto chiuse da tempo — finiscono nel nuovo
campo di Azraq, in mezzo al deserto. E chi è rimasto qui non può più uscire se non con
permessi giornalieri difficili da conquistare. Perché i siriani, in Giordania, non possono
lavorare («il Paese ha già troppi disoccupati» spiegano i funzionari ad Amman) ed è pure
meglio che non si facciano vedere tanto in giro.
«Io non voglio restare» assicura Muhammad, 34 anni, che s’è appena trasferito in una
delle nuovissime case-container del campo, con tanto di toilette inserita. «Possono anche
metterci in un castello ma non sarà mai casa nostra». Viene da Al Tadamu, quello che era
un quartiere elegante della periferia sud di Damasco ed ora è solo macerie. «Assad ha
bombardato tutto, non ho potuto far altro che andarmene, con i miei due bimbi e la
moglie». Lei non parla né si fa fotografare. Ci guarda andare via in silenzio, dalla soglia di
quella casa di lamiera, lo sguardo implorante.
Poco più in là, ci sono i bagni comuni costruiti dall’organizzazione internazionale non
governativa Oxfam. Da una parte quelli per gli uomini, dall’altra quelli per le donne.
Quattordici latrine per 55 famiglie. E pure le docce, ma quelle sono sempre vuote: i mariti
non si fidano. Paura delle violenze improvvise, che non sono poi così rare nel campo, ma
non solo. «In Siria avevano il bagno in casa, l’acqua corrente, la tv satellitare, il wifi.
Difficile per loro abituarsi alla vita da profugo» spiega Andy Bosco, responsabile Oxfam al
campo. «Si attaccavano alle tubature comuni e portavano l’acqua ai container. Ora
costruiremo una rete idrica capillare. Costerà 12 milioni di dollari. Sul lungo periodo meno
dei camion cisterna». Le ong ormai lo hanno capito: la crisi non sarà breve, il campo è già
una città stabile che ha bisogno di infrastrutture.
Città prigione, dove la gente soffre e i bambini ridono, dove le «abitazioni» messe a
disposizione dall’Unhcr si rivendono e passano di mano secondo un mercato immobiliare
consolidato, 100 dinari le tende, pari a 130 euro, fino a 250 i container. Inferno che
funziona come un orologio svizzero, grazie ai capitribù siriani, gli Abou, che garantiscono
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la pace nei dodici distretti del campo. Dove tutti odiano Assad e non si possono fare
domande sull’Isis.
Circolano troppi uomini giovani, nullafacenti e dalle facce scure. E molte donne, spesso
sole, a volte maltrattate perché «quando c’è solo tempo libero e noia, la violenza
aumenta», avverte la responsabile dell’oasi di UnWomen. E poi ci sono i ragazzi. Più di un
profugo su due ha meno di diciassette anni. Selma ne ha 13 e oggi non è andata a scuola.
Mamma l’ha spedita a fare la spesa al magazzino del World Food Programme, armata del
voucher per il cibo, 20 dinari a testa al mese. Spalanca gli occhi blu e apre il sacchetto di
plastica, fegatini, formaggio, latte, 7 dinari. Poi scappa via. L’ordine è non stare in giro
troppo, da sola. «Le ragazze sono spesso vittime di molestie, molti genitori non le
mandano neppure a scuola per paura, altri le sposano appena possono» dice la preside di
una delle sei scuole gestite dall’Unicef con i fondi dell’Unione europea.
Alle elementari si accalcano in 100 per aula, poi via via il numero cala. Al dodicesimo
anno, quello del Tawjihi , la maturità, non sono più di trenta. Le ragazze portano il velo,
l’insegnante di Islamic studies il niqab che lascia scoperti solo gli occhi. Riham ha 16 anni,
è una delle allieve più promettenti. «Sono arrivata qui da Damasco tre anni fa, con la
mamma e i fratelli. Papà è rimasto in Siria. Il mio mondo è tutto cambiato».Vuoi
continuare? « Akeed…Taba’an , certo! Voglio finire le superiori e poi studiare informatica.
Ma l’università costa, ci sono pochissime borse di studio». Ti manca la Siria? «Là c’era il
verde, qua è solo deserto».
I tre sciuscià con la sigaretta in bocca non sono in classe. Mohammed, Ayed, Yusef non
fanno trent’anni in tre, «in Siria ci andavamo, ma qui...». Si arrabattano a tirar su qualche
soldo, dove e come possono. Gran parte delle famiglie di Zaatari dipende da quello che
racimolano i figli. Se la polizia li piglia a lavorare in nero, dentro o fuori dal campo, loro in
fondo non rischiano molto. Naela e Nagam, 6 e 7 anni, studiano al mattino, lavorano al
pomeriggio. Vendono lunghi vestiti neri bordati d’oro in un negozio di Champs Elisée. È la
lunga strada di fango che taglia Zaatari in due, dall’entrata dove pascolano le pecore alla
fine del distretto 12. È il bazar all’aperto che vende cibo, abiti, utensili per la casa, canarini
in gabbia, il miglior shawarma (o kebab) nel raggio di chilometri e un arcobaleno di altra
mercanzia. Sono oltre 2500 i negozi a Zaatari, un giro d’affari da 10 milioni al mese.
C’è pure la «boutique» di intimo. Vende baby doll rosso fuoco, giarrettiere, mutandine
velate col fiocco. Il pezzo più osé, made in China, costa 6 dinari, «ma fuori lo paghi 15».
Le promesse spose qui fanno incetta di tutto quello che servirà, poi finiscono in uno dei
tanti coiffeur-container del campo. Come il Sirian Princess di So’ad che prende 7 dinari per
taglio e meche . Alcune spose, annuisce, non arrivano ai tredici anni.
Nelle campagne siriane è normale ma qui i matrimoni precoci si sono moltiplicati, per la
dote che i genitori incassano (fino a 1000 dinari) e perché pensano che le figlie siano più
al sicuro. Lo ammette fra i denti l’imam del distretto 8, 53 anni e nove figli alle spalle.
Celebra 15-20 matrimoni a settimana, «ma nessun minorenne, sono altri gli imam che li
autorizzano». Gli sfugge un nome: Abu Fadi. Basta il suo sì per sposare una bambina. Poi
il giudice giordano, però, quei matrimoni non li convalida. Così la sposa è una non sposa e
i suoi figli saranno illegittimi.
Samar ha 22 anni, viene da Al Ghouta, il sobborgo di Damasco finito sotto attacco
chimico. «Il mio fidanzato era un soldato. Ha disertato, ci siamo sposati nel quartiere
assediato, ho partorito mentre bombardavano. Io sono fuggita in auto. Lui, che era
ricercato, per i campi. Ma era un campo di mine ed è saltato per aria». Samar non ha
potuto registrare il matrimonio, la sua bambina, Rimas, che ha poco più di un anno, risulta
figlia di suo fratello. Ti risposerai? «No, sarebbe un tradimento. Lo amavo».
Nella maternità del distretto 5 nascono 15-20 bambini al giorno, in tre container affiancati.
Il primo è la sala delle doglie, sei letti di dolore. Il secondo ha due poltrone affiancate per il
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parto. Nel terzo le puerpere si fermano cinque-sei ore al massimo. Quasi una catena di
montaggio, ma animata dalla passione di ostetriche e dottoresse, e dai sorrisi stanchi delle
neomamme. Come quello di Manar, 28 anni, laureanda in legge, che ha mollato gli studi e
Damasco per fuggire con il marito. Parla un inglese perfetto e abbraccia forte al seno la
sua piccola. «Alla mia Rand auguro una vita felice, lontano da qui» sussurra.
Nel cortile incrociamo Um Yassin e Um Haitham, velate dalla testa ai piedi, con gli occhi
che ridono. La prima racconta: «Siamo arrivate due anni fa dal villaggio di Inkhel Dara. Io
ho quattro figli, ma a mio marito non bastava. Ha sposato altre tre mogli, poi ha divorziato
da me per sposarne una quarta. Eccola qui, è lei (e indica Um Haitham). Mia nuora ha
appena partorito mio nipote, Hussein. Ma non può registrarlo, aiutateci». Perché non può?
«Ha quasi 15 anni...».
Sara Gandolfi
Dell’11/03/2015, pag. 8
Una Lista Araba Unita, per esistere
Elezioni 17 marzo. Le forze che rappresentano gli arabo israeliani si presentano
unite al voto della prossima settimana, con la possibilità di ottenere un risultato mai
raggiunto in passato. E' la risposta alle politiche del governo e all'offensiva
dell'estrema destra rappresentata dal ministro degli esteri Lieberman
Michele Giorgio
Nei comizi elettorali, nei dibattiti televisivi e nelle interviste, il ministro degli esteri Avigdor
Lieberman, leader del partito di estrema destra Yisrael Beitenu, descrive gli arabo israeliani, i palestinesi con cittadinanza israeliana, come «terroristi» da cacciare via, da
«cedere» all’Anp di Abu Mazen. E negli ultimi anni ha promosso leggi discriminatorie
e punitive contro questo 20% della popolazione israeliana. Ha anche ottenuto
l’innalzamento della soglia di sbarramento per l’ingresso alla Knesset dal 2 al 3,25%, allo
scopo proprio di cancellare la presenza araba in Parlamento. Il risultato è stato opposto.
I partiti arabi hanno reagito dando vita alla Lista Unita che, secondo gli ultimi sondaggi,
otterrà al voto del 17 marzo tra i 12 e i 13 seggi e diventerà il terzo o quarto gruppo
parlamentare. «Lierberman è riuscito a realizzare quello che litigi, rivalità e differenze ideologiche avevano impedito per decenni. Ha messo insieme come voleva la nosra gente
liberali e conservatori, comunisti e islamisti e persino arabi ed ebrei», commenta Hassan
Jabarin, del centro arabo di assistenza legale “Adalah”. Certo la Lista Unita è parecchio
eterogenea, tiene insieme formazioni distanti fra loro. Eppure l’alleanza elettorale nata inizialmente per non scomparire dal Parlamento, nel corso delle settimane si è rivelata qualcosa di più, una sorta di proposta di “modello sociale” fondato sulla piena uguaglianza
e una idea di cittadinanza ben diversa da quella che caratterizza oggi Israele. Su questo
punto batte Ayman Odeh, il 40enne avvocato di Haifa, per anni vicino all’ex leader del partito comunista Mohammed Barakeh, che guida la Lista Unita. Odeh ha messo in luce doti
politiche che hanno sorpreso molti. In un recente dibattito elettorale in tv non ha raccolto le
provocazioni, non è sceso sul terreno dello scontro verbale con Lieberman e gli altri rappresentanti della destra. Ha scelto invece di spiegare con tono pacato che la Lista Unita
non è solo un riferimento elettorale per la minoranza palestinese in Israele ma una forza
politica che offre un’alternativa anche agli ebrei che non si riconoscono nei partiti sionisti.
«Tanti ci discriminano, altri vorrebbero negarci diritti fondamentali. A questi (israeliani) noi
rispondiamo non solo rafforzando l’unità degli arabi ma proponendo agli ebrei democratici
di unirsi a noi nella realizzazione di uno Stato per tutti», dice Odeh, che durante la campa9
gna elettorale ha chiesto e ottenuto una posizione di basso profilo dai suoi compagni di
lista sulla scena politica da anni, come Jamal Zahalka e Hanin Zoabi del partito
nazionalista-progressista Tajammo (Balad) e Ahmad Tibi (Ram) famoso per le sue risse
con Lieberman e il resto della destra alla Knesset. Nelle scorse settimane è giunta
l’adesione alla Lista Unita, senza dubbio clamorosa, dell’ex presidente della Knesset
e dell’Agenzia Ebraica, Avraham Burg. Ebreo osservante e a lungo esponente di primo
piano della politica e delle istituzioni israeliane, Burg dopo un esilio volontario in Europa,
ha annunciato la “fine” del Sionismo e l’appoggio a uno Stato binazionale.
La linea inclusiva adottata da Ayman Odeh convince soprattutto la classe media arabo
israeliana che vive a cavallo tra il nazionalismo che attira i più giovani e una maggiore integrazione nello Stato vista con più favore da chi ha superato i 40 anni. Raccoglie invece
consensi decisamente più modesti nelle aree del paese, come il Triangolo, la bassa Galilela a ridosso della Cisgiordania, il Neghev, dove le comunità palestinesi sono profondamente deluse anche dal comportamento dei partiti arabi e denunciano con forza le politiche discriminatorie e punitive dello Stato. In queste zone è ancora fresco il ricordo
dell’uccisione sommaria da parte della polizia, lo scorso novembre a Kufr Kana, di un giovane Khayr al Din Hamdan. «Odeh e i suoi compagni sbagliano, il boicottaggio del voto,
della Knesset, delle istituzioni deve essere la nostra vera battaglia — spiega Mohammed
Kabha, attivista e membro di una associazione progressista di Arara, vicino a Umm el
Fahem, la città che Lieberman vorrebbe “cedere” all’Anp – lo Stato di Israele così come
è stato concepito e realizzato dal movimento sionista farà sempre e soltanto gli interessi
della maggioranza ebraica e negherà la piena uguaglianza alle minoranze. Partecipare
alle elezioni – afferma il giovane attivista – significa legittimare l’apartheid israeliano».
Kabha è convinto che la maggioranza degli 835mila elettori palestinesi d’Israele (il 15% di
tutti gli aventi diritto) non andrà alle urne il 17 marzo. Per il boicottaggio spinge anche il
movimento islamico del nord della Galilea, che contesta la “scelta di partecipare” fatta
dagli islamisti di Kufr Qassem, più a sud. Nel 2013 votò appena il 56% degli arabo israeliani. Ayman Odeh si dice fiducioso. «L’affluenza alle urne (degli arabi) raggiungerà il 70%
e la Lista Unita otterrà 15 seggi», prevede Odeh, aggiungendo che il fronte arabo unito
dopo il 17 marzo non darà appoggio ad alcun governo. E’ anche vero però che gli altri partiti rifiutano l’idea di una coalizione con gli arabi, che dal 1948 non hanno mai formalmente
fatto parte di un governo: una regola non scritta vuole che nell’esecutivo israeliano ci siano
solo partiti sionisti. «I voti e i seggi arabi alla Knesset comunque saranno importanti e non
potranno essere ignorati – afferma la giornalista Nahed Dirbas – perchè diranno in modo
molto chiaro che gli arabi, i palestinesi sono uniti ed esistono in questo Paese».
dell’11/03/15, pag. 1/5
La strategia di Tsipras e la troika Ue
Trattativa continua
Dimitri Deliolanes
La strategia seguita finora da Tsipras è coerente con il suo programma preelettorale:
instaurare una dura trattativa con i grandi sacerdoti di Bruxelles e i loro «azionisti di
riferimento» tedeschi. Strappare concessioni e resistere fino alla fine alle pressioni per
tornare alla vecchia politica di austerità. Al contrario di quello che si vuole far credere,
Atene ha ottenuto sia successi, sia pareggi.
Tra i successi c’è l’accettazione (anche se obtorto collo) da parte dell’eurogruppo del
piano di misure di Varoufakis. Un piano che non contiene neanche una misura di austerità.
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Il pareggio è il controllo da parte della troika, che comincia oggi. Ma con la differenza
importante che ora abbiamo emissari tecnici che si confrontano con i tecnici greci,
lasciando fuori le questioni politiche.
Negli ultimi giorni è diventato evidente che Bruxelles e Berlino non hanno rinunciato al loro
disegno di costringere Tsipras a tornare sui suoi passi. Anzi, fare finta che abbia già fatto il
grande salto.
«Il governo greco avrà grosse difficoltà a spiegare agli elettori l’accordo», aveva dichiarato
Scheuble. L’avvenimento che ha messo in allarme il governo di Atene è stato l’annuncio
da parte di Draghi che la Grecia sarebbe stata esclusa dal quantitative easing,
accompagnato dalla– del tutto ingiustifcata– decisione della Bce di non restituire ai greci i
circa 1,9 miliardi di guadagni sui bond greci.
Da quel momento ogni mossa di Bruxelles e di Berlino è stata attentamente esaminata e
ponderata. Il disegno che si intravede è il seguente: evitare la strategia iniziale di
considerare le politiche di austerità come conditio sine qua non per l’appartenenza
all’eurozona. Accettare le proposte di Atene, spingere per la loro realizzazione, ma evitare
di sganciare i soldi. Tsipras ha parlato di «corda attorno al collo». Il fine è provocare il
lento logoramento del governo fino alla sua delegittimazione, in modo da arrivare a una
crisi politica, possibilmente all’annullamento del risultato delle elezioni di gennaio.
Fino a quando non ci sarà una restaurazione, attraverso una (improbabile) vittoria
elettorale delle forze neoliberiste. È questo il segreto che si nasconde dietro al cocciuto
rifiuto dell’ex premier di destra Antonis Samaras di lasciare la poltrona di presidente di
Nuova Democrazia: è convinto, ne ha ricevuto precise assicurazioni, che il governo
Tsipras sarà solo una «breve parentesi». Paradossalmente, a questo progetto partecipano
involontariamente anche le forze interne a Syriza che contestano la strategia del governo.
