RASSEGNA STAMPA lunedì 8 giugno 2015 L`ARCI SUI MEDIA

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RASSEGNA STAMPA lunedì 8 giugno 2015 L`ARCI SUI MEDIA
RASSEGNA STAMPA
lunedì 8 giugno 2015
L’ARCI SUI MEDIA
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L’ARCI SUI MEDIA
del 07/06/15, pag. 16
La nuova Cosa di sinistra Landini: “Non mi
faccio ingabbiare in un partito”
Il leader Fiom all’assemblea di Coalizione sociale “Raccoglieremo chi è
contro questo premier”
ALBERTO CUSTODERO
ROMA .
“Coalizione sociale” di Maurizio Landini ha cominciato ieri il suo cammino al centro
Frentani di Roma. E come ha voluto il segretario Fiom, la partenza è stata «dal basso».
Dai lavoratori, dalle associazioni, dai sindacati. C’erano tanti ex militanti degli anni
Settanta. E poi i militanti di Arci (che hanno aperto i lavori), dei centri sociali, dei movimenti
studenteschi come Onda, del forum per “l’acqua bene comune”, di Legambiente, di Action
“sfratti zero”, di “sciopero sociale”. Accanto a loro, sono spuntati a sorpresa (e per la prima
volta), associazioni e gruppi di professionisti, avvocati, notai, lavoratori autonomi a partita
Iva, categorie di questo pianeta di lavoratori spinte dalla crisi a cercare un rapporto con i
sindacati. Insomma, un centinaio di associazioni per centinaia di simpatizzanti, molti
studenti, molti esponenti della scuola, molti sindacalisti, fra questi il predecessore di
Landini, Gianni Rinaldini, oggi coordinatore nazionale dell’area programmatica della Cgil.
Coalizione Sociale diventerà dunque un partito e Landini ne sarà il leader? «La prossima
volta ve lo dirò in cinese — ha risposto quasi stizzito il segretario Fiom — Coalizione
sociale è nata fuori dai partiti, per ricostruire la politica. Non mi faccio ingabbiare dal
partito. Inizia un percorso che vuole essere democratico al massimo. Le presenze di
questi giorni dimostrano che il bene del Paese si fa cercando di unire ciò che Renzi e il
suo governo divide».
Obiettivo della due giorni, ha poi spiegato, è quello di selezionare, attraverso numerosi
gruppi di lavoro, tre o quattro temi fondamentali sui quale scatenare delle campagne
nazionali che potranno sfociare anche (ma non necessariamente) in referendum. Due temi
sono già stati individuati, e sono quelli del jobs act e della riforma della scuola. Gli altri
potranno essere legati all’ambiente. C’è grande attesa, intanto, per l’intervento di Stefano
Rodotà previsto per oggi.
Nonostante non sia stato consentito loro di parlare, qualche politico s’è affacciato, ieri, al
centro Frentani, come i deputati di Sel Nicola Fratoianni e Giorgio Airaudo. E
l’europarlamentare Eleonora Forenza della lista Tsipras-L’Altra Europa. «Pur non essendo
stati invitati i partiti — ha detto Forenza — l’assemblea di Coalizione sociale ha un valore
politico: quello di ricomporre i pezzi di società che il neoliberismo ha diviso». «Siamo qui
per ascoltare — ha aggiunto Airaudo — perché non si ricostruisce la politica attraverso i
ceti, ma è con il radicamento sociale che si risponde ai problemi dei cittadini che il governo
non risolve più».
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del 08/06/15, pag. 18
Landini: “Autunno in piazza per i diritti”
All’assemblea di Coalizione sociale, con oltre 300 associazioni, applausi
per Rodotà che ha attaccato Renzi Il leader della Fiom: ci siamo stancati
di lavorare e non contare niente. “Facciamo paura, pronti a un altro
Primo Maggio”
ALBERTO CUSTODERO
ROMA .
«Sull’etica pubblica, il governo Renzi è più sfrontato di quel che abbiamo visto nel
passato». Coalizione sociale, seconda giornata. Stefano Rodotà va al podio e infiamma la
platea, confermando il feeling con il mondo dei movimenti, mentre Maurizo Landini
annuncia una grande manifestazione di piazza. «Faremo il Primo Maggio d’autunno avverte il leader Fiom - perché diventa un elemento di unità del Paese. Ora facciamo
paura, ci batteremo, siamo stufi di non contare. Questo governo non rappresenta la
maggioranza del Paese. Ma non siamo a sinistra del Pd». Landini non cita Marchionne, il
suo nemico storico, ma se la prende, a sorpresa, con Finmeccanica, i cui «vertici - spiega
- hanno avuto dal governo degli incentivi per alienare Ansaldo trasporti». Quindi anche lui
attacca il premier: «Renzi come Monti e Letta, esegue diktat della Bce».
«Nostro compito è fare uscire dalla schiavitù decine di migliaia di lavoratori - spiega poi il
giurista - è in discussione la democrazia. Renzi s’è mosso come se la società non
esistesse. Ma ora si è accorto che la società esiste». «Ridurre “Mafia Capitale” a un
problema della magistratura - dice ancora - è da garantismo da Prima Repubblica ».
Renzi, per Rodotà, anziché «trincerarsi dietro il garantismo, dovrebbe dare attuazione
all’articolo 54 della Costituzione, cacciando chi disonora le istituzioni. Landini aggiunge:
«Renzi si preoccupi di quelli del Pd che vanno dentro». Ancora Rodotà: «Dobbiamo
reinventarci i diritti. Sbaglia il governo a volere una Consulta che tutela i diritti solo se non
c’è un costo. I risparmi dovuti al dimezzamento degli F35 vadano al mondo del lavoro».
È pienone, al centro Frentani di Roma per la giornata di chiusura della “Cosa di sinistra”
del leader Fiom Maurizio Landini. Trecento le associazioni che, accanto al mondo
sindacale, hanno aderito all’iniziativa di Landini, dai militanti di Arci, ai centro sociali, ai
movimenti studenteschi come Onda, i militanti di Legambiente, di Action “sfratti zero”,
“Acqua bene comune”. Presenti per la prima volta le associazioni di lavoratori autonomi
come avvocati notai ragionieri a partita Iva rimasti senza lavoro, in cerca di un approccio
col mondo sindacale. Ha esordito con un «Compagni...» il prete operaio don Peppino
Gambardella, che ha ricordato la solidarietà dei lavoratori della Fiat di Pomigliano che
devolvono le ore di straordinario ai loro colleghi cassaintegrati. S’è presentato, cappellino
e bastone, anche Oreste Scalzone, fondatore di “Potere operaio”, che, a proposito del
premier, dice: «Alla sua sinistra si è aperta una voragine». Presenti alcuni politici,
Corradino Mineo (minoranza Pd), i senatori ex 5Stelle Fabrizio Bocchino e Francesco
Campanella, l’europarlamentare Curzio Maltese della Lista Tsipras.
Ha accettato l’invito, ma senza aderire a Coalizione sociale, Libera di don Ciotti. «Siamo
stati invitati - spiega Giuseppe De Marzo - ma di aderire non se ne parla. Rappresentiamo
1300 associazioni, impossibile contattarle tutte e metterle d’accordo. A noi interessa
lavorare ».
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del 07/06/15, pag. 9
Landini non sta fermo: ora la Coalizione cerca
sede
Pienone per il leader Fiom che fa politica ma che non farà un partito
di Salvatore Cannavò
Lui ci prova ancora a stringerci in una dimensione politica ma io non mi faccio ingabbiare.
Qui c’è davvero molto da fare”. Maurizio Landini è seduto in una fila secondaria del centro
congressi Frentani e sta ascoltando uno degli oltre cento interventi che hanno inaugurato
la giornata iniziale della Coalizione sociale. A Matteo Renzi, che da Genova lo relega a
ruolo di comparsa politica secondaria, non risponde direttamente: “Credo che lo farò
domani (oggi, ndr) e anche nettamente”. Il gioco politico della Coalizione che si fa partito
non gli interessa e per sottolinearlo lo dice ironicamente ai giornalisti che ripetono la
domanda: “Sto studiando il cinese e ve lo dirò anche in cinese, non mi interessa fare un
partito politico”.
Che sarà così lo si capisce dalla giornata inaugurale della Coalizione sociale. Alle 15 di ieri
si erano registrate ufficialmente 725 persone ma in realtà sono molte di più. Il centro
Frentani – che alcuni decenni fa ospitava la sede romana del Pci – è zeppo di persone ma
non vede leader politici in primo piano. Sel e Prc hanno inviato le loro delegazioni (Nicola
Fratoianni e Giorgio Airaudo per Sel, Rosa Rinaldi ed Eleonora Forenza per il Prc), molto
rispettose dei lavori e che si tengono ai margini. Alle due plenarie mattutine – quella su
lavoro e precarietà, “Unions”, e quella sulla “rigenerazione urbana” – non intervengono
esponenti di partito. Antonio Ingroia invia una lettera a Landini in cui apprezza che la
Coalizione non abbia fatto “gli errori che ho fatto io ai tempi di Rivoluzione civile”.
L’assenza di “politica” rende più libero il dibattito, senza nessuna impellenza “costituente”
men che mai elettoralistica.
Dalla sessione sul ruolo delle città e utilizzo degli spazi pubblici (resa ancora più attuale
dall’inchiesta su Mafia capitale, molto citata) emerge una delle intuizioni che potrebbe far
compiere un salto di qualità alla Coalizione: “Servirebbero delle sedi, dei luoghi fisici in cui
riunire questa diversità” ragiona Landini a voce alta. Una suggestione, più che una
proposta, che, se perseguita, potrebbe dare maggiore sostanza a un progetto che ancora
si fatica a classificare.
La giornata comincia con una breve introduzione, non a cura del segretario Fiom che,
appunto, sta seduto in seconda fila e prende appunti, ma di Filippo Miraglia dell’Arci. Dopo
di lui, due introduzioni “trasversali”: una sulla democrazia e la Costituzione, tenuta da
Lorenza Carlassarre, molto applaudita, e l’altra su Europa e beni comuni, tenuta da
Corrado Oddi del Forum dell’acqua pubblica. Poi si passa ai gruppi di lavoro. Oltre ai due
della mattina, già indicati, se ne tengono altri due nel pomeriggio: uno su “Saperi e
conoscenza” e l’altro su “Economia industriale e crisi ambientale”. Nei workshop la natura
di base della due giorni esplode nella sua interezza. Intervengono comitati piccoli e grandi
di ogni parte d’Italia. Si ascoltano liste civiche di Bari impegnate nella campagna “rifiuti
zero” accanto a fabbriche recuperate come Rimaflow a Milano (che sta vivendo un attacco
molto pesante da parte del Pd locale) o Officine Zero di Roma. Si presenta la ex Caserma
di via Asti a Torino, un mega spazio di 27 mila metri quadrati ma anche un’altra caserma
occupata, la Rossani di Bologna. C’è l’associazione Il Riccio di Castrovillari, in Calabria e il
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Comitato di disoccupati che ha ideato il “reddito di partecipazione”: “Puliamo un pezzo di
verde e andiamo a chiedere il conto al municipio”.
Ci sono storie personali, dall’archeologa a partiva iva pagata 35 euro lordi al giorno ma
anche alle vicende di Vittorio Agnoletto, già portavoce del Social Forum, ex
europarlamentare e oggi medico precario dell’Inps che dice che il sindacato quelli come lui
nemmeno li vede. Ci sono le associazioni studentesche, quelle che come Act organizzano
il lavoro precario, medici che si propongono come volontari per progetti di mutuo soccorso,
don Peppino Gambardella, di Pomigliano d’Arco, che spiega cosa sia il Fondo sociale per i
lavoratori istituito dalla sua associazione Legami di solidarietà a favore dei cassaintegrati.
Ci sono quelli di Communianet che presentano il progetto “Sfruttazero” ovvero salse di
pomodoro realizzate dai lavoratori migranti, il centro sociale Tpo di Bologna che ricorda
come a Los Angeles esista una legge che dice che “sotto i 15 dollari l’ora non si può
essere pagati”. Per oggi è annunciato l’intervento a nome della campagna Miseria Ladra
sul Reddito di dignità promosso all’interno della rete di Libera di don Ciotti.
Nel workshop sul lavoro e precarietà si discute in termini più tradizionali, da classica
assemblea di movimento. Ma i temi del reddito minimo, del salario, dello sciopero sono i
più gettonati. In particolare si discute di come combinare le lotte dei metalmeccanici con
quelli dell’Ikea o di McDonald’s. Può bastare lo sciopero? C’è chi propone di indirne uno,
“sociale”, per il prossimo autunno. Si vedrà se la proposta marcerà. Tra le decisioni che
oggi saranno assunte c’è quella di costruire coalizioni sociali a livello locale e darsi di
nuovo appuntamento nazionale in autunno.
La diversità dell’assemblea è ben raffigurata dai pannelli su cui tutti i partecipanti possono
attaccare dei post-it con su scritti i propri auspici, le proposte e gli obiettivi di questa due
giorni. Rapidamente diventano centinaia: “Un sistema pensionistico europeo”, si legge
oppure il “reddito minimo garantito”; “leggi contro il precariato” e “Comitati di salute
pubblica”; la proposta di “case del mutuo soccorso” o “la carta dei beni comuni”. E, ancora,
“scuole serali per migranti”, “riunire la coalizione nelle biblioteche pubbliche”, “mappare i
luoghi sfitti” e realizzare “una sindacalizzazione di massa”. Un programma-puzzle scritto
con tanti tasselli che i coordinatori dei vari workshop dovranno sintetizzare negli interventi
di oggi. Dopo di loro gli interventi di Maurizio Landini e Stefano Rodotà.
del 07/06/15, pag. 2
Landini è gia coalizzato
Sinistra. In un migliaio raccolgono la sfida del segretario della Fiom. Per
riconquistare i diritti cancellati si parte dal basso. Lanciando campagne
su reddito di dignità, beni, saperi e spazi comuni. Nel giorno del
battesimo della Coalizione sociale il suo ideatore decide di ascoltare e
prendere appunti. Parlerà oggi tirando le fila del lungo dibattito
Massimo Franchi
Ascolta in disparte, prende appunti, passa da un gruppo di lavoro all’altro. Nel giorno in cui
la sua proposta prende forma e sostanza, Maurizio Landini fa da spettatore. Solo qualche
risposta a margine ai giornalisti che ancora una volta gli chiedono se «la coalizione sociale
sarà un partito». «Non so più come dirlo. Sto studiando il cinese e la prossima volta lo dirò
in cinese», è la risposta quasi stizzita.
Parlerà oggi, tirando le fila di una due giorni che dovrà iniziare ad «unire tutto quello che è
stato diviso e rimettere al centro della discussione tutto quello che è stato cancellato: diritti,
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un’idea diversa di sviluppo e sostenibilità ambientale, riqualificazione e rigenerazione delle
città, sia dal punto di vista economico che morale».
I tempi e i modi sono allo stesso tempo lunghi e complessi. «Parliamo alle persone, non ai
partiti e saranno le persone a decidere cosa fare, se il nostro progetto li può interessare.
Se uno all’inizio di un percorso sa già come va a finire vuol dire che si è messo d’accordo
prima e noi non ci siamo messi d’accordo proprio con nessuno. I problemi sono grandi —
conclude Landini — e noi non pensiamo a una cosa che li risolve in quattro e quattr’otto».
Una lunga giornata di «politica con la P maiuscola», dunque. Una giornata cominciata con
tre interventi «cappello» — di Filippo Miraglia dell’Arci, della costituzionalista Carla
Carlassarre, di Corrado Oddi dei Forum per l’Acqua pubblica — e la prima divisione in
gruppi di lavoro. Di sotto, nella sala principale, si parla di “Unions” e diritti del lavoro, di
sopra nella sala più piccola di “Rigenerare la Città”. Nel pomeriggio invece nella sala
grande l’argomento è “Economia, politiche industriali, cambiamenti climatici», mentre in
quella piccola tocca a “Saperi e conoscenza”.
«Quattro temi decisivi per cambiare la nostra condizione di vita», si sintetizza dal palco.
Cinque minuti a testa e l’accorato appello — eluso in qualche caso — «a non raccontare
solo la propria esperienza, ma a fare proposte concrete», come ricorda Michele De Palma,
responsabile Auto della Fiom e coordinatore del gruppo Unions che «parte dalla
constatazione che la crisi divide, mette in competizione e sottopone al ricatto le persone
che per vivere devono lavorare».
