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RASSEGNA STAMPA
venerdì 13 giugno 2014
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SCUOLA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ECONOMIA E LAVORO
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LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
L’UNITÀ
AVVENIRE
IL FATTO
REDATTORE SOCIALE
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Vita.it del 12/06/2014
Arci, un'idea per la scelta del nuovo
presidente
di Daniele Biella
Dopo la fumata nera dello scorso marzo sul nome del successore a
Paolo Beni, c'è molta attesa per l'incontro di sabato a Bologna,
destinato a superare le difficoltà degli ultimi tempi, in cui si è discusso
molto anche sui social network. La novità è che forse la quadra è stata
trovata, in extremis
È tutto pronto. O quasi. Sabato 14 giugno 2014 a Bologna l’Arci, la più grande
associazione italiana in termini di iscritti, sedi e molto altro, sceglie il nuovo presidente. La
storia recente la ricordiamo tutti: fumata nera, anzi nerissima (con momenti di tensione e i
delegati divisi essenzialmente in due gruppi, facenti riferimento a due anime diverse
rappresentate dai candidati Francesca Chiavacci e Filippo Miraglia, vedi articoli allegati)
nella due giorni di consiglio nazionale del marzo scorso, decisione rimessa a una
reggenza composta dal presidente uscente Paolo Beni, ora deputato del Pd, e dai
presidenti regionali dell’associazione. Reggenza che, però, aldilà delle premesse e le
rassicurazioni a Vita dello stesso Beni, non è riuscita a sbrogliare del tutto la matassa
prima del giorno decisivo, sabato prossimo, appunto. Quando l’Arci dovrà
necessariamente avere una nuova guida.
Da marzo a ora sono stati mesi complicati, e gli incontri bisettimanali della reggenza non
sono stati facili. Ora manca la quadra, è vero, ma le idee, seppur a fatica e dette a bassa
voce, emergono. La novità degli ultimi giorni è che ci sarebbe una exit strategy
dall’impasse. Prima di approfondirla, però, è utile capire come si è comportata la base, in
questi mesi, dai circoli al web. E per farlo non si può non presentare un personaggio
virtuale che discute e sta facendo molto discutere di sé ma soprattutto della vita
associativa: il Delegato al congresso. Nato sul social network all’indomani dell’assemblea
di marzo, alla quale era presente, rimane oggi una sorta di nebulosa (una persona sola o
più persone? Parteggia per un’anima o per l’altra?) che giorno dopo giorno ha tenuto alta
l’attenzione verso la questione, spesso con sarcasmo ma in fondo con passione e
partecipazione. Tanto da essere riconosciuto autorevole anche dagli organi interni
associativi ( a questo link l’intervista che gli ha dedicato Arci Milano, che l'ha definito un
"avatar collettivo") e seguito da un cospicuo numero di persone. Nelle ultime ore ha
annunciato la sua (ironica?) discesa in campo come terzo candidato, ma soprattutto ha
fatto sapere che sabato, a un certo punto, si presenterà, svelando il mistero sulla sua
identità. Originalità, quella del Delegato al congresso, che denota l’estrema vitalità del
movimento associazionistico. Alla fine, Chiavacci o Miraglia o una terza via? Per Vita i due
candidati sono entrambi vincitori, anche solo per la seria simpatia con cui hanno scoperto
le proprie carte in una frizzante doppia intervista a pochi giorni dall’assemblea di marzo.
Ma, come dicevamo prima, c’è un idea che si fa strada verso il traguardo di dopodomani.
Idea confermata da autorevoli fonti interne all’associazione. Eccola: presidenza a
Francesca, vicepresidenza a Filippo che fa un passo indietro ma che stringe un accordo di
ferro con la nuova presidente su vari punti fondamentali delle scelte associative. Sarà
così, o sarà altro, tra due giorni si avrà la soluzione. Resta il fatto che, comunque vadano
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le cose, questi mesi hanno rappresentato per l’Arci un grande lavoro di relazione e
confronto. Non sono tempi facili per nessuno, complice anche la crisi economica, e
l’associazionismo soffre come tanti altri settori, o forse di più, dati i valori fondanti che lo
attraversano. Le differenze possono diventare ostacoli, si sa. Ma se superati, le stesse
differenze tornano a essere ricchezza. Buon lavoro al nuovo presidente, quindi, chiunque
esso sarà.
Da Redattore Sociale del 13/06/2014
Arci di nuovo a congresso, Francesca
Chiavacci verso la presidenza
Domani l’associazione si riunisce a tre mesi dalla precedente
assemblea. I giochi sono ancora aperti, ma la responsabile di Firenze è
favorita rispetto a Filippo Miraglia, che potrebbe diventare
vicepresidente. Tra i candidati resta però una spaccatura non facile da
sanare
FIRENZE – Dopo tre mesi, l’Arci torna a congresso e tenta nuovamente di eleggere il suo
presidente dopo lo scontro nella precedente assemblea. Appuntamento domani a partire
dalle 10.30 al circolo San Lazzaro di Bologna. L’associazione culturale italiana, guidata
ancora dal deputato Paolo Beni, resta spaccata, ma le numerose riunioni di questi ultimi
giorni hanno permesso di arrivare ad un accordo, seppur molto precario: Francesca
Chiavacci potrebbe diventare la nuova presidente e il concorrente Filippo Miraglia il
vicepresidente. Una soluzione che potrebbe calmare le acque all’interno dell’Arci, ma che
paradossalmente potrebbe creare qualche criticità nel futuro visto che i due candidati alla
presidenza, rivali di questi ultimi mesi, dovranno convivere fianco a fianco negli anni a
venire. Tanto più che, proprio nelle ultime settimane, le trattative per arrivare alla exit
strategy sono state contrassegnate da alcuni malumori da entrambe le parti.
Il voto al Congresso di marzo saltò perché non ci fu accordo nella commissione elettorale
sui criteri della composizione del consiglio nazionale (che elegge il presidente). Filippo
Miraglia è convinto che nell’Arci ci sia “troppa Toscana e troppa Emilia-Romagna” (regioni
che da sole totalizzano circa la metà del milione e 115 mila soci) e aveva chiesto di
riequilibrare la rappresentanza all’interno del consiglio nazionale dando più spazio ai
territori più poveri e decentrati, indipendentemente dal numero dei soci che hanno queste
regioni. Parere diverso per Francesca Chiavacci, che preferisce tutelare la quantità dei
soci indipendentemente dalla loro ripartizione geografica. Come si sono conciliate queste
due posizioni alla vigilia del secondo congresso? Con una mediazione, che avrebbe tenuto
conto sia del peso dei soci che del peso dei territori, una mediazione che però non
avrebbe accontentato del tutto Filippo Miraglia. Che dice: “Io vicepresidente? Aspettiamo il
Congresso”.
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ESTERI
Del 13/06/2014, pag. 19
Il presidente: “Ora tutte le opzioni sono aperte” Ipotizzati attacchi aerei
e droni, no all’invio di truppe
La svolta di Obama “Stiamo valutando
l’intervento militare”
FEDERICO RAMPINI
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
Barack Obama «studia tutte le opzioni» di fronte all’avanzata dei combattenti sunniti vicini
ad Al Qaeda che hanno riconquistato la città di Mosul nell’Iraq settentrionale. «Tutte le
opzioni», inclusi attacchi aerei e blitz di droni, che lo stesso governo iracheno chiede
all’America. «Quel che abbiamo visto negli ultimi giorni — dice Obama — dimostra fino a
che punto l’Iraq avrà bisogno di aiuti aggiuntivi da parte degli Stati Uniti e della comunità
internazionale ». La sua squadra di sicurezza nazionale «sta lavorando senza tregua per
individuare gli aiuti più efficaci, nulla viene escluso», sottolinea il presidente. Per Obama
l’obiettivo è «garantire che i combattenti della jihad non si insedino in modo permanente in
Iraq, in Siria, o altrove». Mentre il vecchio rivale repubblicano John Mc-Cain torna alla
carica accusandolo di «fare la siesta mentre Al Qaeda si riprende l’Iraq», per Obama un
incubo si sta materializzando. Dei due conflitti che aveva ereditato da George W. Bush,
quello in Iraq era «la guerra sbagliata». Obama se n’era dissociato, da senatore
dell’Illinois, contribuendo con quella scelta alla propria vittoria del 2008 (mentre Hillary
Clinton pagò presso la base democratica il voto favorevole sull’invasione dell’Iraq).
Mantenuta la promessa di ritirarsi, Obama ora si vede costretto a impedire che pezzi interi
dell’Iraq, forse la stessa capitale Bagdad, finiscano nelle mani di un gruppo estremista
(Islamic State of Iraq and al-Sham, Isis) che deriva da Al Qaeda.
Obama non prende in considerazione il ritorno delle sue truppe. Ma i soli bombardamenti
aerei o blitz dei droni possono cambiare i rapporti di forze sul terreno? Il presidente
americano ne parla col suo omologo iracheno Nuri Kamal al-Maliki, accusandolo
esplicitamente di non aver saputo costruire «una vera fiducia e cooperazione tra dirigenti
moderati sunniti e sciiti». L’America riscopre una questione irachena, e s’interroga sugli
errori compiuti in passato. Obama non può consolarsi ricordando che quegli errori furono
antecedenti al suo arrivo alla Casa Bianca. Il primo sbaglio, ricorda un dossier della Cnn,
fu l’aver smantellato l’esercito di Saddam Hussein, che fu uno dei più numerosi del mondo
(430.000 soldati più 400.000 riserve). Secondo lo studioso Fawaz Gerges, «migliaia di ex
ufficiali di Saddam Hussein sono finiti nei ranghi dell’Isis », contribuendo alla riscossa della
jihad. Mentre l’esercito del governo è sguarnito, debole e incompetente.
Un altro elemento di preoccupazione si collega alla Siria: quella guerra civile contagia a
macchia d’olio altre zone del Medio Oriente. Isis controlla un’area della Siria e da lì
sprigiona la sua influenza, fa reclute, invia aiuti, riceve e amministra milioni di dollari di
donazioni. Secondo Ramzy Mardini dell’Atlantic Council «c’è uno sforzo concertato per
unire la Siria e l’Iraq come un solo teatro di guerra tra fazioni». I successi di Isis in Siria
«galvanizzano e rilanciano i militanti iracheni, uniti dallo stesso obiettivo, che è la
costruzione del grande califfato, uno Stato islamico che comprenda tutta l’area». James
Jeffrey, che fu l’ambasciatore americano nominato da Obama a Bagdad dal 2010 al 2012,
punta il dito contro il governo di Maliki e il suo fallimento nell’opera di riconciliazione tra
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sciiti e sunniti. «Contro i sunniti è stata scatenata una campagna atroce, mentre non c’è
stato uno sforzo di cooptarli nel governo », accusa l’ex ambasciatore. E ricorda che ancor
prima dell’attuale battaglia, 8.000 civili erano stati uccisi nel solo 2013 nella guerra civile
irachena: il bilancio di vittime più grave dal 2008. Ora i falchi della destra si scagliano
contro il “pacifista Obama” e denunciano come un errore il ritiro delle truppe americane
dall’Iraq. Dal picco massimo di 166.000 militari americani, si era scesi vicino allo zero alla
vigilia della rielezione di Obama per il secondo mandato, nel 2012. Oggi McCain e l’ex
capo della Cia Michael Hayden hanno buon gioco ad accusare Obama di aver creato un
vuoto dove potrebbero infilarsi con un intervento militare l’Iran o la Turchia, i due paesi
limitrofi più direttamente minacciati dall’instabilità irachena. Ma perfino l’elettorato
repubblicano sarebbe contrario ad un ritorno delle truppe Usa in Iraq. Il costo del sostegno
americano all’Iraq resta elevato: 15 miliardi stanziati di recente per fornire all’esercito
governativo armi, elicotteri e mezzi blindati.
Del 13/06/2014, pag. 14
Iraq. Jihadisti avanti, ai curdi il petrolio di
Kirkuk
Iraq a rischio scissione. Obama: c’è bisogno del nostro aiuto, aperti a
tutte le opzioni
GERUSALEMME — Iraq al collasso. Tre anni dopo il ritiro americano, l’unità del Paese
appare minata alle radici. L’avanzata verso Bagdad dei fondamentalisti sunniti guidati dalla
milizia dello «Stato Islamico dell’Iraq e del Levante» (Isis) continua senza che il governo
sciita di Nouri al Maliki riesca ad opporre una forza di resistenza consistente. Nella
capitale la popolazione accumula cibo, carburante e si prepara al peggio. Il rischio ora è
che la guerra civile torni a farsi realtà come nei mesi sanguinosi del 2006 e 2007. I muri tra
quartieri sciiti e sunniti della capitale tornano a farsi più alti che mai. Ieri il premier ha
subito l’ennesimo smacco. Aveva convocato d’urgenza il Parlamento per dichiarare lo
«stato di emergenza» e ricorrere a provvedimenti eccezionali per combattere le milizie
sunnite. Ma è mancato il quorum, solo 128 dei 325 deputati sono apparsi in aula.
Un colpo grave per un leader sempre più disorientato, impotente e incapace di affrontare
la prospettiva ormai concreta di sfaldamento della coesione nazionale. L’Iran resta al suo
fianco. Il presidente americano Barack Obama ieri ha dichiarato che «l’Iraq avrà bisogno di
ulteriore assistenza» e che il governo Usa sta esaminando «tutte le opzioni». Ma il
fallimento di Maliki di inglobare gli elementi moderati dell’universo sunnita nella compagine
governativa ha rafforzato le ali più estremiste, ben contente di stringere l’alleanza con la
ribellione sunnita in Siria e decise a soverchiare gli sciiti in nome dell’utopia radicale del
«nuovo Califfato wahabita». Le ultime notizie dal fronte dei combattimenti raccontano della
rotta disordinata dell’esercito regolare iracheno. A Tikrit i veterani baathisti fraternizzano
con le avanguardie dei nuovi radicali. Fonti locali segnalano pattuglie sunnite posizionate
già una trentina di chilometri a nord dalla capitale. «Dobbiamo marciare su Bagdad.
Abbiamo da regolare un vecchio conto laggiù», tuonano i leader dell’Isis. I più bellicosi
minacciano di mettere a ferro e fuoco Karbala e Najaf, le città sante dell’universo sciita.
Pare che solo nella città di Samarra le truppe regolari locali siano riuscite a resistere. Per il
resto, l’Isis riporta vittoria dopo vittoria. Un monito per gli americani: lo scenario iracheno
non preannuncia ciò che potrebbe avvenire nel prossimo futuro in Afghanistan? Dal 2003
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Washington ha speso 25 miliardi di dollari per addestrare e armare i regolari iracheni. Ma
tutto ciò appare sprecato. Gli insorti sunniti stanno pescando dagli arsenali abbandonati.
Ad approfittare del caos sono i curdi. Oltre 300 mila profughi dalla regione di Mosul sono
entrati nei loro confini presso Erbil. Asserragliati nelle loro province indipendenti, de facto
ormai uno Stato a sé, i curdi nelle ultime ore hanno realizzato quasi senza combattere un
loro vecchio sogno: il controllo di Kirkuk. È questo uno dei poli petroliferi più importanti del
settentrione iracheno. Saddam Hussein trent’anni fa vi aveva espulso la popolazione
curda per insediarvi arabi. Dal 2003 i curdi vorrebbero includerla nelle loro regioni, Maliki si
è sempre opposto. Ma adesso la strada è aperta e i peshmerga (la milizia curda)
costituiscono una formidabile forza militare, forse l’unica coesa, ben comandata e in grado
di opporre una solida resistenza agli insorti sunniti. Ieri questi ultimi si sono rapidamente
ritirati da Kirkuk. I loro obbiettivi per il momento guardano a Sud. Lo scontro con i curdi
sarà rimandato al futuro.