Finora la contestazione non ha avuto grande impatto, anche perché l’opposizione di
sinistra non è in grado di proporre una strategia alternativa. Negli ultimi giorni inoltre i toni
si sono abbassati molto e le eventuali contestazioni si esprimono a livello di Consiglio dei
ministri sui provvedimenti da prendere.
Quest’ultimo è un aspetto di debolezza del governo della sinistra greca. Dal 25 gennaio a
oggi sembra che l’attenzione di tutta la squadra di Tsipras si sia concentrata sulle trattative
con Bruxelles e si è fatto pochissimo sul piano interno. Finora sono stati presentati in
Parlamento i (doverosi) provvedimenti per l’emergenza umanitaria e il progetto legge per
la ricostruzione della Tv pubblica Ert.
Cosa si farà con le forze di polizia fortemente infiltrate dai nazisti di Alba Dorata? Il
ministro Panoussis non l’ha chiarito. Eppure, ogni ritardo è pericoloso: la settimana scorsa
un generale di polizia ha organizzato una provocazione rigurdante i rifugiati. E a Exarchia,
il quartiere ribelle di Atene, succede che bande di anarchici incontrollabili provochino
violenze gratuite e la polizia non ha alcuna indicazione su come deve comportarsi. Lo
stesso vale anche in altri settori: il potere latita e nel vuoto si inseriscono gruppi
d’interesse, di solito corporativo.
Bisogna anche ammettere che Dijsselbloem ha ragione quando accusa Atene di «aver
perso tempo». Il piano di Varoufakis non esige grandi spese, solo un tenace lavoro di
riorganizzazione e di indirizzo della caotica amministrazione pubblica greca.
Tsipras ha rimproverato il suo ministro di dare troppe interviste invece di lavorare. Ha
ragione. Il piano è opera del suo ministero, prevede provvedimenti giusti e necessari, non
si capisce cosa si aspetta a cominciare a presentare i relativi progetti legge.
È un passaggio cruciale nella strategia di Tsipras: se si punta tutto sulla negoziazione,
bisogna che i risultati raggiunti si trasformino in realtà. Non per far contento Scheuble — il
quale, al contrario, masticherà amaro — ma per fare contenti i greci. Lo scontro con gli
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oligarchi non è solo un punto concordato con Bruxelles, è il primo e il più importante
mandato dato dall’elettorato alla sinistra.
Varoufakis deve preparare al più presto il nuovo sistema delle imposte, con esenzioni
importanti per i più poveri e meccanismi efficienti per combattere la scandalosa evasione
dei più ricchi. Se lo farà in tempi rapidi, quel 60–80% che oggi sostiene il governo si
trasformerà in uno scudo fortissimo contro ogni ipotesi di destabilizzazione e di
strangolamento del paese.
Dell’11/03/2015, pag. 5
Blockupy, una coalizione «ibrida» per
bloccare l’austerità e il suicidio dell’Europa
Austerity. Sindacati tedeschi, italiani, centri sociali e movimenti sociali
stanno preparando la mobilitazione contro la Bce del 18 marzo
Beppe Caccia
Per una curiosa coincidenza storica, non vi è né vi sarebbe mai stato momento più appropriato di questo per l’inaugurazione a Francoforte della faraonica Eurotower, nuova sede
della Banca Centrale Europea. Manca infatti una settimana esatta alla cerimonia, seppur
ridimensionata rispetto agli annunci iniziali. E l’appuntamento cade nel mezzo delle nuove
tensioni che attraversano l’Eurogruppo, alla ripresa di quel braccio di ferro tra governo
greco e ministri dell’Unione coincidente con l’avvio delle procedure di quantitative easing
da parte della Banca Centrale, i cui termini stanno mostrando l’inconsistenza di tanta
chiacchiera sulla sua presunta «tecnica indipendenza». Il fermo rifiuto opposto dalla Bce
all’acquisto dei soli titoli di Stato ellenici chiarisce infatti come Draghi stesso stia giocando
una partita tutta politica, certo non corrispondente nei modi a quella degli oltranzisti à la
Schäuble, ma altrettanto orientata a condizionare le scelte di Atene. Pressione mediatica,
ricatto dei mercati finanziari e minacce esplicite di governi e istituzioni continentali hanno
lo scopo preciso di impedire che il cambio in Grecia possa dischiudere una prospettiva
d’alternativa per tutta Europa. Ma sono pure sette i giorni che separano dalla prima grande
mobilitazione transnazionale convocata dopo la vittoria elettorale di Tsipras: da mesi la
coalizione Blockupy sta lavorando per fare di mercoledì 18 marzo una giornata di mobilitazione per contestare la cerimonia della Bce. E l’iniziativa interviene all’interno di quella
«finestra di possibilità per il cambiamento in Europa», che lo scontro inter-governativo
intorno alla rinegoziazione dei memoranda per la Grecia sta tenendo aperta. Non è quindi
fuori luogo l’ultimo appello lanciato dall’alleanza che raccoglie movimenti sociali e organizzazioni della società civile, sindacati e partiti anti-austerity, quando afferma che «è giunto il
momento di agire!». In Germania intorno al 18 marzo si è allargata la partecipazione: oltre
alle reti di movimento della sinistra radicale, ad associazioni come Attac e a un partito
come Die Linke, a tutte le iniziative prenderanno parte sia il sindacato dei metalmeccanici
IG Metall sia la confederazione Dgb. E, nonostante il giorno infrasettimanale, i primi
riscontri parlano di migliaia di persone in arrivo a Francoforte, anche con treni speciali. La
giornata nella city finanziaria tedesca, sulla base della profonda condivisione dell’«action
consensus» raggiunta all’interno di Blockupy, sarà articolata in quattro distinti momenti:
alle 7 del mattino i blocchi, che attraverso la pratica della disobbedienza civile, cingeranno
il perimetro della Eurotower con l’esplicito obiettivo di «impedire che sia un normale giorno
di lavoro» e che la cerimonia d’apertura possa svolgersi indisturbata. Poi, verso mezzogiorno, singole iniziative diffuse in città rivolte a istituzioni, banche private e multinazionali,
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indicate come «responsabili nella gestione capitalistica della crisi». A partire dalle 15 la
piazza della centralissima Römerberg vedrà susseguirsi interventi e comizi (tra questi
quello, sulla connessione tra battaglia anti-austerity e cambiamento climatico, della giornalista Naomi Klein), fino alle 17 quando da lì si muoverà per le strade del centro il corteo
conclusivo, una marcia «colorata e determinata» che non accetterà divieti a manifestare
per un’«Europa delle lotte e dal basso», aperta proprio da un contingente transnazionale
di donne. Ma anche dall’Italia si annuncia una presenza più numerosa e politicamente
a più ampio spettro rispetto agli anni passati. Cinque sono gli appelli più significativi.
Quello dei centri sociali che, insieme alla rete tedesca della Interventionistische Linke, promuovono il percorso della «Comune d’Europa», protagonisti lo scorso 2 marzo del blocco
«arcobaleno» alla sede di Venezia della Banca d’Italia: «solo respingendo il ricatto “o la
borsa o la vita”, può cominciare l’inverno per le élite d’Europa».
Quello lanciato dallo Strike meeting e dai laboratori locali dello «sciopero sociale», che
scommettono sull’estensione a scala transnazionale di pratiche inedite e diffuse di blocco
della produzione, promuovendo proprio a Francoforte un incontro con i «facchini» dei
magazzini tedeschi di Amazon in lotta ed altre realtà lavorative da tutto il continente.
Quello della Brigata Kalimera che, dopo aver raggiunto la Grecia nei giorni della vittoria
elettorale di Syriza, «non poteva mancare all’appuntamento sotto la Bce» perché
«vogliamo insieme creare un comune movimento europeo, unito nella diversità, che rompa
le regole dell’austerità e inizi a costruire democrazia e solidarietà dal basso».
Quello dei metalmeccanici della Fiom–Cgil, che hanno deciso di aderire nell’intento di
«allargare il dialogo con sempre più soggetti a livello europeo sui temi del lavoro, della cittadinanza, della sanità, dell’immigrazione e della sostenibilità produttiva; poiché queste
sono battaglie transnazionali che hanno bisogno della discussione più aperta possibile tra
chi in Europa si batte per chiedere che le priorità delle persone diventino quelle della
politica». Quello, infine, di Sel Europe che insiste su una «scelta radicalmente europeista,
per conquistare una Costituzione europea, una tassazione progressiva dell’intera Eurozona che colpisca grandi patrimoni e rendite finanziarie, un Welfare europeo fondato sul
reddito di cittadinanza, un New Deal verde all’altezza delle sfide ecologiche contemporanee». In questo quadro si inserisce anche la richiesta, a fianco di Syriza e Podemos, della
Conferenza europea sulla rinegoziazione del debito, visto come il primo passo del «processo costituente di una nuova Europa democratica».
Certo è che, per un giorno, le voci di Syntagma e di Puerta del Sol in lotta contro i «signori
dell’austerity» si faranno sentire sotto le finestre del presidente Draghi e proprio a casa
della cancelliera Merkel. E cercheranno di verificare come una coalizione «ibrida» possa
provare a rovesciare la tendenza suicida dell’Europa.
Dell’11/03/2015, pag. 1-13
Le idee. Le nuove destre di Front National e Lega hanno il potere di disorientare il
dibattito politico deformando la realtà, ponendo le domande sbagliate, mettendo un
marchio sopra ogni paura, dalla crisi economica all’immigrazione. Questo continuo
“rebrand” è il segreto del loro successo
Dall’archeofascismo al neofascismo il
marketing nazionalista della Le Pen
CHRISTIAN SALMON
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L’OMBRA di Marine Le Pen aleggia sulle prossime elezioni locali. Il primo ministro Manuel
Valls è arrivato ad affermare che il Front National è alle porte del potere. Il presidente della
Repubblica parla di strappare a Marine Le Pen i suoi elettori. Sono trent’anni che la classe
politica francese agita lo spauracchio frontista per riportare all’ovile gli elettori smarriti. In
questo modo Jacques Chirac fu rieletto nel 2002 contro Jean-Marie Le Pen con più
dell’80% dei voti in un clima di mobilitazione antifascista artificiale che all’epoca il filosofo
Jean Baudrillard etichettò come appartenente all’opera buffa: la lotta del bene contro il
male, la difesa dei “valori” contro il vizio spudorato. Da trent’anni ci si allea contro lo
spettro del veterofascismo, non sapendo come chiamare e analizzare il neofascismo
marinista, una costruzione politica originale che comincia a ispirare operazioni simili in
altre parti d’Europa, come il “rebranding” politico della Lega Nord per opera di Matteo
Salvini, che Repubblica ha recentemente chiamato “fascioleghismo”.
Che cos’è oggi un’operazione di rebranding politico? L’esperienza francese può dare
qualche indizio per interpretarne altre.
Pierre Poujade diceva di Jean-Marie Le Pen, che fece eleggere deputato nel 1956 sotto
l’etichetta del movimento per la difesa di artigiani e commercianti (UDCA): «Le Pen è la
bandiera francese sul registratore di cassa». Di fatto, fin dalle origini, la piccola impresa
familiare “Le Pen” ha prosperato rivestendo con la bandiera francese le cause più diverse
e la loro clientela, i “registratori di cassa” elettorali. Salito opportunamente sul “treno
poujadista” che gli aprì le porte del Parlamento sul finire della Quarta Repubblica, Le Pen
si fece difensore di commercianti e artigiani. Poi, quando De Gaulle tornò al potere e
l’Algeria ottenne l’indipendenza, sposò la causa dei perdenti della decolonizzazione, i
rimpatriati dell’Africa del Nord la cui frustrazione fu canalizzata sotto forma di razzismo
contro gli immigrati, vero vivaio del Front National, quindi, sfruttando a proprio favore il
vento della rivoluzione neoliberista all’inizio degli anni ‘80, cercò di diventare il Reagan
francese nel momento in cui la sinistra saliva al potere, riciclando certe parole d’ordine del
breviario neoliberista come il “Buy american” o “l’America, o la ami o te ne vai” e le
storielle alla Reagan sulla “Welfare Queen”, la “Regina assistenza” che si era comprata
una Cadillac con il sussidio di disoccupazione...
Dall’inizio degli anni ’80 il Front National si è costruito aggregando le clientele successive
che le crisi politiche, economiche e sociali gli hanno servito su un piatto d’argento. A ogni
tappa i suoi perdenti: prima la “piccola gente” del poujadismo contro i “grandi”, il fisco, i
notabili e gli intellettuali, poi è stato il turno dei perdenti della colonizzazione, i rimpatriati
dell’Africa del Nord che forniranno i battaglioni elettorali del Front National nell’attesa che
le crisi economiche e finanziarie che si sono succedute negli ultimi trent’anni andassero a
gonfiare le file dei perdenti della globalizzazione.
L’abilità del Front National consiste da sempre nell’offrire a tutti i suoi perdenti non un
programma politico, che potrebbe migliorare la loro situazione, bensì dei capri espiatori
comodi per appagare la loro sete di rivalsa. Da trent’anni il Front National ricicla le
frustrazioni in schede elettorali. Mette un marchio alle paure. È un franchising, un marchio
depositato che “fissa” sotto un’etichetta comune (la bandiera nazionale) gli elettorati
volubili, le cause perse: dalle più antiche, nate dalle guerre coloniali e dall’anticomunismo,
alle più recenti, contro le élite globali; dalle più fuori moda alle più in voga che ispirano lo
storytelling di questo Front National new look. Da Maurras all’Algeria francese, dal
fascismo tra le due guerre al vecchio fondo pétainista, dal neoliberismo reaganiano al
“sovranismo” antieuropeo. Il Front National è il partito della protezione nazionale che
promette al contempo il “ritorno a casa” del franco e la mobilitazione patriottica contro gli
invasori. Qualunque cosa si muova!
Marine Le Pen può cacciare di frodo a suo piacimento nelle riserve della sinistra e in
quelle della destra, prendendo a prestito dalla sinistra la critica della globalizzazione
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neoliberista e dalla destra neoliberista la denuncia degli immigrati profittatori, dei Rom
senza fede e senza legge, di quelli che gabbano lo stato assistenziale. Lungi dal
combattere questi argomenti, la sinistra li ha convalidati dopo le cosiddette “giuste
domande” poste sull’immigrazione dal Front National negli anni ’80 fino al programma di
“raddrizzamento nazionale” tuttora difeso dalla “sinistra popolare”, senza dimenticare la
partizione tricolore strombazzata dalla destra e dalla sinistra sul ritornello del “non
lasciamo al Fronte nazionale il monopolio dell’identità, della Nazione, della sicurezza e
dell’immigrazione”. La xenofobia del Front National, quindi, più che un razzismo congenito
che si dovrebbe combattere in nome dei valori repubblicani, è un prisma deformante che
dà una falsa immagine della società, delle sue disuguaglianze e delle sue ingiustizie. Il
Front National non ha mai posto le domande giuste. Al contrario, è il suo potere di
disorientamento e di deviazione che da trent’anni gli garantisce il successo. Volge male le
domande che si presentano e alle quali destra e sin istra non trovano ris poste. Getta sul
dibattito pubblico una specie di sortilegio che condanna destra e sinistra al ruolo di gregari
e di amplificatori del grande consenso nazional-securitario in via di costituzione. Relegato
ai margini del sistema elettorale, il “diavolo” perseguita la coscienza democratica. È il
brutto sogno della società francese traumatizzata dalla batosta del 1940. È la coscienza
sporca del “pétainismo” e del collaborazionismo. È la “vergogna” della tortura in Algeria e
della fama che gli è sopravvissuta. È l’arto fantasma dell’impero dilaniato dalle guerre
d’indipendenza. È il (brutto) sogno francese che agita la notte della democrazia con il suo
seguito di simboli e di emblemi: vestigia di vecchie lotte ideologiche del secolo trascorso,
caschi coloniali, croci celtiche colorate di bianco rosso e blu, statue di Giovanna d’Arco... e
il suo popolo di spettri: i vinti della storia nazionale che gridano vendetta, reduci
dell’Algeria francese, cattolici tradizionalisti, nazionalisti rivoluzionari o monarchici, alcuni
riapparsi nelle manifestazioni contro le nozze gay.
Altrimenti la longevità del Front National non si spiega. È “l’inconscio collettivo” che, invece
di essere analizzato, si applica e si esprime nel fenomeno lepenista quale si manifesta
attraverso certi giochi di parole, calembour che non sono semplici sviste o errori che la
ragazza potrebbe correggere per guadagnarsi il diritto di entrare nella realtà politica, vale a
dire “nel sistema”. Sono invece il marchio di un fenomeno politico che si radica
nell’inconscio collettivo, infatti, proprio come l’inconscio, anche il lepenismo è strutturato
come un linguaggio. Le sue battaglie, il Front National non le combatte più per le strade,
ma sui media e sul significato delle parole: sono “battaglie semantiche”, dove la posta in
gioco è il controllo dell’agenda mediatica, l’inquadratura e la gestione di quello che gli
anglosassoni chiamano la conversazione nazionale.