Accanto al palco o ai tavoli di chi gestisce i gruppi vengono messi dei pannelli blu sui quali
attaccare post-it gialli con le proprie proposte. In un clima da università inglese all’inizio c’è
ritrosia. Il primo coraggioso verga un programma politico stringato ma assai impegnativo:
«Lotte e mutualismo per costruire nuovi diritti. Reddito e salario per tutti». Poi la cosa
prende piede e i bigliettini iniziano a non bastare per i grafomani, costretti ad attaccarne
anche tre assieme pur di non disperdere le loro idee.
Si va per le lunghe. Bisogna contingentare i tempi per permettere agli altri due gruppi
tematici di poter avere un tempo decente di discussione. Una sintesi di 50 interventi —
come quelli contati nel caso di Unions — diventa complicata. La fa il giovane Federico che
sottolinea «i punti comuni a gran parte degli interventi: il salto del nesso tra individuale e
collettivo, la scorciatoia del principio del capo che è il renzismo».
Ma sono le proposte a farla da padrone: «Campagne per unire e legare generale e
particolare con al centro l’efficacia: il fatto che il Jobs act sia un inno all’illegalità in cui il
“tutele crescenti” è una scusa per precarizzare e pagare meno tutti; un salario minimo non
assistenziale ma come battaglia di libertà su cui fare campagna sul territorio quest’estate e
un momento comune e nazionale in autunno; la battaglia salariale e quella dei migranti
come vertenza di carattere europeo con l’idea di un salario minimo continentale per evitare
il dumping sociale». A fianco alle proposte «c’è il metodo: nuove forme di
sindacalizzazione, solidarietà alla Grecia di Tsipras e la democrazia come vincolo su tutte
le decisioni».
Forse ancora più interessante il dibattito uscito dal gruppo “Rigenerare le città”. Amedeo
del centro sociale romano La Strada riassume le proposte «sulla rigenerazione urbana»
lanciando una «campagna nazionale sul tema del patrimonio pubblico, della gestione dei
beni e degli spazi comuni e una piattaforma digitale per mettere assieme le esperienze».
Da “Saperi e conoscenza” invece arriva l’appello ad allargare («a università, diritto allo
studio, formazione permanente, accesso alla cultura», sintetizza Riccardo della Rete della
Conoscenza) e rendere trasversale il grande successo della mobilitazione contro la Buona
scuola. Sui “Cambiamenti climatici” infine si punta a bloccare lo Sblocca Italia, a filiere
produttive non intensive e all’autogestione di stabilimenti in crisi legandoli al territorio.
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Oggi si riparte con la plenaria. E con l’intervento di Stefano Rodotà (ieri a Genova a
RepIdee, ma non con Renzi). Verranno letti i report dei quattro gruppi e poi si cercherà di
trovare una sintesi. Con tutta probabilità la farà Maurizio Landini. E ai suoi avrà il
vantaggio di non dover parlare in cinese. Qua nessuno vuole fare un partito. Solo (buona)
politica dal basso.
Da La Presse del 06/06/15
Landini lancia la 'Coalizione Sociale':
Riportiamo al centro le persone
Due giorni di confronto con le associazioni e i movimenti della società civile per ricostruire
una cultura politica e solidale: è questo l'obiettivo della convention di 'Coalizione sociale',
organizzata da Maurizio Landini al centro congressi Frentani di Roma. "Non sarà un partito
politico", ha ribadito più volte il leader della Fiom, anche se oggi tra Libera di Don Ciotti,
Arci, Articolo 21 ed Emergency, non mancano esponenti della sinistra più radicale, come
Nicola Fratoianni di Sel e Giorgio Airaudo. "Le persone - ha detto Landini - oggi non si
sentono rappresentate e questo è il nostro obiettivo".
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Da Radio Popolare del 07/06/15
Intervista a Filippo Miraglia, vicepresidente nazionale Arci, sull’assemblea della Coalizione
sociale
Da Left del 06/06/15, pag. 12
La Carovana antimafie diventa europea
La carovana antimafie (organizzata da Arci, Libera, Avviso Pubblico, Cgil, Cisl e Uil), ha
imparato tanto dalla propria strada. E’ nata vent’anni fa, in Sicilia, in un tempo diverso,
quello che, in sintesi, è definito “la fase dello stragismo”. Oggi continua il suo viaggio,
divenuto europeo. Le mafie sono forse meno evidenti ma altrettanto invasive. Per questo
l’antimafia sociale deve trasformarsi, oggi è come una mongolfiera: ha bisogno
dell’impegno di tutti, l’aria calda per volare più in alto, ma anche di liberarsi dei sacchi di
sabbia della retorica e della staticità. Deve farsi popolare.
“Quella” mafia era incarnata da volti e nomi famosi, tanto da rendere più facile
l’identificazione del nemico, si pensi a Riina, Provenzano o Schiavone. Le mafie attuali
sono un misto fra tradizione e modernità, fra lupara e ipad, fra territorio e globalizzazione,
più invisibili e meno plateali, tanto che nemmeno declinarle al plurale ne consente davvero
la fotografia. Criminalità organizzata con una zona grigia che la fiancheggia e, spesso, una
società indifferente o che si abitua. Così è più difficile individuare il “nemico” e,
soprattutto, il campo di battaglia.
Un furgone per definizione non è statico, è fatto per viaggiare, attraversare i territori, può
essere un filo attraverso cui riannodare la società alternativa alle mafie. Che esiste ed è
fatta di partecipazione, corresponsabilità, buone pratiche. Vive spesso in territori
complessi, difficili, dove lo Stato si fa sentire meno, degenerati da quelle stesse
organizzazioni criminali che puntano a dare risposte immediate ma illusorie.
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Con la carovana vogliamo conoscere queste comunità, evidenziarle, fare la denunzia ma
anche raccontare la proposta. Per questo motivo abbiamo scelto il nostro campo di gioco:
le periferie, che non sono tutte invisibili, addirittura a volte sono fin troppo visibili.
Viviamo conflitti globali che ingenerano anche conflitti locali, siamo divisi fra chi ritiene che
le strade e le piazze siano un bene comune, di tutti, e chi lo nega, degradandole come se
fossero proprietà privata, anzi di nessuno: coloro che spacciano, praticano l’usura,
impongono il pizzo e i prodotti da vendere, costruiscono senza criterio, seppelliscono rifiuti
tossici. Organizzazioni criminali di prossimità, quelle che sono nei pressi dell’uscio di casa,
pronte a inzaccherare di fango il tappeto di benvenuto. Poi ci sono quelli che il tappeto lo
spostano sempre qualche metro più avanti, per esempio con le buone pratiche di
inclusione.
Le periferie insegnano anche che si può resistere e provare a costruire un mondo nuovo.
Sarà il prossimo viaggio di carovana.
Alessandro Cobianchi
Coordinatore carovana internazionale antimafie
Da AntimafiaDuemila del 06/06/15
Le periferie al centro, la carovana antimafie
riparte da Reggio per il suo viaggio per i
diritti, la giustizia sociale, la legalità
democratica
Partirà da Reggio Calabria il 10 giugno l’edizione 2015 della Carovana Internazionale
Antimafie, promossa da Arci, Libera, Avviso Pubblico, Cgil, Cisl e Uil.
Nata nel 1994 su iniziativa di Arci Sicilia, la Carovana continua da 21 anni ad essere un
grande laboratorio itinerante contro la criminalità organizzata, dove l’animazione sociale
sul territorio ha lo scopo di contribuire a combattere la corruzione e riformare la politica,
puntando alla costruzione di luoghi di aggregazione, di spazi di socialità, per affrontare il
degrado e la marginalità sociale attraverso la costruzione di relazioni tra le persone e di
reti comunitarie.“Le periferie al centro” è il tema prescelto per il viaggio di quest’anno: la
Carovana sceglie di entrare nelle periferie dove forti sono le spinte all’illegalità, per
supportare le realtà positive che in questi contesti fanno quotidianamente resistenza. Le
periferie del nostro paese rappresentano infatti quei fili attraverso i quali si può riannodare
la società “spezzata”: la Carovana raccoglierà una serie di esperienze, nei quartieri più
difficili d’Italia, con l’obiettivo di conoscere meglio queste realtà e di acquisirne le buone
pratiche ma anche i disagi.
La Carovana Antimafie partirà subito dopo la conferenza stampa di presentazione, che si
terrà il 10 giugno alle 11 presso il Salone dei Lampadari del Comune di Reggio Calabria.
Interverrà, tra gli altri, il sindaco di Reggio Calabria Giuseppe Falcomatà.
Alla Carovana di quest’anno partecipa anche il gruppo musicale Il Parto delle Nuvole
Pesanti, che presenterà il libro-cd “Terre di musica. Viaggio tra i beni confiscati alla mafia”,
progetto che documenta l’esperienza dei beni confiscati alle organizzazioni criminali, e
prenderà parte alle tappe di Reggio Calabria e Cutro (KR).
Il viaggio proseguirà per tutto il mese di giugno, attraversando Calabria, Basilicata,
Campania, Lazio, Umbria, Marche, Emilia Romagna, Toscana, per concludere la prima
parte a Bruxelles il 30 giugno e ripartire di nuovo a settembre. Nei mesi di settembre e
ottobre sarà nel resto d’Italia e poi in Belgio, Spagna, Malta, Romania, Germania, Francia.
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Saranno coinvolti nelle varie tappe magistrati, sindaci, operatori sociali, cittadine e
cittadini.
Due importanti iniziative saranno curate, in questa edizione, dal progetto internazionale
Cartt (Campaign for Awareness Raising and Training to fight Trafficking): il campo a
Rosarno dal 4 al 10 giugno e la tappa a Bruxelles a fine giugno.
http://www.antimafiaduemila.com/2015060655612/cronache-italia/le-periferie-al-centro-lacarovana-antimafie-riparte-da-reggio-per-il-suo-viaggio-per-i-diritti-la-giustizia-sociale-lalegalita-democratica.html
Da Stranieri In Italia del 05/06/15
Circomondo, festival internazionale del circo
sociale (San Gimignano, 26-28 giugno 2015)
Dal 26 al 28 giugno incontri, laboratori, proiezioni di film-documentari e uno spettacolo
circense inedito
Bambini di strada e circhi sociali in pista a San Gimignano con Circomondo, festival
internazionale del circo sociale per accendere i riflettori sui diritti dell’infanzia
La tre giorni vedrà protagonisti circhi sociali in arrivo da Roma, Napoli, Brasile, Palestina,
Afghanistan, Spagna e Kenia
Ragazzi e bambini di strada in arrivo dalle zone e dai quartieri più difficili e pericolosi di Rio
de Janeiro, Beirut, Kabul, Valencia, Nairobi, Roma e Napoli scendono in pista a San
Gimignano con Circomondo, Festival internazionale di circo sociale, per accendere i
riflettori sui diritti e la tutela dei minori nel mondo. L’appuntamento è in programma da
venerdì 26 a domenica 28 giugno e vedrà protagonisti venti bambini e ragazzi tra gli 11 e i
20 anni strappati da situazioni di forte disagio e inseriti in progetti di recupero sociale
attraverso l’arte circense.
Nei tre giorni della manifestazione, i piccoli artisti animeranno le vie e le piazze della città
turrita trasformandosi in giocolieri, acrobati, clown, equilibristi e trapezisti e in ambasciatori
dei progetti di circo sociale da cui provengono. Non mancheranno, inoltre, occasioni di
riflessione e coinvolgimento sul tema dell’esclusione e della marginalizzazione sociale dei
minori nel mondo attraverso seminari di approfondimento, mostre, laboratori per bambini e
proiezioni di film-documentari. Nelle giornate di sabato 27 e domenica 28 giugno, il
Festival vedrà il suo momento più importante con lo spettacolo circense inedito “Bing Bang
Circus - Un viaggio nel mondo”, curato dal regista Emmanuel Lavallè, dove saranno
protagonisti assoluti i piccoli ospiti, per la prima volta insieme nella performance, e i loro
accompagnatori. Nella giornata di sabato 27 giugno, inoltre, Circomondo attraverserà
Nottilucente, manifestazione promossa dal Comune di San Gimignano con Culture Attive e
che, per il quarto anno, animerà vie e piazze del centro storico dalle ore 17 fino a tarda
notte, trasformandole in un inusuale palco a cielo aperto.
Il circo sociale. Il circo sociale si rifà a una metodologia pedagogica di integrazione
sociale, avviata negli Stati Uniti negli anni Venti per recuperare i bambini vittime della
Grande Depressione, facendo leva sulla loro creatività attraverso l’arte circense. Da allora,
il circo sociale si è diffuso in tutto il mondo come metodo educativo per lavorare con i
bambini e i ragazzi emarginati o in condizioni di rischio e svilupparne l’autonomia,
l’autodisciplina, il senso di dignità e la responsabilità personale. La possibilità di accedere
a programmi di formazione circense può rappresentare per questi ragazzi un’occasione
unica di conoscenza, integrazione e miglioramento delle proprie prospettive di vita.
Circomondo e Carretera Central. Il progetto di circo sociale ad Haiti. Circomondo nasce
dall'esperienza maturata negli anni dall'associazione Carretera Central - braccio della
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cooperazione internazionale dell’Arci provinciale di Siena - nel circo sociale in Brasile, a
Cuba e in altri Paesi del Sud del mondo. Su queste basi, l’associazione sta portando
avanti un progetto di circo sociale ad Haiti, a Port-au-Prince. La prima edizione di
Circomondo si è svolta a Siena nel gennaio 2012 con bambini e ragazzi in arrivo dalle
favelas di Rio de Janeiro, dalle periferie di Buenos Aires, dai sobborghi di Ramallah
(Palestina) e dai quartieri più difficili dell'hinterland napoletano (Barra e Scampia).
I protagonisti della seconda edizione di Circomondo. Nella sua seconda edizione in
programma a San Gimignano, Circomondo vedrà protagonisti i circhi sociali Crescer e
Viver, in arrivo da Rio de Janeiro (Brasile); Al Jana, da Beirut (Libano/Palestina); Mobile
Mini Circus for Children, da Kabul (Afghanistan), A.p.e.c C.V, da Valencia (Spagna);
NAFSI Africa, da Nairobi (Kenya); Piccolo Circo di Roma e Tappeto di Iqbal di Napoli.
Premio artistico “Bambini in pista che cambiano il mondo”. Prima di entrare nel vivo della
tre giorni a San Gimignano, Circomondo dedicherà al tema dei diritti dell’infanzia anche il
Premio artistico “Bambini in pista che cambiano il mondo”, rivolto agli alunni delle scuole
primarie e secondarie di primo grado di tutta Italia e alle associazioni giovanili italiane. Il
Premio prevede la presentazione di elaborati artistici realizzati con tecnica a piacere e
dedicati al tema dei diritti dell’infanzia e dell'adolescenza e alla metodologia pedagogica
del circo sociale, che utilizza e valorizza l’arte e la cultura come strumento di integrazione
verso bambini e adolescenti a rischio di esclusione e marginalizzazione sociale. Gli
elaborati potranno essere presentati entro il 18 giugno e il primo premio in gara prevede
attrezzature didattiche per un valore di 750 euro. Tutti i partecipanti, inoltre, riceveranno un
attestato di partecipazione. Per conoscere il bando e le modalità di partecipazione è
possibile consultare il sito www.circomondofestival.it.
Promotori e sostenitori di Circomondo. Circomondo 2015 è organizzato dall’associazione
di volontariato e cooperazione internazionale Carretera Central in collaborazione con il
Comitato provinciale dell’Arci di Siena, con il contributo della Chiesa Valdese e in
partnership con l’Arci nazionale e regionale Toscana e il Consorzio Nazionale NOVA. La
manifestazione conta anche sul patrocinio di Undp, il Programma delle Nazioni Unite per
lo sviluppo, Comune di San Gimignano e Regione Toscana, oltre ad altri enti nazionali e
internazionali e partner locali.
Informazioni e social network. Per saperne di più su Circomondo, è possibile consultare il
sito www.circomondofestival.it, e visitare le sezioni di approfondimento sul Festival.
Circomondo è anche sui social network Facebook, Twitter e Instagram. Su You Tube,
inoltre, è possibile vedere i video dell’edizione 2012.
http://www.stranieriinitalia.it/appuntamenticircomondo_festival_internazionale_del_circo_sociale_san_gimignano_2628_giugno_2015_20325.html
Da Cronache di Ordinario razzismo del 05/06/15
Il Diversity Management nel mondo del lavoro
Il 9 giugno, dalle 9.30 alle 16.00, presso la Sala delle Bandiere Parlamento Europeo, in via
4 Novembre 149 a Roma, si terrà il seminario “il Diversity Management nel mondo del
lavoro”. Si tratta di un tentativo di mettere a confronto, sui temi delle pari opportunità e
della valorizzazione delle differenze nei luoghi di lavoro, i punti di vista e le esperienze di
diversi stakeholder: i sindacati, le parti datoriali e le associazioni.