Del 13/06/2014, pag. 15
Droni e missili Usa verso Bagdad Ma l’Iran è
già sceso in campo
I due Paesi nemici al fianco dello stesso alleato. Il ruolo dei peshmerga
WASHINGTON — Le notizie da Oriente raccontano che l’Iran si è mosso subito. Due
battaglioni dell’Armata Qods, l’apparato speciale dei pasdaran, sono arrivati di gran fretta
a Bagdad per assistere l’amico iracheno. O magari c’erano già. Sono di casa. Insieme a
loro i Saberin, membri di un’unità scelta. Li chiamano «coloro che hanno pazienza», ma
vista la situazione c’è poco da aspettare. Forse è anche per questo che è stato avvistato il
generale Qasim Suleimani, il capo in testa della Qods, l’uomo delle missioni impossibili.
La reazione iraniana è stato certo più veloce di quella americana. Tanto che i repubblicani
hanno accusato Barack Obama di «essersi fatto un sonnellino sull’Iraq». Ma è anche vero
che è molto difficile agire. E lo è ancora di più quando non si ha alcuna voglia di farlo. Con
il solito dilemma del presidente, stretto tra la volontà di non riaprire la pagina delle guerre e
la responsabilità di far fronte alla crisi. Bagdad — come hanno scritto i media Usa — ha
chiesto per la seconda volta in un anno raid aerei statunitensi. Magari affidati ai droni,
quasi che fossero la soluzione magica ad ogni minaccia estremista. Un appello
accompagnato dall’apertura dello spazio aereo agli Stati Uniti. Washington ha preso
tempo. Mercoledì ha rifiutato di mandare i suoi caccia. Ieri pomeriggio, il presidente ha
aperto nuovi scenari. Infatti non ha escluso «alcuna opzione», ha parlato di possibili
«azioni militari nel caso la sicurezza nazionale sia a rischio», ha promesso ulteriori aiuti ed
ha ribadito che non vi sarà alcun impiego di forze terrestri. Il tutto all’interno di
consultazioni per «una robusta reazione regionale». Dunque i blitz aerei che fino a 24 ore
fa erano stati esclusi ora paiono più vicini. E molto dipenderà dall’evoluzione degli eventi.
La Casa Bianca ha intanto indicato una strada precisa: tocca all’esercito iracheno
prendersi le sue responsabilità, così come serve una soluzione politica che coinvolga
sunniti e sciiti. Un’affermazione che si porta dietro una verità. L’America ha speso 25
miliardi di dollari per armare e addestrare le forze armate di Bagdad. Ed ecco il risultato.
Un disastro. Ancora peggio quello politico per colpa di Bagdad. Dunque l’amministrazione
Usa prevede di «assistere» l’Iraq con le solite formule quando non si vogliono mettere
scarponi sul terreno. Intanto con l’incremento delle forniture militari. Certo non sarà
possibile far arrivare subito gli F16 e gli elicotteri d’attacco Apaches, ma è possibile che il
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Pentagono mandi altri missili terra-aria. In particolare altre dotazioni di Hellfire che gli
iracheni usano a bordo di bimotori Cessna modificati. Non meno importante il supporto
dell’intelligence. I droni presenti nelle basi turche, i Global Hawk schierati a Sigonella
(Sicilia), insieme a voli spia e satelliti possono fare da vedette avanzate per monitorare la
travolgente cavalcata jihadista. Garantiscono informazioni vitali ad un esercito cieco e
disorganizzato. All’Iraq servirebbero coordinatori e apparati di comunicazione. La catena di
comando non ha funzionato, molti ufficiali di nomina politica sono scappati al primo
petardo, molte unità non erano in grado di comunicare e avevano pochi viveri. Le immagini
diffuse dall’Isis mostrano intere caserme abbandonate, con tank e blindati lasciati con «le
chiavi nel cruscotto». Per certi aspetti un mistero. Nella capitale statunitense sono apparsi
commenti dove si parla di «sorpresa» per la sconfitta dei governativi. Analisi bilanciate da
altre analisi: gli addetti ai lavori sapevano della scarsa preparazione dei soldati di Bagdad.
Non meno gentili i giudizi sui generali, almeno tre, ritenuti responsabili della disfatta. Al
punto che gli iracheni pensano alla costituzione di una milizia popolare che sostituisca
plotoni di militari infedeli o deboli. Uno schema già adottato da Bashar Assad con
l’assistenza di Hezbollah e pasdaran iraniani. Washington ha poi intensificato i contatti con
gli amici. Magari partendo dai sauditi, con i loro agganci nella nebulosa islamista. A
seguire la Giordania, che ha subito rafforzato il dispositivo militare lungo il confine ed ha
mobilitato i suoi servizi. Le basi giordane possono poi diventare fondamentali per
sostenere le probabili incursioni aeree. E poi i rapporti con i peshmerga curdi iracheni,
unico schieramento compatto e motivato. Quella del Kurdistan è una enclave dove in
passato hanno operato con successo francesi, britannici e israeliani. Affari e intelligence
per tenere d’occhio il Sud, ma anche il vicino Iran. Torniamo così da dove siamo partiti.
Teheran ha mezzi e interessi (enormi) per contenere la spinta dell’Isis. Una leva che
potrebbe entrare anche nei negoziati sul nucleare in corso con gli Usa. Scenari globali che
si sovrappongono a quelli regionali. I mullah hanno costituito da decenni un network
all’interno dell’Iraq, sono in grado di spostare volontari sciiti schierati in Siria e mobilitare
quelli locali. Dispongono di forze di pronto intervento alla frontiera. Il contrattacco nella
zona di Tikrit — ha rivelato il Wall Street Journal — è stato condotto proprio dai battaglioni
della Qods. Così come ha un grande valore la presenza di Suleimani. Lo dimostra una foto
pubblicata da un deputato con la didascalia: «Haji Qasim è qui». Come dire, ecco il
salvatore. Che non lavora però gratis e un giorno chiederà la sua parcella.
Guido Olimpio
del 13/06/14, pag. 1/7
I mondiali iracheni
Non può sfuggire la sincronia che vede al via il samba triste — tra festa, miseria e riscatto
— dei mondiali di calcio in Brasile, nelle stesse ore in cui esplode la nuova, sanguinosa
crisi in Iraq. Che avrebbe preso il mondo «in contropiede». In contropiede? Vero è che chi
semina vento raccoglie tempesta. Perché con l’avanzata militare del jihadismo qaedista in
metà dell’Iraq siamo di fronte al più grosso smacco dell’Occidente, in particolare degli Stati
uniti.
Che, apprendisti stregoni, hanno coperto con le guerre il vuoto lasciato dall’89. La guerra
del 2003 venne motivata con le armi di distruzione di massa e con il fatto che Saddam
Hussein complottava con al Qaeda. Non era vero, ma l’obiettivo era di stravolgere i delicati
equilibri del Medio Oriente. Volta a volta, da una presidenza Usa all’altra, in chiave
bipartisan, utilizzando l’estremismo islamico per destabilizzare il nemico rimasto. Gli inizi
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furono in Afghanistan, negli anni Ottanta, con il sostegno prima ai mujaheddin poi, negli
anni Novanta ai talebani portati al potere e diventati interlocutori di Washington; e ancora
la Bosnia Erzegovina con Clinton che favorisce l’ingresso di brigate mujaheddin, senza
dimenticare la guerra di Saddam, per interposto interesse Usa, contro l’Iran degli ayatollah
iraniani che crea l’«equivoco» del Kuwait, occasione della prima guerra all’Iraq e prodromo
della seconda. È un viluppo di morte scaricata su altri popoli e continenti a salvaguardia
della «nostra» supremazia. Fino alle Primavere arabe, annunciate dal discorso del Cairo di
Obama del 2009 e alla loro deriva. Lì si promettevano magnifiche sorti e progressive ad un
mondo ancora sottomesso, con l’irrisolta — e tale resta — questione palestinese, e alle
prese con guerre feroci. I rovesci di quelle trasformazioni hanno impegnato l’Occidente in
nuovi conflitti che sono all’origine della nuova forza di al Qaeda. Che non sembra finita con
l’uccisione da film di Osama bin Laden, ma trova nuovi giovani leader «perché
combattenti».
Ecco la semina del vento: l’intervento militare in Libia nel marzo 2011 di Francia, Gran
Bretagna, Italia e poi, massicciamente degli Stati uniti — la prima guerra di Obama — che
con i raid aerei aiutano le forze insorte, perlopiù jihadiste, ad abbattere Gheddafi, che
ammoniva: «Se cacciate me poi dovrete fare i conti con i nemici dell’Occidente». Una
guerra che ha preparato i santuari jihadisti che hanno aperto il fronte in Siria. La
deflagrazione che farà capire che tutto precipita su Obama, fu l’11 settembre 2012 quando
a Bengasi le stesse milizie islamiche che avevano gestito con la Cia l’intervento Usa,
uccisero l’ambasciatore Chris Stevens, l’ex agente di collegamento dell’intelligence
americana. Uscirono di scena per questo la segretaria di Stato Hillary Clinton, che stenta
per questo a candidarsi, sotto accusa dei Repubblicani, e il capo della Cia David Petraeus,
dimissionato per «adulterio». Non contenti, l’avventura siriana ha portato la Casa bianca
ad aderire alla coalizione anti Bashar al Assad degli «Amici» della Siria, con Arabia
saudita e Turchia in testa, che hanno riempito di armi le stesse formazioni jihadisteqaediste che ora avanzano in Iraq verso Baghdad. L’accusa dunque non è quella neoneocon a Obama di essersi ritirato troppo presto dall’Iraq, ma di essersi ritirato troppo
poco dal militarismo umanitario ereditato, mentre resta fino al 2016 in armi in Afghanistan
dove i talebani sono più forti di prima. E ora, per fermare al Qaeda, rischia un altro
intervento armato e intanto deve sperare che Assad vinca in Siria e che il sud sciita sia
soccorso in armi dal «nemico» Iran.
Non sappiamo chi vincerà il campionato del mondo di calcio, sappiamo chi, in Medio
Oriente, ha perduto il mondo.
del 13/06/14, pag. 6
Israele/Palestina
Omicidio deliberato l’uccisione di due ragazzi
per la Nakba
La famiglia di Nadim Nuwara non si è mai arresa. Sapeva sin dall’inizio che il ragazz
ucciso lo scorso 15 maggio davanti alla prigione di Ofer durante le manifestazioni per la
Nakba, era stato colpito da munizioni vere. Ora ha avuto la conferma. «Il frammento di un
proiettile vero è stato ritrovato nel corpo del giovane martire», ha annunciato ieri il
procuratore generale palestinese Abdel-Ghani al-Awewy riferendo dei risultati dell’autopsia
svolta all’Istituto di medicina legale di Abu Dis (Gerusalemme), presenti specialisti
americani, danesi e israeliani. «I medici hanno accertato che la morte (di Nadim Nuwara) è
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stata provocata da quel proiettile», ha aggiunto il procuratore. E’ improbabile che le
autorità militari israeliane accolgano i risultati dell’autopsia. Ma alla famiglia di Nadim, 17
anni, e a quella dell’altro ragazzo ucciso davanti al carcere di Ofer, Mohammed Abu
Thahr, 16 anni, importa ben poco. Hanno ottenuto la verità che cercavano.
L’esercito ha ripetuto in queste settimane che i soldati spararono solo proiettili rivestiti di
gomma. Sono però emersi, in qualche caso rivelati proprio dalla stampa israeliana, nuovi
particolari. Sviluppi sui quali sono intervenuti i centri internazionali per i diritti umani e che
hanno spinto le Nazioni Unite e persino gli Stati Uniti a chiedere un’indagine sull’accaduto.
Fin troppo chiare sono le immagini degli ultimi attimi di vita dei due ragazzi ripresi dalle
telecamere di sorveglianza posizionate intorno al carcere di Ofer. Il filmato mostra i due
ragazzi disarmati che si accasciano all’improvviso mentre si allontavano dalla
manifestazione di protesta, colpiti nonostante non rappresentassero alcuna minaccia. Per
le autorità israeliane si tratta di una “prova contraffatta”.
Qualche giorno fa Human Rigths Watch ha diffuso un dossier sull’accaduto nel quale parla
apertamente di crimine di guerra. «L’uccisione intenzionale di civili per mano delle forze
israeliane impegnate nell’occupazione è un crimine di guerra… Israele ha la responsabilità
di perseguire coloro che hanno sparato a questi adolescenti e anche chi ha ordinato
l’impiego di proiettili veri», ha detto Sarah Leah Whitson, responsabile per il Medio Oriente
e Nord Africa per Hrw. L’Esercito ha avviato le indagini già a maggio ma in passato questo
tipo di inchieste avviate nei confronti di militari israeliani impiegati nei Territori palestinesi
occupati quasi mai sono approdate a risultati concreti e all’accertamento di responsabilità
dirette. Proprio un gruppo israeliano per i diritti umani, Yesh Din, riferisce che dal
settembre del 2000, quando ebbe inizio la seconda Intifada, sino ad oggi l’esercito
israeliano ha giudicato sei soldati accusati per avere ucciso senza apparente motivo dei
palestinesi, condannandoli a un massimo di sette mesi e mezzo di carcere. B’Tselem, un
altra organizzazione per i diritti umani, ha calcolato che negli ultimi 14 anni i militari
israeliani hanno ucciso oltre 3 palestinesi che non avevano preso parte ad alcuna azione
ostile.
Il risultato dell’autopsia sul corpo di Nadim Nuwara è giunto poche ore dopo una
“esecuzione mirata” di un “terrorista” a Soudanya (Gaza), costata la vita, hanno riferito i
medici palestinesi, anche a un civile innocente e il ferimento grave di un bambino. Un
drone ha sganciato un razzo che ha ucciso Hamada Nasrallah, descritto dal portavoce
militare come un miliziano salafita che aveva lanciato poco prima un razzo in direzione di
Israele. «Inseguiremo e metteremo le nostre mani su chiunque ci minacci», ha avvertito il
ministro della difesa Moshe Yaalon.
del 13/06/14, pag. 6
I filorussi accusano Kiev: «A Sloviansk
bombe esplosive»
Simone Pieranni
Ucraina. La Russia chiede che si vada avanti con la proposta di
roadmap avvallata dall'Osce
La guerra continua. Dopo i tentativi dei giorni scorsi di creare una sorta di triangolazione
tra Mosca, Kiev e Unione europea per tracciare, o almeno tentare di immaginare, una road
map per chiudere il conflitto, non sembra sia cambiato nulla nelle zone orientali del paese.
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Le notizie che provengono dal Donbass sono molto più gravi e drammatiche di quanto
venga riportato dai media italiani, che sembrano aver scordato la guerra in corso. Dubbi e
interrogativi circa caccia all’uomo, fughe rischiose, profughi e fosse comuni, continuano a
esistere, viste le denunce che provengono da quelle zone. E da ieri c’è anche il sospetto
che Kiev abbia utilizzato, nell’assalto alle regioni al confine con la Russia, bombe
esplosive al fosforo. I miliziani filorussi hanno infatti accusato le truppe di Kiev di aver
usato bombe incendiarie nel villaggio di Semenovka, vicino Sloviansk, roccaforte dei
separatisti nell’Ucraina orientale. La notizia è riportata dall’agenzia di stampa Ria Novosti,
vicina al Cremlino, mentre la Guardia nazionale ucraina nega le accuse definendole
«assurde».
Il responsabile per i diritti umani del ministero degli Esteri russo, Konstantin Dolgov, ha
accusato i militari ucraini di usare «armi vietate contro gli abitanti di Sloviansk», di
«sparare contro i civili in fuga» e di «uccidere i bambini». Sul punto relativo alla supposte
bombe incendiarie, Mosca ieri ha fatto sapere di aver ufficialmente richiesto un’indagine,
denunciando inoltre il passaggio in Russia, nella regione di Rostov sul Don, di almeno
8.000 profughi provenienti dall’Ucraina sfuggiti ai combattimenti.
La richiesta russa di chiarimenti a Kiev ha senso, all’interno di una diatriba che appare
sempre più dura, benché sia probabilmente l’ennesimo chiarimento che rimarrà
inesaudito. A Kiev si è già chiesto, a livello internazionale, almeno tre indagini in grado di
fare luce su eventi considerati decisamente rilevanti all’interno di questi ultimi mesi di
guerra.