Marine Le Pen ha spinto l’ideologia della “rivoluzione nazionale” nell’era del marketing
politico. Capisce d’istinto i codici del sampling ideologico. Da JP Chevènement alla
Nouvelle droite non c’è che un passo e lei non esita a citare Karl Marx o Bertolt Brecht,
Victor Schoelcher, George Orwell, Serge Halimi di Le Monde diplomatique o perfino il
Manifesto degli economisti atterriti. Il Rassemblement bleu Marine è un partito
camaleontico, capace di adattarsi a tutte le frustrazioni e di captare tutte le pulsioni in una
logica di marketing, perché le adesioni politiche non si ottengono più sulle note delle
ideologie e delle convinzioni ma su quelle del desiderio e delle attenzioni. «Appartengo
alla generazione Disney», confessava un tempo suo padre. La figlia è della generazione
Madonna, la sua unica vera rivale sullo scacchiere della notorietà (la stessa Madonna non
si è sbagliata, usandola come bersaglio durante il suo ultimo concerto a Parigi...).
All’epoca della “Cool Britannia” di Tony Blair, Kate Moss si era fatta fotografare avvolta
nella Union Jack per incarnare, sotto le insegne del vecchio marchio Burberry, la
trasformazione della vecchia Inghilterra in un paese giovane e cool. Marine Le Pen agisce
allo stesso modo ma avvolgendo nella bandiera francese le frustrazioni nazionali.
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Probabilmente è questa la chiave del suo irresistibile successo. ( Traduzione di Elda
Volterrani)
Dell’11/03/2015, pag. 19
La campagna.
È partita una mobilitazione per la successione a Ban Ki-moon nel 2016.
Da Kofi Annan a Melinda Gates: “È tempo che il lui
sia una lei”. E tra i nomi che circolano spuntano quelli di Merkel e
Lagarde
Onu, sfida al tabù sul segretario generale
“Ora serve una donna per guidare il mondo”
VITTORIO ZUCCONI
DATEMI una donna e vi solleverò il mondo: dopo quasi 70 anni di delusioni e di mancate
promesse e dopo otto Segretari Generali dell’Onu tutti maschi e tutti condannati a parlare
a un mondo che non li ha mai ascoltati, è partito un movimento per portare una donna al
vertice delle Nazioni Unite e in cima a quel Palazzo di Vetro dove il soffitto invisibile ha
sempre bloccato la loro ascesa. Si stanno mobilitando ex segretari generali come Kofi
Annan, che ne ha scritto in un editoriale sul New York Times chiedendo che il nuovo
segretario generale, dopo Ban Ki-moon, sia una segretaria generale, ed ex primi ministri
come il norvegese Gro Brundtland, già capo di quella nazione che diede all’Onu il primo
segretario, appunto il norvegese Trygve Lie. Con loro, naturalmente, signore di diversa,
ma immensa fama ed estrazione come Hillary Clinton e Melinda Gates, la moglie del
fondatore di Microsoft. «È tempo che il “lui” sia una “lei”» ha scritto Annan, una frase che
va oltre il semplice gioco di pronomi. Maschile è infatti il genere al quale la Risoluzione
emessa nel 1946 per stabilire le procedure di elezione fa esplicitamente riferimento
quando disegna le caratteristiche di colui che dovrà essere eletto al pontificato laico
dell’Onu. « A man », un uomo, recita, non una persona, «di grande prestigio e di alte
realizzazioni », un mandato al maschile che l’Organizzazione ha religiosamente seguito,
dopo Lie, con Hammarskjold, ucciso in un incidente aereo, U Thant, il controverso
Waldheim, già ufficiale della Wehrmacht sul fronte russo, Pérez de Cuéllar Guerra,
Boutros- Ghali, Annan e il titolare di oggi Ki-moon.
Un elenco dal quale spiccano due assenze: la mancanza di una donna, apparentemente
bloccata dall’indicazione per «un uomo », e di un segretario generale venuto dall’Europa
dell’Est, un’assenza spiegabile con gli effetti collaterali della Guerra Fredda e dunque con
l’ostracismo a ogni candidato venuto dal blocco sovietico. Ma quello scontro geopolitico è
finito e il maschilismo del profilo scritto 69 anni or sono è anacronistico, di fronte a un
mondo nel quale ormai donne sono alla guida di 20 nazioni e forse presto 21, se la corsa
di Hillary Clinton alla Casa Bianca non incespicherà, prima che nell’avversario
repubblicano, lungo il sentiero accidentato della sua lunga e movimentata vita politica.
Negli straw poll , nei sondaggi di paglia che gli alti burocrati e i rappresentanti delle 193
nazioni riconosciute al Palazzo di Vetro, cominciano quindi a circolare nomi di donne,
specialmente di nazioni dell’Europa Orientale, scarabocchiati su foglietti informali che le
attiviste raccolte nella non troppo segreta Carboneria del “WomanSG”, “donna Segretario
Generale”, conteggiano. Arrivando a studiare la calligrafia degli autori per capire chi, fra i
193 Paesi, sia a favore di quale candidata. Si trovano frequentemente votati, secondo la
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ricerca fatta dalla Associated Press , i nomi di Helen Clark, già capa del governo
neozelandese, della cilena Michelle Bachelet, della premier danese Helle ThorningSchmidt. E poi, ecco il fronte delle signore dell’Est, ormai affrancate dal marchio sovietico,
la presidente lituana Dalia Grybauskaite, molto appoggiata dagli americani e molto
avversata dai russi. La commissarie Ue Kristalina Georgieva, bulgara, che non
dispiacerebbe al Cremlino e naturalmente avrebbe il voto dell’eurozona e della sua
connazionale Irina Bokova, direttrice dell’Unesco, il braccio culturale delle Nazioni Unite.
Alle spalle di queste donne si alza però l’ombra alta di signore che già hanno il proprio
nome sulle prime pagine dei giornali e che potrebbero incassare voti e appoggi da nazioni
che nella loro carriera hanno condizionato. La più eminente, quella che, tolta ogni
pregiudiziale grammaticale del 1946, risponderebbe al criterio di grande curriculum, è
Christine Lagarde, oggi presidente del Fondo Monetario Internazionale, poltrona dalla
quale molti amici, ma anche molti nemici, si è sicuramente fatta. Circola inevitabilmente
anche il nome di colei che oggi è la leader politica più potente del mondo, Angela Merkel.
Una sua ascesa a segretariato generale dell’Onu sarebbe, visti i precedenti di tragica
irrilevanza, sicuramente una buona notizia per i suoi molti nemici e la grafia di chi ne
scrive il nome sui bigliettini testimonia il segreto desidero di farla ascendere fino al vertice
della più solenne irrilevanza. Ma la mobilitazione delle donne che, dentro come fuori il
Palazzo di Vetro, spingono per infrangere uno degli ultimi “soffitti di vetro” politici che
ancora fermano l’ascesa delle donne — insieme con la Casa Bianca o, fatte le debite
proporzioni, il Quirinale o Palazzo Chigi — va oltre il nome della candidata e punta al
genere. «Una per sette miliardi », quanti sono gli abitanti della Terra, è uno degli slogan e
sarebbe una formidabile coincidenza se una “lei” salisse all’ultimo piano del Palazzo di
Vetro nel dicembre del 2016, quando scadrà il mandato di Ban Kimoon, pochi giorni prima
che un’altra donna entri, ma da presidente, nello Studio Ovale della Casa Bianca, il 20
gennaio dello stesso anno.
Dell’11/03/2015, pag. 9
Obama: «Il Venezuela è una minaccia per la
sicurezza nazionale»
Caracas. Maduro nomina ministro degli Interni giustizia e pace un
generale sanzionato da Washington
Geraldina Colotti
<<IL Venezuela è una minaccia per la sicurezza nazionale degli Stati uniti». Così, senza
paura del ridicolo, si è espresso il presidente Barack Obama. Il Venezuela di Nicolas
Maduro — ha aggiunto — è una minaccia «inusuale e straordinaria» per la politica estera
nordamericana. Un pericolo persino per la «salute del sistema finanziario» Usa.
Le Forze armate venezuelane non partecipano a missioni di guerra, né accettano sul proprio suolo basi straniere. Il socialismo bolivariano esporta petrolio a prezzi solidali e invia
aiuti umanitari senza contropartita, prendendo rischi in prima persona. E’ accaduto così
dopo il massacro di Israele a Gaza, quando il presidente Maduro ha convinto l’Egitto
a lasciar passare degli aerei inviati da Caracas con cibo e medicinali. Ha ottenuto di portarli direttamente a Gaza. Una bomba israeliana è caduta vicino al velivolo, che però è riuscito a riportare a Caracas bambini palestinesi feriti per poterli curare. All’interno dell’Alba,
l’Alleanza bolivariana per i popoli dell’America, il Venezuela si è mosso per disinnescare
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tutti i devastanti conflitti internazionali, proponendo un cammino di pace: dalla Libia, alla
Siria, al conflitto israelo-palestinese.
Da anni, attraverso un progetto organizzato con le succursali della petrolifera di stato
Pdvsa negli Stati uniti, il Venezuela manda combustibile gratuito ai poveri del Bronx, che
hanno riservato un’accoglienza calorosa a Maduro, come prima avevano fatto con Chavez. In che modo una politica di pace può costituire una minacca per gli Stati uniti? In che
modo la sovranità di un piccolo paese latinoamericano ancora non completamente sviluppato può rappresentare un pericolo per la politica estera degli Usa? Questo Obama non lo
ha chiarito, limitandosi a fornire un elenco di 7 funzionari venezuelani, sanzionati per aver
«violato i diritti umani».
Al primo posto, la magistrata che accusa alcuni membri dell’opposizione come la ex deputata filo-atlantista (e golpista), Maria Corina Machado. Machado, grande amica di George
W. Bush, è stata in prima fila nel colpo di stato contro Hugo Chavez, nel 2002, ma successivamente amnistiata dall’ex presidente venezuelano insieme a un altro inquisito, Leopoldo Lopez. Quest’ultimo, secondo i documenti pubblicati dal sito Wikileaks, era a libro
paga della Cia da almeno 10 anni, e ha continuato a rispondere ai suoi padrini per ogni
operazione politica. Come ha documentato l’informazione indipendente, la lunga mano
delle agenzie per la sicurezza Usa ha costruito il golpe contro Chavez e ha continuato
a foraggiare le sue emanazioni a Caracas come nel resto dell’America latina. Finanziamenti erogati — spiega ogni anno il Congresso — alle organizzazioni «per la difesa dei
diritti umani». Quelle stesse che hanno orchestrato la gigantesca campagna mediatica
contro il governo Maduro: falsando dati e capovolgendo schemi, e silenziando la voce dei
parenti delle vittime delle violenze orchestrate dall’estrema destra venezuelana.
«La minaccia del chavismo in Europa», hanno titolato i grandi giornali spagnoli contro
Podemos, come prima avevano fatto in Grecia contro Tsipras («il Chavez dei Balcani,
secondo la stampa Usa»). La «minaccia «inusuale e straordinaria» sarebbe quella
dell’esempio proveniente da un paese che custodisce le prime riserve di petrolio al mondo
e che ha deciso di far pagare le grandi imprese per tutelare i diritti sociali? Così la vedono
i movimenti e le sinistre, che esprimono solidarietà al Venezuela socialista, dentro e fuori
l’America latina: e che temono l’arrivo di un golpe, dopo quello sventato di recente, orchestrato, secondo un video diffuso, ancora una volta negli Usa.
Durissimo il commento dell’intellettuale argentino Atilio Boron: «Obama, figura decorativa
della Casa Bianca, incapace di impedire che un energumeno come Netanyahu si dirigesse
a entrambe le camere del Congresso per sabotare le conversazioni con l’Iran sul nucleare
ha ricevuto un ordine imperativo dal complesso militare– industriale-finanziario per creare
le condizioni che giustifichino un’aggressione armata al Venezuela». Da Cuba, Fidel
Castro ha appoggiato la presa di posizione dell’Avana scrivendo una lettera di solidarietà
personale a Maduro. Maduro ha reagito con orgoglio, nel solco di quanto aveva già fatto
dopo la minaccia Usa di «torcere il braccio» al socialismo: ha convocato l’incaricato d’affari
Usa, ha proclamato «eroi» i funzionari sanzionati e ne ha nominato uno, il generale
Gustavo González López come ministro degli Interni.
Dell’11/03/2015, pag. 13
Passaporti, moneta e parlamento
Il Texas si sente nazione a sé
Il movimento separatista alza i toni: non abbiamo mai aderito agli Usa
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La Repubblica del Texas non chiede di diventare indipendente: pensa di esserlo già,
perché non aveva mai aderito ufficialmente agli Stati Uniti. Perciò batte moneta, tiene
riunioni del suo Parlamento, e i propri membri girano con documenti che li identificano
come rappresentanti diplomatici della loro nazione, immuni a qualunque genere di ordine o
azione emesso da Washington.
Il raid di San Valentino
Non stiamo parlando di un gioco, ma dell’ultima follia dei separatisti americani. Una follia
così seria che durante l’ultima festa di San Valentino, a febbraio scorso, le forze dell’ordine
locali e l’Fbi hanno lanciato un raid contro i membri di questo gruppo, rivelato ora dal
«New York Times» perché sta avendo l’effetto di alzare il loro profilo a livello nazionale.
Negli Stati Uniti le organizzazioni radicali, sette razziste e indipendentiste abbondano.
Mettono in discussione l’autorità dello Stato, e nei casi migliori si isolano, ma nei peggiori
diventano una minaccia per la sicurezza di tutti. Basti pensare all’attentato di Oklahoma
City nel 1995, o anche alla strage di Waco.
«Gioco» pericoloso
Il Texas in effetti fu brevemente indipendente, dal 1836 al 1845, quando passò dal
Messico agli Usa. Questo gruppo però non riconosce l’adesione e ritiene che sia ancora
una nazione a parte. La «Republic of Texas» si era già fatta notare nel 1997, quando i
suoi membri avevano rapito una coppia. La polizia era intervenuta, c’era stata una
sparatoria in cui era morto uno dei militanti, e il «presidente» Richard McLaren era stato
arrestato. Dopo questo scontro il gruppo era tornato nell’anonimato, ma non si era arreso.
Nel 2011 aveva persino spedito una lettera alla governatrice dell’Oklahoma, informandola
che in base ad una risoluzione del Parlamento della Repubblica del Texas era stata
incriminata, perché il suo Stato aveva invaso i confini della nazione vicina. Nelle settimane
scorse il gruppo si è rifatto vivo, intimando ad un giudice locale di interrompere un’azione
di pignoramento in corso contro uno dei suoi membri, e questo è il reato che ha spinto l’Fbi
ad intervenire. Molta gente locale dice che il raid era inutile, perché si tratta solo di
vecchietti innocui che non sanno come riempire le loro giornate. È vero che coniano
monete ed emettono passaporti, ma hanno rotto ogni rapporto con l’ala violenta di
McLaren e non vanno oltre il folclore. L’attacco delle forze dell’ordine, invece, li ha resi
popolari al punto di poter tornare ad essere pericolosi. È andato così in passato per troppe
sette e gruppi, che sono passati dal gioco, magari ossessivo, all’azione.
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INTERNI
dell’11/03/15, pag. 2
La riforma va. Nei partiti si litiga
ROMA Sulla riforma costituzionale che cancella il Senato elettivo — approvata ieri alla
Camera in prima lettura con 357 sì, 125 no, 7 astensioni — è rientrato il dissenso plateale
alimentato dalle minoranze del Pd e di FI. Ma nei due partiti, uniti fino a 40 giorni fa dal
patto del Nazareno e ora divisi su sponde opposte, i distinguo e i mal di pancia non si
placano. Nella minoranza dem, che ieri ha sostanzialmente sposato la disciplina di partito,
si prepara la rivincita in vista del voto (la prossima estate) sull’Italicum «non più sottoposto
ai veti di Berlusconi». Mentre in Forza Italia gli orfani del patto del Nazareno non si danno
per vinti.
Eppure Matteo Renzi può cantare vittoria perché il Pd, alla fine, ha retto con una manciata
di assenti (tra i quali Fassina, Civati, Boccia, Pastorino) e pochissimi astenuti: «C’è ancora
molto da fare ma con questo voto favorevole alla riforma abbiamo un Paese più semplice,
più giusto», ha detto il premier.
E anche Silvio Berlusconi, che ha convinto a uno a uno i 17 verdiniani dissenzienti, può
dirsi soddisfatto: «Smentite le Cassandre, FI compatta nel dire no alla riforma
costituzionale proposto dal governo Renzi». In ogni caso, ha aggiunto l’ex Cavaliere rivolto
a Denis Verdini, «mi auguro che tutti lavorino per portare avanti la nuova era che si apre
oggi, rinunciando a qualche protagonismo di troppo e a qualche distinguo dal sapore
strumentale».