Il seminario è realizzato nel quadro del progetto DyMove-Diversity on the Move,
promosso dall’UNAR in partenariato con diversi soggetti della società civile, e finanziato
dall’Unione Europea nell’ambito del programma Progress. DyMove intende esplorare, per
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la prima volta in Italia, il tema delle discriminazioni nel mondo del lavoro e nella pubblica
amministrazione – partendo dalle esperienze delle città di Genova, Bologna, Ancona e
Palermo – e nel settore delle public utility – con le aziende di Ferrovie dello Stato italiane
ed Atac Roma.
Il progetto punta all’individuazione di buone pratiche di diversity management, su azioni di
formazione ad hoc e su campagne di comunicazione sul valore della diversità. Inoltre,
all’inizio del 2015, è stato lanciato un premio alle aziende che si sono distinte per azioni
positive in tema di diversity management.
Nel corso del seminario verrà anche presentata la ricerca sul Diversity Management dal
titolo “Il Diversity Management per una crescita inclusiva. Strategie e strumenti”.
All’incontro del 9 giugno parteciperanno rappresentanti dell’UNAR, delle parti sociali
(Confindustria, CNA, Lega coop sociali, CGIL, UIL) e delle associazioni partner di progetto
(Cittalia, Codici, Associazione Arci, Arcigay, Enar, Fish, MIT, Agedo).
http://www.cronachediordinariorazzismo.org/il-diversity-management-nel-mondo-dellavoro/
Da il Mattino.it del 06/06/15
Immigrati: presi fondi, ma cibo, vestiti e
assistenza scarsi. La replica dell'Arci:
facciamo del nostro meglio
di Marina Cappitti
Da una parte c’è il progetto – ‘Terra: radici dell’integrazione’ - con servizi di accoglienza in
denaro e/o beni necessari, la mensa quotidiana, vestiti, prodotti per l’igiene personale,
farmaci, assistenza sanitaria, supporto psicologico e legale, mediatori culturali.
E ci sono i soldi: quasi 742mila euro di finanziamenti europei (fondo asilo, migrazione e
integrazione) assegnati all’associazione Arci che partecipa al bando e con quel progetto –
della durata di 8 mesi - se li aggiudica. Dall’altra parte ci sono alcuni immigrati ed operatori
sociali con le testimonianze e le denunce. Cibo scarso, tanto che saranno gli operatori
stanchi di solleciti inascoltati a comprarlo di tasca loro. A regalare vestiti ed indumenti
intimi, perché dopo la tuta del primo giorno – dicono - non arriverà più nulla.
“Neanche una crema per la pelle, diventata quasi biancastra per la disidratazione”. Alcune
case dell’Arci a Casoria in cui vengono ospitati al loro arrivo – denunciano - sono sporche
con cumuli di polvere sotto i letti, pareti nere per l’umidità, scarafaggi e blatte perfino nel
frigorifero. Anche disinfettanti e insetticidi richiesti tarderanno ad arrivare. Da aprile ad oggi
nessun legale o mediatore culturale che li aiuti a farsi capire, lo psicologo ha fatto visita ai
ragazzi pochissime volte, mentre il medico – raccontano - è arrivato solo quando è stato
chiamato d’urgenza dagli operatori. Ma soprattutto nessuna analisi dal loro arrivo, contagi
da scabbia e salute peggiorata per la mancata assistenza e medicinali arrivati in ritardo.
Già dall’arrivo, la realtà è ben diversa da come era stata raccontata ai 36 giovani assunti
dall’Arci con un contratto mensile (sei turni al mese di 24 ore per 600 euro) – rinnovati alla
metà (a detta degli operatori per le condizioni lavorative, a detta dell'Arci perché non tutti
meritevoli) – come operatori di comunità. I 50 minori immigrati arrivano per la maggior
parte dall’Africa e saranno dislocati nelle case famiglie dell’Arci a Casoria. “Al momento
della stipula del contratto – raccontano gli operatori – ci dicono che sarebbero arrivati a
Casoria dopo aver trascorso 4 mesi in prima accoglienza in Calabria. Ci tranquillizzano
dicendo che sono in Italia da un po’ e che quindi sono già adattati e sereni e di non
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preoccuparci semmai qualcuno dovesse scappare, dunque non trattenerli, semplicemente
denunciarne la scomparsa”.
In realtà come raccontano gli stessi immigrati i ragazzi giungono a Casoria, ma sono
sbarcati da pochi giorni con cicatrici, infezioni e alcuni senza indumenti adatti. Saranno
anche gli operatori di turno quella mattina ad andare all’azienda ospedaliera specialistica
dei Colli di Napoli per seguire i ragazzi nelle loro visite di controllo. Tre immigrati vengono
ricoverati per polmonite e febbre alta. La diagnosi per la maggior parte è "altro malessere
e sindrome di affaticamento" con sospetta scabbia per cui si consigliano visite
dermatologiche e terapie. I giovani rientrano in comunità senza aver fatto analisi del
sangue, delle urine, delle feci, né le faranno quando il primo maggio un medico chiamato
d’urgenza dagli operatori sociali per alcuni ragazzi che stanno male prescriverà di farle per
la tutela della salute degli sbarcati, ma anche di chi ci lavora accanto. “Alcuni vengono
curati in casa insieme a compagni ed operatori. Coloro i quali avevano bisogno di cure
domestiche hanno cominciato la terapia dopo almeno due settimane”. “Siamo stati in
comunità con casi di febbre inspiegabile alta fino a 39.9- continua uno di loro -. Ragazzi
con scabbia e stipsi per settimane, quest’ultima rilevata da un medico della croce rossa
che è arrivato il primo maggio, dopo un mese. Alcuni dei medicinali prescritti non sono mai
arrivati e le analisi primarie fortemente consigliate ad oggi non sono state fatte”. Una
settimana dopo una delle operatrici è costretta a chiamare il 118. In casa con i ragazzi per
24 ore e per almeno due volte a settimana, non ha potuto non notare che qualcosa non
andasse. Un ragazzo di sedici anni viene trasportato d’urgenza all’ospedale Cotugno di
Napoli. Al giovane sarà diagnosticata una serie di problemi renali, pressione arteriosa alta
con epistassi nasale e versamento pleurico nei polmoni.
Le provviste di cibo presenti in casa non bastano, dopo i primi giorni gli operatori stanchi di
richieste inascoltate all’associazione comprano con i loro soldi verdure, formaggio, fruste,
biscotti, sofficini, pane... “Da quando siamo arrivati ci hanno dato da mangiare sempre
spaghetti e riso – dicono i minori, quando li andiamo a trovare stanno cucinando pasta al
sugo – mattina e sera. Solo da una decina di giorni sono arrivati anche patate e pasta”.
Stessa cosa vale per i vestiti. “Ci hanno dato una tuta, poi tutto il resto ce l’hanno portato
operatori ed amici. Ma sono vestiti usati, a volte anche sporchi”. “Abbiamo richiesto
spesso anche crema per il corpo data la forte secchezza della pelle dei ragazzi – hanno
aggiunto gli operatori - ma considerato che non ci è mai stata portata, ci siamo sentiti in
dovere di comprarla noi per loro”.
Anche quaderni, penne, palloni, carte verranno portati dagli operatori. “Qualche volta gli
operatori ci portano al parco qui vicino. Ci piacerebbe uscire, vedere Napoli. Vorremmo
studiare, lavorare ed invece a volte ci sentiamo come se fossimo in prigione e a stare
sempre chiusi qui ci fa pensare alle nostre famiglie lontane”. Famiglie che alcuni non
sentono da quasi un mese. “Non abbiamo un telefono, solo da pochi giorni un operatore ci
ha dato un portatile per sedici persone, quando riusciamo contattiamo la famiglia su
Facebok e msn”.
I ragazzi dicono timidamente con gli occhi lucidi che una volta sbarcati credevano sarebbe
stato meglio, che sarebbero stati più liberi. Uno di loro spera di andare in Inghilterra e fare
il calciatore professionista, altri vorrebbero solo uscire, poter lavorare ed aiutare la
famiglia. Sentirsi felici, sorridere un po’. “E’ per questo che abbiamo deciso di denunciare
– dicono alcuni assistenti incoraggiati dalle ultime inchieste e dai controlli in corso su
alcuni enti promotori di iniziative per l’immigrazione e l’integrazione -. Ora stanno
imbiancando le pareti di fretta e furia e qualcosa sta cambiando, ma noi vogliamo si faccia
luce sulla vicenda nell’interesse dei ragazzi. Sono stati stanziati dei fondi europei che sono
in primis destinati a loro e queste persone cui è stato promesso aiuto e assistenza
meritano di essere trattate meglio”.
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A rispondere alle accuse è il presidente dell’Arci, Mariano Anniciello. “Il nostro – premette è un progetto serio finanziato con fondi europei cui siamo tenuti a rendicontare tutto e che
ha come partner associazioni importanti come Save The Children e la Croce Rossa
Italiana. Sulle condizioni igienico sanitarie dei minori appena arrivati ci era stato detto che
erano sopravvissuti al primo naufragio di 400 persone, che erano sani e ci siamo fidati
delle relazioni che ci hanno inoltrato da Reggio Calabria. Ma comunque li abbiamo portati
all’ospedale dei Colli con un autobus e li hanno subito visitati e sottoposti anche a test di
scabbia e tubercolosi. Il nostro è un progetto di prima accoglienza quindi in realtà non si
dovrebbe occupare di aspetti strettamente sanitari, ma l’abbiamo fatto ed è tutto
documentato. Le altre analisi e i loro tempi e modalità non li decidiamo noi, ma l’ospedale.
E per le terapie abbiamo degli operatori della Croce Rossa che monitorano e nel caso
fanno trasporti nelle strutture”. Sulle condizioni delle case e sul cibo “abbiamo un nucleo di
monitoraggio e abbiamo fatto causa per infiltrazioni al proprietario della casa e inviato un
ingegnere. Mentre sul cibo c’è un operatore chef che cambia il menu in base alle
esigenze. A mio avviso cibo e vestiti vengono forniti sufficientemente. Per tutto il resto se
gli operatori comprano qualcosa, anticipano e vengono rimborsati”. Mentre sulle
testimonianza degli immigrati ammette che "forse all'inizio qualcosa non ha funzionato,
non tutti hanno dato il massimo, ma stiamo provvedendo", sulla denuncia degli operatori
Anniciello liquida così “Facciamo del nostro meglio, abbiamo rispettato le procedure del
caso e l’assistenza sanitaria è stata prestata anche grazie alla cortesia degli ospedali
tempestivamente. In realtà trattandosi di una selezione aperta su internet purtroppo
persone coinvolte sono forse politicizzate e stanno strumentalizzando la vicenda, altre non
sono preparate e creano allarmismo, altre ancora siccome non sono state riconfermate
sono andate forse in frustrazione”.
http://www.ilmattino.it/NAPOLI/CRONACA/immigrati-presi-fondi-ma-cibo-vestiti-eassistenza-scarsi.-la-replica-facciamo-del-nostro-meglio/notizie/1396219.shtml
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
del 07/06/15, pag. 15
Associazioni, vendoliani ed ex 5 Stelle Il «non
partito» di Landini si organizza
Coalizione sociale al via con sigle e gadget di sinistra. Il leader Fiom:
decideremo cosa fare
ROMA Maurizio Landini sta con le spalle appoggiate al muro, in una zona d’ombra.
Ascolta gli interventi. Vanno da lui delegati Fiom, studenti, archeologi precari. Ascolta
anche loro. Quando gli dicono: devi fare questo e quest’altro, però sbotta: «Non sono io la
Coalizione sociale! Decideremo assieme...».
Landini, segretario Fiom, metalmeccanici Cgil, molto invitato nei talk show tv, sta
appoggiato al muro e non seduto in prima fila: non è una riunione politica tradizionale.
Questa è la costituente di Coalizione sociale, al Centro congressi Frentani, luogo storico
della sinistra. Verso Podemos italiana, è stato scritto, ma Landini frena, frena, frena: «Sto
studiando il cinese — dice — e la prossima volta lo dirò in cinese: Coalizione sociale è
nata fuori dai partiti per ricostruire la politica con la P maiuscola. Non mi faccio ingabbiare
da un partito, il nostro obiettivo è unire quello che è stato diviso e rimettere al centro quello
che è stato cancellato: diritti, un’idea diversa di sviluppo e sostenibilità ambientale,
riqualificazione delle città».
Nell’atrio della sala si vende «il manifesto», le spille del Che, di Gramsci e di Berlinguer, la
felpa rossa della Fiom (25 euro). Sono venuti a vedere cosa succede Fratoianni e Airaudo
di Sel (partito di Vendola), Vincenzo Vita, ex senatore Pd, Campanella e Bocchino, già
senatori 5 stelle. Guardano da fuori Civati, uscito dal Pd e Fassina sull’orlo dell’uscita,
Ferrero, segretario di Rifondazione e l’ex magistrato Ingroia. Nichi Vendola, ricordano a
Landini- afferma che è maturo il momento per una forza di sinistra rinnovata. «Che lo
facciano! — risponde — Se ci riescono mi fa piacere, ma noi vogliamo essere un’altra
cosa».
Il percorso, spiega Landini, è il seguente. La costituente di oggi, poi la moltiplicazione di
iniziative sul territorio, come la caserma di via Asti occupata a Torino, l’ex fabbrica Maflow,
occupata a Milano. «A settembre — dice Landini — facciamo il punto e decidiamo come
andare avanti». Grande cautela, anche perché Landini resta interessato,
contemporaneamente, al rinnovamento della Cgil, che fra tre anni rinnoverà i vertici.
Landini dice che Coalizione sociale non è richiudibile negli schemi destra-sinistra-centro:
«Stiamo facendo un’altra cosa, rimettere al centro i problemi delle persone, che non hanno
casa, non hanno lavoro, non si possono curare, non hanno il diritto di studiare, non si
sentono coinvolti, c’è un’ingiustizia della Madonna!». Cautela dunque. Ieri si è parlato di
difesa della Costituzione sotto attacco da parte di Renzi, di acqua bene comune, di difesa
della scuola pubblica, di clima e ambiente. Le associazioni dentro Coalizione sociale sono
quasi 80, c’è Libertà e Giustizia, Action, Articolo 21, e Invalidi civili, Iva Sei Partita,
Musicoterapia democratica, Geometri e geometri laureati, e altri professionisti, farmacisti e
avvocati, in discesa nella scala sociale. Oggi salgono sul palco Rodotà e Landini.
Andrea Garibaldi
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del 08/06/15, pag. 8
Landini contro tutti i politici
“Difendiamo chi non ha diritti”
Il leader Fiom: il governo fa bene a temerci
Roberto Giovannini
Non è né sarà un partito, la «Coalizione sociale». Certo è che ieri il leader della Fiom
Maurizio Landini, all’assemblea fondativa del suo movimento ha spiegato chiaramente
qual è a suo avviso l’obiettivo di questa nuova formazione («difendere il Paese», far
contare i diritti di chi «ormai non li ha più, perché gli sono stati cancellati»). E soprattutto,
ha detto che nel mirino di questa nuova realtà c’è la politica nel suo complesso. A
cominciare dal governo Renzi.
«Siamo di fronte ad un problema nuovo - ha detto Landini - sono messi in discussione
radicalmente i diritti delle persone, gli spazi di democrazia. Questa evoluzione della
politica che mette al centro impresa e finanza sta riducendo la vita delle persone ad una
condizione non accettabile». Se c’è una «politica che divide il Paese» è «proprio quella del
governo Renzi, che poi è la stessa di quella di Letta, Monti, della Bce». Una politica che è
minoritaria, ma che «pretende di poter far tutto senza parlare con nessuno». «Questi - ha
insistito Landini - di fronte al fatto che il 50% dei cittadini non è andato a votare, si mettono
a discutere su chi ha vinto le elezioni. Senza rendersi conto che se li prendi a uno a uno,
al partito che è andato meglio gli dice bene se ha preso il 20%».