La prima riguardava le morti durante gli scontri di Majdan, la seconda era sul rogo di
Odessa (almeno 48 morti tra i filorussi), la terza sulla morte provocata dal fuoco
dell’esercito ucraino del fotogiornalista italiano Andrea Rocchelli (a questo proposito
sarebbe interessante se la ministra Mogherini ha novità o meno e se c’è l’intenzione del
governo italiano di andare fino in fondo a questa vicenda).
Ieri si è di nuovo combattuto, sia sul campo, sia sul fronte mediatico. I ribelli
dell’autoproclamata Repubblica popolare di Lugansk sostengono di aver fermato una
colonna di carri armati di Kiev. Lo ha riferito l’agenzia Ria Novosti. A Snizhne, al confine
tra la Russia e le regioni di Lugansk e Donetsk, sarebbero invece in corso combattimenti:
è la stessa zona dove le truppe di Kiev affermano di aver intercettato tre tank russi.
Questa è stata infatti la notizia più rilevante dieri, smentita da Mosca, ma considerata
invece reale dal governo di Kiev. Stando a quanto riportato dalla Bbc, il governo di Majdan
avrebbe denunciato l’ingresso di tre tank russi sul territorio ucraino.
Nessuno ha confermato, né al momento ci sono prove, foto, video o testimonanianze che
possano provare l’esattezza di questa affermazione. Rimane il fatto che la tensione è di
nuovo alta e ieri, come comunicato dal Cremlino, il presidente russo Vladimir Putin e
quello, neoeletto, ucraino, Petro Poroshenko, si sarebbero sentiti telefonicamente. Uno
spiraglio infatti pare si sia aperto.
Ieri infatti il ministro degli esteri russo, Lavrov, ha aperto una doppia possibilità di uscita
dalla crisi. La Russia — ha detto — prevede di presentare al Consiglio di sicurezza
dell’Onu un progetto di risoluzione affinché Kiev possa realizzare la roadmap promossa
dall’Osce per mettere fine ai combattimenti. Analogamente, Lavrov ha specificato che i
separatisti filorussi dell’Ucraina orientale sarebbero pronti a cessare le ostilità, «ma deve
essere Kiev ad avviare il processo di de-escalation delle violenze».
Si tratta di possibilità limitate, specie la seconda. Del resto Kiev ha sempre mostrato di non
avere alcuna intenzione di riconoscere i ribelli come interlocutore per aprire un passaggio
diplomatico in grado di fermare la guerra. Mosca in questo modo però sembra voler
dimostrare due cose: da un lato la disponibilità del Cremlino ad appoggiare la «road map»,
con tanto di supporto degli osservatori dell’Osce, dall’altro, con il riferimento alla possibilità
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che i ribelli possano accettare un compromesso, forse intende dimostrare di avere ripreso
il controllo di quanto sta accadendo nell’est del paese.
Una evenienza che forse conviene anche a Kiev, perché pare che a placare la resistenza
dei filorussi, non basti l’esercito malandato di Majdan.
del 13/06/14, pag. 12
In Brasile è in gioco la Patria Grande
Geraldina Colotti
Mondiali di calcio. Per l’inaugurazione la presidente Dilma Rousseff
incassa il sostegno dei leader bolivariani e respinge le critiche della
piazza. Ancora scontri a San Paolo e a Rio
«Cara compagna Dilma, non dubitiamo che Brasile 2014 sarà una vera festa di pace,
tolleranza, diversità, dialogo e comprensione. E speriamo che il primo posto resti nella
Patria grande». Questo l’augurio di Cristina Fernandez, presidente dell’Argentina, inviato
tramite twitter alla sua omologa brasiliana. Un augurio di buon proseguimento sulla strada
dell’integrazione latinoamericana per rinnovare il sogno del Libertador Simon Bolivar e
della «Patria grande» appunto.
Fra la decina di capi di stato che hanno partecipato all’inaugurazione dei Mondiali, quelli
più impegnati nel «socialismo del XXI secolo», come l’ecuadoriano Rafael Correa o il
boliviano Evo Morales hanno sottolineato questo aspetto. E si sono detti convinti che il
governo Dilma saprà superare le difficoltà del momento e le contestazioni della piazza. Ieri
un gruppo di manifestanti ha cercato di raggiungere lo stadio Arena Corinthians, ma è
stato respinto dalla polizia con lacrimogeni e proiettili di gomma, e c’è stato un arresto. I
lavoratori del metro San Paolo hanno accettato di sospendere lo sciopero dopo la
promessa di aumenti salariali e quella del reintegro dei 42 colleghi sospesi, ma restano sul
piede di guerra.
Intanto a Rio de Janeiro, la seconda città più grande del paese, alcuni portuali hanno
annunciato uno sciopero di 24 ore e ieri hanno bloccato il traffico nei dintorni del porto. La
presidente brasiliana, che mantiene la disponibilità ad «ascoltare la voce della piazza», ne
ha però rigettato le critiche: non è vero – ha affermato – che i costi del Mondiale hanno
tolto soldi alla salute, all’educazione e altri servizi pubblici. Negli ultimi tre anni, il paese ha
speso 212 volte di più in salute e scuole che negli stadi. La spesa pubblica per la salute e
quella per l’istruzione (che Dilma promette di raddoppiare ancora) sono tra le voci più
cresciute, ha detto la presidente, che si è impegnata a combattere più efficacemente la
corruzione.
Gli 11 milioni di dollari spesi per la Coppa? Il paese ne trarrà beneficio sul lungo periodo:
«Abbiamo fatto tutto questo per i brasiliani, le opere pubbliche costruite in occasione della
Coppa, non se ne andranno nelle valige dei turisti», ha detto ancora Dilma, dando il
benvenuto agli ospiti. Fra questi, la sua omologa cilena, Michelle Bachelet, che sta
effettuando un viaggio in America latina. Anche Bachelet ha il suo daffare con i movimenti
che l’hanno eletta sperando che questa volta porti a termine importanti riforme sociali. Con
uno sciopero della fame di quaranta giorni, i nativi mapuche in carcere, le hanno ricordato
l’insopportabilità delle leggi d’emergenza, in vigore dai tempi del dittatore Pinochet. E gli
studenti, ancora in piazza in questi giorni, spingono per la convocazione di un’Assemblea
costituente che dia una vera svolta al paese. Prima dell’inaugurazione, Rousseff e
Bachelet hanno discusso di diritti umani e si sono scambiate informazioni circa le vittime
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del Piano Condor, la rete criminale a guida Cia mediante la quale, negli anni ’70-’80, le
dittature sudamericane hanno eliminato gli oppositori. Il regime militare in Brasile è durato
dal 1964 all’85. Quello cileno, dal 1973 al ’90. La cooperazione fra Dilma e Michelle
dovrebbe portare a un accordo che venga incontro alle richieste delle organizzazioni per i
diritti umani dei due paesi.
Alcuni presidenti, come Correa e Morales, ripartiranno subito per la Bolivia insieme al
segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, per assistere all’inaugurazione del vertice del
G77 più la Cina che comincia domani a Santa Cruz. Prima, però, hanno concordato una
presenza nella trasmissione diretta da Diego Maradona, in collegamento con Telesur.
Maradona ha assicurato che, appena finisce il Mondiale, tornerà subito in Venezuela per
«stare vicino» al presidente Nicolas Maduro, messo sotto attacco dalle proteste della
destra dal 12 febbraio scorso.
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INTERNI
Del 13/06/2014, pag. 2
Senato, è bufera nel Pd 13 autosospesi con
Mineo Renzi: non accetto più veti
Gruppo di senatori contesta la rimozione del “ribelle” L’ira del premier:
contano i voti, non gli lascio il Paese
ROMA Il caso-Mineo si allarga e rischia di complicare il percorso delle riforme istituzionali
e il tentativo di gestione collegiale del Pd. Ieri, infatti, 13 dei 107 senatori democratici
hanno deciso di autosospendersi dal gruppo perché condividono la battaglia di Mineo
contro il progetto renziano di riforma del Senato. Hanno deciso di stare dalla parte del
“dissidente”, che si è pure autosospeso, i senatori Casson, Chiti, Corsini, D’Adda, Dirindin,
Gatti, Giacobbe, Lo Giudice, Micheloni, Mucchetti, Ricchiuti, Tocci, Turano e Giacobbe.
Naturalmente questa mossa non è piaciuta a Matteo Renzi. «Un partito non è un taxi che
uno prende solo per farsi eleggere. Non ho preso il 41 per cento per lasciare il futuro del
paese in mano a Corradino Mineo», ha detto il premier alla fine del suo viaggio in Estremo
Oriente. Parole che confermano la linea dettata ieri mattina, lasciando la Cina: «Noi non
molliamo di mezzo centimetro, siamo convinti a cambiare il Paese. Le riforme non si
annunciano, si fanno, e non lasciamo a nessuno il diritto di veto. Contano più i voti degli
italiani che il diritto di veto di qualche politico».
Parole che hanno incendiato il dibattito nel Pd. Mineo replica subito: «”Non posso lasciare
il futuro del paese in mano a Mineo”. Questa di Renzi è sublime. Il premier dovrebbe
invece prestare un po’ più di attenzione a chi esprime, liberalmente e lealmente, una
critica proprio nell’interesse del governo». Luca Lotti, sottosegretario a Palazzo Chigi e
braccio destro di Renzi, getta sul tavolo l’arma del boom elettorale: «Credo che 14
senatori non possono permettersi di mettere in discussione il volere di 12 milioni di elettori
e non possono bloccare le riforme che hanno chiesto gli italiani». Argomento usato anche
Maria Elena Boschi. Mucchetti contrattacca sul suo blog: «Il ministro Boschi e il
sottosegretario Lotti schierano 12 milioni di voti come se fossero 12 milioni di baionette
contro i 14 senatori dissidenti del Pd. Non viene loro il dubbio di sparare con il cannone
contro le rondini? La sproporzione della reazione nasconde la povertà degli argomenti». E
Casson aggiunge: «Quella di Boschi e Lotti è una forma di ottusità». Lo scambio di colpi
va avanti per tutto il giorno e la sera si trasferisce in direzione. In attesa del faccia a faccia
di domani all’Assemblea nazionale.
del 13/06/14, pag. 1/2
La destituzione non è sostituzione
Gaetano Azzariti
La rimozione dei senatori Mario Mauro e Corradino Mineo dalla Commissione affari
costituzionali solleva tre ordini di problemi giuridici. Si tratta, in primo luogo, di verificare la
correttezza dell’interpretazione del Regolamento del Senato. In secondo luogo, di valutare
la conformità a Costituzione della decisione assunta. In terzo luogo, di considerare gli
effetti di tale decisone sul sistema politico complessivo.
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Per quanto riguarda il primo aspetto può dubitarsi che l’articolo 31 del Regolamento
Senato possa legittimare l’estromissione di un componente permanente designato in base
a quanto stabilito in via generale dal precedente articolo 21. Quest’ultimo, infatti, chiarisce
che spetta a ciascun gruppo comunicare alla presidenza del Senato i propri rappresentanti
nelle diverse commissioni e che queste sono rinnovate “dopo il primo biennio”.
Sembrerebbe dunque che la indicazione dei gruppi debba essere tenuta ferma per almeno
un biennio, anche per garantire una certa continuità nei lavori delle commissioni. In questo
quadro si colloca l’articolo 31 che prevede invece la possibilità di “sostituzione” (non
invece di “destituzione”), anche in via transitoria, dei rappresentanti assegnati alle
commissioni. La ratio della norma, nonché i precedenti, chiariscono che – proprio a
garanzia della continuità dei lavori delle commissioni e della possibilità di far acquisire
“ulteriori” competenze in casi particolari – la sostituzione opera essenzialmente in due
casi. Qualora un componente designato assume diversi ruoli (ad esempio diventa ministro
o viene eletto al Parlamento europeo), non potendo più garantire l’impegno necessario per
svolgere al meglio il suo incarico di membro di commissione, ovvero qualora, per casi
particolari, si ritenga che un diverso componente del medesimo gruppo parlamentare
possa fornire un contributo “aggiuntivo” e più conforme alla materia da decidere rispetto al
membro “sostituito”. Questa disposizione del Regolamento Senato, dunque, è nata per
estendere le competenze e la funzionalità delle commissioni, non come strumento
disciplinare nei confronti dei parlamentari dissenzienti. D’altronde, può dubitarsi che la
“sostituzione” si possa ottenere senza il consenso dell’interessato. Com’è avvenuto nei
casi dei due senatori Mauro e Mineo.
Si è assegnato in tal modo un potere assoluto di disporre dei singoli parlamentari agli
organi direttivi dei gruppi, venendo a ledere i diritti dei singoli senatori. Non solo quelli
definiti dai Regolamenti parlamentari, ma anche quelli direttamente deducibili dal testo
della Costituzione.
In particolare, sul secondo aspetto, c’è da chiedersi cosa rimanga del libero mandato
(articolo 67 Costituzione) se l’attività politica del parlamentare, con una decisione
estemporanea e punitiva del gruppo di appartenenza, può essere impedita, ostacolando
irrimediabilmente l’esercizio delle sue essenziali funzioni. L’estromissione da una
determinata commissione non può essere giustificata da una presunta indisciplina nei
confronti della linea di un gruppo, ovvero di una maggioranza politica. I parlamentari,
secondo Costituzione, rappresentano la nazione e – tanto più in materia costituzionale –
non sono vincolati alla disciplina di partito.
L’argomentazione del veto (“nessuno ha diritto di veto”), ovvero quella del voto (il
successo elettorale conseguito alle europee) che si propongono per giustificare
l’estromissione dei dissenzienti non hanno ovviamente alcun pregio costituzionale. Qui si
discute di libertà di mandato e del corretto funzionamento delle istituzioni parlamentari,
cioè di quelle regole che chiunque deve rispettare, in ogni caso, di fronte ad ogni possibile
dissenso politico, quale che sia stato il risultato elettorale. È la libera dinamica politica, i
modi di formazione della volontà democratica che si pongono in gioco.
Per quanto riguarda infine i riflessi sul sistema politico complessivo ci si può limitare a
ricordare che le logiche parlamentari negli ordinamenti democratici devono essere
improntate al confronto. Era Carl Schmitt che, nel disprezzo del carattere pluralistico
dell’ordinamento democratico, affermava non ci si potesse fermare dinanzi “al teatro della
divisione”, considerando in fondo un bene che la maggioranza decidesse per la
minoranza, poiché, in fondo, è un “assioma democratico” quello che stabilisce
l’assorbimento delle voci dissenzienti nell’unica volontà espressa nella decisione della
maggioranza. Com’è noto, Hans Kelsen aveva una diversa idea di democrazia, secondo la
quale solo coinvolgendo le minoranze entro il processo di decisone collettiva la volontà
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parlamentare può assumere una sua legittimazione democratica. Più importante delle
decisone stessa è il modo con cui si decide e l’estromissione di ogni voce dissenziente è
un vulnus irreparabile che incrina l’intero processo parlamentare. Un dibattito del secolo
scorso. Siamo ancora lì.
Del 13/06/2014, pag. 1-31
LA POLEMICA
Il pasticciaccio brutto di Palazzo Madama
SEBASTIANO MESSINA
ERA dai tempi dell’ammainabandiera del Pci che la sinistra italiana non si ritrovava
protagonista di un film così schizofrenico, così lacerante, così spettacolare. In una scena
vediamo il sorriso della ministra Boschi, sempre allegra e sempre con un tailleur diverso,
immancabilmente fiduciosa nelle magnifiche sorti e progressive della riforma del Senato.