In questo secondo passaggio parlamentare della riforma Renzi-Boschi — approvata lo
scorso 8 agosto al Senato e dopo le regionali, se non addirittura a giugno-luglio, di nuovo
all’esame di Palazzo Madama — il confronto muscolare tra Pd e Fi ha costretto Renzi a
schierare in Aula in fase di dichiarazione di voto addirittura il vicesegretario del partito
Lorenzo Guerini. Ed è la prima volta che succede: «Non riusciamo proprio a comprendere
le motivazioni di chi non vota questa riforma dopo aver contribuito a farla crescere», ha
detto Guerini che ha avuto l’ultima parola tra i big dei partiti. Per cui la replica è arrivata
direttamente da Berlusconi che ha fatto scrivere nella sua nota: «Abbiamo rispettato i patti
fino in fondo, altri non possono dire lo stesso. Siamo fieri del nostro lavoro ma non
dobbiamo avere paure o nostalgia per una strada (il patto del Nazareno, ndr ) ormai
impercorribile».
Senza l’appoggio di FI, la minoranza del Pd diventa indispensabile per le riforme. E questo
giustifica la cautela del ministro Maria Elena Boschi: «All’interno del Pd non mancano
momenti di confronto... anche se è importante non interrompere il percorso delle riforme».
Però sulla legge elettorale (che rimane in sonno in I commissione alla Camera) ora non
tiene più l’escamotage usato mille volte dal ministro («Non ci sono le condizioni politiche
per cambiare il testo perché FI non vuole...») per placare la minoranza dem. «Il voto
favorevole sul ddl costituzionale è stato, da parte di chi ha ottenuto modifiche significative,
una scelta di coerenza», ha detto il deputato Giuseppe Lauricella. È sottinteso che
sull’Italicum la minoranza Dem presenterà un conto più salato al governo orfano del
Nazareno.
Dino Martirano
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Dell’11/03/2015, pag. 11
Il nuovo Senato e il Titolo V
Palazzo Madama avrà 100 membri non elettivi scelti tra consiglieri
regionali e sindaci. Poteri paritari a quelli della Camera solo su leggi
costituzionali e elettorali. Corsia preferenziale alle proposte del governo
Bicameralismo addio in 40 articoli e lo Stato
toglie poteri alle Regioni
SILVIO BUZZANCA
La Camera approva il progetto di legge costituzionale che prevede novità in ben 40 articoli
della Carta e lo rimanda al Senato con la speranza che Palazzo Madama lo approvi in
copia conforme e concluda il primo esame previsto dall’attuale articolo 138. Il
provvedimento ruota intorno all’abrogazione del bicameralismo perfetto così come era
stato concepito nel 1948, con Camera e Senato che avevano stessi poteri e prerogative. Il
bicameralismo viene cancellato in favore di un sistema centrato sulla Camera, depositaria
del rapporto fiduciario con il governo. Il Senato, eletto in maniera indiretta dai Consigli
regionali, diventa il luogo di rappresentanza dei territori. Ma conserva poteri paritari nel
campo delle leggi costituzionali ed elettorali. Questa divisione dei compiti ha portato però
ad una complessa diversificazioni dei procedimenti legislativi per materie, con i presidenti
di Camera e Senato che dovranno mediare in caso di conflitti di interessi. Il governo si
vede invece riconoscere delle corsie preferenziali per i provvedimenti che ritiene
fondamentali per l’attuazione del suo programma. Infine, vengono cancellate dalla
Costituzione le Province. L’altra grande perno su cui ruota la riforma è la rivisitazione
dell’articolo 117, quello che divide le competenze legislative fra Stato e Regioni. Viene
cancellata la competenza “concorrente” e, in sostanza, un corposo pacchetto di materie
torna allo Stato.
Scelta che fa infuriare i sostenitori del federalismo come i leghisti. Forte opposizione ha
suscitato anche la nuova previsione di una “clausola di supremazia”. Una norma che dà al
governo il potere di chiedere al Parlamento di intervenire su materie di competenza
regionale quando viene messo in discussione l’interesse nazionale.
dell’11/03/15, pag. 11
Salvini e la rottura nella Lega: Tosi non è più
un militante del partito
La reazione del sindaco: il segretario mente, è Caino che si traveste da
Abele
MILANO Forse è la prima cacciata da un partito via agenzia stampa. Arriva alle 22
precise, dopo un’ennesima giornata di contorsioni. Flavio Tosi, il segretario della Liga
veneta, ha terminato la sua apparizione a Otto e mezzo su La 7. Nel giro di qualche
decina di minuti, le agenzie annunciano la folgore di Matteo Salvini: «Sono costretto a
prendere atto delle decisioni di Tosi e quindi della sua decadenza da militante e da
segretario della Liga Veneta». La risposta di Tosi è devastante: «Salvini mente sapendo di
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mentire. Mai avrei pensato di vedere in Lega il peggio della peggior politica. Un Caino che
si traveste da Abele».
Il capo leghista ha deciso di mettere fine alle lacerazioni interne alla Lega, non a quelle
che continueranno a investire il Veneto nelle settimane a venire. Il detonatore è l’intervista
di Tosi a Lilli Gruber. In cui il segretario della Liga va diritto per la sua strada. Certo, dice di
sperare che si trovi «una strada di mezzo». Lui, però, di concessioni ne fa pochine. E che
quella sia la piega, lo si capisce subito: il sindaco di Verona inizia il suo intervento
leggendo l’articolo dello statuto leghista che affida alle regioni, e non al movimento
federale, la potestà sulle liste elettorali. Poi, arrivano i carichi: «Se la Lega mi dice che io
devo lasciare la Fondazione “Ricostruiamo il Paese” perché è incompatibile con il
movimento, e in Veneto c’è un commissario deciso da Milano, io non posso che
dimettermi da segretario». A quel punto, prosegue, «potrei anche candidarmi a
governatore». Contro Luca Zaia, del suo stesso partito. Quale può essere, dunque, la
strada? «Se si accetta il fatto che esiste la Fondazione, se si toglie il commissariamento,
poi sulle liste — non quelle della Lega — si discute».
È troppo. La vicenda è andata troppo oltre, dispiegando il suo potenziale tossico sulla
credibilità del movimento e dello stesso Matteo Salvini. Ed è per questo che da Bruxelles il
segretario prende l’iniziativa, mettendo fine ai terzultimatum e ai penultimatum annunciati
e rientrati nel giro di ore. Soltanto ieri il menù aveva visto una lettera che il mittente (Tosi
stesso) dice di non avere scritto e il destinatario, Salvini, di non aver ricevuto. I contenuti,
peraltro, vengono ampiamente, ma non ufficialmente, diffusi. Il sindaco scioglie il giallo:
«Non è che siamo al livello di mandarci lettere, siamo una famiglia. Ci sono stati dei
tentativi di mediazione, gente che ha cercato di fare da pontiere». Il nome che circola è
quello di Giancarlo Giorgetti.
Ma, appunto, è troppo tardi. Dice Salvini: «Non si può lavorare per un partito alternativo
alla Lega, non si possono alimentare beghe, correnti o fazioni». E dunque, spiace che «da
settimane Tosi abbia scelto di mettere in difficoltà la Lega e il governatore». E se il sindaco
di Verona «insisterà nel volersi candidare contro Zaia, magari insieme ad Alfano e a
Passera per aiutare la sinistra, penso che ben pochi lo seguiranno». Conclude Salvini:
«Ovviamente le liste per il Veneto saranno fatte solo dai Veneti, dal commissario
Gianpaolo Dozzo e da tutti i segretari del territorio veneto». Il governatore uscente Luca
Zaia tira il fiato: «La buona notizia è che questa sera si mette la parola fine a beghe e
polemiche incomprensibili che sono durate fin troppo. Resta l’amarezza per come è
andata a finire, ma ora si deve voltare pagina».
Marco Cremonesi
Dell’11/03/2015, pag. 1-13
La tattica del premier: regionali al 31 maggio,
Silvio mollerà la Lega
FRANCESCO BEI
GIOVANNA CASADIO
Il vento del Nazareno, o qualcosa di molto simile, tornerà a gonfiare le vele dell’Italicum
dopo il voto. Matteo Renzi ci conta e punta sul divorzio fra Berlusconi e Salvini. «Ora —
spiega in privato — aspettiamo le regionali. Vedremo se Forza Italia rientrerà o
esploderà». Incassato il sì alla fine del bicameralismo, il capo del governo prepara la
strategia per portare a casa anche la legge elettorale. Una strategia che passa per il
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recupero dei voti forzisti, a dispetto dell’aut-aut lanciato dalle minoranze dem in aula.
Perché il premier ribadisce di non aver alcuna intenzione di «cambiare nemmeno una
virgola» della riforma. Una fermezza su cui ha insistito del resto la ministra Boschi ieri
sera: «Perché modificare una legge che è scritta bene con il rischio di peggiorarla?».
Lo scontro con Bersani è dunque messo nel conto. Tanto più dopo che l’ex segretario ieri
si è tagliato i ponti alle spalle avvertendo il presidente Mattarella (in un lungo colloquio
mattutino al Quirinale) sui «rischi per la democrazia» legati all’accoppiata tra «una riforma
costituzionale che crea una Senato di non eletti e una legge elettorale che, se passassero
i capilista bloccati, produrrebbe una Camera di nominati alle dipendenze di un
solo leader». Con la minoranza dem il segretario- premier non intende aprire ulteriori
trattative. «Abbiamo già discusso in tutte le sedi e votato. Ora è il momento di
concludere». Renzi non si piega anche perché è certo che, passate le regionali, una
grossa novità è destinata a prodursi in Forza Italia. «Berlusconi — spiega un renziano — è
stato costretto a votare no alla riforma costituzionale per preservare l’alleanza con Salvini.
Ma dopo il voto è possibile che torni sui suoi passi». Il calcolo che si fa a palazzo Chigi è
basata proprio sulla convenienza elettorale del leader forzista. Un rimaneggiamento
dell’Italicum secondo i desiderata della sinistra del Pd porterebbe infatti a cancellare
l’unico punto a cui l’ex Cavaliere tiene veramente: le liste bloccate.
Ma se anche il capo di FI non dovesse ripensarci, a palazzo Chigi sono convinti che
comunque gli azzurri non reggeranno alle tensioni di questi giorni. «La scissione è
nell’aria», prevedono. Magari guidata da Denis Verdini e da quanti non condividono la
linea di scontro totale imposta da Renato Brunetta al gruppo. Un malessere testimoniato
dalla lettera aperta dei 17 dissidenti forzisti. Un documento in cui si rivolgono «con
franchezza» al leader chiarendo che «situazioni simili in futuro non potranno vederci
silenti». Ovvero questo pono. trebbe essere stato il loro ultimo voto negativo alle riforme
targate Renzi. La tattica del premier, per ora, è lasciar decantare la situazione. E
incassare prima una netta affermazione alle regionali, che saranno spostate con ogni
probabilità dal 10 al 31 maggio. «Se riusciamo a conquistare la Campania e, magari,
anche il Veneto — scommette — avremo una spinta potente pari a quella del 40 per cento
alle Europee». Solo dopo quella data l’Italicum sarà fatto uscire dal congelatore e inizierà il
suo cammino a Montecitorio. Oltretutto rinviare di qualche settimana potrebbe portare
anche un altro vantaggio, quello di iniziare la discussione sulla riforma avendo cambiato i
presidenti di commissione (vanno riconfermati a metà legislatura). L’obiettivo del Pd è far
saltare il fittiano Francesco Paolo Sisto, che guida la commissione affari costituzionali, per
garantirsi un atterraggio più morbido della legge elettorale. La sinistra dem non intende a
sua volta arretrare. E proprio per questo punta all’opposto ad accelerare in Parlamento su
entrambi i fronti, sia sulla riforma del Senato che sulla legge elettorale. «Renzi vuole
sparigliare e tenere distinti i due piani, che sono invece strettamente connessi. Né si
capisce perché, dopo tanta rincorsa, dobbiamo ora rallentare aspettando di recuperare i
forzisti o una parte di loro», denuncia il bersaniano Alfredo D’Attorre. E Miguel Gotor,
senatore, chiede che al più presto Palazzo Madama esamini il ddl Boschi approvato ieri a
Montecitorio: «È importante che l’opinione pubblica abbia davanti entrambe le riforme così
da rendersi conto che c’è un problema di funzionamento del sistema democratico se le
cose non si cambia- Si creerebbe una sorta di gioco di società. Con l’Italicum la
democrazia rischia di diventare un Monopoli gestito in stanze chiuse da pochi consiglieri
regionali e sindaci, che magari mandano in Senato chi ha bisogno di immunità
parlamentare. E da una Camera sempre di nominati».
A Montecitorio i ribelli del Pd sono convinti di poter crescere fino a 60-70 voti contrari
all’Italicum. Il voto segreto, in particolare sul premio di maggioranza alla coalizione (e non
alla lista) per il governo sarebbe una trappola insidiosa. I primi fuochi della battaglia
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saranno accesi il 21 marzo, nella grande convention di tutte le minoranze. Che sono
riuscite a superare faticosamente le loro differenze tra “intransigenti” e “dialoganti” per fare
fronte comune. All’assemblea, più che i singoli esponenti, si pensa di far parlare dal palco
anche tutti quei costituzionalisti che pubblicamente hanno espresso le loro perplessità
sulle nuove norme costituzionali ed elettorali. «Renzi deve per forza avere a cuore l’unità
del partito e quindi aprire a un dialogo costruttivo sulla nuova legge elettorale », esorta
ancora il capogruppo dem alla Camera, Roberto Speranza, leader della corrente “Area
riformista” che si è data appuntamento sabato a Bologna. Ci sarà anche Bersani. E sarà la
prima offensiva a tutto campo contro le politiche del governo Renzi.
Dell’11/03/2015, pag. 9
Il partito di Berlusconi diviso in tre
In Transatlantico si riuniscono in capannelli: i fittiani, i verdiniani e i pretoriani del
leader Santanchè: “Sulle riforme la linea deve cambiare”. Abrignani: “Il capogruppo
va eletto”
Azzurri allo sbando, Brunetta a rischio alla
Camera la fronda è maggioranza
CARMELO LOPAPA
Vagano in Transatlantico come anime nel purgatorio, li distingui solo per capannelli. I
fittiani da una parte, i 17 tra verdiniani e non solo che firmano a sorpresa il documento
dello “strappo”, dall’altra, i pretoriani del leader a tentare invano di tenere insieme tutti.
Camera dei Deputati, mezzogiorno di caos in Forza Italia.
Loro qui, in pena, Silvio Berlusconi, peggio di loro, blindato ad Arcore in attesa della
sentenza di Cassazione. Avrebbe voglia di parlare solo coi suoi avvocati alla Corte,
accantonare le sorti della riforma costituzionale. Ma non può. Nel pomeriggio sarà
costretto a intervenire, perfino con una nota, per difendere il capogruppo Renato Brunetta.
Scelta obbligata, quella. «Presidente, di fatto mi vogliono sfiduciare, o tu intervieni in mia
difesa, anche perché ho difeso le tue posizioni in aula, oppure io mi dimetto, lascio»,
sembra sia stata la richiesta assai schietta. L’ex Cavaliere aveva impiegato ore per
chiamare uno per uno i 17 pronti a rompere. I 5-6, più vicini a Verdini, addirittura
intenzionati a votare a favore della riforma costituzionale. Gli altri, dalla Santanché alla
Gelmini, dalla Prestigiacomo alla Ravetto, incerti tra astensione e diserzione del voto. Ai
17 nel frattempo si affianca Paolo Russo, rimasto a casa perché malato, «ma ho scritto al
presidente una lettera personale per dire che avrei votato ma solo per la stima nei suoi
confronti ». E a casa vorrebbero tutti mandarci Brunetta, è lui nel mirino, ed eleggere un
nuovo capogruppo: Elio Vito, oppure Mara Carfagna. Anche perché i 18, sommati agli altri
18 vicini a Raffaele Fitto — anche loro in guerra con il presidente del gruppo e con tutti i
vertici del partito — sarebbero maggioranza nella squadra di 69 deputati. Clima da
guerriglia, più che da resa dei conti. «La testa di Brunetta? Ma no, io con quelli dell’Isis
non voglio avere a che fare — dice Daniela Santanché, una delle firmatarie del
documento, al centro del Transatlantico — La testa non va necessariamente tagliata, si
può anche seppellire sotto la sabbia», sorride. «Il documento è senza precedenti, da oggi
possono succedere tante cose, sulle riforme la linea deve cambiare». Berlusconi ha
chiamato anche lei, come tutti gli altri. «Questo è stato un voto di fiducia solo nei suoi
confronti, non potevamo tradirlo oggi, noi non siamo come Alfano». Argomento, quello del
voto «come Angelino» che a quanto pare il capo ha usato in tutte le telefonate della notte.
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Mariastella Gelmini scuote la testa men- tre vota in aula, nemmeno plaude a chiusura
dell’intervento del capogruppo Brunetta. Laura Ravetto in Transatlantico non si dà pace.