Insomma, ha avvertito, «fate bene ad avere paura di noi». Contro questa politica si attiverà
«Coalizione Sociale», per cambiare le riforme della scuola e del lavoro, e per ottenere il
diritto alla casa e il reddito di cittadinanza. Nel weekend c’è stata una discussione animata
da 800 partecipanti, 300 organizzazioni presenti e 200 interventi su quattro aree
tematiche. Un partecipante su 4 aveva meno di 35 anni, tanti i precari; ma il «Padre
Nobile» del movimento è sicuramente il giurista Stefano Rodotà, che fustiga Renzi e il suo
«garantismo ipocrita e peloso da Prima Repubblica» su Mafia Capitale.
L’annuncio è che nasceranno «tante Coesioni sul territorio». E annuncia che la prima
manifestazione, il 20 giugno a Roma, sarà sul tema dell’immigrazione, che «si sta
affrontando in modo barbaro». Il confronto con gli altri e con i partiti «ci sarà, sul fronte
delle lotte».
del 08/06/15, pag. 12
Da Agnoletto a Parlato, poi Scalzone
Il ritorno al passato di Landini
Rodotà carica la platea di Coalizione sociale. Il leader: paghiamo le
tasse e vogliamo contare
ROMA È una cosa nuova la Coalizione sociale di Maurizio Landini, né di sinistra, né di
centro né di destra — dice lui — e non sarà un partito, ma una formazione che dovrebbe
«fare paura» all’altra parte, vale a dire al governo Renzi. Ma è, tuttavia, una cosa attraente
per personaggi che hanno avuto un ruolo nella sinistra italiana. Ecco, dunque, nei due
giorni di «costituente» ideata dal segretario dei metalmeccanici Cgil, apparire il professore
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urbanista Pancho Pardi, che una notte dell’inverno 2002 Nanni Moretti promosse futuro
leader dell’Ulivo e finì senatore con Di Pietro. Ecco Valentino Parlato, ottantaquattro anni,
più volte direttore del Manifesto . E Alfonso Gianni, già sottosegretario per Rifondazione
nel secondo governo Prodi. E Andrea Alzetta, detto Tarzan, per come si arrampicava ad
occupare case. Va sul palco Gigi Malabarba, ammiratore di Trotzkij e del subcomandante
Marcos. C’è la costituzionalista Lorenza Carlassarre, che parla della Costituzione «buttata
a mare» da Renzi e dai suoi. Si siede in prima fila Corradino Mineo, senatore pd, sostituto
in commissione per la sua opposizione alla riforma del Senato.
Si sono visti, nelle sale del centro congressi Frentani, Vittorio Agnoletto, portavoce del
Genoa Social forum durante il G8 del 2001, e Franco Piperno e Oreste Scalzone, leader di
Potere operaio e imputati nell’inchiesta 7 aprile. Poi, ci sono i nuovi come Francesco
Raparelli, animatore delle Camere del lavoro autonomo e precario, Michele Curto,
protagonista dell’occupazione della caserma dismessa di via Asti a Torino e promotore dei
Treni della memoria ad Auschwitz, Massimo Covello, sindacalista nella Calabria assediata
dalla ‘ndrangheta. E anche — tollerato — Marco Cusano, operaio Fiat dei Cobas,
licenziato a Pomigliano d’Arco, avendo inscenato il finto suicidio di Marchionne.
Milleottocento presenze, un quarto sotto i 35 anni, metà lavoratori a tempo indeterminato,
trecento associazioni. Da portare dove? L’impianto teorico lo fornisce Stefano Rodotà.
Primo: ridare rappresentanza al 50 per cento dei non votanti. Secondo: ricostruire l’etica
civile, mentre «il garantismo di Renzi è peloso, ipocrita, dice che non può intervenire sugli
indagati finché la sentenza non è definitiva e dovrebbe invece affidarsi alla Costituzione
(«chi ha funzioni pubbliche deve adempierle con disciplina e onore»). Terzo: interrompere
lo sfruttamento nel mondo del lavoro. Quarto: difendere la democrazia da Renzi, che la
vorrebbe «senza popolo».
La pratica la spiega Landini: «Non vogliamo essere fuorilegge, ma vogliamo cambiare le
leggi che cancellano i diritti delle persone». Pensa all’abolizione dell’articolo 18, agli sgravi
fiscali per chi finanzia le scuole paritarie, all’attacco in corso alla contrattazione collettiva.
«Renzi è come Monti e Letta, esecutore dei diktat della Bce. Ci siamo rotti di pagare le
tasse e non contare nulla». Quindi, moltiplicare le iniziative in spazi pubblici non usati e poi
ritrovarsi fra tre mesi «perché anche in autunno possano sbocciare i fiori, un primo maggio
in autunno». Manifestazioni, referendum, si vedrà .
Andrea Garibaldi
del 08/06/15, pag. 3
Landini punta su un nuovo autunno caldo
La coalizione si presenta: ”Renzi fa bene ad aver paura di noi”.
Standing ovation per Stefano Rodotà
di Salvatore Cannavò
Anche in autunno possono sbocciare i fiori”. Con questa immagine bucolica Maurizio
Landini ha chiuso la due giorni che ha visto nascere la Coalizione sociale. Un autunno in
cui immaginare un inedito “1 maggio” con una mobilitazione ancora da decidere. La due
giorni è stato un indubbio successo con le sue mille registrazioni, gli oltre 300 interventi,
un clima di fiducia e di entusiasmo. Assente la Cgil, a marcare una profonda distanza dal
progetto di Landini, si è vista anche poca politica: ieri mattina solo il Pd Corradino Mineo e
l’europarlamentare Curzio Maltese.
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“Si sarebbero sentiti rassicurati se avessimo detto di voler fare una forza politica” ha
commentato Landini rivolto al governo ma il progetto “è un’altra cosa per questo hanno
paura”. Nelle prossime settimane nasceranno coalizioni a livello territoriale con l’obiettivo
“anche di luoghi fisici”. Dopo, si tornerà a livello nazionale per decidere le prossime
mosse. Un ruolo centrale lo avrà il Reddito di dignità, come lo definisce Giuseppe De
Marzo di Libera che ha replicato a Matteo Renzi ricordando che il reddito minimo “non è
assistenza ma applicazione della Costituzione”.
Rodotà, super applaudito al grido di “Ro-do-tà”, è partito invece dal tema della
rappresentanza che “non riguarda solo i partiti” e ha posto il tema di Mafia capitale come
sintomo della “disgregazione dello Stato”. “Sugli inquisiti Renzi non può cavarsela con il
garantismo peloso della Prima Repubblica” ha detto, “quello che attende la sentenza
definitiva” perché il presidente del Consiglio deve applicare “l’articolo 54 della Costituzione
secondo il quale ‘i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di
adempierle con disciplina ed onore’”. “La democrazia, aggiunge il professore, si salva solo
se si sprigiona la creatività sociale”e il mutualismo è decisivo: “Ricordiamo il canto delle
Mondine: ‘Sebben che siamo donne, paura non abbiamo…e in lega ci mettiamo’”. In lega,
cioè in coalizione.
Qui, l’applauso più vigoroso. Come quello fatto a Landini quando ha riconosciuto che
“mica facciamo la coalizione per altruismo, ma perché ci siamo accorti che da soli non
abbiamo ottenuto nulla”. “Non abbiamo nulla da perdere” ha assicurato il leader Fiom
dicendo di non voler “sputtanare un patrimonio così prezioso per mire personali o beghe
politiche”. Il viaggio è appena cominciato.
del 07/06/15, pag. 2
Un nuovo vocabolario: efficacia, metodo,
territorio
Parole di Sinistra. Dai gruppi di lavoro proposte concrete. «Ogni pratica
abbia indicato un costo: solo così possiamo realizzarla». «Occupiamo
tutti gli immobili di Cpd e vincoliamoli ad uso sociale»
Massimo Franchi
Scottata dai marchiani errori del passato, dalle cocenti sconfitte dei partiti che tentavano
vanamente di rappresentarla, dal senso di superiorità ed infallibilità che la
contraddistingueva, la sinistra sociale ricomincia dalle proposte, dalle buone pratiche per
unire la sua deriva atomizzata, la solitudine dei suoi componenti puntando sull’efficacia e il
territorio.
Il cambio è epocale. La sfida da vincere altrettanto. Tramutare le idee in pratiche, le
pratiche in battaglie che unifichino, le battaglie in politiche che vengano implementate
nell’Italia del Jobs act e della Buona scuola pare se non un utopia una scommessa
altamente improbabile. Sull’altro piatto della bilancia però c’è la rabbia per «una situazione
sociale sempre più catastrofica», la voglia di reagire, la «necessità di mettersi assieme
perché da soli, l’abbiamo capito, si perde», come sintetizza Giacomo, quarantenne
bancario «sempre più precarizzato».
Nelle facce e nelle parole del migliaio di persone che si ritrova al Centro Frentani di Roma
in un sabato afoso e appiccicaticcio c’è speranza e voglia di partecipazione. «Io non voto
da un decennio», spiega Francesca, precaria della scuola, «non mi sento rappresentata. E
oggi, per la prima volta, voglio dire la mia e cercare di rappresentare anche chi non ha il
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coraggio di farsi sentire». Una sorta di stati generali della partecipazione di «una
maggioranza in divorzio dalla politica», come sottolinea Elena di Act.
Ai Frentani va in scena un melting pot molto particolare. I militanti del Pd ci sono, ma
preferiscono rimanere in incognito e non autodenunciarsi ad una platea tutt’altro che
tenera «col partito di Renzi». Di politici veri e propri se ne vedono pochi. Ci sono il
coordinatore nazionale di Sel Nicola Fratoinanni e Giorgio Airaudo, venuto a salutare tanti
amici della Fiom.
Se i giovani sono tanti, portano entusiasmo, metodo, rigore e buone pratiche, dall’altra
parte c’è tutta una vecchia sinistra che, magari in buona fede, cerca di ricicciarsi, di usare
Landini e la Coalizione sociale nell’illusione che sia un salvifico nuovo inizio in cui tornare
a farsi vedere e sentire. I loro interventi però scontano l’atavico vizio della sinistra italiana:
grandi principi, grandi titoli, nessuna pratica, nessuna efficacia.
E allora la svolta è proprio nell’usare vocaboli — o «paradigmi» — nuovi: metodo, risultato,
efficacia.
Domenico, per esempio, che lavora alla gestione dei fondi europei («dal 2014 al 2020
saranno 80 miliardi che rischiano di finire solo sulle proposte di Confindustria») propone
«un nuovo paradigma»: «Ogni idea, ogni progetto, ogni cosa che viene detta qui sia
accompagnata dal suo costo, in modo tale da poterla tradurre in una proposta di delibera
di un Comune o nei Partenariati che decidono come spendere i Fondi comunitari,
strumento aperto a tutte le forze sociali che la sinistra nel passato ha colpevolmente
snobbato».
L’esempio che fa avrebbe una valenza spaventosa: «Usare quei fondi per recuperare tutti
gli alloggi pubblici sfitti». «Lo proponemmo nella tragicomica esperienza del governo
Prodi: non se ne fece più niente».
Al netto di interventi stravaganti che bisogna mettere in conto quando si decide di far
parlare tutti — c’è chi propone «un seminario su coalizione sociale e matriarcato» — si
parla di «reale lotta alla rendita», «rilanciando e generalizzando un nuovo modello di
occupazione di immobili, in cui creare esperienze non solo sociali ma anche di lavoro e di
produzione». Dai ragazzi di Làbas, che a Bologna da due anni e mezzo hanno occupato
un’area di 9mila metri quadrati in pieno centro (via Orfeo 46) strappandola alla
speculazione immobiliare, arriva la proposta di «salutare la svolta aggressiva di Cassa
Depositi e Prestiti, che sarà in mano ad un banchiere», proponendo di «sottrarre alla
rendita tutti gli immobili in mano a Cpd per vincolarli ad uso sociale». Lì «la Coalizione
sociale può crescere e allargare il suo consenso: spazi fisici, spazi politici, spazi
riconquistati».
Guardato dalle pareti in marmo del centro congressi di proprietà dello Spi Cgil l’esempio di
Podemos e di Syiza appare in qualche modo come una chimera. Si cerca «una via italiana
alla partecipazione dal basso», ci si accontenterebbe di «veder discutere finalmente in
Parlamento di reddito di dignità in modo non stereotipato come fanno i Cinquestelle».
del 06/06/15, pag. 2
Coalizione sociale, si parte dal basso
Movimenti. Dalle 10 al centro Frentani di Roma via alla due giorni
lanciata da Maurizio Landini. Quattro gruppi tematici e poi la plenaria
per fissare le proposte a cui dare gambe sul territorio. Domani ci sarà
anche Stefano Rodotà. Un centinaio di associazioni, tanti militanti Pd e
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nessun politico. Con un obiettivo: rilanciare la partecipazione per
cambiare il paese.
Massimo Franchi
Si parte con «una chiamata dal basso». Un’assemblea aperta a tutti in cui ognuno sarà
libero di dare il suo contributo. Cinque minuti di intervento in cui Maurizio Landini —
sempre che decida di parlare alla platea — o Stefano Rodotà — che sarà presente
domani — avranno lo stesso tempo di qualunque cittadino o rappresentante del centinaio
di associazioni che hanno già aderito. E se partiti e politici non potranno parlare a nome
delle loro organizzazioni, tanti semplici militanti del Pd hanno chiesto di poter partecipare e
saranno presenti («Ci hanno scritto mail almeno una ventina di militanti da tutta Italia»,
fanno sapere gli organizzatori). Facendo un bel dispetto ai vertici del partito del premier.
La Coalizione sociale comincia il suo cammino questa mattina al centro Frentani di Roma.
Quella che negli anni settanta era la sede del Pci romano, ora ospita lo Spi Cgil. Le spese
dell’affitto delle varie sale per la due giorni saranno coperte da una sottoscrizione tra tutti i
partecipanti. Anche i tanti delegati Fiom presenti si pagheranno di tasca loro il viaggio.
Se l’idea di Coalizione sociale fu lanciata da Landini proprio dal Manifesto lo scorso
inverno, in questi mesi la Fiom ha cercato scientemente il low profile, evitando ogni
personalizzazione con Landini e sovrapposizione col sindacato. L’ultima assemblea
preparativa si è svolta nella sede nazionale dell’Arci e anche oggi l’unico supporto Fiom
dovrebbero essere il canale Youtube dei metallurgici che ospiterà lo streaming.
Tutto ciò però non impedirà l’assalto mediatico: stampa e media in generale ancora non si
capacitano di come la Coalizione sociale non sarà il partito di Landini e oggi torneranno
alla carica praticamente solo per questo singolo motivo di interesse. L’intento del leader
Fiom è invece quello «di ripartire dalla partecipazione per ricreare una cultura del lavoro
che rimetta al centro il tema dell’estensione dei diritti per cambiare il paese».
Il modello di partecipazione è comunque esattamente l’opposto di quello utilizzato con “La
Via maestra”, la grande manifestazione di piazza del Popolo del 12 ottobre 2013: lì si partì
da un appello sottoscritto da personalità; oggi Giustizia e Libertà è solo una del centinaio
di associazioni che partecipano.
Il programma è essenziale. Non prevede alcuna iscrizione: dopo un intervento logistico,
che spiegherà la divisione in gruppi di lavoro, i presenti potranno scegliere a quale
tematica dare il loro contributo. Due la mattina — “Unions!” su lavoro, welfare e precarietà
da una parte e “Economia, politiche industriali, cambiamenti climatici” dall’altra — e due al
pomeriggio — “Rigenerare le città” su diritto alla casa, coworking e mutualismo da una
parte e “Saperi e conoscenza” su scuola e università dall’altra.
Nei gruppi ognuno condividerà con gli altri analisi e pratiche per proporre idee e politiche
per cambiare l’esistente. Tutte le proposte verranno riunite in un report che domenica
(dalle 10 fino alle 15) verrà discusso in plenaria assieme a come dare gambe alla
Coalizione sociale. Sia a livello nazionale ma soprattutto a livello locale perché il tema
fondamentale della Coalizione sociale sarà proprio quello del “territorio”: sul territorio le
proposte e le politiche saranno messe alla prova, partendo sempre dall’idea di favorire la
massima partecipazione dei cittadini.