RIFORMA che difende a passo di carica facendo la spola tra il partito e il Parlamento
come una staffetta partigiana. Nella scena successiva suona invece una cupa sirena
d’allarme, e rimbalzano parole da guerriglia, quelle del senatore Corradino Mineo che
denuncia con tono grave che la «militarizzazione» della commissione Affari costituzionali e
il pericoloso avvento del «renzismo-stalinismo », quelle del felpatissimo senatore Vannino
Chiti — già ministro delle Riforme che non si fecero — che punta il dito contro «un partito
autoritario e plebiscitario», e soprattutto quelle dei 14 senatori che ieri si sono autosospesi
dal gruppo del Pd invocando la Costituzione, la Libertà e la Democrazia. E dunque,
mentre ci sono ancora da lavare i bicchieri per i brindisi alla vittoria-shock delle europee e
per la conquista di due terzi dei municipi italiani, l’elettore del Pd si ferma frastornato e
confuso a domandarsi se abbia ragione — scena prima — Pippo Civati, che getta in faccia
all’ex amico Matteo l’accusa bruciante di aver rispolverato «la tradizione bulgara» delle
epurazioni televisive berlusconiane, se il ribelle Mineo non abbia poi torto quando avverte
che «non si può pensare di fare le riforme con un solo voto di scarto, 15 contro 14», se sia
fondato l’allarme del sapore pre-resistenziale del senatore Paolo Corsini contro
«l’epurazione delle idee non ortodosse», o se invece faccia bene Renzi — scena seconda
— a tirare dritto, avvertendo che «i voti degli italiani contano più dei veti di qualche
politico», e dicendo chiaro e tondo ai dissidenti che combattono una battaglia persa,
«perché io non ho preso il 41 per cento per lasciare il futuro del Paese a Mineo».
E basta dare un’occhiata agli accorati messaggi postati su Facebook o su Twitter per
capire che il popolo del Pd si è già diviso tra la difesa della riforma, costi quel che costi, e
la difesa del sacro diritto al dissenso, da proteggere senza se e senza ma. I tifosi del
Renzi decisionista contro gli avversari del Renzi decisore autoritario. Pochi perdono tempo
a leggersi le carte, come quel noiosissimo regolamento del Senato dove c’è scritto che le
commissioni non sono dei mini-senati ma dei comitati che devono rispecchiare fedelmente
il rapporto tra maggioranza e opposizione, e infatti i capigruppo hanno il potere di sostituire
in qualunque momento i commissari, i quali siedono lì come rappresentanti del gruppo e
non a titolo personale. E si capisce. Altrimenti — caso limite ma non tanto — l’unico
dissidente di un partito di maggioranza potrebbe, votando in commissione con gli
avversari, bloccare all’infinito una legge che in aula sarebbe magari approvata in mezza
giornata. Certo, l’idea che il Parlamento debba approvare mettendosi sull’attenti la riforma
che il ministro Boschi tira fuori con grazia dalla sua cartella di pelle sarebbe inaccettabile: i
senatori, tutti i senatori, hanno il pieno e incomprimibile diritto di dire la loro e di votare —
nell’aula di Palazzo Madama — come ritengono giusto. Ma chi grida al dittatore, chi parla
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di stalinismo, chi lancia l’allarme per la militarizzazione del Parlamento, chi evoca gli editti
bulgari e chi non distingue tra decisionismo e autoritarismo sorvola un po’ troppo
disinvoltamente su un dettaglio non proprio insignificante: la riforma che non piace ai
dissenzienti non l’ha consegnata al buio e di nascosto Renzi alla fidata staffetta Boschi,
ma è stata approvata prima dalla Direzione del partito e poi dall’assemblea del gruppo
(dove ci furono solo 11 voti contrari e 4 astenuti, su 107 senatori). Ed è per questo che
oggi Luca Lotti, il numero due di Palazzo Chigi, può difendere Renzi dall’accusa di
despotismo, «perché siamo un partito democratico, non un movimento anarchico».
Non sappiamo come finirà il pasticciaccio brutto di Palazzo Madama, ma in quei corridoi
solenni un occhio attento oggi può cogliere il sorriso di chi si gode le inedite scene delle
autosospensioni di gruppo e degli insulti incrociati con l’inconfessabile speranza che la
guerriglia antirenziana del subcomandante Mineo allontani il momento in cui tutti loro
dovranno perdere quel seggio, quel titolo e quello stipendio.
Del 13/06/2014, pag. 3
Renzi fa pesare il 40,8% alle urne: basta, si
decide a maggioranza
Il premier Renzi: non ho preso i voti per lasciare il Paese a Mineo
Matteo Renzi, al telefono con i suoi terminali nel governo e nel partito, vorrebbe parlare del
Consiglio dei ministri di oggi, ma sa che non è giornata, che i media inseguono Mineo e
Mineo insegue i media, mentre gli altri dissidenti fanno lo stesso. Perciò gli tocca. Anche
se la cosa gli dà non poco fastidio: «Io epuratore stalinista? Ma non diciamo cavolate.
Sulla riforma del Senato ci siamo confrontati in modo democratico in mille sedi. Abbiamo
fatto un sacco di riunioni di direzione, assemblee di gruppo, un seminario e il governo non
ha mai presentato un testo blindato. E martedì, al Senato, ci sarà un’altra assemblea
ancora, ma di che diavolo parlano?».
È arrabbiato Renzi per la versione che si sta dando di questa vicenda mentre lui è
all’estero: «Abbiamo sempre detto che si sarebbe deciso a maggioranza. Anche io,
quando lo si è fatto, e il segretario era Bersani, non mi sono certo tirato indietro. Ma ora
c’è un di più. Non si sta parlando solo della maggioranza dei nostri parlamentari. Il 40,8
per cento degli italiani che ci ha votato ci ha affidato una grandissima responsabilità alla
quale non possiamo sottrarci. E sapete che cosa ci hanno chiesto gli elettori che ci hanno
votato? Esattamente quello che io chiederò al partito all’assemblea nazionale: basta
scherzare, basta cincischiare, adesso bisogna rimboccarsi le maniche e fare le riforme per
davvero. Non possiamo sperperare quel risultato».
Di Mineo, il presidente del Consiglio quasi non vorrebbe parlare, ma alla fine, è costretto a
farlo. I suoi a Roma gli chiedono come comportarsi. Lui sbotta: «È incredibile e allucinante
che Corradino Mineo parli di epurazione. Il Pd non è un taxi che si prende per farsi
eleggere, andare in televisione, e fare interviste. Non ho preso i voti che ho preso per
lasciare il futuro del Paese nelle mani di Mineo». Certo, Renzi è un tipo sveglio e si rende
ben conto che adesso gli verrà buttata addosso la croce del «dittatore». Già lo chiamano
così, chi apertamente e chi solo dietro la garanzia del l’anonimato. C’è chi ricorda i suoi
trascorsi fiorentini, quando epurava gli eretici, o, comunque, li metteva fuori gioco: «Io non
criminalizzo il dissenso, ma abbiamo deciso a maggioranza e sono decenni che ci
riempiamo la bocca con la parola “riforme” senza approdare a nulla. Io non mi faccio
riportare indietro, nell’immobilismo della palude, solo per dei veti che servono a un gioco di
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posizionamenti tattici interni al partito. I voti degli italiani contano più dei veti dei politici.
Adesso basta, adesso facciamo le riforme istituzionali. Subito, come avevamo promesso:
io non lascio diritti di veto a nessuno». E quel nessuno vale non solo per i ribelli del Pd, ma
anche per Berlusconi. Di qui il confronto serrato con la Lega (anche sulla riforma
elettorale, a costo di tornare al Mattarellum), proprio per costringere il leader di Forza Italia
a rinverdire il patto del Nazareno. Del resto, Renzi è convinto che almeno 7 o 8 (se non di
più ) dei senatori che si sono autosospesi torneranno sui loro passi già nell’assemblea di
martedì prossimo. Mentre da altri gruppi arriveranno nuovi parlamentari a sostenere il
governo. E comunque Renzi è sicuro che, alla fine, si troverà una quadra «perché
nessuno, nella maggioranza di governo come nell’opposizione, vuol far saltare il tavolo
delle riforme e andare a votare». Le elezioni, del resto, non le vuole nemmeno il premier,
come ha spiegato ai suoi: «Io non le uso come minaccia, io voglio governare e fare le
riforme. Le aspettano gli elettori che ci hanno votato, le aspetta l’Europa, le aspettano i
tanti che vogliono tornare a investire in Italia. Certo che se non si fa niente…».
Ma il «niente» non è previsto da Renzi: «Adesso tocca a noi: la vittoria delle Europee, il
40,8 per cento che abbiamo preso, non verranno archiviati nei palazzi della politica
romana e non per il mio orgoglio, ma per il rispetto che dobbiamo al voto degli elettori».
Maria Teresa Meli
Del 13/06/2014, pag. 5
Vertice decisivo premier-Berlusconi
Concessioni alla Lega sul federalismo
La speranza, nel governo, è che «martedì si chiuda». Magari con un incontro tra
Berlusconi e Renzi, che potrebbero siglare il nuovo patto e permettere al testo di riforma
del Senato e del Titolo V di spiccare il volo. Ma mentre la trattativa si fa sempre più
frenetica, non tutte le nuvole che si sono addensate nelle ultime settimane sono state
spazzate via. Tutt’altro. Il faccia a faccia, che tanti danno per certo ma che nessuno ha
ancora fissato, se ci sarà dovrà essere chiarificatore, ed è difficile che ci si arrivi senza una
preventiva intesa di massima. Che però ancora non c’è. Perché, nonostante i contatti tra la
Boschi da una parte e Verdini e Romani dall’altra siano intensi e continui (si è ormai
passati alle simulazioni sui possibili effetti dell’una o dell’altra soluzione), in Forza Italia la
scelta definitiva sulla strada da imboccare ancora non è stata presa. Mercoledì sera — a
cena con i capigruppo, Gelmini, Bergamini, Toti — Berlusconi ha ascoltato le posizioni di
tutti, dei favorevoli a chiudere l’accordo (come Verdini e Romani) e dei contrari (Brunetta).
È parso attento alle ragioni dei primi: «Se non ci saremo noi, troveranno altri voti in
Senato, magari quelli della Lega. E noi rimarremmo fuori, rompendo il possibile dialogo
con il nuovo centrodestra per le future alleanze». Come dei secondi: «Non facciamo il
favore a Renzi di risolvergli le sue contraddizioni interne: se noi ci sfiliamo gli scoppia il
partito». E dentro di sé l’ex premier sa bene come, nella veste di «padre della patria»,
potrebbe avere in futuro un trattamento migliore di quello che, teme, gli toccherebbe
montando sulle barricate. Ma, raccontano, il suo sì Berlusconi non l’ha ancora
pronunciato. Rendendo nervosi anche i possibili alleati della Lega, che avrebbero dovuto
in settimana incontrarlo per un confronto approfondito, ma che non sono riusciti ad avere
risposte. Non da lui almeno, mentre dal governo Calderoli avrebbe ottenuto più di una
concessione sul tema tanto caro al Carroccio del Titolo V, a partire dalle materie
concorrenti tra Regioni e Stato fino al federalismo fiscale. Se basterà per convincere la
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Lega a votare sì alle riforme, indipendentemente dalle posizioni di FI e portando in dote
alla maggioranza 15 preziosi voti, lo si capirà nei prossimi giorni.
Quel che è certo, però, è che Berlusconi, anche solo per decidere cosa fare, ha bisogno di
portare a casa risultati. E profonde modifiche al testo. Toti avverte: «Quello che sta
accadendo è la dimostrazione che il progetto di riforma del Senato così come il governo lo
ha presentato nel dettaglio non solo non è accettabile da noi, ma convince poco molti tra
gli stessi democratici di cui Renzi è il leader», e dunque la smetta il premier di decidere
«monocraticamente». E le modifiche indispensabili per FI non sono poche. La più
importante è il no secco e deciso alla composizione del nuovo Senato, che prevede un
terzo di sindaci: «Non esiste, significherebbe concedere la maggioranza perenne alla
sinistra», protestano gli azzurri. Ma anche i sistemi di elezione del presidente della
Repubblica, della Consulta, del Csm e in generale il criterio della rappresentatività
regionale è da rivedere. «Se non ci rispondono su questi punti, è inutile discutere», è duro
Romani. Ma a rendere Berlusconi ancora indeciso sul da farsi sono anche temi non
direttamente collegati alle riforme. Come il progetto giustizia che ha in mente Renzi.
Raccontano che il Cavaliere sia molto irritato per le voci sul ripristino del reato di falso in
bilancio e in generale per quello che potrebbe contenere la legge anticorruzione anche in
tema di prescrizione. Così come vuole avere voce in capitolo sulla legge elettorale. Il tutto
mentre il suo partito ribolle, al suo interno e fra sostenitori e contrari alla rottura con Renzi.
Che, numeri alla mano, avrebbe comunque ancora la forza di approvare autonomamente
le riforme, per poi brandire l’arma del referendum confermativo che diventerebbe un
referendum su se stesso. Un rischio che Berlusconi deve decidere se correre.
Del 13/06/2014, pag. 4
Responsabilità civile al via le modifiche
Pronto il disegno di legge al Senato
Il ministro Orlando ricompone i pezzi
I Cinque stelle propongono un patto al Guardasigilli
Oggi in Cdm norme anticorruzione e processo telematico
Avanti in fretta, «ma in modo sensato e organico», con la riforma della responsabilità civile
dei giudici. Il giorno dopo il grande pasticcio alla Camera dove il Pd, per dolo e per colpa,
è finito mani e piedi nella trappola leghista e Cinque stelle che ha approvato la
responsabilità civile per i magistrati; mentre la magistratura evoca un golpe in stile P2; alla
vigilia di un consiglio dei ministri molto importante per il fronte giustizia, il Guardasigilli
cerca di ricomporre i pezzi di un mosaico difficile, pieno di insidie ma necessario.
Solitamente silenzioso, ieri Andrea Orlando ha rotto più volte il silenzio per cercare di
mettere ordine. E dare messaggi rassicuranti. Soprattutto alla magistratura impegnata, dal
nord al sud, da Venezia a Napoli passando per Milano e Reggio Calabria, in inchieste
delicatissime. La questione che riguarda le toghe è sul tavolo sia del governo che del
Parlamento. Due disegni di legge sono già pronti alla Camera e al Senato ed entrambi
rendono effettiva la responsabilità civile però in via indiretta. A palazzo Madama scadono
in queste ore i termini per presentare gli emendamenti al testo ma Pd e Forza Italia
concordano nello schema per cui il giudice che sbaglia pagherà di tasca propria per
eventuali errori,ma sarà lo Stato entro tempi precisi e rapidi a rivalersi sul proprio
dipendente. In pratica resta la legge Vassalli, nata per depotenziare il referendum dei
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Radicali che nell’87 introdusse a furor di popolo la responsabilità civile dei magistrati. Ma
poiché quella legge è stata resa inutile da una serie di filtri che hanno fatto condannare
quattro magistrati in trent’anni, il testo al Senato prevede di eliminare quei filtri. E rendere
efficace la rivalsa dello Stato sul magistrato che ha sbagliato tramite prelievi diretti sullo
stipendio. Insomma, Parlamento e governo hanno presente il problema e lo stanno
risolvendo. Ecco che la decisione, mercoledì, della solita Lega (è la seconda volta in due
anni) di piazzare in mezzo alla discussione sulla legge Comunitaria l’emendamento (Pini)
sulla responsabilità civile delle toghe è stato, dice Orlando, «un modo rozzo» di affrontare
la questione. Di più «un autogol per chi lo ha fatto». Il testo al Senato prevede che siano
causa di responsabilità civile anche le sentenze che contraddicono le pronunce delle
Sezioni Unite della Cassazione. Ameno che, si legge, «non siano opportunamente
motivate». È previsto un tetto al prelievo forzoso dalla busta paga del magistrato: non più
del quinto dello stipendio ogni mese. Il Senato, quindi, è pronto a votare in aula la nuova
responsabilità civile delle toghe. Per abbreviare i tempi, e mettere al riparo anche la legge
Comunitaria che deve essere approvata in fretta, in via Arenula si fa strada l’ipotesi di
mandare avanti il più possibile l’iter parlamentare e quando la Comunitaria approderà al
Senato per il via libera finale, sostituire l’emendamento Pini (approvato dalla Camera) con
il testo già approvato al Senato. Tattiche d’aula che hanno un solo significato: governo e
maggioranza vogliono risolvere il problema del magistrato che sbaglia ma non paga mai.