«Ma io mi riconosco in un movimento riformista, spero si cambi linea, ho votato lealmente
ma non mi iscrivo al comitato dei no con grillini, Bindi, Fassina». Il solo Gianfranco
Rotondi, vecchio lignaggio dc, sarà l’unico coerente con le perplessità e a votare a favore,
in dissenso dal gruppo. Alle 9,30 la stessa Santanché e i “verdiniani” Abrignani,
D’Alessandro, Fontana, Parisi e altri si ritrovano nella sede del partito di San Lorenzo in
Lucina, nella stanza di Denis. Bisogna decidere che fare, si accorgono che il voto
favorevole non cambierebbe le carte in tavola, soprattutto che solo mezza dozzina è
disposta a farlo realmente. «Se fossimo stati 15-18 avrebbe avuto un senso, un peso,
anche in prospettiva futura. Così, meglio non rompere con Silvio ma aprire il caso politico
dentro il partito» sostiene cauto Verdini. Tradotto: 18 vorrebbe dire essere sul punto di dar
vita a un gruppo (minimo 20 deputati), diversamente, meglio lasciare la minaccia in
sospeso e intanto presentare le firme. Si premura lo stesso senatore toscano a chiamare
Berlusconi ad Arcore per preannunciargli il passaggio, spacciandolo per un favore in una
giornata così, «perché noi ti vogliamo bene». Ignazio Abrignani ha appena finito di votare
«con sofferenza », esce dall’aula e spiega. «Noi chiediamo due cose: proseguire con le
riforme e maggiore democrazia nella scelte politiche del gruppo, magari con l’elezione di
un capogruppo. Intendiamoci, potrebbe essere lo stesso Brunetta ma, almeno, che passi
da un’elezione e non da un'indicazione». Per un giorno, Raffaele Fitto non è al centro del
ciclone. Si limita a liquidare la giornata con sarcasmo: «Benvenuti all’opposizione, ma ora
niente scherzi al Senato».
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LEGALITA’DEMOCRATICA
Dell’11/03/2015, pag. 8
Dagli asili alle penne biro il ‘manuale’ del
malaffare
SICILIA, LE DENUNCE DEI CITTADINI: CI SONO ANCHE I RICATTI SULL’ACQUA
CORRENTE, IL TARIFFARIO PER AVERE LE INVALIDITÀ E I TRAFFICI NELLE
FORNITURE SANITARIE
C’è uno strano passaggio di aziende che decadono, scorrono in graduatoria e poi
risorgono sotto altro nome, ma a guidarle sono sempre le stesse persone che si
aggiudicano appalti per svariati milioni di euro, dalla fornitura dei pasti al servizio di
trasporto di degenti all’amministrazione di un grosso ospedale dell’agrigentino. E la regia
sarebbe di un noto deputato regionale. C’è poi l’acquisto da parte di una scuola del
palermitano di una licenza di un software costato 600 mila euro. Ma anche la fornitura per
decine di migliaia di euro, di centinaia di pacchi di penne biro, del tutto inutili, a un ente di
formazione professionale. Cento denunce nei primi tre giorni, oltre 250 nel primo mese di
attività nel sito lanciato in Sicilia dal Movimento 5 Stelle (www. segnalazioni 5 stelle. it)
rompono il tabù dell’omertà siciliana e formano un’istantanea aggiornata del malaffare a
tutti i livelli denunciato dai cittadini sia in forma anonima sia firmando la segnalazione, con
nome e cognome. Carriere facili e figli di primari Quelle più numerose arrivano dal mondo
della sanità: nel reparto di Radiologia di un noto ospedale palermitano, i macchinari sono
utilizzati da personale non specializzato e spesso rimangono anche fermi per mancanza di
tecnici. E al Policlinico di Palermo sono una decina i nomi dei figli di primari che godono di
corsie preferenziali di carriera, agevolati dai colleghi dei genitori e posti anche come
strutturali senza averne i requisiti. Sei segnalazioni denunciano che al corpo Forestale un
gruppo di dieci persone monopolizza la gestione di ferie, permessi premio, straordinari e
malattie, spesso fasulle, a danno di tutti gli altri dipendenti. In un comune delle Madonie, in
provincia di Palermo, le forniture di cancelleria per migliaia di euro sono affidate ad
un’azienda di familiari di un componente della giunta comunale. A Palermo un asilo nido
pubblico viene utilizzato come abitazione privata con allacciamenti abusivi. A Bagheria
una cooperativa che si occupa di recupero di tossicodipendenti fa lavorare in nero di
dipendenti e utilizza i beni confiscati alla mafia e i fondi destinati al banco alimentare per
altri scopi. Formazione e corsi fantasma Nell’agrigentino sono più d’uno i comuni che
avrebbero interrotto più volte l’erogazione dell’acqua pubblica ai cittadini creando
artatamente i disservizi per indurli a scegliere il servizio alternativo, più costoso, garantito
da una società privata. A Licata un uomo ha ottenuto la pensione d’invalidità pagando
profumatamente il favore ricevuto e ad Agrigento un funzionario pubblico, vicino alla
commissione che decide le invalidità civili, stabiliva un tariffario filtrando le richieste, poi
esaudite. Su questo malcostume, assai diffuso in provincia di Agrigento, la procura ha
aperto da tempo un’inchiesta arrestando medici e funzionari e portando a galla un vero e
proprio sistema di corruttela. Decine di denunce sollevano il coperchio sulla formazione
professionale: corsi fantasma, attestati a persone che non hanno mai frequentato,
laboratori mai attivati. Tutti profumatamente pagati. Mazzetta selvaggia Decine di
segnalazioni, tutte con nome e cognome, riguardano medici specialisti in tutta la Sicilia
che non rilasciano fattura dopo le visite, dipendenti pubblici infedeli che chiedono un
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cellulare o addirittura 100 euro per portare avanti una pratica amministrativa, favoritismi,
clientele e ricatti sui posti di lavoro. Alcune decine, in tutti i settori, sono le denunce di gare
di appalto ritagliate ‘ su misura’, con la scelta dei criteri identificativi di aziende precise, in
qualche caso vicine anche a politici. La rabbia e i riscontri Il numero maggiore di denunce
arriva da Palermo e Catania, seguono Agrigento, Caltanissetta e Enna, poche da
Siracusa, nessuna da Trapani. “Nel primo mese c’è stata una partecipazione inaspettata e
la nostra valutazione è molto positiva – dice Giulia Di Vita, deputato del Movimento 5
Stelle – è ovvio che tutto va preso con le pinze e analizzato con la massima attenzione,
alla ricerca di riscontri. La Sicilia si conferma laboratorio nazionale, visto in molti ci
chiedono di allargare quest’esperienza a livello nazionale. C’e ’ un interesse concreto in
Toscana e Campania, ma pensiamo di estendere la possibilità di denunciare il malaffare a
tutto il Paese’’. La fiducia e lo Stato E la fiducia dei siciliani nei grillini supera anche quella
nello Stato: alla domanda finale del forum di compilazione del portale anticorruzione “se
questa denuncia la faresti anche alle forze dell’ordine”, la raffica dei no surclassa i sì. Se
ancora prevalgono le segnalazioni di illeciti e disservizi e non sono molte le denunce di
scandali eclatanti, la Di Vita è ottimista: “In molti attendono di capire che fine faranno
queste denunce: noi cerchiamo i riscontri, le passiamo al vaglio dei nostri consulenti legali
e poi il loro approdo è in procura. Quando vedranno che facciamo sul serio, le denunce
sulla corruzione si moltiplicheranno”.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
Dell’11/03/2015, pag. 9
America, Ferguson tutti i giorni
Stati uniti. Selma, ieri, oggi e domani. Dopo il Wisconsin, un altro
afroamericano ucciso dalla polizia
Luca Celada
Poco prima del ricordo di Obama della marcia di Selma, un altro nero veniva ucciso negli
Stati uniti. E ieri, pochi giorni dopo le immagini dell’Alabama e il discorso del presidente
Usa, un’altra vittima. Un altro afroamericano, disarmato, ucciso dalla polizia.
Il messaggio sembra essere diretto proprio al presidente: la sua elezione non ha cambiato
niente, o ha cambiato davvero poco.
L’ennesimo caso
La vittima è un uomo che — in stato confusionale, probabilmente malato di mente — si
aggirava nudo nel complesso di appartamenti di Atlanta dove viveva. Un agente dopo
averlo richiamato, anziché usare il taser, ha sparato due volte, uccidendolo. L’agenzia
investigativa della Georgia, Gbi, ha avviato un’inchiesta.
Secondo la ricostruzioni fornita da Cedric Alexander, direttore del dipartimento della pubblica sicurezza della contea di Atlanta, la polizia era intervenuta dopo che alcuni residenti
del palazzo avevano denunciato la presenza di un «uomo sospetto» che bussava alle
porte e si aggirava nudo.
«Non è stata rinvenuta nessuna arma», ha ammesso Alexander, spiegando che l’uomo si
è scagliato contro il poliziotto ed ha ignorato gli avvertimenti a fermarsi.
Selma is now
Un ponte intitolato ad un Grand Wizard del Ku Klux Klan questa settimana è tornato ad
essere il centro d’America. Il Bloody Sunday sull’Edmund Pettus bridge fece di Selma, Alabama il simbolo mondiale del razzismo e della lotta per l’emancipazione dei neri americani; 50 anni dopo su quello stesso ponte il cinquantenario è stato commemorato da un
presidente afroamericano.
Quale evento potrebbe esprimere con più didascalica simmetria — con hollywoodiana perfezione — la narrazione americana di ingiustizia e redenzione e progresso sociale? Se
fosse stata scritta in una sceneggiatura sarebbe probabilmente stata respinta come inverosimile. Lo stesso Martin Luther King il reverendo che su quel ponte aveva portato i suoi
freedom fighters quando era profonda retrovia segregazionista non avrebbe potuto — pur
con tutta la fede nel dream — immaginare una più simbolica ricorrenza.
Emergenza razzismo
Il cinquantenario è caduto nel mezzo una ennesima emergenza razzismo. Oggi un nuovi
cortei invece di «we shall overcome» urlano «Black Lives Matter!». «Le nostre vite contano», scandiscono i militanti del movimento contro la strage non tanto silenziosa di neri
ad opera della polizia.
E le prigioni straripano di prigionieri dalla pelle scura. Dei quasi 2 milioni e mezzo di detenuti più del 40% sono discendenti di schiavi. E come ha detto John Legend dal palco degli
Oscar, ci sono più neri (1.7 milioni) sotto restrizioni coatte oggi che schiavi nel 1850
(870.000). La lunga marcia dell’America dal peccato originale della schiavitù è diventato
un sorta di misura mondiale di ingiustizia e progresso sociale. Giustamente, data la lampante contraddizione con la narrazione nazionale di libertà e felicità, predestinazione
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e eccezzionalismo. La strada è tortuosa: 50 anni fa ha attraversato il Pettus e questo fine
settimana è di nuovo passata per quel ponte.
E grazie alla corte suprema alcune battaglie dovranno venire combattute da capo. Una
recente sentenza ha abrogato l’articolo 5 del voting rights act la legge sulla pari opportunità di votostrappata col sangue di Selma. La clausola stabiliva che gli stati ex segregazionisti dovessero passare il vaglio federale prima di imporre limiti alla iscrizione elettorale.
Ma i conservatori americani hanno ogni interesse a limitare il voto delle minoranze che
sono parte integrante dell coalizione progressista e ora hanno un modo in più per farlo.
Passi indietro
È un grave passo indietro e non è solo questo. Nel weekend di Selma un ragazzo nero
disarmato, l’ennesimo, in Wisconsin, è stato ammazzato da un poliziotto. Una comitiva di
universitari dell’Oklahoma in gita è stata filmata mentre inneggiava al linciaggio dei neri.
Legend l’oscar lo ha ricevuto per Glory, la canzone del film che rievoca Selma; la regista
Ava Du Vernay lo ha dedicato ai ragazzi di Ferguson. Lo stesso Obama ha tenuto a dire
«Selma is Now», tutto è ancora in gioco.
La strada è ancora lunga e se c’è una ultima lezione da apprendere da Selma è che 50
anni dopo il Pettus, oggi non è più solo l’America a doverla percorrere — tutto l’occidente
deve riuscire a fare lo stesso cammino.
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WELFARE E SOCIETA’
Dell’11/03/2015, pag. 14
Pillola dei 5 giorni dopo
L’Italia contro l’Europa: servirà la ricetta
medica
Il parere del Consiglio Superiore della Sanità spiazza tutti
Flavia Amabile
L’Italia prende le distanze dall’Europa su quella che tutti chiamano «pillola dei 5 giorni
dopo». Nessuna libertà di vendita, ci sarà ancora bisogno della prescrizione di un medico.
Lo ha deciso il Consiglio superiore di Sanità stabilendo che «il farmaco EllaOne debba
essere venduto in regime di prescrizione medica indipendentemente dall’età della
richiedente». Come spiega il ministero della Salute, si vogliono «evitare gravi effetti
collaterali nel caso di assunzioni ripetute in assenza di controllo medico».
Prudenza, insomma, stando a quanto sostiene il ministero. In gioco, infatti, c’è un farmaco
da anni al centro di polemiche. La pillola EllaOne, pur agendo con un meccanismo simile
alla pillola del giorno dopo, può essere assunta fino a 5 giorni dopo il rapporto a rischio. In
base agli studi più recenti pubblicati non perde di efficacia per tutto il tempo in cui può
essere somministrata. In Italia è considerato un farmaco inserito tra quelli di fascia C, con
ricetta ma a carico dell’utente.
Ma nell’Ue c’è il via libera
In realtà a questo punto la situazione si complica e non mancheranno conseguenze.
L’azienda chiede chiarezza su come procedere e annuncia difficoltà nella futura vendita.
L’Unione Europea, infatti, ha dato il via libera pieno alla vendita senza alcun tipo di
obbligo. A novembre è arrivato il sì dell’Agenzia del farmaco europea (Ema), a gennaio si
è espressa la Commissione Europea con un parere totalmente in linea con l’Ema,
nessuna ricetta medica perché la pillola sia disponibile in farmacia. La decisione dovrebbe
essere applicabile a tutti gli Stati membri, ma in accordo alle procedure nazionali.
E la procedura nazionale italiana sembra avviarsi in senso totalmente opposto rispetto alla
normativa europea. L’ultima decisione spetta all’Aifa. «Può ancora renderci un Paese
europeo» è l’appello rivolto all’Agenzia italiana del farmaco da Alberto Aiuto,
amministratore delegato della Hra Pharma, l’azienda che produce la pillola. Aiuto ha
sottolineato che il parere del Css non è vincolante e che quindi l’Aifa può decidere «in
autonomia che cosa fare». In realtà l’agenzia nella maggior parte dei casi si adegua al
parere del Consiglio. In questo caso sarebbero possibili anche problemi tecnici nella
vendita della pillola dei cinque giorni dopo in Italia.
Problemi con il bugiardino
«L’Aifa - ricorda Aiuto - dovrà farci sapere come agire dato che gli Stati non possono
mettere in commercio farmaci con scatola e foglietto interno difformi da quelli approvati a
livello europeo. Tecnicamente una scatola e un foglietto in cui si dice che c’è obbligo di
ricetta non possiamo venderli. Dovranno dirmi che cosa fare». «A due giorni dall’8 marzo
per le donne italiane è in arrivo un pessimo regalo - avverte Laura Garavini dell’Ufficio di
Presidenza del gruppo Pd della Camera - Solo pochi giorni fa il Parlamento tedesco ha
approvato una legge nata da un’iniziativa legislativa del governo che permette la vendita di
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EllaOne senza prescrizione medica. Ci auguriamo perciò che il ministro Lorenzin decida
guardando all’Europa e con l’obiettivo di dare più diritti e libertà alle donne italiane».
dell’11/03/15, pag. 1/15
Sanità, le regioni rosse non amano il pubblico
di Ivan Cavicchi
Addio solidarietà. A rimettere in discussione il fondamento della nostra sanità pubblica
sono quelle Regioni che Ivan della Mea nel 1969 avrebbe catalogato tra le cose che si
stingono cambiando di colore «il rosso è diventato giallo» e che oggi altro non sono se non
Regioni senza scrupoli che colpiscono alle spalle l’etica egualitaria del welfare. Sono le
stesse Regioni che rispetto all’universalismo sono state di esempio a tutti. Vale a dire
Emilia Romagna e Toscana, ma anche Liguria e anche altre.
Messe alle corde dalle restrizioni finanziarie, stanno aprendo la strada alla privatizzazione
della sanità, incapaci di trovare soluzioni alternative pur avendone a disposizione un bel
po’. Tradimenti quindi, cioè controriforme, in nulla giustificati dai contesti avversi e che si
spiegano con la malafede politica, la disonestà intellettuale, i limiti culturali, lo spirito
controriformatore del tempo e un cedimento al pensiero speculativo dell’intermediazione
finanziaria.
La Toscana, la regione con il più alto tasso di copayment cioè di compartecipazione alla
spesa pubblica da parte dei cittadini, è anche la Regione che di fatto ha praticamente
appaltato la diagnostica e buona parte della specialistica ambulatoriale ai privati,
incoraggiandoli a proporsi con prezzi competitivi e promozionali per battere il pubblico,
oggi alle prese con un riordino esplicitamente contro riformatore.