Fra i tanti che a sinistra guardano con attenzione all’esperimento ieri si è fatto sentire
Pippo Civati. L’ex parlamentare Pd che ha lanciato l’associazione Possibile non sarà
presente «rispettando fino in fondo l’autonomia» della Coalizione sociale. L’interesse però
si esplicita nell’auspicio di una futura «collaborazione» a partire da due capisaldi di
politiche: «reddito minimo e progressività fiscale». Detto questo però Civati è il primo a
tirare per la maglietta la Coalizione. Lo fa con «una domanda» impegnativa rivolta «a
Maurizio e alla coalizione: riusciamo a promuovere dai nostri diversi punti di vista una
mobilitazione referendaria che tocchi alcuni temi nevralgici della politica attuale e
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restituisca sovranità alle cittadine e ai cittadini?». Senza esplicitarlo parla di referendum
contro il Jobs act e l’Italicum. La (possibile) risposta sarà la prima mossa politica della
Coalizione sociale.
del 06/06/15, pag. 2
Reddito minimo, una firma per fare dell’Italia
un paese meno diseguale
Nuovo Welfare. Libera: oggi è la giornata nazionale della dignità e per il
reddito minimo. Continua la raccolta delle firme per una legge in Italia.
Superata quota 70 mila
Giuseppe De Marzo
L’abbiamo chiamata la giornata nazionale della dignità e per il reddito. Oggi in oltre 200
piazze d’Italia saranno organizzati banchetti, iniziative, feste per raccogliere firme per
l’istituzione del reddito minimo o di cittadinanza contro povertà e diseguaglianze e per
contrastare mafie e corruzione. Più di 70 mila cittadini hanno già firmato la petizione di
Libera e Gruppo Abele lanciata lo scorso 13 marzo per chiedere entro 100 giorni la
calendarizzazione e la discussione in Senato di una buona legge sul reddito minimo o di
cittadinanza.
Oggi la mobilitazione scende in piazza, promossa insieme al Bin al Cilap ed a molte realtà
sociali e studentesche che hanno aderito alla giornata nazionale della dignità e per il
reddito. Questioni strettamente connesse, che ci impongono riflessioni ed azioni all’altezza
della sfida per rispondere alla spaventosa crisi sociale e morale che sta scuotendo l’intera
società. In un momento in cui c’è chi inneggia alle ruspe scopriamo invece attraverso
Mafia Capitale un sistema di collusione e corruzione che ha superato ogni limite e svelato
una profonda commistione con la politica istituzionale. I più deboli e gli ultimi come schiavi
e carne da macello sui quali costruire prima le proprie fortune economiche e poi quelle
politiche, facendoci odiare gli oppressi ed amare gli oppressori.
È questo che ci impone di mettere al centro del nostro agire e delle nostre proposte il
contrasto alle diseguaglianze sociale ed a mafie e corruzione come priorità irrinunciabili e
non più rinviabili. Ma se nel dibattito politico ciò non avviene, dobbiamo accettare di essere
dinanzi ad una politica che è in parte il riflesso del paese e che evidentemente non
considera queste come priorità. Uno scenario nuovo consolidato proprio dalla crisi, dalle
privazioni e dai ricatti che ne conseguono in assenza di certezza di diritto, nel quale il
nostro impegno e la nostra partecipazione attiva diventano ancora più importanti,
costituendo un argine democratico alla deriva che rischia di travolgere completamente la
nostra democrazia.
Per questo oggi in tutta Italia indichiamo nell’istituzione del reddito di dignità una delle
principali proposte che movimenti e società civile portano avanti in tutta Europa per
affrontare e risolvere la crisi. Non è un caso che il nostro paese sia l’unico insieme alla
Grecia a non aver adottato ancora questa misura che l’Europa ci chiede già dal 1992 e sia
proprio tra i paesi con le più gravi diseguaglianze sociali ed i peggiori indici di dispersione
scolastica, corruzione, working poors e povertà minorile. Dal 2008 al 2014 la crisi in Italia
ed Europa secondo i dati Istat ha più che raddoppiato i numeri della povertà relativa ed
assoluta. Dieci milioni di italiani e italiane vivono in condizione di povertà relativa, e sei
milioni in condizione di povertà assoluta. Le diseguaglianze sono cresciute a dismisura e
diventate insopportabili. Più la povertà aumenta, più le diseguaglianze si ampliano, più le
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mafie e la corruzione come abbiamo visto si rafforzano. Per questo in Italia è necessario
avere una misura come il reddito minimo o di cittadinanza. Poche settimane fa il rapporto
«Social Investment in Europe» preparato per la Commissione europea dallo European
Social Policy Network, ha bocciato il Welfare italiano senza appello. Nel documento viene
evidenziato come la mancanza di un reddito minimo garantito dimostri «l’assenza di una
strategia complessiva nei confronti dell’indigenza e dell’esclusione sociale».
La piattaforma della campagna per il Reddito di Dignità, disponibile sul sito www.campa
gnareddito.eu, ha già ottenuto l’adesione di tutti i gruppi parlamentari del M5S, di Sel, di
Area Riformista del Pd e di altri parlamentari del gruppo misto. Il reddito minimo o di
cittadinanza, è un supporto al reddito che garantisce una rete di sicurezza per chi non
riesce a trovare un lavoro, per chi ha un lavoro che però non garantisce una vita dignitosa,
per chi non può accedere a sistemi di sicurezza sociale adeguati. Il reddito minimo o di
cittadinanza è una misura necessaria per invertire la rotta della crisi, una risposta concreta
ed efficace a povertà e mafie perché garantisce uno standard minimo di vita per coloro
che non hanno adeguati strumenti di supporto economico, liberandoli da ricatti e soprusi.
Il Parlamento Europeo ci chiede dal 16 ottobre 2010 di varare una legge che introduca un
«reddito minimo, nella lotta contro la povertà e nella promozione di una società inclusiva».
E’arrivato il momento di passare dalle parole ai fatti. Milioni di italiani non possono più
aspettare.
* coordinatore nazionale Miseria Ladra, Libera/Gruppo Abele
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ESTERI
del 08/06/15, pag. 16
Turchia, un colpo alle ambizioni di Erdogan
Il partito del presidente perde la maggioranza assoluta e dovrà formare
un governo di coalizione
DALLA NOSTRA INVIATA ISTANBUL Tutti gli occhi su Selahattin Demirtas, il piccolo
Davide curdo che, con il suo 13%, ha trionfato sul gigante Golia. All’Akp, il Partito Giustizia
e Sviluppo del presidente islamico e conservatore Recep Tayyip Erdogan, non basta il
41% dei voti per governare la Turchia. Non da solo, perlomeno. Tantomeno riunendo in
una sola carica i poteri di capo dello Stato e di primo ministro. È finito il sogno di
grandezza del «Sultano». Sempre che non si sia preparato un piano B.
Dopo una giornata da incubo con allarmi sui brogli che scattavano (spesso a vuoto) in
tutto il Paese, le urne sembrano aver restituito una fotografia piuttosto precisa e sincera
della volontà dell’elettorato turco: no a una Repubblica presidenziale. «No alla dittatura»
ha rafforzato il concetto il leader che schiererà in Parlamento 80 uomini contro i 255 del
partito di maggioranza, al potere negli ultimi tredici anni praticamente senza opposizione.
Con il suo 13,03%, Demirtas, copresidente con una donna, Figen Yüksekdağ, del partito
filocurdo Hdp, rappresenta la svolta. Prudente: «Non abbandonate i seggi fino alla fine —
ha raccomandato ai suoi militanti via Twitter —, nessuno vada per strada a festeggiare.
Meritate di essere felici, ma non ora». Pacato anche il suo commento post elettorale,
all’ora di cena in un ristorante di Istanbul: «La discussione su una Repubblica
presidenziale finisce qui, con queste elezioni». Come sarebbe fuori questione qualunque
accordo con l’Akp.
Se vorrà governare con un minimo di agio, il primo ministro Ahmet Davutoglu (o chiunque
altro la rabbia di Erdogan voglia mettere al suo posto) dovrà cercarsi altri alleati: forse i
nazionalisti dell’Mhp, che possono portargli in dote altri 82 seggi. Oppure, con qualche
probabilità d’intesa in meno, i kemalisti repubblicani del Chp, che occuperanno ben 133
seggi. Ma non manca chi vaticina elezioni anticipate entro 45 giorni: l’unica arma a
disposizione del Partito Giustizia e Sviluppo per tentare di ridistribuire le carte.
Ieri però ha vinto un’altra eterogenea e multietnica coalizione, quella degli esclusi dalla
corte neo ottomana di Erdogan: curdi, armeni, aleviti, cristiani, omosessuali, donne, delusi
dalla sinistra, reduci di Gezi Park. Ma anche molti intellettuali, accademici, giornalisti,
perfino elettori dell’Akp contrari al sistema presidenziale. Uno per uno, erano fastidiosi
come moscerini da schiacciare senza difficoltà. Tutti insieme, sono riusciti a sbarrare la
strada al presidente.
In politica da otto anni, Demirtas, 42 anni, è un avvocato difensore dei diritti umani che è
riuscito a conquistare quasi 2 milioni di voti in più rispetto alle Presidenziali dell’anno
scorso, quando ottenne il 9,7%, 3,9 milioni di voti, contro i 5,8 di ieri.
«Non possono fermarci» aveva detto tre giorni fa, quando due ordigni erano esplosi
uccidendo tre persone e ferendone un centinaio al suo ultimo comizio a Diyarbakir.
Elisabetta Rosaspina
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del 08/06/15, pag. 10
“Sui giornali più censura ora che durante i
golpe militari”
L’ex direttore di Hurriyet: il presidente non ha più limiti
Marta Ottaviani
Un Paese dove la libertà di espressione è sempre più precaria, un Presidente che ormai si
è sostituito anche all’autorità giudiziaria, un clima interno che diventa sempre più pesante.
La Turchia ai tempi di Recep Tayyip Erdogan sembra sempre più l’esatto opposto del
Paese che sarebbe dovuto diventare per entrare nell’Unione europea. Ertugrul Ozkok è
stato direttore di Hurriyet, il maggiore quotidiano del Paese, per circa 20 anni. Ci ha
spiegato come è cambiata la Mezzaluna sotto il governo dell’Akp, il Partito islamico
teoricamente moderato, al potere dal 2002 e come ormai la paura abbia pervaso anche la
vita quotidiana.
Direttore Ozkok, com’è arrivato il Paese a questo appuntamento elettorale?
«Ormai l’aria è irrespirabile. Da anni è in atto un forte giro di vite non solo sulla libertà di
espressione, ma anche sulla libertà di stampa».
Come si manifesta questa pressione sulla stampa?
«Molti giornalisti hanno perso il posto di lavoro. Tanti hanno avuto problemi più o meno
grossi con la giustizia. Il più delle volte però non vengono accusati per reati connessi alla
professione. Molti vengono incriminati per terrorismo».
Che ruolo ha il Presidente Erdogan?
«Fondamentale. Da quando ha preso lui in mano il potere è cambiato tutto. Per la prima
volta nella sua storia, la Turchia assiste al fatto che un capo di Stato attacca direttamente i
giornalisti, facendo nomi e cognomi e non si limita nemmeno a fare quello. Nel caso di
Can Dundar (il direttore di Cumhuriyet che rischia l’ergastolo per spionaggio ndr) è stato
lui in persona a scrivere il capo di accusa; ormai agisce anche al posto della magistratura,
ha perso qualsiasi senso del limite».
La Turchia ha un passato di golpe militari e momenti di grande tensione interna.
Che differenza c’è con la Turchia di Erdogan?
«Me lo lasci dire: io ho 68 anni, faccio il giornalista da quando ero giovane. Ho fatto in
tempo a seguire il golpe del 1971 e persino quello del 1980, che viene giudicato il più
violento e repressivo messo in atto dai militari. Ebbene, non ho mai, e dico mai, visto una
cosa del genere. La guerra contro i giornalisti è totale, portata avanti con diversi tipi di
istituzioni».
Per esempio?
«Per esempio dove non arriva il presidente direttamente, ci arriva la finanza. Tantissime
testate hanno ricevuto delle ispezioni da esattori mandati dal governo dopo che erano
usciti articoli poco graditi al governo. Molti editori hanno paura chiedono prudenza. A volte
arrivano multe così salate, magari per regolarità inesistenti, da fare chiudere la testata e
lasciare in mezzo alla strada decine di persone».
Lei è una delle firme più accreditate e autorevoli del giornalismo turco, come vive
questa situazione?
«Con grandissimo dolore sicuramente, anche perché mi rendo conto che, io per primo,
adesso prima di scrivere un pezzo lo rileggo più volte, lo calibro il più possibile. Ho paura
di arrecare danno al mio editore e ai miei colleghi. Lei si immagini. Un giornale pubblica un
pezzo e il giorno dopo c’è l’attacco ad personam del Presidente della Repubblica, è
assurda una cosa del genere».
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E la gente? Si saranno accorti che i giornali sono, diciamo, più prudenti rispetto a
una volta...
«In Turchia c’è un clima psicologico molto difficile da fare capire a chi è fuori. La gente ha
paura e la cosa peggiore è che si sta sempre più abituando a una presenza opprimente e
a non farsi troppe domande. Se la stampa non riesce più a fare il suo dovere e informare
correttamente, il risultato è l’atrofia totale».
del 08/06/15, pag. 1/9
Il Saladino del nuovo millennio fermato
sull’ultimo metro. E per il paese è la svolta
che porta per la prima volta il partito filo curdo Hdp in Parlamento
raccogliendo l’eredità di Gezi Park
Il Sultano sconfitto nel suo referendum una rivoluzione a colpi di voti
ADRIANO SOFRI
LA GIORNATA nera di Recep Tayyip Erdogan, la giornata rossa del Partito democratico
dei popoli. L’Akp di Erdogan, al potere da 13 anni, viene ancora definito dalla pigrizia delle
cronache come il partito “islamico moderato”. In realtà ha preso una decisa strada
islamista. Sabato scorso, brandendo il libro sacro, aveva proclamato che «la conquista è
la Mecca, la conquista è Saladino, è issare di nuovo la bandiera islamica su
Gerusalemme» (Saladino del resto era curdo).
Credeva, o fingeva di credere, di avere il vento in poppa. L’Europa, che aveva fatto la
difficile e l’aveva mortificato, ora è in crisi e ha la guerra in casa, e lui cresceva fra gli
aspiranti all’egemonia sul mondo musulmano. Preparando la restaurazione del sultanato,
si è regalato l’anticipo di un palazzo delle duemila e due notti. Rotto l’assedio per le prove
plateali di corruzione e nepotismi, aveva messo il bavaglio alla magistratura e agli organi
di polizia indipendenti, o anche solo non dipendenti. Si era permesso il doppio gioco
internazionale, di notte spallone di reclute jihadiste e contrabbandiere di armi e petrolio col
Califfato, di giorno membro della coalizione contraria, con l’aggiunta del compiaciuto
divieto di uso della base di Incirlik.
Gli andava bene: mancava l’ultimo metro. Per tagliare il traguardo aveva barattato il
governo con la presidenza, trasformando Ahmet Davotoglu, che avrebbe meritato miglior
destino, in un Medvedev turco. Da lì si sarebbe fatto presidente coi pieni poteri, e a vita,
mettendosi la corona sul capo con le proprie mani. Restava la piccola formalità
dell’ennesima vittoria elettorale. Ci aveva fatto l’abitudine: la Turchia sembrava ribellarsi,
scuoterlo, circondarlo e resistere intrepidamente alla ferocia repressiva, e poi le urne
davano ragione a lui. Alla commemorazione del genocidio degli armeni aveva rimediato
con un altro impegno. I giornalisti riluttanti, in galera, o peggio. I curdi? Tutti avevano
capito (anche Davutoglu) che coi curdi bisognava arrivare a una svolta, che il contesto
internazionale lo imponeva, che non si poteva immaginare che Ocalan continuasse a
proclamare la rinuncia alla lotta armata dal suo ergastolo un paio di volte a trimestre.
Lui non se ne curava. Quando i despoti perdono il senso della misura — quando si
costruiscono palazzi di quelle dimensioni, che sia vera o no la notizia sulla tazza di cesso
tutta d’oro zecchino — la storia si ricorda di frugarsi in fondo alle tasche esauste, e tirarne
fuori un’astuzia. E se non è la sto- ria, è la provvidenza, o la dignità delle persone. Dunque
niente referendum, niente revisione della Costituzione, niente maggioranza assoluta. Il
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“partito filocurdo”, strana denominazione del resto — come se noi dicessimo “il partito
filoimmigrati” — supera lo sbarramento del 10 per cento (il dieci!) e anzi tocca il 12, e
manda nel parlamento che doveva plebiscitare Erdogan tra i 79 e gli 82 deputati (su 550).
Per giunta, con una partecipazione elettorale dell’86 per cento dei quasi 57 milioni di
cittadini aventi diritto, in patria e fuori.