Con un approccio, però, rivendica il ministro Orlando «organico, complessivo e sistematico
che nulla ha a che fare con l’intervento di ieri (mercoledì. ndr) sbagliato per l’adozione di
una metodologia che evoca interventi di riforma ma che complica la possibilità di fare
riforme ». Chiuso un fronte, il ministro se n’è trovato davanti subito un altro nel pomeriggio.
Una delegazione 5 Stelle ha chiesto di essere ricevuta in via Arenula per proporre
un’alleanza che, a essere un po’ maligni, ha già il sapore della trappola. Ma restiamo ai
fatti. Brescia, Giarrusso, Colletti e Bucarelli hanno offerto a Orlando un patto di ferro. Gli
hanno in sostanza chiesto di «rinunciare » disegno di legge contro la corruzione (che
introduce autoriciclaggio e falso in bilancio) e di andare avanti insieme, Pd e M5S, sul
testo Cinque stelle che è fermo in Commissione giustizia al Senato (nato come ddl Grasso
e diventato ddl D’Ascola). La differenza tra i due è abissale. Il testo Orlando è molto più
complesso, prevede anche numerose norme per velocizzare le confische dei beni ai
mafiosi. Il testo grillino al Senato prevede la revisione della prescrizione ma solo per i reati
di mafia. Orlando ha sempre detto che la prescrizione è invece questione da affrontare in
modo organico e non a pezzi. La giornata del ministro si è conclusa a palazzo Chigi. Un
briefing prima del Cdm di oggi. Nel decreto che riforma la pubblica amministrazione, infatti,
si parlerà molto di giustizia. Finiscono qui dentro la riforma del processo civile telematico, i
rimedi compensativi per i detenuti che hanno sofferto una detenzione disumana (8 euro al
giorno per chi è già uscito; sconto di pena per chi è detenuto) i nuovi poteri al commissario
anti- corruzione Raffaele Cantone e i nomi del pool di esperti che dovrà aiutarlo nella sua
nuova delicatissima sfida.
Del 13/06/2014, pag. 1-30
L’ANALISI
Se i grillini sposano la destra xenofoba
GAD LERNER
TRASCINARE a destra il Movimento 5 Stelle è l’azzardo politico con cui Grillo e
Casaleggio confidano di poter sopravvivere al doppiaggio subito dal Partito Democratico lo
19
scorso 25 maggio. Occupare lo spazio lasciato libero dalla crisi del berlusconismo,
monopolizzare la protesta euroscettica rintuzzando la risorgente concorrenza leghista.
SONO calcoli domestici di questa natura a spiegare una scelta che i due padripadroni
hanno perseguito fino in fondo, a costo di provocare lacerazioni in un elettorato per sua
natura trasversale. Il comico italiano che si affianca all’istrione britannico, lo ha fatto
cercando accuratamente lo scandalo, il colpo di scena. La propaganda di Nigel Farage
contro gli immigrati e i musulmani, le sue uscite volgari contro i gay e contro la parità
femminile, vengono minimizzate da Grillo quando sul blog deve rintuzzare le critiche. Ma
in realtà egli spera di giovarsene. Spera che Grillo-Farage divenga l’accoppiata grottesca
ma devastante sul palcoscenico della crisi dell’Unione Europea. Tutto fa brodo, dopo
l’emorragia di quasi tre milioni di voti e la conseguente ingestione di Maalox, per rinnovare
su scala continentale la scommessa antisistema fallita in Italia. La parola magica è:
euroscetticismo. Per questo dal referendum pilotato ieri sul blog sono stati anticipatamente
esclusi i Verdi come possibile approdo grillino. Il partito ambientalista ha per sua natura
una fisionomia cosmopolita, europeista, sovranazionale, che lo rendeva inadatto a
catalizzare la spinta reazionaria dei noeuro e dell’egoismo delle piccole patrie. Una cultura
green che Grillo rinnega, dopo che per anni l’aveva valorizzata nei suoi spettacoli, perché
trova più redditizio l’abbinamento col nuclearista britannico.
Quella operata ieri, ma preparata fin dal giorno successivo a un risultato elettorale che fa
del M5S la principale forza d’opposizione, è una scelta di campo precisa e senza ritorno.
Se il Pd di Matteo Renzi occupa saldamente lo spazio riformista dell’innovazione politica, è
da destra che Grillo ritiene di controbatterlo. Optando con il reazionario Farage per
l’ideologia dei popoli ribelli all’Unione, non da riformare ma da mandare a gambe per aria.
Un’alleanza spaccatutto, nelle intenzioni di chi la battezza sperando che l’architettura
dell’Ue non regga questo passaggio difficile. Il referendum online è stato una caricatura
imbarazzante della cosiddetta democrazia della rete. Basta leggere le argomentazioni con
cui si valorizzava l’alleanza con l’Ukip di Farage, rispetto all’unica altra ipotesi di alleanza
ritenuta ammissibile: quella strampalata con i conservatori inglesi di Cameron. Certo, una
volta esclusa a priori l’alleanza coi Verdi, la terza opzione appariva come la più
ragionevole: non iscriversi a nessun raggruppamento, mantenere la propria indipendenza.
Nessuno infatti obbligava i grillini a apparentarsi nel Parlamento europeo. L’argomento
secondo cui ciò li avrebbe condannati all’irrilevanza non risulta coerente per un movimento
che ostenta disinteresse alle poltrone e che, nel parlamento italiano, pretendeva addirittura
di sedersi in tutta la parte alta dell’emiciclo pur di non schierarsi fra destra e sinistra.
Stavolta il M5S si è schierato, eccome. A destra, al fianco di una destra che non si
vergogna certo di definirsi tale. Grillo e Casaleggio lo hanno fatto orientando sul voto per
l’Efd 23 mila sostenitori su 29 mila partecipanti al referendum. Ricordiamocelo, quando da
quelle parti si lanciano proclami democratici, magari rivolti a un partito come il Pd che
bene o male coinvolge nelle sue scelte fondamentali di leadership tre milioni di cittadini. 23
mila grillini, con tutto il rispetto, hanno “deciso” ieri la collocazione a destra di un
movimento votato da circa sei milioni di cittadini. Ma in realtà lo hanno deciso in due.
Del 13/06/2014, pag. 6
Per l’alleanza con il leader nazionalista 23mila voti su 29mila. Tenuti
fuori dal referendum i Verdi. Nuovi attacchi a Pizzarotti sul blog
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Grillo ha scelto, sì a Farage ma la base è in
rivolta e al Senato il gruppo degli ex prova
l’intesa con Sel e Civati
TOMMASO CIRIACO
ROMA Sliding doors a cinquestelle. Nel giorno in cui gli attivisti scelgono di allearsi con la
destra euroscettica e xenofoba britannica, i senatori ex grillini varano il nuovo gruppo.
Insieme a civatiani e Sel lavorano a quel “Nuovo centrosinistra” che nel medio periodo
punta a bilanciare al senato la pattuglia di Angelino Alfano. Come ampiamente previsto, i
militanti di Beppe abbracciano l’intesa con l’Ukip. Un copione già scritto, dopo il prolungato
bombardamento ordinato dal blog. L’alleanza con i Conservatori di David Cameron è
troppo improvvisata per non sembrare una provocazione. Per mancanza di alternative
trionfa allora Nigel Farage, l’unica opzione sponsorizzata fin dall’inizio dalla Casaleggio
associati. Votano in trentamila, cinquantamila almeno disertano invece lo scrutinio
telematico. L’Ukip ottiene 23.121 voti, 3.533 preferiscono il no a ogni alleanza mentre
2.930 scelgono i conservatori dell’Ecr. Farage non può che esultare: «Sono estremamente
compiaciuto. Con il M5S daremo voce all’opposizione nel Parlamento europeo ».
Il referendum neanche contempla i Verdi. La base protesta, al pari di diversi parlamentari.
«L’esclusione degli ambientalisti — sostiene infastidito il deputato Francesco D’Uva — non
è normale». Cristian Iannuzzi è infuriato: «Sono davvero avvilito per le modalità con le
quali è gestito il portale del M5S. Soffriamo una mancanza di regole, di obblighi e di doveri
di trasparenza e democraticità interna al Movimento». E mentre il verde Angelo Bonelli si
indigna, due eurodeputati grillini con trascorsi ambientalisti comunicano in via informale al
quartier generale pentastellato di essere a un passo da un improbabile e clamoroso addio.
Come se non bastasse, Beppe Grillo continua a martellare dal blog Federico Pizzarotti.
Vuole buttarlo fuori e non lo nasconde: «Il sindaco risponda nel merito. Perché non ha
indetto referendum per stabilire se Parma preferisce le penali o l’inceneritore come
promesso?». Di fatto, lo accusa di evitare la consultazione solo per restare aggrappato
alla poltrona. Il primo cittadino replica piccato: «Se mi avessi chiamato invece di scrivere, ti
avrei spiegato che non esistono penali che permettono la chiusura dell'impianto».
E poi c’è l’altra faccia del grillismo. Sono gli espulsi dal Movimento. Oggi, salvo sorprese,
nascerà il gruppo di almeno dodici epurati, guidato da Adele Gambaro. È solo il primo
passo nella direzione del Nuovo centrosinistra, un progetto che mira a costituire in tempi
non lunghi un unico contenitore per ex grillini, Sel e fuorusciti del Pd. Non esclude nulla il
senatore ex M5S Francesco Campanella, che da tempo tesse la tela con Peppe De
Cristofaro (Sel): «Siamo pronti, su molte cose siamo d’accordo. Con loro già dialoghiamo
e sarebbe un peccato sprecare questa possibilità». Strappi e tensioni fra i democratici,
insomma, avvicinano la meta: «Qualcuno dei senatori potrebbe addirittura uscire dal Pd —
profetizza Pippo Civati —. Lo schema del Nuovo centrosinistra c’è, bisogna capire se il
nostro partito è interessato o reagisce invece in modo scomposto, guardando solo a
destra ». Un primo segnale potrebbe lanciarlo Felice Casson, candidandosi a sindaco di
Venezia con una lista civica. Il sogno dei civatiani è sostituire in fretta Angelino Alfano,
modificando gli equilibri del governo. All’inizio, comunque, il Nuovo centrosinistra non mira
a sostenere organicamente l’esecutivo. Musica per le orecchie dei vendoliani che, intanto,
si trovano di fronte a un bivio. Divisi tra chi combatte il Pd e l’ala filo renziana, guardano al
risiko del Senato come all’opportunità per superare lo stallo. Nel corso dell’assemblea
nazionale di sabato toccherà a Nichi Vendola cercare una sintesi, lasciando aperta la
prospettiva della ricostruzione di un centrosinistra di governo. Il deputato Stefano
Quaranta (Sel), intanto, è netto: «Con tutti questi movimenti non possiamo restare in
21
mezzo al guado». Tutto, in effetti, è in rapida evoluzione. Nel Movimento si sussurra pure
di tre senatori — tra i quali Francesco Molinari — pronti a rompere con la Casaleggio
associati. La partita, a Palazzo Madama, è appena iniziata.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 13/06/14, pag. 4
Commissione d’inchiesta sulla Laguna
mangiasoldi
di Beppe Caccia
Vi è un rischio, attualissimo, che accompagna le inchieste della Magistratura veneziana
sul “sistema MoSE”: che ritiratasi la marea degli arresti, quelli già eseguiti e quelli che
verranno, e abbassatasi l’onda dell’indignazione, tutto torni come prima. Ci stanno
provando gli attuali vertici del Consorzio Venezia Nuova (CVN), augurandosi che siano
“distinte dall’opera eventuali responsabilità personali” e affermando come vada “respinto
qualsiasi tentativo di fermare il MoSE”.
Come osservava l'altroieri Eddy Salzano, questa vicenda è paradigmatica per ciò che
accaduto intorno alle “grandi opere” infrastrutturali. La norma istitutiva della “concessione
unica dello Stato”, votata dal Parlamento nel 1984, è stata non a caso il modello su cui si è
successivamente costruita la figura del “general contractor”, protagonista ad esempio nei
cantieri dell’Alta Velocità ferroviaria. Con quel voto veniva infatti consegnato ad un pool di
imprese private, oggi guidate dalla Mantovani SpA insieme ai colossi nazionali del
cemento, il monopolio di studi e ricerche, progettazione e realizzazione, gestione di tutte le
opere per la salvaguardia fisica di Venezia e della sua Laguna. In tal modo, l’atto di
nascita del CVN sottraeva a qualsiasi trasparente procedura a evidenza pubblica e a
qualsiasi successiva verifica e controllo un enorme ammontare di risorse pubbliche,
destinate a Venezia dalla legislazione speciale.
È stato valutato come, in un trentennio, siano stati circa 9 milioni di euro (di cui quasi 6 per
il solo progetto delle dighe mobili alle bocche di porto) i fondi gestiti dal Consorzio. E, ben
prima che ci arrivasse la Magistratura, abbiamo provato a calcolare quanto di questo sia
effettivamente stato speso per i cantieri delle opere, dal momento che al Consorzio è
tuttora riconosciuto dallo Stato un 12 per cento di “spese generali di gestione” e che i
lavori svolti sono pagati sulla base di uno speciale tabellario, mediamente più oneroso del
35 per cento rispetto ai prezzi di mercato del settore, stabilito dal Magistrato alle Acque di
Venezia. Questa istituzione - i cui due ultimi presidenti Piva e Cuccioletta risulterebbero “a
libro paga” del CVN - meriterebbe un capitolo a parte: parliamo del braccio operativo in
Laguna del ministero per le Infrastrutture, che avrebbe dovuto dirigere e controllare il
Consorzio, ma ne risulta invece totalmente asservito. Secondo i nostri calcoli, dunque,
circa la metà delle risorse destinate alla salvaguardia di Venezia sono state in realtà a
disposizione del “sistema”, finalizzate con mezzi leciti e illeciti alla costruzione del
consenso e alla velocizzazione delle procedure, per un’opera mai sottoposta a una seria
valutazione ambientale e a un’effettiva comparazione con le alternative.
Se oggi non si mette mano alle norme che hanno non consentito, ma direttamente
generato un sistema criminale di generalizzata e strutturale corruzione, potrebbero
davvero aver ragione i signori che immaginano un business as usual. Non serve l’ululato
giustizialista e manettaro. E non basta - per i pochi che possono permetterselo - ripetere
“noi l’avevamo detto”, se non si articolano immediatamente proposte concrete per
smontare pezzo per pezzo questo sistema. A Venezia e in Veneto, e ovunque si
riproduca.
A partire dall’abrogazione di quella Legge Obiettivo che consente di “semplificare” (cioè di
rendere irrilevanti) le procedure di Valutazione d’impatto ambientale e di scavalcare (cioè
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di calpestare) i pareri contrari delle comunità locali investite dalle grandi opere. E, nel
nostro paradigmatico specifico, pretendere la costituzione di una Commissione
parlamentare d’inchiesta che ricostruisca come il CVN e le imprese a esso collegate
hanno speso i soldi pubblici dal 1984 a oggi, facendo luce così su quelle complicità oggi
coperte dalla prescrizione giudiziaria. Chiedere che si discutano subito in parlamento le
proposte già presentate, come quella del senatore Casson, di radicale riforma della Legge
speciale per Venezia. In questo quadro, superare per sempre il regime della “concessione
unica” e insieme sciogliere il Consorzio Venezia Nuova, affidando a un’Authority
indipendente il controllo sui cantieri attualmente aperti, superando l’attuale struttura del
Magistrato e restituendo alla Città sovranità piena sulle sue acque. Attuare così una
verifica, altrettanto libera e autorevole sul progetto MoSE in corso di realizzazione, per
comprendere come si possa correggere e riconvertire un’opera inutile e devastante,
sospinta - come oggi risulta evidente - solo dalla corruzione. Riuscire infine a recuperare
quelle risorse sottratte alla collettività, che potrebbero essere invece investite nella
rivitalizzazione economica e sociale di Venezia e del suo unico ecosistema.