L’Emilia Romagna, da tempo al lavoro per costruire fondi integrativi, recentemente ha
raggiunto un’intesa con Coop e Unipol per fornire sistemi assistenziali paralleli e lo stesso
presidente Bonaccini nel suo programma politico ha dichiarato di voler «spezzare la
concezione ideologica che contrappone pubblico e privato». La Liguria è sulla medesima
strada e da tempo.
Che senso hanno queste politiche? Mettere in conflitto due generi di solidarietà: quella
mutualistica che dipende dai redditi delle persone e che per sua natura è discriminativa e
quella pubblica che dipende dai diritti delle persone e che per sua natura è egualitaria.
Cioè stanno contrapponendo la diseguaglianza alla eguaglianza facendo della prima un
valore e della seconda un disvalore. Un gioco apertamente neoliberista a somma
negativa.
C’è da chiedersi con una certa urgenza cosa fare per combattere queste tendenze.
Rodotà recentemente con un suo libro (“Solidarietà, un’utopia necessaria” Laterza 2014)
dice che oggi «è necessario…riprendere con determinazione il tema dei principi». Ma cosa
vuol dire «seguire la via del costituzionalismo» per ribadire «la connessione tra principi e
diritti» per non «rassegnarsi alla subordinazione alle compatibilità economiche»? A che
serve ribadire il valore della solidarietà quale “principio generale” quando esso è già
normato, e quando il vero problema che abbiamo è la sua inosservanza se non la sua
negazione? Temo che la strada dei principi non basti.
In sanità come dimostrano le “Regioni gialle” la rottura del legame solidaristico inizia dai
limiti anche culturali di una classe dirigente che non è capace di provvedere ad un
pensiero riformatore e che vede nella controriforma l’ unica possibilità di gestire un limite
economico. In sanità la solidarietà è in crisi per tante ragioni: economiche , culturali, sociali
filosofiche e antropologiche, politiche . Il più grande sindacato dei medici di medicina
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generale al suo ultimo congresso si è dichiarato favorevole a ridurre la solidarietà dello
Stato ai soli indigenti. Il sindacato confederale si trova dentro una contraddizione
imbarazzante: da una parte difende il sistema sanitario solidale e universale e dall’altra per
via contrattuale stipula per le “categorie forti” accordi per l’assistenza mutualistica.
La più grande rottura della solidarietà nel mio campo si ha con la crescita esponenziale del
conflitto tra società e sanità, definita altrimenti “contenzioso legale”. I cittadini malati
portano i medici in tribunale cioè rompono i legami di solidarietà che li ha sempre
giustapposti ai propri terapeuti per millenni. Questi antichi legami si sono rotti anche
perché l’uso della medicina oggi è fortemente condizionata da comportamenti
apertamente antisolidaristici degli operatori come sono quelli agiti in modo opportunistico a
difesa dei rischi professionali (medicina difensiva).
La solidarietà sino ad ora in sanità è stata vista, soprattutto da sinistra, come di tipo
fondamentalmente fiscale ma in realtà di solidarietà ve ne sono tante e quello che ci
manca è un pensiero riformatore in grado di ricomprenderle in un nuovo discorso che oltre
che di diritti parli anche di doveri proprio nel senso indicato dall’art 2 della Costituzione.
Non sono d’accordo con le “Regioni gialle” che riconducono tutto ad una questione di
scarsità delle risorse ma neanche con coloro che parlano del controllo delle risorse come
una priorità costituzionale.
Lorenza Carlassare, ad esempio, ci propone di distinguere «fondi doverosi» «destinazioni
consentite» e «destinazione vietate»(Costituzionalismo.it,1,2013)…ma in sanità le
differenze tra necessario/essenziale/utile/primario/secondario costituiscono un campo
minato e poi allocare risorse con questa logica non è molto diverso da chi propone di
finanziare la sanità per priorità che come è noto è il presupposto di partenza
dell’universalismo selettivo. Se ragioniamo per “priorità” addio solidarietà.
Penso che la contraddizione solidarietà/risorse sia innegabile ma non giustifica il
“tradimento” delle regioni nei confronti dell’universalismo. L’art 2 della costituzione ci invita
a considerare la solidarietà come «dovere», mentre le regioni si sottraggono a questo
dovere
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DIRITTI CIVILI
dell’11/03/15, pag. 21
«Impegno per la legge sulle unioni civili»
Il tweet del premier: è già in discussione in Parlamento. No di Ncd, si
lavora a un voto trasversale Oggi il divorzio breve in Senato. Contrari
venti cattolici del Pd, si punta sull’area laica di Forza Italia
ROMA Matteo Renzi ieri ha risposto a un tweet, senza esitazione: «Ho preso un impegno
con gli italiani, la legge è già in discussione in Parlamento».
Stava parlando di unioni civili, il presidente del Consiglio, una legge che è entrata fin da
subito nel programma di governo e che il premier rilancia adesso con il suo consueto
decisionismo riassunto nell’hastag: #lavoltabuona.
Il premier è convinto: farà questa legge che nessuno, in Italia, è mai riuscito a fare. «E
nessun presidente del Consiglio prima di lui aveva mai preso un impegno pubblico e così
esplicito in favore dei diritti degli omosessuali», dice soddisfatto Ivan Scalfarotto,
sottosegretario alle Riforme. Quindi spiega: «Il testo in discussione al Senato è quello
delle unioni civili alla tedesca e riguarda direttamente gli omosessuali. Questa posizione di
Renzi è una vera innovazione politica, una crescita culturale. L’Italia, come al solito, è il
fanalino di coda in tema di diritti. Mentre nel mondo si parla di matrimonio fra gay (l’ultimo
ad approvarlo è stata la Slovenia), qui noi omosessuali non siamo riusciti ad avere
nemmeno i diritti più elementari ».
Non sembra essere un cammino facile quello della legge sulle unioni civili alla tedesca.
Per poterla approvare c’è bisogno di una maggioranza trasversale, visto che dentro la
maggioranza di governo l’Ncd è da sempre apertamente contrario e proprio ieri il ministro
Angelino Alfano dopo il tweet del premier si è affrettato a prendere le distanze dalla legge.
Ha detto, infatti, il ministro dell’Interno e leader dell’Ncd: «Non sono d’accordo nel
concedere la pensione di reversibilità alle coppie omosessuali. I primi conti che sono stati
fatti dicono che queste pensioni costerebbero circa 40 miliardi e con la situazione dei conti
pubblici italiani non credo proprio che questa sia la priorità delle priorità. Se ci sono a
disposizione 40 miliardi è ovvio che abbasso le tasse».
Ad Alfano ha replicato Sergio Lo Giudice, senatore pd, ricordando che «la Corte di
giustizia europea (le cui sentenze sono vincolanti per gli Stati membri) sin dal 2008 ha
stabilito che negare le pensioni di reversibilità alle unioni civili costituisce una violazione
della direttiva contro le discriminazioni sul lavoro».
Questa legge in discussione al Senato trasferisce alle coppie omosessuali praticamente
tutti i diritti delle coppie sposate, con alcune esclusioni importanti; primo fra tutti, il diritto di
adozione.
«Non vorrei che il premier per via di questa legge si trovasse a dover scrivere un nuovo
hashtag: #speriamochemelacavo», ironizza Francesco Nitto Palma, senatore di Forza
Italia, capo della commissione Giustizia. Che, però, subito dopo aggiunge: «Adesso
dobbiamo finire l’esame della norma contro la corruzione, ma subito dopo metterò in
calendario la discussione sul disegno di legge sulle unioni civili».
È da sempre un tema che spacca i partiti quello dei diritti alle coppie omosessuali. Il
mondo cattolico in Parlamento è lo spartiacque su tutti i temi etici, anche sulla legge sul
cosiddetto divorzio breve, che sarà in aula del Senato oggi e che ha già spaccato il Partito
democratico, al cui interno si è formato un fronte contrario di una ventina di senatori
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cattolici. Ma sui temi etici non si spacca solo il Pd, ampio il fronte dei laici azzurri di Forza
Italia, una truppa di voti che uniti a quelli di Sel e di una buona parte del Movimento
Cinquestelle potrebbero far raggiungere la maggioranza per l’approvazione.
Un banco di prova potrebbe essere proprio oggi la discussione sulla legge del divorzio
breve (oggi da tre anni passerebbe a un anno, ma anche a sei mesi nel caso di coppia
consensuale senza figli minori), immediato (in questo caso si annullerebbe la fase di
separazione, sempre per le coppie senza figli) e anche facile (con la possibilità di
discutere la causa di divorzio nello studio di un legale e non in tribunale).
Alessandra Arachi
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BENI COMUNI/AMBIENTE
Dell’11/03/2015, pag. 19
Sardegna, cubature sulla riva
OGGI IN REGIONE LA PROPOSTA PD: SI POTRÀ EDIFICARE A MENO DI 300 METRI
DAL MARE
Non è un proconsole berlusconiano, ma un governatore renziano a riportare l’incubo del
cemento sulle coste della Sardegna. Nuove cubature potranno sorgere anche nei primi –
finora inviolabili – 300 metri dal mare, dove non potranno vedere la luce altri posti letto, ma
nuovi servizi sì. E anche vecchi progetti, congelati nel 2006 dal rigoroso Piano paesistico
regionale (Ppr) dell’allora governatore Renato Soru, potrebbero tornare validi. Lo spettro
delle speculazioni edilizie sulla costa sembra materializzarsi nella proposta di legge della
giunta di centrosinistra guidata dal renziano Francesco Pigliaru che oggi sarà discussa dal
consiglio regionale. La norma cancellerà il vecchio “piano casa” targato centrodestra,
anche se gli ambientalisti sono già sulle barricate: “Il centrosinistra sta facendo peggio di
Ugo Cappellacci”, il governatore berlusconiano sconfitto da Pigliaru un anno fa. QUELLA
per i litorali non è l’unica minaccia contenuta nel testo di legge: le betoniere potrebbero
tornare a farsi largo nei centri storici, anche questi blindati da Soru – patron di Tiscali,
attuale segretario regionale del Pd ed europarlamentare. La discussione su – come vuole
la dicitura esatta – “Norme per il miglioramento del patrimonio edilizio e per la
semplificazione e il riordino di disposizioni in materia urbanistica ed edilizia” verrà avviata
oggi. La prima versione del testo era stata varata dalla giunta il 23 ottobre dell’anno
scorso, su proposta dell’assessore regionale agli Enti locali, Cristiano Erriu del Pd. Dopo il
vaglio della commissione Urbanistica del consiglio regionale la norma è stata modificata,
ma la sostanza non cambia e lascia molti scontenti. Se nelle dichiarazioni l’obiettivo era –
come si legge nella relazione – una regolamentazione improntata alla certezza delle
norme, il contenimento del consumo del territorio e la riqualificazione del patrimonio
esistente, il risultato sembra diverso. Con la minoranza di centrodestra che mostra il
pollice verso (voleva un maggiore impulso al settore) e parte del Pd che storce il naso per
il rischio di tradimento al Ppr. Così gli emendamenti, anche amici, sono dietro l’angolo. E,
come sempre in Sardegna quando si parla di urbanistica e cubature, gli animi sono già
infuocati. MENTRE Pigliaru, professore di economia, cita l’edilizia tra i motori della sua
ricetta keynesiana per far uscire l’economia dell’isola da una crisi nerissima, gli
ambientalisti lo accusano: “Il consiglio regionale della Sardegna si appresta a esaminare
una proposta di legge che fa da coperchio alla più retriva speculazione immobiliare. Un
salto indietro di 30 anni”, è l ’ attacco di Stefano Deliperi, leader delle associazioni Gruppo
di intervento giuridico e Amici della Terra. Il cavallo di Troia per il grande ritorno del
cemento nella fascia ultra tutelata dei 300 metri si chiama turismo. In nome dello sviluppo
di quella che dovrebbe essere la maggiore industria sarda saranno permessi ampliamenti
del 25 per cento di volumetria per le attività esistenti, anche a ridosso del mare: il tabù
dell’intangibilità della battigia potrebbe dunque cadere. Il perché lo spiega un esponente
del Pd, Antonio Solinas, relatore di maggioranza: “Si è ritenuto meritevole prevedere
incrementi volumetrici maggiori, a condizione che tali incrementi diversifichino e
riqualifichino le dotazioni e i servizi delle strutture ricettive al fine di promuovere la
destagionalizzazione dell’offerta turistica”. Mentre ci si interroga sull’esistenza del cemento
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destagionalizzante, sul punto sono arrivate anche le critiche di segno opposto del
centrodestra che non condivide il divieto, previsto dalla legge, di creare nuovi posti letto. Si
fa invece notare il silenzio dell’ala del Pd legata a Soru, che tace anche sulla violazione di
un caposaldo del suo piano paesistico regionale, l’intangibilità dei centri storici, finora
vincolati. La nuova normativa consentirebbe incrementi volumetrici fino al venti per cento,
anche se subordinati a un apposito piano particolareggiato delegato al Comune. Il punto
che più agita gli animi e su cui le associazioni ambientaliste vanno giù dure è quello delle
cementificazioni zombie: “Pare un testo che punta a resuscitare i progetti edilizi morti e
sepolti dal Ppr, e a render permanente la disciplina permissiva che era provvisoria nel
pessimo piano del 2009 di Cappellacci”. Le lottizzazioni finora paralizzate sarebbero
rimesse in corsa da norme transitorie, che consentono il completamento degli interventi
già autorizzati prima dell’intervento anti-cemento di Soru: Arzachena, Costa Smeralda e
Villasimius sono le tre zone a maggior rischio.
Dell’11/03/2015, pag. 13
«Fa la cosa giusta», la scommessa di un
consumo critico
SanaMente. Non poteva che partire da Milano il cammino della rubrica durante i
mesi dell’Expo 2015. Seguiremo la ciclopica kermesse con sguardo attento;
racconteremo cosa succede dentro e intorno ai padiglioni; ci occuperemo delle
decine di manifestazioni italiane collegate a Expo dalla presenza del marchio o dalla
comunione di intenti
Luciano Del Sette
Non poteva che partire da Milano il cammino di SanaMente durante i mesi dell’Expo 2015.
Seguiremo la ciclopica kermesse con sguardo attento; racconteremo cosa succede dentro
e intorno ai padiglioni; ci occuperemo delle decine di manifestazioni italiane collegate
a Expo dalla presenza del marchio o dalla comunione di intenti; proveremo a interpretare
le declinazioni della parola cibo nelle tante regioni del mondo. Avremo, poi, un occhio di
riguardo per chi i discorsi di Expo li fa da sempre, con pochi quattrini e molta buona
volontà, riuscendo a conquistarsi la stima e l’affetto del pubblico. È il caso di «Fa la cosa
giusta», fiera nazionale del consumo critico e degli stili di vita sostenibili, al traguardo
dell’edizione numero dodici. Ragguagli pratici, cui segue il racconto dei tre giorni dal 13 al
15 di marzo: «Fa la cosa giusta» si svolge alla Fiera di Milano, viale Scarampo, Gate 8,
fermata Lotto Fiera della M1. Informazioni sul sito falacosagiusta.org, ingresso gratuito per
chi ha meno di quattordici anni. Come è ormai consuetudine, nei 29mila metri quadri occupati da oltre settecento espositori, i quartieri, le piazze, le vie della piccola città provvisoria
ospiteranno botteghe, laboratori, stand, aree verdi, ristoranti, incontri e spettacoli. Le tematiche spazieranno dal biologico al chilometro zero, dall’abitare green al vestire seguendo
i canoni della moda etica, dalla mobilità a basso impatto ai giochi per i bambini, dal commercio equo e solidale ai progetti associativi e cooperativi no profit. Il settore della sharing
economy (il nostro idioma la traduce in economia condivisa), spiega le varie possibilità di
scambiare e, appunto, condividere, servizi, beni, oggetti nei settori del cohousing, del bike
e car sharing, dell’alimentazione. Senza dimenticare i Gruppi di Acquisto, realtà che si sta
affermando anche da noi, e la lotta agli sprechi di vario genere. Utile e divertente l’area del
baratto, dove passeranno da una mano all’altra oggetti ritenuti ingombranti o caduti in
disuso. Da non confondere con l’autarchia è l’autoproduzione di cosmetici femminili
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e maschili, dentifricio in polvere, repellenti per insetti, benefiche alchimie naturali come il
siero di kefir. I bambini, dal canto loro, si cimenteranno con le tecniche casearie e l’arte
della pasta fresca; mentre, sulla pista ciclabile, faranno tesoro delle regole e dei comportamenti da rispettare in sella a una bici. Di ampio respiro la sezione dedicata al welfare territoriale, servizi e idee rivolti alle comunità dei singoli territori. La Cittadella della Pace sarà
luogo di mostre, confronti, approfondimenti sulle guerre in corso, sul superamento dei confini, sulle soluzioni possibili per arrivare alla pace. Utopia? Forse. Ma discuterne fa comunque bene. Gli incontri vedranno scrittori, trekker, architetti, giornalisti parlare di psicogeografia, percorsi urbani nascosti, nuove culture nelle città. Segnando sul calendario i tre
giorni di «Fa la cosa giusta», farete la cosa giusta anche voi.