L’Akp ha i numeri per governare in coalizione, il successo dei nazionalisti parafascisti è
triste e inquietante, ma la Turchia da ieri è un altro paese. Lo era già, nella ricchezza e
varietà della sua società civile, ma era come se si fosse interrotta la comunicazione fra
quella società e le istituzioni. È successo mentre i capi del G7 si incontravano, e magari
l’Europa troverà un tempo supplementare per offrire alla Turchia una propria sponda, dopo
aver favorito una deriva che l’aveva portata, la partner della Nato e la madrepatria di
milioni di suoi cittadini, a rivendicarsi islamista in concorrenza con Iran e Arabia Saudita. E
se avvenisse, sarebbe ancora più grottesco pensare a un’Europa senza Grecia, e con la
Turchia.
Il provvidenziale “filocurdo” Hdp — il “partito democratico dei popoli” — aveva tenuto il suo
primo congresso solo nell’ottobre 2013. È un partito curdo e “filoturco”, oltre che aperto
alle altre minoranze etniche e religiose e a quelle civili («gli omosessuali, gli atei, e gli
armeni», nella versione di Erdogan), e capace di parlare ai giovani raccogliendo l’eredità di
Gezi Park. Ha due copresidenti — una femminista curda e un socialista turco — come
nella tradizione europea di femministe e ambientalisti, e riserva il 10 per cento alle
persone LGBT. Alla sua testa sta Selahattin Demirtas, 41 anni, leader prestigioso e
saldamente democratico.
I paesi democratici, per compiacenza con Erdogan, hanno continuato a tenere il Pkk curdo
nella lista nera delle formazioni terroriste, anche quando i suoi militanti esiliati nel
Kurdistan iracheno o nel Rojava siriano erano decisivi nel soccorso agli yezidi (e ai
cristiani) braccati o alla popolazione di Kobane. Faranno bene ad accompagnare il
tentativo di Demirtas di guadagnare alla sua causa democratica quella popolazione curda
che un’ostinazione ideologica settaria ma soprattutto la discriminazione nazionalista ha
tenuto al bando.
del 08/06/15, pag. 10
“Avanti con le sanzioni” l’asse Merkel-Obama
per fermare la Russia
Il bilaterale tra Usa e Germania ha aperto il G7 La guerra con Kiev al
centro dei colloqui tra i leader
ANDREA TARQUINI
GARMISCH- PARTENKIRCHEN .
«Angela, sei una grande amica, la nostra alleanza è una delle più forti del mondo», ha
detto Barack Obama in abito blu abbracciando la cancelliera in giacchetta azzurra. «E voi
siete un alleato essenziale, lavoriamo insieme perché ci uniscono interessi e valori », gli
ha risposto lei. Show d’amore e accordo, soprattutto per lanciare insieme un forte
messaggio a Putin: le sanzioni resteranno, finché la Russia non garantirà la pace in
Ucraina e non rispetterà i suoi vicini, e a fronte delle “aggressioni” del Cremlino è
essenziale che i Grandi d’Occidente restino uniti. Con un summit bilaterale dedicato alla
risposta al Cremlino, a richieste ferme d’unità alleata, come una virtuale linea rossa, il
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44mo presidente degli Stati Uniti e la prima donna alla guida della Germania hanno aperto
ieri mattina il vertice del G7, i sette paesi di punta del mondo libero.
Cornice suggestiva, tra la splendida Garmisch-Partenkirchen perla delle Alpi bavaresi,
tutta case d’epoca dipinte, e il castello di Elmau che domina la valle, quella scelta dalla
leader ospitante del G7. Cornice usata da Obama in persona per sottolineare — dopo le
tensioni per lo spionaggio Nsa e tanti altri dissensi — la special relationship ritrovata con la
Germania di “Angie”. Washington, con questo G7 aperto dal loro vertice preliminare a due,
sembra affidare sempre più a Berlino il ruolo di alleato preferenziale finora ricoperto da
Londra. «La crisi con la Russia per la guerra ucraina», affermano diplomatici Usa, «ha
assorbito oltre metà del colloquio Merkel-Obama, i due leader convengono che è decisivo
mantenere l’unità occidentale». Mentre con David Cameron, il presidente «ha parlato di
diversi focolai caldi di crisi del mondo, dalla Libia alla Nigeria»: resoconto, il secondo, in
tono minore.
Segnale fortissimo, in una cornice idilliaca: le cittadine bavaresi illuminate dal sole e
colorate dagli impeccabili gerani sui balconi, la robusta prima colazione locale a base di
weisswurst (salsiccia bianca con carne d’asino), bretzeln (ciambelle) e birra torbida,
Obama che scherza, «non è mai troppo presto per una birra e una ciambella, scusate se
ho dimenticato a casa i vostri tipici calzoni corti in cuoio». Un’atmosfera segnata anche dal
confronto continuo ma quasi sempre pacifico e tranquillo tra migliaia e migliaia di giovani
pacifisti e no-global e battaglioni di agenti venuti in tenuta antisommossa da tutto il paese
per blindare città e castello. «Anche la loro libertà di protestare contro di noi è un volto
della democrazia, nostro valore comune», hanno sottolineato “Angie” e “l’amico Barack”.
Ripresa mondiale, ambiente, terrorismo: tutto è in secondo piano, al vertice dei Grandi
senza Putin, rispetto al confronto col Cremlino. Il segnale non sembra ignorato. «L’Europa
deve mostrarsi capace di soffrire svantaggi economici pur di restare unita nelle sanzioni»,
ha affermato il premier britannico, «la necessaria linea della fermezza danneggia il ruolo
finanziario globale del Regno Unito ma non ci tiriamo indietro, le sanzioni fanno male
anche a noi, ma non dobbiamo cedere». E per il presidente dell’ssecutivo europeo, l’ex
premier liberal polacco Donald Tusk, «se si deve discutere delle sanzioni è solo per
inasprirle: l’accordo di pace di Minsk è rimasto lettera morta, e in Ucraina orientale si
continua a combattere e morire». Oggi la conclusione del vertice dirà al mondo quanto
questa unità proclamata davanti a Mosca sarà reale e solida.
del 08/06/15, pag. 3
Il fantasma del leader russo vero protagonista
del summit
È il secondo summit senza Vladimir Putin da quando, con l’invasione della Crimea e poi la
guerra nell’Ucraina orientale, il G8 è tornato ad essere G7, senza più la presenza di
Mosca. Eppure il fantasma del presidente russo sta condizionando molto più della crisi
greca, dell’euro e della minaccia terroristica dell’Isis i lavori del vertice annuale dei Paesi
industrializzati in corso nello Schloss Elmau, sulle Alpi bavaresi. Castello solo di nome,
costruito un secolo fa da un filosofo-teologo che voleva farne un luogo di riflessione e di
vita comunitaria, Elmau è il luogo dove i Sette srotolano un’agenda assai complessa in un
anno cruciale: la Libia e l’emergenza migranti che trasforma il Mediterraneo in un cimitero,
la ripresa economica in pericolo, la necessità di stringere sui trattati di libero scambio degli
Usa con la Ue e i Paesi del Pacifico, gli accordi sulla riduzione dei gas serra da
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promuovere prima della conferenza Onu di Parigi sull’ambiente: l’occasione storica per
superare il protocollo di Kyoto con un’intesa davvero planetaria. Questioni di grande
rilevanza, ma l’aggressione russa all’Ucraina sta prendendo il sopravvento su tutto. Nel
loro incontro bilaterale prima del vertice, Barack Obama e la cancelliera tedesca Angela
Merkel hanno discusso per più della metà del tempo dei ribelli filo-russi in Ucraina e delle
responsabilità di Mosca nella crisi. Nel briefing del portavoce di Obama con la stampa si è
parlato molto anche dell’intervista del Corriere a Putin e dei toni concilianti da lui scelti.
Toni che Josh Earnest ha attribuito alla necessità del presidente di uscire dall’isolamento
nel quale si è cacciato con la sua aggressione. E, mentre fino a qualche settimana fa si
cominciava a sperare in una tenuta degli accordi di Minsk, con la recente ripresa delle
ostilità Washington ora è molto dura: chiede a tutti i partner compattezza transatlantica su
un nuovo round di sanzioni. Dice Earnest: «Auspicavamo anche noi il dialogo con la
pacificazione promesso dal Cremlino. Ma la Russia va in direzione opposta. I rapporti
dell’intelligence ci dicono che i ribelli vengono appoggiati sempre più da Mosca con armi,
equipaggiamenti, truppe, addestramento e molto denaro. Minsk si allontana. Ci vuole
compattezza per isolare Putin». Superate le incomprensioni con l’Italia dello scorso anno?
«Credo che Obama e Renzi non ne abbiano ancora parlato» taglia corto il portavoce.
Massimo Gaggi
del 08/06/15, pag. 10
Grecia, Ucraina e trattati ecco il piano di
Barack per tenere unita l’Europa
FEDERICO RAMPINI
«VLADIMIR Putin sta cercando di ricreare un’atmosfera da guerra fredda. Per impedirlo
dobbiamo restare uniti sulle sanzioni». È il primo messaggio di Barack Obama ai partner
europei, all’esordio del vertice G7 nel castello bavarese di Elmau. L’altra priorità del
presidente americano: «La crisi della Grecia va risolta rapidamente, o l’instabilità dei
mercati ci colpirà tutti».
Sembra paradossale, il compito principale che Obama si assegna in questo summit è
quello di tenere uniti gli europei. Evitare che si dividano sulla Russia; scongiurare il default
della Grecia e la sua uscita dall’euro, che l’America considera come un rischio per la
stabilità globale in quanto potrebbe scatenare “scommesse” speculative sull’uscita di altri
paesi. Sull’emergenza- Atene l’attenzione di Obama è stata nuovamente sollecitata dagli
eventi accaduti sui mercati la settimana scorsa. Il segretario al Tesoro Jack Lew lo ha
allertato sull’anomala volatilità dei bond, in particolare i Bund tedeschi, un segnale di
quanto la psicologia degli investitori sia fragile. La locomotiva americana sembra essere
ripartita: dopo la frenata del primo trimestre (meno 0,7% di crescita) il mese scorso ha
visto una nuova impennata nelle assunzioni (più 280mila posti di lavoro a maggio in
America). Tuttavia uno shock proveniente dall’eurozona potrebbe frenare anche
l’economia più dinamica sull’altra sponda dell’Atlantico. Perciò il portavoce di Obama, Josh
Earnest, parlando ieri sera al G7 in Germania ha confermato che la Grecia è stata al
centro del bilaterale Obama-Merkel e poi degli altri incontri che il presidente ha avuto coi
partner europei. «Il governo Tsipras deve fare le riforme strutturali; e la Grecia deve poter
ritrovare un percorso di crescita di lungo periodo». Sono i due criteri su cui insiste
l’America: è giusto chiedere alla Grecia una correzione di rotta rispetto a sprechi del
passato, evasione fiscale di massa, malgoverno e cattiva gestione pubblica; ma la cura
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deve includere una prospettiva credibile di ripresa dell’occupazione, altrimenti i costi
sociali sarebbero insopportabili. L’eurozona non può essere solo lacrime e sangue.
Nell’immediato ciò che preoccupa di più Obama è «la volatilità dei merca- ti finanziari», le
montagne russe dei bond e anche certi eccessi di debolezza dell’euro (visti dall’America,
dove la competitività del made in Usa ha ricevuto un serio colpo). Obama ha voluto
sottolineare «l’importanza che il governo greco sia determinato a rimanere dentro
l’eurozona».
L’altro dossier su cui Obama concentra la sua attenzione è l’Ucraina. «La Russia
intensifica gli addestramenti delle truppe ribelli – dice il suo portavoce Earsuo nest – e
Putin si sta facendo beffe degli accordi che lui stesso firmò a Minsk. La priorità assoluta è
preservare la nostra unità, continuare con le sanzioni già decise, e sostenere il
risanamento economico dell’Ucraina». La Casa Bianca sa che questi sono giorni cruciali
per verificare la compattezza europea. Entro il mese di giugno l’Unione europea deve
decidere se prolungare le sanzioni contro Mosca. Di qui il pressing di Obama sugli alleati
per evitare defezioni. Ieri La Repubblica ha anticipato il documento che Casa Bianca e
Dipartimento di Stato hanno preparato per la delegazione italiana al G7: un dossier fitto di
cifre, prese dalle statistiche ufficiali di Mosca, per confutare la tesi della Confindustria
italiana secondo cui la nostra economia pagherebbe un prezzo eccessivo per la caduta
dell’export verso la Russia. Nel documento che Obama ha consegnato a Renzi si
documenta l’impatto decisivo del calo del prezzo del petrolio, che ha impoverito la Russia
e ha fatto crollare il suo commercio anche con la Cina (che non partecipa alle sanzioni).
Insieme con l’appello agli europei perché rinnovino le sanzioni e diano un segnale di
fermezza a Putin, Obama li invita anche a «dedicare risorse sufficienti per la propria difesa
». È un problema antico, reso più acuto in una fase in cui la Nato deve essere credibile nel
suo impegno di difesa degli Stati membri più vicini alla Russia: Polonia, Paesi Baltici,
Romania.
Infine c’è il dossier del libero scambio. Obama ne ha parlato lungamente con la Merkel,
favorevole come lui al nuovo trattato: la Transatlantic Trade and Investment Partnership
(Ttip). Su questo Obama sa di poter contare anche su Matteo Renzi come un alleato
sicuro. Le resistenze contro il nuovo trattato vengono in Europa soprattutto dalla Spd, il
partito socialdemocratico alleato nella grande coalizione con la Merkel. In America è
all’interno del suo stesso partito democratico che Obama incontra le obiezioni più forti.
del 08/06/15, pag. 12
Ultimatum di Juncker “Tsipras rispetti le
regole e dia subito una risposta”
Il presidente Ue: c’è una deadline ma non la svelo Varoufakis: non ci
spaventa. Controproposte allo studio
ETTORE LIVINI
DAL NOSTRO INVIATO
ATENE .
Volano gli stracci tra Atene e la Ue. Il presidente della Commissione Jean Claude Juncker
ha confermato ieri al G-7 di essersi rifiutato di rispondere a una telefonata di Alexis
Tsipras. «Sono amico del premier ma anche l’amicizia ha le sue regole — ha sottolineato
— Lo aspettavamo a Bruxelles e non è tornato. Invece ha mentito al suo Parlamento
sostenendo che gli avevamo fatto un’offerta assurda da prendere o lasciare. Non è vero e
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lui lo sa». Cosa succede ora? «Siamo da giorni in attesa della controproposta ellenica —
ha aggiunto spazientito il leader lussemburghese — c’è una deadline ma non la rivelo».
Il tempo in effetti stringe e dietro le questioni di etichetta i pontieri sono al lavoro per
esorcizzare lo spettro del default. Barack Obama ne ha ieri con Angela Merkel
augurandosi «che la Grecia faccia le riforme ma che si trovi una soluzione per non
destabilizzare i mercati ». Tsipras vedrà mercoledì a Bruxelles la cancelliera e il presidente
francese Francois Hollande. Il 30 giugno scade il piano di assirenza, stenza al Partenone
e se entro quella data non ci sarà un compromesso votato da un certo numero di
Parlamenti — ellenico e tedesco compresi — il crac di Atene sarebbe inevitabile.
Le posizioni delle parti, in appaparlato sono molto lontane. Gli uomini di Tsipras stanno
però provando a limare le differenze. «Se alcune delle nostre proposte non gli piacciono
— ha ribadito Juncker — basta che ne presentino altre fiscalmente equivalenti». I
negoziatori ellenici potrebbero accettare compromessi sull’Iva e sulle privatizzazioni per
aumentare le entrate e cancellare così il rialzo delle tasse sull’elettricità e i tagli alle
pensioni minime, fumo negli occhi per la minoranza del partito. Que- sto giochetto delle tre
carte, abbinato al calo degli obiettivi di budget primario, potrebbe forse passare le forche
caudine delle approvazioni in aula sia ad Atene che a Berlino. Restano però da sciogliere i
due nodi più complessi. Il mini- stro delle Finanze Yannis Varoufakis, facendo eco alle
richieste di Tsipras, ha ribadito che non firmerà un’intesa «che non renda sostenibile il
debito greco. La Ue non ci spaventa». Tradotto in soldoni, no tagli. Ue, Bce e Fmi non
paiono invece voler fare marcia indietro sul “no” alla reintroduzione dei contratti collettivi di
lavoro. Che il presidente del Consiglio, provocatoriamente, ha già incardinato in
Parlamento.