Se non si sradica l’albero, la retorica delle “mele marce” coprirà la continuità di sistema.
Impedirlo è compito dei movimenti che si battono contro le grandi opere e per i beni
comuni, e di chi, nelle istituzioni, voglia provarci sul serio.
Del 13/06/2014, pag. 9
Oggi il governo decide: il Super-Commissario potrà fare ispezioni,
raccogliere dati, comminare sanzioni Le pubbliche amministrazioni
dovranno garantire la trasparenza. Resta il nodo Maltauro: sarà messa
sotto tutela
Expo, i tre poteri di Cantone
ALESSIA GALLIONE
LIANA MILELLA
Tre poteri in una sola persona. Di fare ispezioni. Di acquisire dati. Di comminare sanzioni.
Tutto per Raffaele Cantone. A 43 giorni dalla sua nomina nel ruolo di commissario
anticorruzione e a 32 dal suo coinvolgimento nello scandalo giudiziario sull’Expo di Milano
come controllore e supervisore, pare proprio che oggi il governo dovrebbe farcela a dargli
quei poteri che l’ex pm anti-camorra chiede, e senza i quali i suoi incarichi sono puramente
nominalistici. In un consiglio dei ministri pomeridiano si discuterà la prima tappa della
manovra del governo Renzi contro i corrotti. La prima, quella che riguarda per ora solo in
poteri di Cantone, perché per le altrettanto importanti norme penali, dal nuovo falso in
bilancio all’autoriciclaggio alla prescrizione lunga, bisogna aspettare un’altra settimana. La
prossima, dopo che il 18 giugno il Guardasigilli Andrea Orlando avrà presentato le linee
guida delle sue principali riforme. Cantone dunque. Ma come vedremo anche Giuseppe
Sala, il commissario unico di Expo. Sono poche le norme importanti che fanno di un
commissario “simulacro”, come quello dell’Anac, uno “effettivo”. A partire da quella che gli
darà pieni «poteri ispettivi», che il commissario potrà esercitare utilizzando una propria
task force. Il decreto dice che potrà «richiedere atti e documenti», anche alla magistratura,
a patto che il materiale non sia ancora coperto dal segreto delle indagini. Cantone potrà
accedere a tutte le banche dati e acquisire quanto gli serve. Potrà anche ricevere «notizie
e segnalazioni di illeciti». Cantone sarà una sorta di super poliziotto e supermagistrato? Di
certo, per come palazzo Chigi sta disegnando la sua figura, Cantone potrà anche delegare
24
le richieste di ispezione alla Guardia di finanza. Proprio come un pm fa con la polizia.
Avrà, di conseguenza, un duplice e del tutto innovativo potere, che sarebbe stato
suggerito e esplicitamente chiesto da Cantone. Prima quello di ordinare alle pubbliche
amministrazioni di fare quello che non hanno fatto per garantire la trasparenza e poi,
qualora entro un tempo congruo esse non si adeguino, un potere sanzionatorio che sarà
commisurato all’entità stimata della trasgressione.
Al pari del ministro della Giustizia, anche il commissario farà ogni anno una relazione al
Parlamento sullo stato della corruzione in Italia e sui mezzi di contrasto. Potrà anche
proporre modifiche legislative dopo aver letto i provvedimenti del governo nell’ambito delle
sue competenze. Su una richiesta, invece, Cantone non dovrebbe
spuntarla, un suo parere «obbligatorio» su tutti i provvedimenti, governativi e non, che
riguardano la lotta alla corruzione. La seconda parte del decreto legge, sui controlli per
Expo, sarà chiusa solo oggi, al rientro di Renzi dal viaggio in Asia. Ma è scontato che il
super commissario incasserà una norma per poter controllare i vecchi e i nuovi appalti.
Otterrà una sua squadra speciale di investigatori che potranno chiedere atti e documenti
alle stazioni appaltanti. Un uomo di Cantone parteciperà anche alle gare di
aggiudicazione. Come necessaria conseguenza, al commissario verrà dato il potere di
imporre il rispetto delle regole a tutti coloro che lavorano per Expo. Fino all’ultimo
momento utile, stamattina, ci si arrovellerà sulla possibile revoca degli appalti.
Quanto a Expo il decreto è decisivo. Il commissario Sala ieri era ottimista: «Cambierà in
meglio il nostro lavoro, ma deve davvero arrivare». Cosa attende Expo? Un capitolo
importante, dal punto di vista operativo, riguarda Italferr, la società di ingegneria del
gruppo Ferrovie dello Stato. È da qui che arriva Marco Rettighieri, il nuovo responsabile
del cantiere. Ed è ancora da qui che dovranno giungere strutture e uomini in grado di far
girare al massimo ruspe e operai e seguire tutta la partita delle “riserve”, ovvero le pretese
di costi extra che vengono segnalati dalle aziende. Il decreto permetterà a Expo di affidare
in modo diretto a Italferr questi compiti. Da risolvere c’è poi il problema della Maltauro,
l’azienda finita nella bufera giudiziaria. In questo caso, “salvando” le altre imprese che
con Maltauro hanno vinto gli appalti, si farà in modo di mettere “sotto tutela” la società: per
la parte dei lavori di Expo ci sarà la possibilità di creare un’amministrazione controllata.
Una soluzione che, poi, potrà essere replicata se ci fossero altri guai con altre aziende.
Niente da fare, invece, per affidare senza gare a Fiera spa 80 milioni di commesse per
allestire i padiglioni. In questo momento, con le polemiche ancora vive per le procedure di
emergenza, non si sarà alcuna deroga.
Del 13/06/2014, pag. 14
“Nella Guardia di Finanza un sistema di
corruzione” Nuove accuse a Bardi
Napoli, tra i favori anche un posto barca per il generale Contro di lui ora
ci sono le testimonianze di alti ufficiali
DARIO DEL PORTO
CONCHITA SANNINO
Hanno parlato. Offrendo ricordi, racconti, dettagli. Non solo imprenditori, ma anche alti
ufficiali della Guardia di Finanza ora chiamano in causa il comandante generale in
seconda delle Fiamme Gialle, Vito Bardi, indagato per corruzione a Napoli. Una valanga
che rischia di diventare la nuova “Mani pulite” della Guardia di Finanza.
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Si profila un vero e proprio “sistema” di corruzione molto più vasto, dietro il blitz della
Procura che, dopo la perquisizione al Comando generale e l’arresto del colonnello Fabio
Mendella — con l’accusa di avere intascato un milione di euro in tangenti dai due
imprenditori, i fratelli Pizzicato — punta alle alte sfere. Il comandante Bardi avrebbe
chiesto «favori e utilità» a vari imprenditori, i cui nomi vengono secretati nelle carte
dell’inchiesta, ma emergono da filoni già esplorati. Tra i regali destinati al generale, ci
sarebbero viaggi, soggiorni e «un posto barca ad Ostia». Non solo. Dal decreto di
perquisizione a carico di Bardi, trapela l’esigenza di blindare testimoni e fonti di prova, nel
timore di «iniziative inquinanti» riconducibili al suo ruolo. C’era una «rete di complicità», è
dunque l’ipotesi del procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli e del pm Henry John
Woodcock, che foraggiava le divise sporche. A quasi sette anni dall’inchiesta sulla P4 che
aprì i primi squarci sulle complicità nella Finanza, si delinea ora la filiera eccellente delle
mazzette. I colonnelli e altri quadri intermedi, alcuni dei quali già individuati come
Mendella, sarebbero i collettori di tangenti; in cima, ecco il livello dei generali. Oltre a
Bardi, è indagato anche il suo predecessore — oggi in pensione, ma già inguaiato dallo
scandalo del Mose, a Venezia — Emilio Spaziante, lo stesso generale che il 21 febbraio
scorso si sarebbe incontrato, in piazza Euclide a Roma con il capitano che aveva diretto
una verifica “sospetta” sulle società dei Pizzicato. Nelle prossime ore non si esclude un
incontro riservato tra i magistrati di Napoli e quelli di Venezia. Tra le pagine delle
intercettazioni, spunta anche un presunto giro di frequentazioni con donne, riferibile agli
interessi di Mendella, anche se, per l’interpretazione dei pm, il termine è allusivo e
potrebbe nascondere riferimenti ad altri personaggi.
«QUEL GENERALE PUÒ INQUINARE L’INCHIESTA»
Poche ma significative pagine. In cui il generale Bardi è descritto come fonte di possibile
inquinamento dell’indagine. Nel decreto di perquisizione a carico del comandante in
seconda, è scritto: ci sono «diverse fonti testimoniali che hanno riferito sia dei rapporti di
stretta vicinanza tra il colonnello Mendella e il generale Bardi, sia dei rapporti di familiarità
del generale con imprenditori partenopei (e non), a loro volta oggetto delle indagini». Un
passaggio inedito e molto significativo conduce al contributo dato da alti ufficiali della
Finanza: «Queste ultime circostanze sono state riferite anche da appartenenti alla Guardia
di Finanza collocati ad alti livelli gerarchici sentite come persone informate sui fatti». Ci
sono colonnelli che chiamano in causa il generale: eppure non c’è alcuna traccia di nomi o
di contesti. Scrive la Procura: «Delle diverse fonti testimoniali si omette il riferimento
nominativo per ragioni di cautela processuale, potendo le stesse essere oggetto di
iniziative inquinanti, in ragione del ruolo rivestito da Bardi». Lo stesso provvedimento
lascia comprendere la vastità delle indagini sul generale e l’esistenza di altri filoni. «Altri
soggetti — è ancora scritto nel decreto di perquisizione — hanno riferito di rapporti ispirati
a richieste di favori di rilievo economico riguardanti il predetto Bardi».
«QUANDO BARDI CHIESE I FAVORI»
Indagini parallele si intrecciano con il filone Guardia di Finanza. In uno dei processi a
carico di Valter Lavitola, quello per tentata estorsione ai danni di Impregilo, la Procura ha
depositato un verbale dell’imprenditore Mauro Velocci, già citato negli atti sul progetto
“Carceri modulari” a Panama. Interrogato il 14 dicembre 2011, Velocci riferisce alcune
confidenze ricevute da un altro imprenditore, Angelo Capriotti, che asseriva di avere “al
soldo” alcuni rappresentanti delle forze dell’ordine. E quando i pm gli chiedono in
particolare di rapporti di Capriotti con ufficiali della Guardia di Finanza,
Velocci tira in ballo il generale Vito Bardi, al quale Capriotti aveva chiesto di interessarsi a
un esposto presentato da una loro società. E aggiunge: «Dopo qualche tempo, Capriotti
mi riferì che il generale Bardi gli aveva fatto delle richieste “strane”, ovvero richieste di
utilità, se non sbaglio riferite all’acquisto o alla locazione di un posto barca ad Ostia». Un
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computer e alcuni atti e documenti sono stati prelevati da uffici e dalla casa del generale,
all’esito della perquisizione condotta dalla Digos di Napoli e dagli stessi finanzieri della
Tributaria di Roma. Intanto l’avvocato Vincenzo Siniscalchi, difensore di Bardi, sottolinea:
«Il generale, pur nell’amarezza di queste ore, manifesta la sua intenzione di chiarire ogni
aspetto e di mettersi a disposizione degli inquirenti, ribadendo l’assoluta fiducia nel loro
lavoro e della giustizia».
D’AVANZO E I SUOI AMICI GENERALI
C’è un’altra vicenda di verifiche fiscali ritenute “anomale” che porterebbero dritte al
colonnello Mendella e al generale Bardi. Sono i controlli sul gruppo imprenditoriale di
Achille D’Avanzo, il patron della “Solido Property”. Costui, titolare di numerosi immobili affittati alla Guardia di Finanza, è amico non solo di Mendella e del generale Bardi,
ma anche dell’ex capo del Sismi Niccolò Pollari. Proprio a Pollari, D’Avanzo aveva
venduto un ampio e prestigioso appartamento a Campo de’ Fiori a Roma. Alla Finanza di
Napoli, lo stesso D’Avanzo aveva fittato un edificio come caserma: affari al centro di
un’indagine, poi archiviata a Roma. I sospetti di oggi, invece, si concentrano sui possibili
favori fiscali che hanno riguardato le sue società. In particolare, colpisce l’analogia: così
come gli imprenditori Pizzicato (che hanno detto di aver versato un milione di euro), anche
D’Avanzo trasferì la sede delle imprese campane a Roma e lì, nella capitale, furono
disposti nuovi accertamenti fiscali. Ma i legali della holding inviano una nota per dire: «le
società hanno sede a Roma fin dal 2004». Dagli atti, in ogni caso, emerge una «indubbia
contiguità » tra D’Avanzo e ambienti della Finanza, come emerge da alcune dichiarazioni
dell’ex deputato Pdl Marco Milanese, l’ex consigliere politico dell’allora ministro Giulio
Tremonti. Due ex eccellenti che potrebbero raccontare i retroscena di una stagione di
potere, ormai in declino.
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SOCIETA’
del 13/06/14, pag. 5
260 mila minori al lavoro dai 7 ai 15 anni in
Italia
Save The Children. Il rapporto «Lavori ingiusti». Il Guardasigilli Orlando:
«Elevare a 25 anni l’età di chi é costretto nelle carceri minorili»
Un bambino su 20, tra i 7 e i 15 anni, lavora oggi in Italia. Per Save the Children, che ieri in
occasione della giornata mondiale contro il lavoro minorile ha presentato a Roma il
rapporto «Lavori ingiusti» in collaborazione con il ministero della Giustizia, in questa
condizione si troverebbero 260 mila under 16 nel nostro paese, il 7% della popolazione
compresa in questa fascia di età.
Questa la conclusione di un’indagine che ha coinvolto per la prima volta 733 ragazzi e
delle ragazze nei penitenziari minorili, nelle comunità di accoglienza penale e in quelle
ministeriali, oltre che quelli presi in carico dal servizio sociale minorile. Il 73% è di origine
italiana, mentre il 27% è costituito da tagazzi di origine rumena, albanese o maghrebina.
L’oggetto riguardava il loro coinvolgimento nel lavoro da prima degli 11 ai 16 anni. Il 66%
dei ragazzi ha effettivamente lavorato prima dei 16 anni, oltre il 40% ha avuto esperienze
lavorative al di sotto dei 13 anni e l’11% ha svolto delle attività persino prima degli 11 anni.
Si inizia a lavorare per affrontare le spese che la famiglia di appartenenza non può
sostenere, oppure si lavora per aiutare la propria famiglia (nel 40% dei casi). Il 60%
dichiara di aver lavorato per altre persone mentre solo il 21% ha lavorato per i propri
genitori e il 18% per dei familiari. La ristorazione è il luogo dove i minori trovano più spazio
(il 21%).
Bar, ristoranti, alberghi, pasticcerie, panifici li mettono al lavoro senza badare troppo
all’età. Si può anche trovare qualcosada fare ai mercati generali o nellavendita ambulante
(il 17% dei casi). Non manca l’edilizia dove ci si può improvvisare da manovali, imbianchini
o carpentieri. Poi il lavoro in campagna per raccoglitori, nel maneggio degli animali, ad
esempio. Il 71% dei ragazzi intervistati ha dichiarato di aver lavorato quasi tutti i giorni –
dunque in modo continuativo e — il 43% per più di 7 ore di seguito al giorno; il 52% ha
lavorato di sera o di notte. La maggior parte dei minori intervistati afferma di avere iniziato
le proprie azioni illecite tra i 12 e i 15 anni, lamenta di avere incontrato problemi a scuola
con una bocciatura. Tra i reati commessi ci sono quelli contro il patrimonio (54,5%, furto o
rapina), quelli contro la persona (12,7%, lesioni volontarie, ad esempio), contro l’incolumità
(9%) e le istituzioni (6%).