[email protected]
Dell’11/03/2015, pag. 8
Fukushima, 4 anni da sfollati
Giappone. Nella ricorrenza del terremoto e dello tsunami sono 230 mila
le persone ancora senza casa
Marco Zappa
All’ingresso della città di Futaba, provincia di Fukushima, ad appena quattro chilometri di
distanza dalla centrale nucleare Numero 1, campeggia una scritta: «nucleare: l’energia per
un futuro più luminoso». A quattro anni dal disastroso incidente dell’11 marzo 2011,
l’insegna, installata con i soldi di Tepco, l’azienda elettrica di Tokyo che gestiva l’impianto
e oggi cerca di portare avanti una difficile opera di smantellamento e bonifica, verrà smontata a breve. Insieme alla sua gemella — che recita: «l’energia nucleare porterà allo sviluppo regionale e ad un futuro prospero» — l’insegna ancora oggi accoglie i pochi evacuati autorizzati a fare brevi visite alle proprie case.
Il paradosso è che gli stessi operai che saranno incaricati dello smantellamento delle due
insegne potranno restare in città solo per poche ore, data la radioattività della zona.
Futaba, per la sua vicinanza all’impianto, è stata infatti designata come «zona in cui sarà
difficile tornare», una città fantasma sulla statale che collega Tokyo a Sendai.
Quattro anni dopo terremoto, tsunami e incidente nucleare, sono città fantasma come
Futaba il simbolo di una ripresa che prosegue a fatica. La cifra simbolo di questo quarto
anniversario del grande disastro del Nordest del Giappone è proprio quella degli sfollati:
sono circa 230 mila – secondo dati dell’agenzia governativa per la ricostruzione – le persone che attendono l’assegnazione di abitazioni pubbliche o hanno ottenuto i permessi per
costruirsi una nuova dimora. Quasi la metà di loro ha deciso di non tornare al proprio alla
propria casa. «È importante che le autorità garantiscano il sostegno agli evacuati per ritornare alle loro amate case», si legge in un editoriale pubblicato dallo Yomiuri Shimbun, il
primo quotidiano giapponese. «I progetti di decontaminazione da radiazioni hanno fatto
progressi in queste aree — prosegue l’editoriale — ma molte persone non si fidano a tornare per paura dell’inquinamento radioattivo». Alcuni piccoli passi verso un ritorno alla normalità delle zone interessate dalle fughe radioattive si erano visti lo scorso anno con la
fine del divieto di accesso in alcune zone comprese nella zona di esclusione a 30 chilometri dalla centrale di Fukushima, ma gli abitanti rimangono scettici.
Per convincerli a tornare, oltre a un impegno da 3,4 mila miliardi di yen, circa 25 miliardi di
euro per la ricostruzione, il governo di Tokyo ha avviato un programma specifico per la
ripresa economica delle aree colpite dal disastro: Atarashii Tohoku (Nuovo Tohoku).
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I pilastri del programma sono cinque: la crescita dei bambini in un ambiente sicuro e sano;
la rivitalizzazione di una società che invecchia a ritmo sempre più veloce; lo sfruttamento
di energie sostenibili; la messa in sicurezza delle infrastrutture pubbliche; l’utilizzo di
risorse regionali (in particolare alimentari in una regione principalmente rurale) che
abbiano appeal al di fuori della dimensione locale. «Il programma è molto attraente – ha
spiegato al manifesto Takaharu Saito, amministratore delegato di Communa, una start-up
di Sendai da anni impegnata ad aiutare aziende locali a presentarsi al pubblico internazionale – ed è buono sulla carta. Le iniziative più innovative ricevono sussidi e finanziamenti.
Tuttavia, temo che non cambierà davvero le cose». Secondo un recente sondaggio
dell’Asahi Shimbun, oltre il 70 per cento dei residenti nella provincia di Fukushima sono
insoddisfatti di come il governo ha fin qui gestito la situazione. Il primo ministro Shinzo
Abe, alla vigilia del quarto anniversario dall’incidente nucleare, ha promesso entro l’estate
un nuovo programma per la ripresa da qui al 2020, anno delle Olimpiadi di Tokyo.
«Avremo pronto entro l’estate un piano per un futuro autosufficiente della provincia». Più
che sul governo è in particolare su Tepco che si concentrano le critiche dopo le rivelazioni
riguardo alle tonnellate di acqua contenente materiali radioattivi riversate nell’oceano
nell’ultimo anno e mezzo — per errori di valutazione del personale addetto al controllo
delle cisterne di stoccaggio disposte all’interno dell’area della centrale. Fatti che però non
sembrano toccare la prima azienda elettrica del paese. Nonostante nel 2012 la commissione d’indagine sull’incidente avesse dichiarato esplicitamente che Fukushima era stato
un disastro provocato da errore umano», nessuno dei dirigenti è stato indagato per
l’incidente. L’ex presidente dell’azienda, Tsunehisa Katsumata e i suoi ex vice Sakae Muto
e Ichiro Takekuro erano stati accusati da una speciale commissione popolare di inadempienza nella protezione della centrale in caso di tsunami di grande portata. Simbolo di una
sorta di intoccabilità politica e giudiziaria di cui gode Tepco – oltre che prima azienda elettrica del Sol levante, quarta al mondo. Il genshiryoku mura, il «villaggio nucleare», come
è soprannominata la lobby del settore, non si tocca e il ritorno al nucleare del paesearcipelago — entro giugno dovrebbero ritornare attivi i due reattori della centrale di
Satsuma-Sendai, a Sud – ne è la dimostrazione più lampante.
Dell’11/03/2015, pag. 8
«Mettiamo al bando le armi nucleari»
Campagna Senzatomica. Una mostra a Roma
Raffaella Cosentino
Settant’anni di era atomica e una nuova incombente minaccia all’orizzonte. Nel mondo esistono più di 16mila bombe nucleari, di cui più di 70 in Italia, custodite nelle basi militari statunitensi di Ghedi e Aviano. Delle 180 armi nucleari schierate dagli Usa in Europa, il nostro
paese ne ospita, in proporzione, il numero più alto. Il terrore di un conflitto nucleare, che
durante la Guerra fredda era al centro del dibattito pubblico, nell’ultimo quarto di secolo
è finito nel dimenticatoio. L’ultimo numero dell’Economist (uscito il 7 marzo) dedica invece
la copertina alla «nuova era nucleare». La corsa agli armamenti atomici non è mai finita
e anzi il club degli Stati che detiene la «bomba» non bada a spese per rifornire l’arsenale.
Rispetto a quelle di tipo A sganciate su Hiroshima e Nagasaki, oggi esiste la bomba
H all’idrogeno, la bomba N al neutrone (il cui scopo è uccidere gli esseri viventi lasciando
la maggior parte delle strutture nemiche intatte), la bomba G, al cobalto, e le «bombe sporche» come quelle all’uranio impoverito.
«Bimbi nati in modo soddisfacente» è il telegramma che ricevette il presidente Truman
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durante la conferenza di Potsdam il 16 giugno del 1945. Gli si comunicava la buona riuscita del primo esperimento atomico. «Mio Dio, che cosa abbiamo fatto?» disse invece
Robert Lewis, uno dei piloti del bombardiere americano B-29 che sganciò «Little Boy» il
6 agosto del 1945 su Hiroshima. Il mondo non ha davvero mai visto cosa è successo sotto
quel fungo atomico. Se non fosse per la testimonianza dei sopravvissuti o «hibakusha».
Un’opera di rimozione collettiva sulla catastrofe nucleare. Anche oggi, con tutti i mezzi
a disposizione nessuno potrebbe fronteggiare le conseguenze umanitarie di un uso deliberato o accidentale di armi nucleari. Nell’ambito del vasto fronte internazionale per il
disarmo nucleare, la «Campagna Senzatomica» vuole sviluppare un movimento di opinione per la sottoscrizione, entro il 2015, di un trattato internazionale che bandisca totalmente le armi nucleari. Culmine della campagna è la mostra «Senzatomica», allestita in
48 città italiane per un totale di 190mila visitatori e aperta gratuitamente a Roma dal
6 marzo al 26 aprile nello spazio Factory La Pelanda dell’ex mattatoio di Testaccio. Una
mostra che viaggia al ritmo di mille visitatori al giorno e di 16mila studenti delle scuole
romane prenotati. L’obiettivo è di raggiungere i 75mila visitatori. È la più grande esposizione per il disarmo mai fatta a Roma, con oltre 50 pannelli, installazioni sonore e video su
una superficie di 700 metri quadrati. L’iniziativa è promossa dall’Istituto buddista italiano
Soka Gakkai sotto lo slogan «il disarmo parte da me».
Dell’11/03/2015, pag. 18
Una colata di cemento con vista Appia Antica
IL COMUNE DI ROMA REGALA 400 MILA METRI CUBI AI SOLITI COSTRUTTORI
PERSINO UNA NECROPOLI DEL I SECOLO D. C. SOTTO 32 EDIFICI E UNA
TANGENZIALE
Dicono che a Roma, ovunque si faccia un buco nel terreno, si trovi qualcosa di antico.
Forse è per questo che, con una frequenza impressionante, la Soprintendenza decide di
ricoprire qualsiasi cosa venga alla luce al di fuori dal centro storico (anche perché lì è tutto
già scavato). Non ci sono i soldi, si dice ancora, per mantenere aperti i nuovi siti. È vero.
Ma forse nel caso dei ritrovamenti di Grottaperfetta, a pochi passi dall’Appia Antica, i soldi
per una volta sarebbero entrati nelle casse del Comune e in misura molto maggiore
rispetto alle uscite.
UNA NECROPOLI risalente al I-II secolo dopo Cristo, completa di piccoli mausolei e
recinti funerari, cospicue quantità di frammenti ceramici di età medio repubblicana, una
fattoria evolutasi in villa suburbana, un lungo tratto di strada romana con rivestimento
basolato ben conservato, un tratto di acquedotto e un’antica cava. Almeno per quello che
si è scavato. Il tutto non solo beatamente ceduto al consorzio di costruttori Grottaperfetta,
perché all’interno di un’area ceduta dal Comune di Roma in convenzione, ma altrettanto
beatamente ricoperto da abbondanti strati di terra. Né i romani né i turisti potranno mai
visitare quella necropoli. In compenso gli acquirenti dei lussuosi appartamenti nei megapalazzoni che sorgeranno a partire dal 2016 potranno dire di camminare sulla storia. La
vicenda dell’intervento urbanistico n. 60 comincia nel lontano 1962, quando – nell ’ allora
Piano regolatore – venivano destinati 180 mila metri cubi all’edilizia, in una zona ancora
poco abitata. Siamo a pochi metri dal parco dell’Appia Antica, c’è soltanto una strada che
divide le due aree. Ed è proprio l’Appia Antica, nello specifico la Tenuta di Tor Marancia,
che determina 40 anni dopo l’ampliamento del regalo ai “palazzinari”: non potendosi
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costruire in zona vincolata, il Comune, anzi che dire “scusate, ci siamo sbagliati”, decide di
“compensare”. E così i metri cubi di Grottaperfetta passano da 180 mila a 400 mila all ’
inizio del 2000. Il gruppo che si aggiudica il premio è formato da una cordata in cui si sono
alternati la famiglia Mezzaroma, Ciribelli, Calabresi, Rebecchini, Marronaro e il Consorzio
di cooperative Aic. Nomi che i romani, ma non solo loro, conoscono bene. La convenzione
con il Campidoglio viene siglata il 5 ottobre 2011 e integrata il 18 giugno 2012. I 400 mila
metri cubi si traducono in altri numeri, che danno ancora di più la dimensione dell’affare:
sull’area, che si estende per 23 ettari, si dovranno costruire 32 edifici a uso abitativo, un
centro polifunzionale, due asili, una piazza, strade interne per la viabilità locale, parcheggi,
una pista ciclabile, un sovrappasso in legno e, tanto per non farsi mancare nulla, una
tangenziale di collegamento con la via Laurentina. L’hanno chiamata “Nuovo
Rinascimento”, forse perché la popolazione aumenterebbe di 5. 000 unità. E del resto
come dire di no a “piacevoli linee architettoniche”, “ampie terrazze” e “lussuosi
appartamenti” che partono dalla modica cifra di 230 mila euro (box escluso,
naturalmente)? Le vendite sono già in corso e pullulano le inserzioni sui giornali locali, a
firma Immobildream di Roberto Carlino, quello che “non vende sogni ma solide realtà”. GLI
UNICI che stanno tentando di opporsi a quest’immensa colata di cemento – in una città in
cui Legambiente stima la presenza di 250 mila alloggi sfitti – sono i cittadini e il Municipio
VIII. I primi si sono costituiti in un comitato, “Stop I-60” (che ha un proprio sito e una
pagina Facebook), e da tempo cercano con ricorsi e manifestazioni di bloccare le ruspe. Il
Municipio ha messo in campo tutte le iniziative legali possibili. “Nel febbraio dello scorso
anno – racconta il presidente Andrea Catarci – abbiamo fermato le opere abusive di
reinterro dello storico Fosso delle Tre Fontane, intorno al quale esiste un doppio vincolo:
idraulico, sul quale abbiamo già vinto, e paesaggistico. A luglio 2014, il Gip di Roma ha
disposto il sequestro preventivo dell’area, già sottoposta a sequestro probatorio dalla
polizia giudiziaria di Roma Capitale, per consentire il ripristino del Fosso. La legge dice,
oltre tutto, che si deve costruire a 150 metri dai corsi d’acqua”. Ma come sempre, quando
ci sono di mezzo carte e pareri (e soprattutto cemento), la soluzione non è semplice. La
giunta regionale del Lazio, su sollecitazione del Consorzio, ha approvato una delibera che
toglie il vincolo esistente al Fosso delle Tre Fontane. Contro la giunta Zingaretti, si è
espresso per ben due volte (l’ultima, a dicembre 2014) il ministero per i Beni culturali: “Si
sottolinea – ha scritto – che la rettifica deliberata dalla Regione è motivata su un dichiarato
errore di graficizzazione. Si conferma la rilevanza paesaggistica del corso d’acqua”. Anche
l’Autorità di bacino del Tevere richiede che il Fosso venga “tutelato e valorizzato”. Come
se non bastasse, la Procura di Roma sta indagando per capire se il re-interro del Fosso
sia avvenuto attraverso “false” autorizzazioni e – scrive il Gip – il Corpo forestale ritiene il
cantiere “‘ abusivo ’ poiché la convenzione, e con essa i progetti delle opere di
urbanizzazione ed edificazione sono stati adottati su un presupposto falso, quale la
dichiarazione di tombinamento del fosso”. “C’È UN’ALTRA anomalia, che se non fosse
tragica sarebbe addirittura ridicola – prosegue Catarci –: due estati fa i sei antichi casali
presenti sull’area della lottizzazione hanno deciso di suicidarsi tutti insieme. Sono crollati,
si sono auto-demoliti, così ci è stato detto. Esiste, però, un vincolo della Soprintendenza
per cui si può costruire a 50 metri dalle pre-esistenze”. Che sarà mai, sostiene Barbara
Mezzaroma, che in una lettera alla cittadinanza parla di “argomentazioni pretestuose e
prive di fondamento”. Quisquilie, insomma. E, se proprio volete ammirare i resti antichi,
potete sempre fare un buco nel giardino di casa (nostra).
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INFORMAZIONE
Dell’11/03/2015, pag. 15
Wind-H3g, accelera il piano di fusione
Raiway: Giacomelli, sottosegretario alle Comunicazioni, apre alla
nascita di un operatore unico
LUCA PAGNI
L’anomalia tutta italiana nel settore della telefonia mobile, con quattro operatori a
contendersi un mercato dove è sempre più difficile guadagnare, ormai ha le ore contate.
Dopo oltre un anno di trattative, sarebbe vicina alla conclusione l’operazione che porterà
alla fusione tra Wind e “3”. Una trattativa tra due aziende che operano in Italia ma che si
sta svolgendo a Londra: perché, in realtà a controllare le due società sono gruppi stranieri.