L’unico modo per dribblare questi ostacoli, dicono in molti, sarebbe decidere di non
decidere. L’ex Troika potrebbe formalmente impegnarsi a ridiscutere la questione del
debito dopo l’estate, nell’ambito delle trattative per l’inevitabile nuovo piano di sostegno
per la Grecia (potrebbero servire altri 30-40 miliardi). Il governo ellenico da parte sua
potrebbe rinviare le decisioni sul lavoro alla stessa scadenza. Consentendo di mettere
subito una toppa temporanea — l’ennesima — ai guai del paese. Ue, Bce e Fmi
sbloccherebbero l’ultima tranche di aiuti (7,2 miliardi) e riallocherebbero i 10,6 rimasti nel
fondo salva banche. Regalando alla Grecia il tesoretto per ripagare i debiti con la Bce in
scadenza ad agosto. Eurotower di fronte a una schiarita potrebbe allargare il cordone dei
finanziamenti alle banche nazionali, inserendo i titoli di stato di Atene nel programma di
riacquisto per il quantitative easing.
Un compromesso di questo tipo sposterebbe più avanti le decisioni più complesse e
permetterebbe di guadagnare un po’ di tempo. Il cammino per la sua approvazione
sarebbe però lo stesso accidentato. La pazienza tedesca con la Grecia è agli sgoccioli
(«mi danno i nervi », ha detto il presidente dell’Europarlamento Martin Schulz). L’ala più
radicale di Syriza ha già faticato a digerire la prima proposta di Tsipras ai creditori, anche
se al momento buono, magari, non sgambetterà il premier. La strada per tenere la Grecia
nell’euro è ancora molto lunga. E il tempo molto poco.
del 08/06/15, pag. 1/28
Decine di emittenti troupe di alto livello tecnico e programmi copiati
dall’Occidente Viaggio nei palinsesti del Califfato
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Se anche il martirio è un format così l’Is
costruisce la sua audience
GABRIELE ROMAGNOLI
GUARDA nella telecamera e sogna il paradiso dei martiri. Il giovane canadese si è
convertito all’Islam e arruolato nel-l’Is, facendosi chiamare Abu Muslim. Racconta con
gioia il suo percorso di rinunce che portano prima alla gloria poi alla salvezza. Nella
puntata successiva è al fronte, combatte, un riquadro luminoso lo indica mentre avanza
sparando. Nell’ultima muore ammazzato, come se fosse previsto dalla sceneggiatura di
una serie tv di successo. In fondo era così, non c’è differenza, la realtà pre-immaginata è
una profezia che si autoavvera. La sola finzione è il montaggio che disegna un sorriso sul
volto di Abu Muslim come se un istante prima della fine avesse intravisto la meraviglia che
l’attende. È il format del martire, compone il palinsesto mediatico dell’Is. Prima che si
proponesse come uno Stato, prima ancora che diventasse un esercito era questo: un
immaginario. Ancora oggi, la propaganda precede l’azione. È il rito dell’annunciazione che
si perpetua in forme contemporanee. Originali? Soltanto in apparenza. Bisogna vederle
per capirle. E senza filtri: l’interpretazione è un passaggio successivo.
L’ha fatto il team di analisi dell’agenzia giornalistica Agc Communication, composto da 7
elementi con diverse competenze (dall’arabista all’informatico, dall’esperto di finanza a
quello di strategie militari). Dal 2012 si sono “infiltrati” nella rete social dell’Is, monitorando
5000 account di sostenitori in tutto il mondo, ricevendo gli stessi materiali e conservandoli
prima che fossero cancellati. L’esito del loro lavoro, montato, è diventato un
videodocumentario che verrà trasmesso stasera su La7 nel corso di uno speciale di
Piazzapulita, il talk show di Corrado Formigli, che a inizio stagione aveva trasmesso da
Kobane.
Vedendolo in anteprima ho trovato la conferma di alcune teorie già sostenute e qualche
inedita valutazione. Lo Stato Islamico è, più ancora che una macchina da guerra, una
gigantesca macchina da presa. Impiega 100 tecnici occidentali, ha 40 emittenti, 4 canali,
diverse case di produzione con nomi come “La Vita” o “La Legge”. Considera sacre le
antenne. Appena conquistata una città distribuisce agli abitanti caramelle, chiavette usb e
ricariche dei cellulari. Vuole assicurarsi che ogni suo video arrivi a cento milioni di
persone, che la prossima meta sul percorso venga raggiunta dalle immagini prima che dai
miliziani. Ha creato un palinsesto che comprende una serie di format: quello del martire
come nel caso di Abu Muslim, quello dell’autobomba, il talent del guerriero, la sua
versione junior (proprio come accade per Masterchef).
A noi arrivano spesso soltanto le stagioni conclusive, per cui ci sfugge il filo della
narrazione. Tutti abbiamo potuto vedere il bambino che spara alle due spie. Nel filmato in
onda stasera lo si può incontrare qualche anno prima, ancora più piccolo, mentre segue
l’indottrinamento religioso e militare e dichiara che il suo sogno è «macellare l’infedele».
Puoi considerarlo un flashback nella trama, di certo ne esiste una, una squadra che la
pensa e un’altra che la mette in scena. Per l’esecuzione di massa dei prigionieri copti sulle
rive del Mediterraneo occorre una troupe: regia, montatori, costumisti. È uno snuff movie
(filmato cruento per pubblico sadico) con declinazione romantica (orizzonte sul mare, “luce
a cavallo” del tramonto). Le colonne sonore sono canti tradizionali, il vero marchio
distintivo, onnipresente come un’immagine subliminale, è il suono della scimitarra
sguainata.
Il palinsesto invade gli schermi dei telefonini delle generazioni con occhi buoni. Per gli altri
ci sono i megaschermi delle piazze che un tempo trasmettevano discorsi del rais. Ma che
cosa li incolla lì? Che cosa ha inventato di nuovo lo Stato Islamico? Nulla. Ha usato codici,
sistemi e specchietti per le allodole sperimentati e consolidati. Da chi? Dal suo nemico
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dichiarato, l’occidente. Nella videoeducazione nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si
copia. Da Satana si possono prendere la sigla e la struttura dei telefilm, il confessionale
del Grande Fratello , la zona grigia del reality dove si mescolano verità e finzione. Lo
spettatore assorbe, desensibilizzato già da tempo: stordito dal mezzo è pronto per
qualunque messaggio. Neppure quello contiene elementi di novità assoluta: epica,
eroismo, sacrificio fino alla vittoria. Rambo prega. John Ford e Leni Riefenstahl celebrano.
Nel suo libro Isis, il marketing dell’apocalisse il saggista Bruno Ballardini scrive che i
promoter del Califfato «usano tecniche di marketing dell’occidente, di cui sono succubi» e
che il presunto scontro di civiltà si riduce a un duello «tra due integralismi ». Non a caso
Hillary Clinton ammette «li abbiamo creati noi». D’altronde stasera vedrete vecchie riprese
in cui compaiono insieme un ex candidato alla Casa Bianca, il repubblicano John McCain
e l’autoproclamato califfo Al Bagdadi, che evidentemente si sentivano compatibili più di
quanto si voglia far credere. Se «li abbiamo creati noi» non è stato solo finanziandoli
quando c’era da combattere l’Urss in Afghanistan, ma fornendo loro un apparato di
pensiero e azione nel quale il terrorismo, è opinione di Ballardini, non è altro che «un
crimine a scopi pubblicitari».
Da tempo, lo fa anche la voce fuori campo del documentario di stasera (Roberto Pedicini,
che doppia Kevin Spacey in House of cards ), ci si sofferma sull’estetica dell’Is, la sua
bandiera, il suo trionfalismo. Dimenticando che a spingerla avanti è assai più la sua etica.
In un mondo confuso e complesso, dominato dalla politica del cinismo, offre soluzioni
semplici e lineari, da abbracciare con uno slancio di fede. Propone un corpus legis
elementare e dall’applicazione inesorabile, che ottiene la legittimazione da un’entità
altrettanto vaga quanto la costituzione materiale, ma assai più fascinosa: dio.
Di fronte all’avanzata di questa nuova videocrazia che prelude al peggiore degli scenari ci
si domanda: come fermarli? Ma se è vero, come si sostiene, che li abbiamo creati “noi” e
che copiano “noi”, non dovremmo pensare anche a cambiare noi?
del 08/06/15, pag. 17
Battaglia per la «nazionale»
La sfida tra i palestinesi si gioca sui campi di
calcio
RAMALLAH I nomi incisi sul muro di pietra del centro sportivo sono quelli dei ragazzi
uccisi negli scontri con gli israeliani durante la seconda Intifada. Queste stradine intasate
di auto e sporcizia sono state tra le più difficili da controllare per l’esercito agli inizi del
Duemila. Da qui è venuta la prima kamikaze donna: l’infermiera Wafa Idris si è fatta
esplodere nel centro di Gerusalemme e ha ucciso un passante.
A lei qualche anno fa è stato dedicato un torneo di calcio. Perché nel campo rifugiati Al
Amari, dentro Ramallah, tutto è legato alla squadra fondata nel 1953: anche i palestinesi
che non abitano tra questi cubi grigi di cemento la considerano come la loro nazionale.
Il valore simbolico del club è così importante che Tarek Abbas, il figlio del raìs, avrebbe
voluto diventarne presidente. Ci è riuscito per dodici mesi, chiamato in soccorso dai
dirigenti locali: i trionfi nel campionato palestinese per due anni di fila, la partecipazione
alla coppa d’Asia, non avevano riempito il buco economico. Tarek è un uomo d’affari che
ha portato i soldi e i contatti di famiglia.
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Non sono bastati. Sotto la sua guida la squadra è arrivata ottava, ad aprile la stagione si è
chiusa male. Così la gente di Al Amari si è organizzata e ha presentato una sua lista per
riprendere il controllo dell’unico orgoglio e forse dell’unica speranza. Hanno votato 1.000
persone: 750 hanno scelto «I figli del campo» contro «Riforma e cambiamento» di Abbas,
le sue promesse non hanno ottenuto alcun rappresentante. Quel giorno gli uomini sono
scesi in strada cantando lo slogan «Tarek dì a tuo padre che il popolo di Al Amari non ti
vuole». E se le urla non fossero arrivate al palazzo della Muqata, a qualche chilometro di
distanza, hanno tirato giù il poster del presidente Mahmoud Abbas (nome di battaglia Abu
Mazen) e l’hanno sostituito con quello di Yasser Arafat.
«La politica non c’entra, la decisione è stata solo sportiva, il meglio per la nostra squadra»,
prova ad assicurare il neopresidente Jihad Tumaliya. Eppure questo «figlio del campo» a
49 anni rappresenta la nuova generazione dentro al Fatah, il partito dell’ottantenne Abu
Mazen di cui è parlamentare. I trofei nel suo ufficio raccontano le vittorie degli ultimi anni e
le sconfitte militari di sempre: le famiglie portano qui le targhe per ricordare i morti della
seconda intifada. Questo centro sportivo è l’unico sfogo per i ragazzi del campo, dove la
disoccupazione tra gli 8 mila abitanti raggiunge l’80 per cento.
La gente si sente abbandonata dall’Autorità Palestinese che dà lavoro solo a 70 persone:
qui hanno interpretato la mossa di Tarek Abbas — nessuno l’aveva mai visto allo stadio —
come un tentativo del padre di ingraziarsi Al Amari. «C’è malcontento verso l’Autorità, ma
nessuno dimentica la vera questione: viviamo sotto l’occupazione degli israeliani. Il Fatah
resta il partito più popolare nel campo», commenta Jihad. Gli striscioni attorno a rettangolo
d’erba sintetica per gli allenamenti sono quelli del movimento fondato da Arafat: esaltano i
giocatori e invocano il «diritto al ritorno» per i rifugiati palestinesi.
Tarek è il più giovane dei tre figli di Abu Mazen (uno è morto d’infarto nel 2002). Come il
fratello Yasser è un imprenditore che ha accumulato milioni di euro in affari tra la
Cisgiordania e i Paesi arabi del Golfo. Sul campo di Al Amari si è giocata anche la sfida
per la successione al raìs. «Abu Mazen è ormai al potere da un decennio — scrivono
Ghait al-Omari e Neri Zilber sulla rivista Foreign Affairs — e in questo periodo si è
assicurato che nessun successore potesse emergere. Forse ha funzionato come tattica
politica personale, ma come strategia nazionale rischia di essere distruttiva per i
palestinesi».
Quando cinque mesi fa è circolata la voce che fosse stato ricoverato d’urgenza in
ospedale, Abu Mazen ha lasciato il palazzo per farsi vedere tra la gente di Ramallah. Non
gli succede spesso, di solito evita la folla: la vera emergenza era dimostrare subito che c’è
ancora un uomo al comando.
Davide Frattini
del 08/06/15, pag. 12
Carcere e mille frustate
L’Arabia non perdona il blogger
Pena confermata per il 31enne saudita Raif Badawi in carcere dal 2012
La sua colpa? Essere ateo e aver scritto a favore del liberalismo
Francesca Paci
Fino al 9 gennaio scorso pochi conoscevano il nome di Raif Badawi che pure tra il 2008 e
il 2012 aveva affidato quotidianamente al sito Saudi Free Liberals Forum le sue riflessioni
di volteriano arabo. Poi, poche ore dopo aver denunciato l’attentato alla redazione di
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Charlie Hebdo definendolo «codardo», Riad decise di procedere contro il blogger arrestato
3 anni prima per apostasia e partirono le prime 50 delle 1000 frustate disposte dal
tribunale religioso (oltre a 10 anni di prigione e una multa da un milione di riyal). Adesso,
indifferente alla mobilitazione internazionale lanciata nel frattempo da Amnesty
International, la Corte Suprema conferma la sentenza: Raif Badawi dovrà inginocchiarsi di
nuovo in mezzo alla folla di fedeli urlanti «Allah uakbar» per ricevere la seconda razione
della pena riservata ai bestemmiatori di Dio e così via, ogni santo venerdì dell’islam, per
19 settimane.
«I versetti satanici»
Ma cosa ha scritto questo 31enne che nel regno campione mondiale di condanne a morte
paga più degli assassini? Ricostruirlo ora che il blog è stato chiuso significa navigare sul
Web tra i messaggi degli arabi tentati dall’ateismo al punto da rimpallarsi le considerazioni
dei più temerari tra loro. In uno degli ultimi articoli postati poche settimane prima di essere
arrestato il 17 giugno 2012 Raif Badawi ragiona dell’ostilità avvertita tra i connazionali: «Il
liberalismo per me significa semplicemente vivere e lascia vivere (…) Ma l’Arabia Saudita
che rivendica l’esclusivo monopolio della verità è riuscita a discreditarlo agli occhi del
popolo». Poi, ancora: «Nessuna religione ha mai avuto alcuna connessione con il
progresso civile dell’umanità. Non è colpa della religione ma del fatto che tutte le religioni
rappresentano una precisa particolare relazione spirituale tra l’individuo e il Creatore». In
queste ore in cui la gente si prepara allo spettacolo dell’empio frustato in piazza come ai
tempi del rogo di Giordano Bruno, suo padre si è presentato in tv non per difenderlo ma
per annunciare di volerlo diseredare.
I dissacratori
A scorrere i pensieri e le parole di Raif Badawi, che cita l’Albert Camus di «il solo modo di
relazionarsi a un mondo non libero è essere così assolutamente libero di vivere la vita
come ribellione», si scorge un mondo sconosciuto, quello degli scettici, dei contestatori,
dei dissacratori musulmani, sparuti ma in crescita, descritti nel libro di Brian Whitaker
«Arabs without God».
Ecco un pezzo del 2010: «Appena un pensatore inizia a rivelare le sue idee arrivano
centinaia di fatwa che lo accusano di essere un infedele solo perché ha avuto il coraggio
di discutere i temi sacri. Temo che i pensatori arabi emigreranno in cerca di aria fresca per
sfuggire alla spada delle autorità religiose». E un altro, in favore della separazione tra
religione e politica ma senza accusare il governo e le autorità di Mecca (cosa che Badawi
non ha mai fatto): «Il secolarismo rispetta tutti e non offende nessuno. Il secolarismo (…) è
la soluzione pratica per far uscire i paesi, compreso il nostro, dal terzo al primo mondo».
Impossibile non ricordare queste ultime parole leggendo i suoi messaggi dal carcere
pubblicati in Germania nel volume «1000. Lashes: Because I Say What I Think».