«Si tratta di un dato molto grave e allarmante che mette in luce il circolo vizioso che parte
dall’abbandono scolastico, passa per lo sfruttamento lavorativo fino a ad arrivare al
coinvolgimento nelle reti della criminalità» afferma Raffaela Milano, direttrice Programmi
Italia-Europa Save the Children Italia». Un lavoro stabile potrebbe contribuire al percorso
di reinserimento sociale, la pensa così l’89% degli intervistati. Tra le raccomandazioni di
Save The Children c’è l’adozione tempestiva di un piano Nazionale sul Lavoro Minorile.
Per Furio Rosati dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo) «Protezione sociale e
monitoraggio sono essenziali per combattere il rischio abbandono scolastico e
l’esposizione al lavoro minorile».
Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha annunciato che presenterà oggi al Consiglio
dei ministri una proposta legislativa per elevare l’età di chi é costretto negli istituti
28
penitenziari minorili passando da 21 a 25 anni. L’obiettivo «é creare una funzione di
cerniera tra l’età adulta e quella minorile».
del 13/06/14, pag. 5
Unioni omosessuali, dalla Consulta sentenza
bifronte
Monica Cerutti *
L’importante sentenza dell’altro ieri della Corte costituzionale (170/2014) rimette al centro
dell’attenzione pubblica le unioni omosessuali. Nel valutare la vicenda di Alessandra
Bernaroli, i giudici hanno affermato che è incostituzionale la norma che prevede
l’annullamento «coatto» del matrimonio nel caso in cui un coniuge cambi sesso, invitando
il legislatore ad agire «con la massima sollecitudine» per consentire alle persone che si
trovino in quella situazione di «mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente
regolato». Se questo è certamente un fatto molto positivo, che sana un vulnus che
offendeva la coscienza civile, lascia invece perplessi l’argomentazione utilizzata dalla
Consulta, perché sembra chiudere definitivamente la porta alla possibilità che anche in
Italia si riconosca il matrimonio egualitario come in molti altri Paesi.
Le sentenze della Corte, organo di fondamentale importanza, vanno sempre rispettate,
anche quando non piacciono: il triste ventennio berlusconiano che abbiamo alle spalle si è
caratterizzato non a caso per i suoi attacchi scomposti proprio al «giudice delle leggi».
Tuttavia, difendere l’autonomia della Consulta non significa il divieto di commentarne
anche criticamente le decisioni, con misura e spirito costruttivo. Ciò che credo occorra fare
relativamente al passaggio nel quale i giudici affermano che nel nostro ordinamento è
«essenziale» il requisito dell’eterosessualità per il matrimonio, inchiodando la natura di tale
istituto a quella «definita dal codice civile del 1942». Si tratta di una lettura
ultraconservatrice, che allontana la nostra giurisprudenza costituzionale da quella di Paesi
molto simili a noi, anche sul piano delle norme fondamentali, come ad esempio la Spagna.
Siamo dunque di fronte a una sentenza bifronte. Per un verso, la Corte torna a ribadire la
necessità che il legislatore riconosca giuridicamente le unioni omosessuali, riprendendo in
ciò la sentenza 138/2010. Per altro verso, sembra voler escludere per sempre la
possibilità che tali unioni siano né più né meno che il matrimonio, come chiedono i
movimenti lgbt e come accaduto – da ultimo – in Gran Bretagna lo scorso marzo.
Guardando il «bicchiere mezzo pieno», e posto che la battaglia politica per il «matrimonio
egualitario» continua, occorre fin da subito che il Parlamento dia finalmente seguito
all’indicazione dei giudici, e istituisca come primo passo le unioni civili. Che, dal mio punto
di vista, dovranno prevedere gli stessi diritti del matrimonio eterosessuale.
Indirettamente, la sentenza richia ma tutte le istituzioni ad agire ad ogni livello, secondo le
proprie competenze, per garantire a ciascun cittadino diritti e pari dignità. In Piemonte,
nella legislatura regionale che si è appena conclusa, come capogruppo di Sinistra
Ecologia Libertà avevo presentato un progetto di legge contro le discriminazioni
determinate dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere.
Un disegno di legge grazie al quale sarebbero state riconosciute le coppie omosessuali
anche in ambito sanitario – di competenza regionale – e che mirava a superare le
discriminazioni sul lavoro: la maggioranza di centrodestra non lo volle approvare. In
questa regione il nostro impegno in ambito di diritti civili riparte da lì. La discriminazione e
l’omofobia sono un flagello della nostra società e per combatterle ci vogliono
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provvedimenti legislativi concreti. Il tempo delle promesse è finito, ora deve iniziare la
stagione del mantenimento degli impegni.
*L’autrice è Assessora ai Diritti e Pari opportunità della Regione Piemonte
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BENI COMUNI/AMBIENTE
Del 13/06/2014, pag. 23
Ok dei 28 ministri per l’Ambiente: l’intesa chiude quattro anni di
trattative e sarà approvata dal Parlamento nel semestre italiano
Ogm, trovato l’accordo “Saranno i singoli
Stati a decidere se coltivarli”
ANDREA BONANNI
LUSSEMBURGO I ministri europei dell’Ambiente hanno raggiunto ieri un accordo sulla
regolamentazione delle culture Ogm che consente ad ogni stato membro di vietare la
coltivazione di piante geneticamente modificate. L’intesa, che chiude quattro anni di
discussioni infruttuose e di veti incrociati, dovrà ora essere discussa con il Parlamento
europeo nel corso del semestre di presidenza italiana e potrebbe essere approvata entro
fine anno. Finora la situazione delle coltivazioni Ogm in Europa era estremamente
confusa. Il compito di autorizzare o meno l’utilizzo di determinate sementi geneticamente
modificate toccava alla Commissione, sentito il parere dell’agenzia alimentare europea,
che ha sede a Parma. Nel corso degli anni, Bruxelles ha autorizzato per esempio un tipo
di grano prodotto dalla Monsanto. Ma molti stati membri, tra cui l’Italia, si sono rifiutati di
consentirne l’utilizzazione, adducendo motivi di tutela della salute che però sono stati
regolarmente respinti dall’Agenzia alimentare che li ha ritenuti ingiustificati. Nonostante i
ricorsi della società produttrice, la Commissione non era però arrivata ad imporre ai
governi la liberalizzazione delle culture autorizzate perché il Consiglio era sempre riuscito
a bloccare ogni decisione. Attualmente il grano geneticamente modificato viene coltivato
liberamente solo in Spagna, Portogallo, Romania, Slovacchia e Repubblica Ceca. La
Commissione deve però pronunciarsi su una nuova serie di autorizzazione e finora aveva
congelato ogni decisione proprio a causa della situazione di incertezza giuridica
si era venuta a determinare. L’accordo raggiunto ieri, se verrà confermato dal Parlamento,
consentirà di superare lo stallo. La Commissione potrà autorizzare la coltivazione di
prodotti Ogm, ma ogni Stato membro avrà il diritto di vietarne l’utilizzo sul proprio territorio,
oppure di limitarlo ad alcune aree geografiche adducendo motivazioni relative all’uso dei
suoli, alla tutela ambientale, all’impatto socio economico, alla pianificazione territoriale o
all’esigenza di evitare contaminazioni. Di fatto, anche se le organizzazioni ambientaliste lo
considerano ancora insufficiente, lo spettro delle argomentazioni è talmente ampio da
garantire piena discrezionalità ai governi nazionali.
Il ministro dell’ambiente, Gian Luca Galletti, ha espresso soddisfazione per l’accordo, pur
confermando che il governo italiano resta fermamente contrario ad autorizzare colture
geneticamente modificate: «L’Italia dice no agli Ogm ma chiedo a ogni Paese Ue un aiuto
per arrivare a chiudere entro la fine dell’anno il dossier». Anche il commissario europeo
alla tutela della salute, il maltese Tonio Borg, si dice contento dell’accordo: «E’ un grande
successo. La prossima presidenza italiana dell’Ue troverà il sostegno della Commissione
europea per chiudere il più rapidamente possibile la normativa sulla possibilità per uno
Stato membro di limitare o vietare la coltivazione di Ogm sul proprio territorio, nonostante il
via libera della Commissione europea». Le organizzazioni ambientaliste restano
moderatamente critiche. Per Monica Frassoni, presidente del partito dei Verdi europei e
coordinatrice di Green Italia, si tratta solo di un primo passo: «Serve una base legale più
solida, capace di garantire che le valutazioni di impatto su ambiente e salute non siano
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basate unicamente sui dati forniti dalle stesse aziende biotech che richiedono la vendita o
coltivazione degli Ogm». Sono le stesse perplessità espresse dai ministri di Belgio e
Lussemburgo, che si sono astenuti sul provvedimento e che denunciano «il ruolo troppo
rilevante lasciato alle industrie di biotecnologie » che potranno esercitare pressioni sui
governi nazionali.
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INFORMAZIONE
del 13/06/14, pag. 3
Liquidata l’Unità, a salvarla
arrivano i “furbetti di San Marino”
di Salvatore Cannavò
Da una parte i lavoratori dell’Unità, dall’altra, il Pd. Ieri, la Nie, la società editrice del
quotidiano fondato da Antonio Gramsci, ha deciso di mettere in liquidazione il giornale. Ma
durante i lavori della Direzione Pd, il tesoriere Francesco Bonifazi ha comunicato la
decisione presentandola come “l’inizio di una rinascita” e assicurando “un impegno
fortissimo del Pd per non spegnere una voce che resta un tassello fondamentale non tanto
per la nostra storia quanto per la storia d’Italia”. Negli stessi minuti il Cdr dell’Uni - tà
pubblicava il proprio comunicato: “È un comportamento inaudito, inaccettabile, da padroni
delle ferriere”.
LA DECISIONE della liquidazione è stata presa dall’assemblea della società editrice,
riunitasi nel pomeriggio, che ha nominato i liquidatori Emanuele D’Innella, titolare dello
studio omonimo in Roma e Franco Carlo Papa con l’obiettivo di “massimizzare” le proprie
risorse. Matteo Fago, socio di maggioranza e amministratore del quotidiano, alza le
braccia: “In tutto questo tempo ho assistito al progressivo defilarsi degli altri ‘attori’e soci di
questa impresa. Mi sono ritrovato, così, da solo, a sobbarcarmi di responsabilità
finanziarie e anche politiche che, ad oggi, non sono più sostenibili”. L’accusa, velata, è agli
altri soci, in particolare Maurizio Mian, titolare del fondo Gunther. Con la liquidazione,
secondo Fago, il giornale continuerà a esistere. La Nie diventa così una “bad company”
per fare spazio a una nuova società che riporterà l’Unità “ad essere il punto di riferimento
politico e culturale della sinistra italiana”. “Sono convinto - continua Fago - che un serio
progetto editoriale trasparente, accompagnato da un preciso piano industriale e finanziario
e da una nuova squadra alla guida dell’azienda, possa riuscire a superare una crisi
drammatica”. Le prime indiscrezioni, confermate dai lavoratori del quotidiano, individuano
il nuovo supporto nella Pessina Costruzioni. Si tratta di un’azienda edile, capitanata da
Massimo Pessina, con circa 70 milioni di fatturato, meno di un milione di utile e quasi 100
milioni di debiti, di cui 40 verso le banche (bilancio 2012). Si è distinta nella costruzione
della nuova Regione Lombardia, di Malpensa 2000 e della nuova fiera di Milano. Per la
cronaca, la Pessina Costruzioni, si può trovare tra le società che finanziarono l’ex
vopresidente della Provincia di Milano, e dominus del “sistema Sesto”, Filippo Penati, con
15 mila euro. Il nome dei Pessina, inoltre, figura anche nella lista dei “furbetti di San
Marino”, quei 1200 evasori che avevano nascosto decine di milioni di euro nelle banche
del piccolo stato appenninico tra cui la Smi Bank. Nel corso di quell’inchiesta, del 2010, fu
accertato anche che il nome di Massimo Pessina era già presente nell’elenco di altri
“conti” di evasori, quelli di Vaduz, in Liechtenstein, pubblicato nel 2008. Il Cdr del
quotidiano ribadisce che “non c’è alcuna garanzia sul mantenimento degli impegni che
Fago aveva assunto”. Per questo lo sciopero delle firme prosegue, ed oggi ci sarà
un’assemblea straordinaria dei giornalisti.
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CULTURA E SCUOLA
Del 13/06/2014, pag. 15
La ricerca virtuosa
In Italia investimenti fermi all’1,25% del Pil «Eppure Usa, Germania,
Corea insegnano che puntare sulla scienza crea ricchezza»
La ricerca fa bene al Pil. Lo dicono gli scienziati che per battere cassa in tempi di crisi
hanno deciso di cambiare strategia. In un Paese civile le motivazioni culturali, sociali e di
ritorno in qualità della vita dovrebbero essere sufficienti per spingere le istituzioni a
scommettere sul futuro: in Italia, però, finora tutto ciò non è bastato per sollevare gli
investimenti, fermi all’1,25% del Prodotto interno lordo, contro la media europea dell’1,7%,
mentre Stati Uniti e Germania sono intorno al 2,6%. È uno dei motivi per cui adesso gli
uomini di scienza sono sempre più impegnati nel dimostrare che investire in ricerca
conviene anche economicamente. Le prove sono schiaccianti.
Bisogna cambiare rotta. Gli ultimi dati Istat vedono ancora una volta l’Italia in fondo alla
classifica per la spesa in investimento e sviluppo, pari a 19,8 miliardi di euro (cifra
onnicomprensiva dei fondi messi a disposizione da imprese, enti pubblici, istituzioni private
non profit e università). Nell’Unione Europea — come messo in evidenza anche da
Confindustria — l’Italia è al sedicesimo posto, in compagnia di Portogallo, Repubblica
Ceca, Spagna, Ungheria, Grecia, Malta, Slovacchia e Polonia. Eppure la ricerca virtuosa è
il miglior investimento che un Paese in crisi può fare.
La tesi è sostenuta in primis dall’Ue, che considera l’innovazione il cardine delle sue
politiche per favorire crescita e occupazione. Così i Paesi europei sono chiamati a
spendere in ricerca, da qui al 2020, il 3% del Pil (1% di finanziamenti pubblici, 2% di
investimenti privati). L’obiettivo è di creare 3,7 milioni di posti di lavoro e realizzare un
aumento annuo del Pil di 800 miliardi di euro. Numeri da capogiro, ma che trovano una
spiegazione nella redditività della ricerca soprattutto sul medio-lungo periodo. Paolo
Veronesi, presidente della Fondazione Veronesi, in prima linea nel sostegno alla ricerca,
s’affida a un paragone: «La Corea del Sud ha impostato la sua politica economica su
ricerca e sviluppo, investendo il 3% del Pil. E mentre nel 1980 il reddito pro capite coreano
era un quarto di quello italiano, oggi la situazione si è invertita», spiega l’oncologo che con
la Fondazione Veronesi punta soprattutto sui giovani (vengono finanziate 153 borse
specialistiche da 27 mila euro l’anno, per cui servono in media mille 5x1000 per sostenere
un ricercatore per un anno): «Del resto, i cervelli ci sono e non sono tutti in fuga.
Quest’anno sulle 3.600 domande di finanziamento arrivate all’European Research Council
sono stati selezionati 312 “top scientist”. Di questi, 46 sono italiani. Solo i colleghi tedeschi
sono più numerosi (48)». Lo scorso 10 dicembre Andrea Bonaccorsi, docente di
Ingegneria economico-gestionale dell’università di Pisa, ha tentato di convincere il
presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il presidente del Senato Pietro Grasso
che investire in ricerca conviene. L’ha fatto nell’incontro su «Scienza, innovazione e
salute» organizzato a Palazzo Madama dalla senatrice a vita Elena Cattaneo. «Le stime
esistenti che si sono applicate a ritroso, risalendo dalle grandi famiglie di innovazioni
tecnologiche alle scoperte scientifiche che le hanno rese possibili, suggeriscono che le
ricerca pubblica può generare un tasso di rendimento annuale del 20-50%. Il che significa
che la ricerca pubblica di base si ripaga nel giro di 2-5 anni — sottolinea Bonaccorsi —.