Wind appartiene a Vimpelcom, operatore il cui primo azionista è il miliardario russo Mikhail
Fridman, mentre H3G è controllata dal imprenditore di Hong Kong Li Ka-shing. Secondo
fonti citate dal sito del quotidiano finanziario britannico Financial Times, l’accordo prevede
la fusione tra le due filiali italiane, con la società asiatica al 51 per cento e i russi al
restante 49 per cento. L’operazione, annunciata da tempo, si inserisce nel quadro
generale europeo, dove si sta assistendo a fenomeni di concentrazione in tutto il settore
delle telecomunicazioni. E non soltanto in quello della telefonia mobile. E l’Italia ne è un
caso esemplare, dove ci sono più discussioni aperte sulle tecnologie grazie alle quali
passeranno in futuro sia contenuti media che informazioni. Due, in particolare, i dossier
aperti: il primo riguarda la rete di nuova generazione per le comunicazioni via Internet,
mentre il secondo vede al centro i ripetitori televisivi, con l’offerta lanciata da Ei Towers,
società del gruppo Mediaset quotata in Borsa, per conquistare Rai Way, società di viale
Mazzini appena approdata a Piazza Affari. Vicende complicate dal fatto che da una lato ci
sono gruppi privati e dall’altra società controllate dallo Stato. Non a caso, ieri ci sono state
due audizioni (quasi in contemporanea) alle commissioni di Camera e Senato dove sono
stati ascoltati l’amministratore delegato di Telecom Italia, Marco Patuano, e il
sottosegretario del governo Renzi con delega alle tlc, Antonello Giacomelli. Quest’ultimo
ha parlato di entrambi i dossier. L’esponente politico ha aperta a una possibile alleanza tra
i due operatori delle antenne: «Non sono spaventato dall’operatore unico nazionale», ha
detto confermando voci secondo cui sarebbe allo studio una possibile soluzione in cui le
due aziende possano mettersi insieme ma con il pubblico in maggioranza, visto che fino
ad ora il premier Renzi ha detto che lo Stato non scenderà sotto il 51 per cento. Sul futuro
della rete di nuova generazione Giacomelli ha detto che non ci sarà nessuno «scorporo»
nei confronti di Telecom («termine nemmeno pronunciabile»). Allo stesso tempo ha
sollecitato i privati, in primis la stessa Telecom: «Aspettiamo e sollecitiamo risposte più
ambiziose di quelle che abbiamo visto». In altre parole: l’Italia ha bisogno di recuperare il
divario con le altre nazioni sulla banda ultra-larga, e se i piani dei privati non saranno
sufficienti a coprire la maggioranza della popolazione il pubblico potrebbe intervenire
usando la società Metroweb, di cui è socio la Cassa Depositi Prestiti: «E i privati - ha
concluso - non pensino di avere una sorta di diritto di veto» sul piano del Governo.
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Dell’11/03/2015, pag. 14
L’assurdo patto
Ri-Mediamo. La rubrica settimanale di Vincenzo Vita
Vincenzo Vita
Mentre si celebra — con tanto di cerimonia mediatica — la (contro)riforma della Costituzione, è in corso un’altra modifica materiale della Carta nel mondo della comunicazione.
La sfera di competenza sulla Rai sembra tornare al potere esecutivo, peggiorando persino
la legge Gasparri. Insomma, via i partiti, ma dentro con due scarpe il governo. Tuttavia,
è un po’ strano questo governo. Pare ergersi a deus ex machina nella futura governance
dell’azienda pubblica, ma sulla vicenda dell’Opas di Ei Towers su RaiWay ha avuto una
prudenza che neanche Don Abbondio. E sì, perché l’annuncio dato nelle prime ore dello
scorso mercoledì 25 febbraio dell’Offerta ha avuto una risposta ufficiale da parte del Ministro dell’Economia solo la successiva domenica 1° marzo. Come mai? Ci sarebbe materia
per il tenente Colombo, che sui particolari ricostruisce l’architettura di una trama
complessa. Quel prolungato silenzio ha verosimilmente due ragioni. La prima è l’esiguità
della barriera giuridica presente nella normativa, che indubbiamente non fu pensata per
reggere un ipotetico attacco di mercato. Ecco il punto. Tant’è che la sottile linea rossa
è costituita da un Dpcm, che di per sé non ha la forza di una fonte primaria. E, quindi, la
barriera alzatasi tardivamente è una scelta legittima, ma non certo sufficiente nel casinò
borsistico. E poi, vi è il ragionevole dubbio che la sicumera di Mediaset/Ei Towers si poggiasse su qualche pour parler, patto del Nazareno a parte.
Le chiacchiere con il Biscione durano da vent’anni. Ancora ieri il sottosegretario Giacomelli
ripeteva che «diventa molto difficile e scorretto affrontare una discussione che possa
disturbare l’iter dell’operazione». Governo Giano bifronte? Si vuol prendere la Rai solo
nella corteccia mediatica (dove i due Matteo –Renzi e Salvini– hanno il Guinness dei primati), lasciando il corpo dell’impresa al mare periglioso del capitale finanziario?
Sembra la metafora della politica di quest’età: potente e prepotente nel suo campo giochi,
subalterna e fragile laddove la Storia e il Capitale procedono sul serio. Tant’è che l’ipotesi
di cui ora si parla insistentemente è quella di un accordo tra le due aziende degli impianti,
al di là delle maggioranze societarie. Ma, forse, era proprio l’obiettivo vero, «trainato» e
«distratto» dal luccichio dell’annunciato assalto di Borsa. Naturalmente, si è in attesa delle
valutazioni conclusive delle Autorità competenti — Consob, Antitrust, Agcom — che aspettiamo con religiosa pazienza. Sullo sfondo si muove il monopoli della nuova stagione della
società dell’informazione, in cui il testimone sta passando dalla televisione alla rete.
Insomma, che il servizio pubblico perda colpi nei punti alti non crea soverchi patemi a chi
pure vorrebbe sedersi nella cabina di regia dell’apparato pubblico.
E allora? Di che riforma si parla, se le decisioni reali passano altrove? E che avrebbe detto
l’ex direttore generale plenipotenziario Ettore Bernabei, che ha scritto molte pagine del
vecchio e riverito monopolio di stato? Probabilmente un no secco e immediato. Per di più,
nell’oppressivo clima del conflitto di interessi. Di cui si parla solo nel dì di festa. Quando si
fa sul serio, mai. Insomma, c’è qualcosa che sfugge in una sceneggiatura troppo prevedibile, troppo plateale, troppo banale. Per essere vera. Nel suo affascinante I valori e le
regole(2014), Franco Rositi dedica un capitolo alla «Tolleranza della menzogna nella
scena pubblica». E dice che è l’indice di una democrazia a grado zero. Ci siamo?
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SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
dell’11/03/15, pag. 21
Scuola, più poteri ai presidi «Si sceglieranno
la squadra»
ROMA Nessun decreto. Sulla Buona scuola il governo conferma la strada del disegno di
legge, cioè sarà il Parlamento a decidere su assunzioni, maggiore autonomia dei presidi,
stipendi dei prof legati al merito per il 70 per cento, materie da aggiungere o rinforzare.
Dopo quasi due ore di incontro a Palazzo Chigi, ieri sera il premier Matteo Renzi e la
ministra dell’Istruzione Stefania Giannini hanno rivisto il testo che domani pomeriggio il
Consiglio dei ministri dovrà licenziare e poi inviare alle Camere. E hanno deciso di andare
avanti sulla linea decisa la settimana scorsa, evitando la decretazione d’urgenza, che però
non viene ancora del tutto esclusa nel caso in cui i tempi si allungassero troppo (l’iter
parlamentare partirebbe dopo il 17 marzo e l’esecutivo vorrebbe concluderlo per il 15
aprile).
Il nodo dei precari da assumere rimane il punto chiave di tutto il ddl. «Sarà data una
risposta importante al precariato» è stato detto alla fine dell’incontro. Tra Graduatorie a
esaurimento, seconda fascia e vincitori del concorso 2012, le immissioni in ruolo
potrebbero arrivare a 100 mila, di cui almeno la metà dal primo settembre 2015, il resto nel
2016. Ma il Miur intanto ha avviato le procedure per la quantificazione degli organici del
prossimo anno — le scuole sapranno entro il 31 marzo quanti professori avranno a
disposizione — e, per ora, sono stati confermati i numeri dello scorso anno. Non sono
escluse perciò delle «nomine giuridiche», con precari al lavoro dal primo settembre 2015
ma assunti dal 2016.
Per quanto riguarda il testo della Buona scuola, Renzi ha voluto alcuni aggiustamenti per
rafforzare l’autonomia «strumento del merito e chiave per aprire la scuola al territorio e di
pomeriggio». L’idea del premier è puntare sui presidi che, grazie ad un’autonomia sempre
maggiore, possono «farsi la propria squadra», scegliendo i professori in base al progetto
formativo della propria scuola. Idea bocciata da tutti i sindacati che dal 20 marzo sono in
mobilitazione con una sorta di sciopero bianco. I precari sciopereranno il 17 marzo.
E ieri l’Unione degli Studenti, chiedendo il ritiro del ddl, ha presentato «L’altra scuola»:
progetto in sette punti che va dal diritto allo studio all’abolizione della bocciatura, dallo stop
ai voti all’obbligo scolastico fino ai diciotto anni, e poi l’alternanza scuola-lavoro «finanziata
e qualificata» e l’eliminazione della divisione tra scuola elementare e media. Domani
scenderanno nelle principali piazze d’Italia per una giornata di mobilitazione nazionale.
Claudia Voltattorni
Dell’11/03/2015, pag. 7
Domani 40 città in piazza contro la scuola di
Renzi
Studenti. Giovedì il Cdm dovrebbe approvare il Ddl sulla "Buona scuola" più volte
rinviato, l’Uds manifesta contro il Jobs Act e avanza la proposta alternativa
dell'"Altra Scuola". Ieri alla Camera il documento in sette punti è stato presentato
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con Landini, Vendola, Pantaleo, i comitati della Lip, genitori e sindacati di base. Ma
il Pd attacca la Fiom e si propone come interlocutore degli studenti
Roberto Ciccarelli
Sei ore prima del consiglio dei ministri che domani dovrebbe approvare il disegno di legge
sulla «Buona Scuola» (il condizionale è ormai d’obbligo per un governo come quello di
Renzi), l’Unione degli Studenti (Uds), Link e la Rete della conoscenza scenderanno in
piazza in almeno quaranta città. La data del 12 marzo era stata lanciata più di un mese fa
per riprendere il filo delle manifestazioni del 10 ottobre 2014 quando 100 mila studenti
medi hanno protestato contro il Jobs Act e una riforma della scuola giudicata autoritaria,
aziendalista e neoliberista. La confusione che l’esecutivo ha mostrato fino a oggi – dal 27
febbraio al 10 marzo, tre sono stati i rinvii di una decisione sull’assunzione dei docenti precari – ha attribuito a questa giornata di protesta un significato politico più ampio.
Lo si è visto ieri alla Camera dove in una conferenza stampa l’Uds ha presentato sette
proposte per l’ «Altra Scuola», l’alternativa alla «Buona Scuola» di Renzi. Sono intervenuti,
tra gli altri, il segretario della Fiom Maurizio Landini e Domenico Pantaleo della Flc Cgil,
Nichi Vendola di Sel, Angela Nava (Genitori Democratici), Stefano D’Errico (Unicobas)
e Marina Boscaino (comitato per la riproposizione della Legge d’Iniziativa Popolare — Lip).
L’opposizione al Jobs Act e quella alla riforma della scuola si sono saldate nelle parole di
Landini: «C’è una grande correlazione tra le istanze degli studenti e quelle dei lavoratori –
ha detto — Nel nostro caso, ci siamo visti sottrarre i nostri diritti con il Jobs act, un provvedimento il cui testo è stato dettato direttamente al Governo da Confindustria. Nel vostro sta
accadendo la stessa cosa: il Miur sta passando le proposte di Confindustria».
Il segretario della Fiom ha voluto legare la manifestazione studentesca di domani con
quella promossa dai metalmeccanici il 28 marzo a Roma. «Sulla scuola assistiamo ad una
convergenza ampia – conferma Danilo lampis, coordinatore Uds – I presupposti per
un’unità di intenti ci sono tra soggetti sociali e sindacali diversi. E ci sono anche le proposte concrete per creare una scuola alternativa a quella di Renzi e del Pd».
Molto determinata è stata l’analisi di Marina Boscaino secondo la quale la riforma renziana
è ispirata all’ideologia autoritaria dei «presidi-manager» (vecchio reperto berlusconiano
con Brunetta e Aprea) e dalla burocrazia autoreferenziale del Miur: «La Lip, come del
resto le proposte presentate dagli studenti, sono il frutto di processi che hanno lo scopo di
coinvolgere il mondo della scuola in una consultazione reale, al contrario delle riforme
imposte dall’alto da parte di questo governo». Per Pantaleo gli ultimi sei mesi hanno dimostrato «un fermento» nella scuola. Ora, si tratta di esprimerlo. «La discussione è chiusa
nel governo, mentre il paese non discute – ha detto — C’è bisogno di riconquistare un terreno democratico per non cadere in un tecnicismo fine a se stesso».
Ciò che continua a destare indignazione è il trattamento riservato dal governo ai 150 mila
docenti precari iscritti alle graduatorie ad esaurimento. Renzi li ha illusi con la prospettiva
di una stabilizzazione che con ogni probabilità non ci sarà. «Trattare così i precari è angosciante – ha detto Vendola — hanno sopperito alla latitanza dello Stato e sono stati indispensabili per far mandare avanti la macchina». Le manifestazioni studentesche contro il
governo, e l’invito di Landini a partecipare a quella della Fiom, preoccupano il Pd. Lo dimostrano le affermazioni di Simona Malpezzi (Pd). La componente della commissione Cultura
della Camera ha invitato l’Uds a non costruire un’«altra scuola» con la Fiom che «non
sembra aver messo in campo iniziative efficaci per tutelare milioni di giovani Neet». Cosa
c’entrino i metalmeccanici con i Neet non è chiaro. Malpezzi forse li usa come una metafora per colpire come Renzi comanda il tentativo di «coalizione sociale» impostato da Landini. Pensare, come fa Malpezzi, che la critica degli studenti alla valutazione o alla chiamata diretta dei precari gestita dai «presidi-sindaci», all’assenza del diritto allo studio o al
sistema di alternanza scuola-lavoro prospettata nella «Buona Scuola» sia un «punto
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d’incontro» con il Pd è una grave sottovalutazione della protesta. Gli studenti si muovono
su un terreno di critica radicale al governo, come dimostra anche la loro partecipazione ai
laboratori dello «sciopero sociale» organizzati dai movimenti e dai centri sociali.
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ECONOMIA E LAVORO
Dell’11/03/2015, pag. 7
La crisi allarga il «sommerso»: quasi 300
miliardi
Ricerca Cgil. L'economia informale sottrae 100 miliardi di gettito l'anno. Camusso:
la quota del 3 per cento di Renzi come un condono, il sistema è una estorsione per i
lavoratori costretti ad accettare il "nero"
Una nuova espressione — economia non osservata — per misurare il lato oscuro del
nostro paese, sempre più in espansione. Nella ricerca che Cgil e Associazione Bruno
Trentin hanno commissionato a Tecnè e Cer si stimano numeri che farebbero accapponare la pelle: 290 miliardi di valore non dichiarato suddiviso in 185 miliardi di economia
sommersa (i processi di produzione o transazioni economiche non sono contabilizzate), 80
di economia illegale (prostituzione e stupefacenti) e 25 di economia informale (produzione,
vendita o fornitura è fatta da operatori non ufficiali) con un’evasione che si attesta sui 93
miliardi l’anno di cui 55 di mancato gettito.
Ma chi — come Renzi e il suo governo in continuità coi governi Berlusconi — alimentare
l’idea che una certa opacità sia legittima ha troppo pelo sullo stomaco per scomporsi.
Dati che portano Susanna Camusso a parlare di «gravità assoluta della situazione. Di
numeri che «sfatano alcuni luoghi comuni, primo fra i quali quello degli imprenditori eroi».
Da qui parte l’attacco al governo: «Se la realtà ci dice che il 59 per cento dell’economia
informale viene da imprese che hanno volumi d’affari sotto il milione di euro, significa che
non si può ragionare per soglie: né sul falso in bilancio nè sull’evasione», attacca facendo
riferimento al famoso 3 per cento che il governo voleva depenalizzare.
È dunque «la logica del condono, comunque la si chiami», a dover essere rigettata: «Ogni
comportamento va sanzionato salvo il ravvedimento operoso che implica una assunzione
di iniziativa, sennò il messaggio del governo è: scomponete la vostra illegalità e la farete
franca». L’economia non osservata per il segretario generale della Cgil è quindi «concorrenza sleale nel sistema delle imprese» e non a caso «sono state proprio le associazioni
di impresa ad invocare le soglie». Un «sistema» che colpisce soprattutto i lavoratori, i più
deboli, quei 3,8 milioni stimati che sono costretti a lavorare in nero perché con la crisi
«almeno guadagniamo qualcosa». E «se molti usano la grandezza di quel numero di
occupati per non affrontare il problema» per Camusso «invece il sistema è un’estorsione
verso chi ha bisogno» e per combatterlo «bisogna partire dall’universalizzazione degli
ammortizzatori» mentre «i voucher e il lavoro a chiamata che dovevano far emergere il
lavoro nero, sotto la crisi hanno ulteriormente creato immersione, come la carenza di credito ha prodotto più usura». Un sistema che quindi «affonda la parte più debole del lavoro:
gli appalti e le retribuzioni più basse». Come combatterlo? «Facendo diminuire la quota di
popolazione che può essere estorta creando lavoro legale e ben pagato e allargando l’uso
della moneta elettronica fin qui disincentivata dalle banche e potenziando le attività ispettive a riscossione immediata invece di diminuirle con l’Agenzia unica sul lavoro».
La ricerca stima in 14 i miliardi recuperabili rendendo più efficaci gli strumenti di contrasto.
Risorse che se divise tra estensione del bonus a incapienti e pensionati (7,3 miliardi)
e ampliamento degli investimenti pubblici (6,7 miliardi) porterebbe una crescita in 4 anni di
circa 150mila nuovi occupati, un più 1,5 per cento del Pil in quattro anni.
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