C’è poi l’investimento in capitale umano: qui il tasso di rendimento è più basso perché
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l’impegno pubblico nella formazione di un ricercatore è piuttosto alto (280 mila euro, dalle
elementari alla laurea), ma non al punto di annullare i benefici economici, capaci di
generare un rendimento del 15%». Scrive lo scienziato Giuseppe Remuzzi su la Lettura
del Corriere : «In Gran Bretagna è stato calcolato che ogni sterlina che lo Stato investe in
ricerca biomedica rende 30 penny all’anno all’economia del Paese, per sempre. La
Germania, che due anni fa ha tagliato il bilancio federale di 80 miliardi, ha aumentato però
gli investimenti in ricerca del 15% e ha investito soprattutto in ricerca biomedica. Perché?
Forse sulla scia di un dato sorprendente, quello sul genoma umano: negli Stati Uniti per
quel progetto si sono investiti 3,8 miliardi di dollari, il ritorno per l’economia del Paese è
stato di 800 miliardi in 13 anni, cioè un dollaro speso ne rende 140». Bisogna crederci.
Chiara Segré, biologa e dottore di ricerca in oncologia molecolare, nonché supervisore
scientifico della Fondazione Veronesi, rilancia sul suo blog: «L’Italia ha a disposizione un
capitale umano di ricercatori e scienziati da fare invidia al resto del mondo e che
rappresenta la chiave per lo sviluppo economico del prossimi decenni. Vogliamo imparare
a valorizzarlo?».
Simona Ravizza
del 13/06/14, pag. 19
Lo Strega dei Golia
NELLA CINQUINA SOLO LE GRANDI CASE EDITRICI. E C’È POI IL
CASO SCURATI: È AUTOPLAGIO?
di Silvia Truzzi
E la cinquina fu. Anzi piuttosto una tombola per i grandi gruppi editoriali: nessun piccolo è
passato, nemmeno Nottetempo che Ovunque, proteggici di Elisa Ruotolo era quasi certo
di entrare. Al premio Strega dunque andrà in scena uno scontro tra Golia, nessun Davide
è stato ammesso al Ninfeo di Villa Giulia, dove il 3 luglio verrà assegnato il più prestigioso,
sebbene parecchio sbiadito, dei riconoscimenti letterari. E sarà una battaglia
perfettamente in linea con il vento della politica: nuova, “ultra - maggioritaria”, poco
propensa al pluralismo. Tanto da indurre Giuseppe Russo, direttore editoriale della Neri
Pozza attraverso il sito Affaritaliani. it a lanciare una proposta di resistenza ai suoi colleghi:
“L’idea è quella di scegliere un candidato unico dell’editoria indipendente e letteraria, e di
convergere su quello. Non ha senso continuare a fare da ornamento alla gara degli altri...”.
Ma la selezione chez Bellonci ha riservato anche altre, inattese, novità. La classifica
racconta un secondo posto annunciato (Scurati, con Il padre infedele) e un primo posto
inaspettato (Giuseppe Catozzella, Non dirmi che hai paura). A farne le spese Francesco
Piccolo, vincitore annunciato forse da troppi mesi, con Il desiderio di essere come tutti.
Certo, l’autore non si può lamentare: Il capitale umano, il film di Paolo Virzi che Piccolo ha
scritto insieme al regista e a Francesco Bruni, ha appena vinto il David per la miglior
sceneggiatura. Ma – è immaginabile, visto il terzo posto in cinquina – Piccolo starà
facendo più d’uno scongiuro. Non lo aiuta che abbia passato la selezione di mercoledì
sera anche Lisario di Antonella Cilento: il romanzo è pubblicato da Mondadori e
certamente un po’ di voti di Segrate, che altrimenti sarebbero confluiti su Piccolo,
andranno alla scrittrice. Molto dipenderà dalle mosse di Riccardo Cavallero, dominus di
Mondadori libri e pure di Einaudi. Mortificare la Cilento per assicurare le quarantamila
copie che lo Strega garantisce a Piccolo, oppure sostenere Lisario con una dignitosa
quota di preferenze? That ’s the question. Le variabili non sono finite. Intanto c’è il primo
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posto a sorpresa di Catozzella, che è un giovane piuttosto promettente. Milanese, trentotto
anni, laureato in filosofia, ha pubblicato romanzi su temi come mafia e ‘ndran - gheta (ha
anche un blog sul sito del Fatto ). Non dirmi che hai paura è la storia, vera, di Samia,
un’atleta somala che riesce ad arrivare alle Olimpiadi di Pechino, tenta di sfuggire agli
integralisti scappando dal suo Paese ma muore su un barcone al largo di Lampedusa. La
storia di Samia ha appena vinto la prima edizione dello Strega Giovani, assegnato da
quattrocento studenti delle scuole superiori: forse qualche problema al vincitore
annunciato lo creerà. C’è poi il caso Scurati. Lo scrittore che nel 2009 ha sfiorato la vittoria
al Ninfeo, è in cerca di riscatto con un romanzo che racconta le difficoltà di due genitori
alle prese con l’arrivo del bebè. Ma un’ombra offusca la rivincita: un articolo di Pippo
Russo, apparso sul sito di critica letteraria Satisfiction, denuncia un autoplagio dello
scrittore. Che in sostanza avrebbe copia- incollato ne Il padre infedele un’intera scena di
sesso proprio dal libro che partecipò allo Strega (Il bambino che sognava la fine del
mondo), dove il protagonista si concede una seduta erotica in un centro massaggi.
CITIAMO solo un esempio dal lungo articolo di Pippo Russo, per far capire ai lettori: “Alle
pagine 172-3 de Il bambino che sognava la fine del mondo, ecco la descrizione del
massaggio: ‘Im - pugna il mio pene come prima impugnava le mie dita, le caviglie, l’osso
scafoide. Senza cambiare presa, lo unge come aveva unto i lombi, i dorsali, le clavicole.
Nessuna soluzione di continuità. Non è sesso, non è simbolo, ma solo un’escrescenza
carnosa, un’altra qualsiasi parte del corpo, un tessuto cavernoso, una parte decisamente
minore. Massaggia anche quella, ecco tutto’. Vi piace? Certamente deve essere piaciuta
parecchio a Scurati, al punto da indurlo a replicarla pressoché identica a pagina 168 de Il
padre infedele: ‘Im - pugna il pene come prima impugnava le dita, i polsi, le caviglie.
Senza cambiare presa lo unge come ha unto i lombi, il dorso, le clavicole. Nessuna
soluzione di continuità: non è sesso, non è fallo, non è simbolo, è solo un’escrescenza
carnosa, un’al - tra parte del corpo, un tessuto cavernoso. Massaggia anche quello, ecco
tutto’”. Autoplagio o autocitazione? Elisabetta Sgarbi, direttore editoriale di Bombiani, non
vuole commentare. Della cinquina dice: “Una gara aperta e non si poteva sperare di
meglio alla vigilia”. Ma gli amici della domenica avranno qualcosa da ridire?
del 13/06/14, pag. 22
Così sta morendo
il cinema italiano
di
Roberto Faenza
Si è da poche ore celebrata la kermesse dei David di Donatello, che qualche
buontempone ha definito gli Oscar italiani e a vedere la pioggia di premi ci sarebbe da
credere nell’ottima salute del cinema nostrano. Purtroppo non è così. Box Office, l’unica
rivista sopravvissuta per occuparsi di economia del cinema nel numero di fine maggio fa il
bilancio della passata stagione, incassi 2013. Già il titolo non è rassicurante: “Crollano gli
investimenti”. Nel 2012 gli investimenti sommavano a 493,14 milioni di euro, mentre nel
2013 sono scesi a 357,60. Una differenza di 136 milioni di euro non è davvero poca cosa.
Se allarme deve essere, va però detto che tutto il paese è in profondo rosso. Dunque non
si vede come l’industria cinematografica possa chiamarsi fuori.
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OSSERVIAMO le cifre. Nel 2012 abbiamo prodotto 166 film di nazionalità italiana,
intendendo per tali quelli che hanno ottenuto il nulla osta alla proiezione in pubblico nel
corso dell’anno solare. Nel 2013 ne sono stati prodotti 167, quindi siamo quasi pari. Ma
mentre nel 2012 ci sono state 37 coproduzioni, nel 2013 sono scese a 29. Anche in questo
caso una differenza non da poco. Il costo medio di produzione di un film interamente
italiano è stato 1,99 milioni nel 2012 ed è sceso a 1,69 lo scorso anno. In Francia il costo
medio è più del doppio, ma laggiù lo stato investe complessivamente circa mille milioni
l’anno, quasi dieci volte più che da noi! Crescono in tempo di crisi i film cosiddetti low
budget, prodotti con un investimento inferiore a 200.000 euro: 53 nel 2013, contro 37 nel
2012. Il che non è un buon segno, perché la maggior parte di questi titoli non si possono
davvero definire opere cinematografiche. Infatti una volta realizzati vanno a sbattere
contro il muro della distribuzione, che a torto o a ragione tende a rifiutarli. Sul piano
dell’investimento pubblico, i contributi statali per i film “di interesse culturale” (ridicola
dizione che andrebbe si spera presto sostituita e meglio definita) nel 2013 sono stati 10,80
milioni e 31 milioni i crediti di imposta alla produzione, affiancati da 16,88 milioni per il
“credit esterno” e da 4,75 milioni per il credito di imposta ai distributori. Infine sono stati
6,67 milioni i contributi regionali. I film che hanno ottenuto il contributo in base all’articolo di
legge dell’“interesse nazionale” so - no stati 23. Sorge naturale una domanda: chi sono gli
investitori “esterni” (cioè esterni all’industria cinematografica) che credono nel cinema?
Prevalentemente banche e assicurazioni. Se però si andasse a una verifica approfondita,
si scoprirebbe che costoro investono, in pieno accordo con le produzioni, solo una quota
“garantita” e non l’intera somma come richiede la normativa. Se dopo il Mose si passasse
al cinema ne vedremmo delle belle. C’è poi il capitolo dei passaggi dei film in tv: 4.442 nel
2012 contro 4258 nel 2013. I film italiani programmati in prime time, prima serata, sono
stati però parecchio di meno. Sorprende trovare al primo posto Canale 5 con 48 passaggi,
seguito da Rai 3 con 47 e Rete 4 con 36. Fanalino di coda, e sorprende ancora di più, la
rete ammiraglia della tv pubblica, Rai Uno, con soltanto 13 prime visioni. RECORD di
ascolti per l’ever green “La vita è bella” di Benigni con 7,3 milioni di spettatori, distaccato
da “Benvenuti al sud” con 5,6 milioni. Nel 2103 Sky Cinema ha programmato 513 film
italiani contro i 649 del 2012. I canali multipiattaforma di Mediaset hanno trasmesso 1.073
titoli italiani contro 584 della Rai. Se confrontiamo questi dati, si potrebbe dire che a
prestare servizio pubblico è rimasto soltanto l’impero di Berlusconi. Ma davvero vogliamo
continuare a pagare il canone per una televisione che si proclama pubblica e poi perde il
confronto con quella commerciale? Il neo ministro della Cultura Dario Franceschini ha
detto che interverrà a correggere il trend Rai in difesa del cinema italiano. Speriamo che le
sue promesse siano più concrete di quelle di un suo predecessore a Via del Collegio
Romano, l’ex ministro Giancarlo Galan. Ma forse lui era troppo impegnato a batter cassa.
Del 13/06/2014, pag. 35
Dopo gli oggetti, la pizza e il cioccolato da Cambridge arriva una vera
rivoluzione
La stampante 3D creò il lampone “Inizia l’era
dei frutti fai da te”
RICCARDO LUNA
LE STAMPANTI 3D escono dal mondo dei giocattoli e dei gioiellini e si avventurano nel
regno di Dio. Il terzo giorno, nel libro della Genesi, Dio creò “alberi che fanno il frutto”. Per
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alcuni miliardi di anni si è fatto così. Poi, il 24 maggio scorso, a Cambridge un frutto è stato
creato con una stampante 3D. Tecnicamente, lo hanno stampato. Un lampone, o qualcosa
che gli assomigliava fortemente. Il sapore in compenso era sicuramente di lampone.
Perché tutto è partito da lì, dal succo di lampone infilato in una macchina che ricorda le
stampanti 3D che vanno tanto di moda adesso. Degli accrocchi metallici alti meno di un
metro che ormai si comprano anche per meno di mille euro. Solo che quelle in circolazione
stampano per la gran parte oggettini di plastica. Creano oggetti con un processo che
prende il nome di adductive manufacturing , manifattura per aggiunta invece che per
sottrazione di materia. Questa, utilizzando una tecnica della gastronomia molecolare che
prende il nome di “sferificazione”, ha dapprima aggiunto acido algicinico per trasformare il
succo in globuli gelatinosi simili a uova di caviale; e poi ha immerso il tutto in una
soluzione di calcio molto fredda. E in meno di un minuto, il lampone 3D era pronto.
Com’era? Uno dei tre giurati della edizione inglese di Masterchef ha pubblicamente lodato
l’esperimento: “È buono!”. E qualche sito web di tecnologia ha esultato: “Ridicolizzata la
natura”. Inorridite? Comprensibile, se vi piacciono i veri lamponi: ma prima leggete il resto
della storia. L’operazione, che è stata presentata qualche giorno fa al Tech
Food Hack di Cambridge, porta la firma di un team di innovatori “non convenzionali”,
Dovetailed . La fondatrice e direttrice creativa, Vaiva Kalikaité, che non ha ancora
quarant’anni, porta lunghi capelli biondi e occhiali con montatura nera e spessa da nerd,
dice: «Abbiamo progettato questa cosa per un bel po’. La nostra stampante di frutta 3D
spalanca nuove opportunità non solo per gli chef professionisti, ma anche per le cucine
domestiche. Le nostre esperienze culinarie saranno migliori: abbiamo reinventato il
concetto di frutta on demand . È un momento molto eccitante per essere innovatori,
questo». Il lampone 3D non è il primo della serie. Anzi, potremmo dire che chiude un
cerchio. Prima si sono viste stampanti 3D produrre sculture di cioccolato e di zucchero.
Carino. Poi ci si è messa la Nasa, l’agenzia spaziale americana, che nel suo tentativo di
migliorare i pasti degli astronauti, un anno fa ha messo in palio 125mila dollari per chi
fosse riuscito a fare una pizza con una stampante 3D. Un anno fa è stato annunciato che il
premio lo ha vinto Anjan Contractor, un ingegnere meccanico texano che si era allenato
col cioccolato per passare alla salsa di pomodoro e alla mozzarella. “Trasformeremo tutti
gli ingredienti in polveri che poi saranno estruse” fu la promessa. Ma appena sei mesi
dopo la startup Natural Machines ha annunciato di aver realizzato Foodini, una stampante
di pizza non ancora perfettamente funzionante in effetti (il formaggio e l’origano vengono
aggiunti a mano). Con il lampone di Cambridge però si cambia scala. Si entra nel mondo
della natura. In verità alcune stampanti 3D nel mondo vengono già usate per stampare
tessuti e pezzi di organi umani (lo fa Organovo in California); e il capo del Center for Bits
and Atoms del MIT Neil Gershenfeld da tempo sta lavorando ad una macchina che dagli
atomi crei qualunque cosa simulando il teletrasporto (l’ha chiamata Replicator, come nel
film Star Trek). Ma va detto che siamo ancora in un territorio molto sperimentale. Il
lampone di Cambridge invece rischia di essere una cosa molto concreta. Come la pecora
Dolly che aprì la strada alla clonazione animale. Sarà così importante? Gabriel Villar, che
è il capo-inventore di Dovetailed, pensa di sì: «Con la nostra tecnologia sarà possibile non
soltanto riprodurre frutti esistenti, ma crearne di totalmente nuovi. Il gusto, la consistenza,
la dimensione e la forma di un frutto, tutto potrà essere modificato a piacere». In realtà
dice “customizzato”, come se si trattasse di una automobile o di un computer. Buon
appetito. Il prossimo esperimento sarà per rifare un arancio.
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