La famiglia in esilio
La moglie Ensaf Haider e i tre figli sono da tempo in esilio in Canada e Badawi dalla cella
che condivide con gli assassini e i criminali di cui, dice, nella vita normale si era protetto
chiudendo ogni sera a chiave la porta di casa, scrive: «Un giorno nel bagno imbrattato
all’inverosimile ho scorto questa frase, tra le mille scritte oscene in tutti i dialetti arabi, “il
secolarismo è la soluzione”. Ho gioito perché c’era almeno qualcuno in prigione capace di
capirmi, qualcuno che potesse comprendere le ragioni per cui sono rinchiuso qui per la
colpa di aver espresso la mia opinione». Vita pericolosa quella del blogger attivista del
libero pensiero, combattente solitario e senza rete destinato a cadere soprattutto nei paesi
in cui l’identità collettiva non è politica ma religiosa.
Nel blog di Raif Badawi si trova tutto il tormento dei giovani liberali arabi contemporanei. Il
Dio indiscutibile per cui sconta una pena disumana ma anche la questione palestinese
(«Non sono in favore dell’occupazione israeliana di nessuna paese arabo ma allo stesso
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tempo non voglio che Israele sia sostituito da uno stato religioso…Gli stati che sono basati
sulla religione relegano i propri sudditi nel recinto di fede paura»), gli attentati dell’11
settembre 2001 alla luce della proposta di costruire una moschea nei pressi delle ex Torri
Gemelle («Quello che mi ferisce di più come abitante dell’area che esporta questi
terroristi… è l’audacia dei musulmani di New York che raggiungono i limiti dell’insolenza e
non considerano il dolore delle famiglie delle vittime…». Il suo nome era sconosciuto al
mondo fino a 5 mesi fa, adesso tutti sanno e lui torna a piegare la schiena sotto i colpi
della frusta.
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INTERNI
del 08/06/15, pag. 16
Riforme e regole interne braccio di ferro nel
Pd la minoranza sfida Renzi
Stasera la prima direzione dopo il voto alle regionali Martina: “Pensiamo
al governo, non al congresso”
TOMMASO CIRIACO
ROMA .
Dopo la sconfitta in Liguria, nel Pd è il momento della resa dei conti. Questa sera si
ritroveranno di fronte maggioranza e minoranza interna, nel corso di una direzione
convocata da Matteo Renzi subito dopo elezioni regionali che hanno lasciato l’amaro in
bocca. Sul tavolo non mancano i dossier caldi: dalla riforma della scuola a quella
costituzionale fino al reddito di cittadinanza. E siccome gli ultimi mesi sono stati
caratterizzati da un furioso duello tra correnti, anche il nodo delle regole interne e
l’eventuale nuovo organigramma da varare finiranno per accendere il dibattito.
Alla vigilia è soprattutto la minoranza a farsi sentire. Con toni e sfumature, però, che
mostrano una divaricazione anche nella sinistra dem. «La direzione del Pd non deve
diventare una resa dei conti - avverte ad esempio Cesare Damiano - Il governo si confronti
con il Parlamento e con le parti sociali, abbandonando la pretesa di asfaltare chiunque non
sia d’accordo».
Damiano apprezza alcune «aperture» sulla scuola, ma reclama ritocchi anche su pensioni
ed esodati. Modifiche sono necessarie pure sulla riforma costituzionale, rilancia il senatore
Vannino Chiti. «È auspicabile che Renzi voglia tenere nelle sue mani il confronto,
altrimenti il dialogo muore prima di cominciare».
Dopo lo strappo sull’Italicum, però, l’ala dialogante di Area riformista continua a lanciare
segnali. E a smarcarsi dalla componente più battagliera della sinistra dem: «Qualcuno
nella minoranza Pd, di cui io stesso faccio parte - rileva ad esempio il ministro Maurizio
Martina - pensa già ora al congresso. Mi pare un grave errore. Così si invertono le priorità
e si sbaglia la rotta, perché prima di tutto c'è la responsabilità di governo».
del 08/06/15, pag. 16
L’ultima offerta del premier: cambiamo il
Senato, senza melina
GOFFREDO DE MARCHIS
ROMA .
Cambiare verso alla riforma della scuola e alla legge costituzionale ma senza cedere sui
tempi. Matteo Renzi si avvicina alla direzione del Pd di stasera, la prima dopo le regionali,
con l’idea di evitare la resa dei conti, aprendo alla correzione di alcuni provvedimenti e
dialogando con l’ala più moderata della minoranza. Frenare dunque non vuole dire
rimandare l’approvazione dei testi. A cominciare dalla “buonascuola” sulla quale si
comincia a votare in commissione domani. «Niente rinvii, neanche sull’abolizione del
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Senato», dice ai suoi fedelissimi negli sms dal G7 in Germania. Però i voti del Pd servono.
Tutti o quasi tutti, in particolare a Palazzo Madama dove la maggioranza balla sul filo di 78 voti di vantaggio e la fiducia può diventare un azzardo dopo l’esperienza nella partita
della legge elettorale.
Allora, il premier si lascia sfuggire che il suo intervento al cospetto del parlamentino Pd
sarà «distensivo». Rivolto alla sinistra interna più disponibile al confronto: quella di
Cuperlo e dei “responsabili” di Maurizio Martina, persino quella di Roberto Speranza, l’ex
capogruppo che ha sbattuto la porta un mese fa. Diverso invece sarà l’atteggiamento
verso l’ala irriducibile che Palazzo Chigi riconduce ormai a quattro nomi simbolici: Bersani,
Bindi, Fassina e Gotor. A loro, senza citarli direttamente forse, verrà indirizzato un invito a
scegliere con chiarezza da che parte stare. Col Pd e dunque dentro la discussione interna
o ai margini del Pd pur senza minacciare misure disciplinari. Naturalmente, il progetto di
tenere dentro le minoranze passa per le proposte concrete che il premier-segretario farà
stasera.
Niente rinvii significa che non ha diritto di cittadinanza la proposta di alcuni dissidenti
(Gotor e Tocci in testa) di stralciare le assunzioni dei precari nel comparto scolastico
procedendo per decreto mentre il resto della riforma viene modificato preparando un
percorso molto più lungo al Senato. Però è giusto lavorare, per modificare, sul potere dei
presidi, sugli sgravi fiscali per i privati che investono negli istituti e sulle forme di
regolarizzazione per i tanti precari rimasti fuori dal progetto governativo. Sono alcune delle
richieste avanzate dai senatori ribelli e che saranno trasformate in emendamenti già in
commissione. Su alcune di queste materie l’esecutivo darà parere favorevole e la riforma
cambierà.
L’altro punto è l’abolizione del Senato. Un punto chiave per l’equilibrio democratico dopo
l’approvazione dell’Italicum, secondo le minoranze in questo caso piuttosto compatte.
Giorno dopo giorno, il premier ripensa alla forma rappresentativa del Senato così com’è
stata disegnata nella legge Boschi. In poche parole, considera possibile ora immaginare
un’assemblea elettiva e non di secondo grado, in modo che siano i cittadini a scegliere i
neosenatori. Se la sinistra mostrerà in qualche modo una disponibilità a trattare, Renzi
lavora a due possibili vie d’uscita. La prima: formare, al momento del voto per le regionali,
un listino di consiglieri che si sa da prima che andranno a occupare le poltrone di Palazzo
Madama. Una modifica che andrebbe fatta con legge ordinaria. La seconda, più radicale:
ridiscutere l’intero articolo 2, quello che definisce l’elezione dei senatori. Vorrebbe dire che
la riforma riparte dall’anno zero perché l’articolo 2 non è, a giudizio di quasi tutti i tecnici,
più modificabile. Ma se la prospettiva è arrivare davvero al 2018, ovvero a fine legislatura,
c’è anche lo spazio per ricominciare daccapo. Naturalmente la soluzione 1 è la preferita a
Palazzo Chigi perché impedirebbe ritardi nel percorso riformatore. Ma c’è da parte di
Renzi un’apertura al dibattito.
Quello che il segretario vuole evitare stasera è «una terapia di gruppo» su vittoria o
sconfitta alle regionali. Non esiste discussione, il 5 a 2 racconta un successo e i problemi
semmai vengono dopo questa presa d’atto. Per affermare il principio, il leader del Pd ha
anche deciso di smentire qualsiasi ipotesi di rivoluzione al vertice del partito. «Squadra
che vince non si cambia », è la sua posizione rispetto alle voci di rimescolamento di
incarichi. Niente vicesegretario unico, salvo sorprese dell’ultima ora. Dovrebbero rimanere
al loro posto sia Lorenzo Guerini sia Debora Serracchiani. Ettore Rosato, com’era
annunciato fin dall’inizio, andrà con ogni probabilità a occupare il posto che fu di Speranza
come capogruppo del Pd alla Camera. Semmai andrà rafforzato il controllo
sull’organizzazione potenziando il rapporto con i cosiddetti territori. La sconfitta di Raffaella
Paita e la vicenda contrastata di Vincenzo De Luca in Campania, dalle primarie in poi,
sono servite da lezione.
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del 08/06/15, pag. 1/19
Le elezioni della scorsa settimana hanno mostrato nuovi segnali di
distacco tra il Pd e la sua base elettorale nelle tradizionali roccaforti
della sinistra. Va meglio dove la fuga dalle urne è meno marcata
Effetto-astensione nelle regioni rosse così si
è svuotato il serbatoio dem
ILVO DIAMANTI
LE “Italie politiche” non sono più quelle di una volta. L’avevamo già osservato negli ultimi
anni. In seguito all’affermarsi di due nuovi fenomeni “nazionali”. Il M5S, alle elezioni
politiche del 2013, e il Pd di Renzi, il PdR, alle Europee del 2014. Consultazioni molto
diverse, per significato e regole. Ma in entrambi i casi avevamo assistito al ridursi delle
differenze storiche e territoriali del voto. L’anno scorso, in particolare, il Pd aveva prevalso
in quasi tutte le province italiane. Comprese quelle, storicamente ostili, del Nord-Est.
Compreso il Lombardo-Veneto, un tempo Demo-Socialista e, in seguito, Forza-Leghista.
Questa volta, però, qualcosa è cambiato di nuovo. In modo sensibile. Perché la Zona
Bianca (dove nella prima Repubblica aveva dominato la Democrazia Cristiana) è ancora
Forza-Leghista. O meglio, Lega- Forzista. Visto l’exploit della Lega e del governatore
uscente, Luca Zaia. Rieletto, con il sostegno di oltre il 50% dei votanti. Ma la Zona Rossa,
tradizionale regno del Pci e della sinistra post-comunista, oggi appare meno Rossa.
Sempre meno di sinistra. Certo, alle recenti elezioni, in tutte le “regioni rosse” – Toscana,
Umbria, Marche e, l’anno scorso, Emilia Romagna - si sono affermati i candidati di Centrosinistra. Tuttavia, dietro al bilancio misurato con criteri “maggioritari”, si scorge un
paesaggio politico profondamente mutato. Anzitutto, conviene rammentarlo, la vittoria in
Umbria è apparsa, all’inizio, incerta. E poi, soprattutto, nelle Regioni (un tempo) rosse
dove si è votato nell’ultimo anno, infatti, i candidati del Centrosinistra hanno perduto 8
punti e mezzo, tra i votanti, rispetto alle elezioni del 2010. E 1 milione e 200 mila elettori.
Mentre nell’insieme delle Regioni al voto hanno subito un calo molto più limitato: 3 punti e
mezzo. E circa due milioni di voti. A sottolineare che l’arretramento, nell’ultimo periodo, è
avvenuto soprattutto nelle terre un tempo “amiche”. Attraversate da segni di logoramento,
annunciati, con largo anticipo, dai più attenti osservatori di questo territorio politico. (In
particolare: Carlo Trigilia, Francesco Ramella e Mario Caciagli. E, in prospettiva diversa,
da Antonio Gesualdi.) D’altra parte, le reti associative e comunitarie, costruite e rafforzate
nei decenni, intorno all’organizzazione di massa del Pci, appaiono usurate e, talora,
lacerate. L’avvento, nel Pd, di Renzi ha prodotto l’ultimo strappo. Limitato, per un po’, dalla
“colla” dell’identità. Che, come si è detto, ha spinto gli elettori di sinistra a votare per il Pd
“nonostante” Renzi. Come altrove, in particolare nel Nord, ha indotto gli elettori di Renzi a
votare per il PdR “nonostante” il Pd. Ma oggi e da qualche tempo - questa convergenza di
elettorati - sempre più lontani, fra loro - non funziona più. E Renzi non riesce a intercettare
i diversi flussi del “voto nonostante”. Nelle Zone Rosse di una volta, in particolare, molti
elettori sfogano la loro delusione nel non-voto. Così, nelle 11 Regioni (a statuto ordinario)
che si sono recate alle urne nell’ultimo anno, il calo della partecipazione elettorale, rispetto
alle elezioni precedenti, appare sensibile: circa 11 punti in meno. Ma senza paragone con
quanto è avvenuto nelle cosiddette Zone Rosse, dove l’astensione è cresciuta quasi del
doppio. Cioè, di quasi 20 punti. In particolare, di 12-13 punti in Toscana e nelle Marche. E
37
addirittura di 30 in Emilia Romagna, lo scorso novembre. (Quando, peraltro, nell’altra
regione al voto, la Calabria, l’astensione risultò inferiore). Così, se si esamina l’andamento
del voto (non solo) nelle zone rosse rispetto alle elezioni precedenti, emerge, con una
certa chiarezza, come il Pd e il Centro-sinistra abbiano “tenuto” maggiormente dove la
fuga dalle urne è stata meno ampia. Meno profonda. Mentre alcuni settori del voto di
Centro-sinistra si sono orientati verso il M5S. Insomma: il Pd e il PdR non sembrano aver
trovato integrazione reciproca, al momento del voto, quest’anno. Le tensioni interne alla
base elettorale di Centro-sinistra si sono tradotte in fratture. Difficili da riassumere e tanto
più da saldare. Così, (come suggeriscono i flussi elettorali stimati dall’Istituto Cattaneo in
alcune importanti città) una parte degli elettori del Pd, (non solo) nelle Regioni Rosse, ha
preferito non votare, piuttosto che votare per il PdR, il Partito di Renzi. Oppure ha scelto il
M5S. Il voto del “disagio”. Della protesta contro “Roma capitale”. Intesa, come il Partito e il
governo centrale.
I segnali del distacco degli elettori dai loro riferimenti politici tradizionali, in quest’area, si
erano, peraltro, già manifestati, in modo eclatante, in altre recenti elezioni amministrative.
Quando, negli ultimi anni, erano già cadute alcune roccaforti storiche della Sinistra. Fra le
altre: Livorno, Perugia, Urbino.
Sull’altro versante, nel Centrodestra, è, invece, cresciuta la Lega, come abbiamo già
sottolineato. Il Forza-Leghismo si è trasformato in Lega-forzismo. Anche nelle zone rosse.
Quel “gran pezzo dell’Emilia”, raffigurato con tanta efficacia da Edmondo Berselli, lo
scorso novembre, attribuì al candidato leghista circa il 30% dei voti. Mentre in Toscana,
Umbria e nelle Marche, la Lega ha superato, largamente, quel che resta di Fi. D’altra
parte, l’insicurezza si è diffusa anche in queste aree. E il “collezionista delle paure”, come
Ezio Mauro ha definito Matteo Salvini, ha incontrato un seguito crescente. Anche in
quest’isola non più felice.
Così, oggi, la geografia elettorale che ha caratterizzato l’Italia nel dopoguerra - e fino
all’inizio di questo decennio - si conferma in profondo mutamento. E, in parte, si distingue
e distanzia rispetto a quanto avevamo osservato un anno fa, in occasione delle elezioni
europee. Perché, rispetto ad allora, si osserva il riemergere delle aree “verde-azzurro”. In
particolare dove, un tempo, c’era la zona bianca. Cioè: in Veneto. Ma, in generale,
ritroviamo le radici di Centro-Destra diffuse in tutto il Nord. Nel Lombardo-Veneto,
soprattutto. E, (di nuovo) anche in Liguria. Mentre le regioni rosse dell’Italia centrale si
sono scolorite. Oggi disegnano e designano, al più, una “zona rosa-pallido”.
Così, diventa difficile capire e pre-vedere le mappe e le gerarchie elettorali future del
nostro Paese. L’ho già scritto, ma mi sembra, comunque, utile ripeterlo. Ogni elezione
futura, di qualunque tipo, ormai, è un “salto nel voto”. In un Paese, ogni volta, diverso.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 08/06/15, pag. 2
“Tagli ai sindaci che accolgono migranti”
Bufera su Maroni. Renzi: Ue insufficiente
Scontro tra i governatori del Nord Chiamparino: “Solo
strumentalizzazioni” E Fassino attacca: minacce inaccettabili
ANDREA MONTANARI
MILANO .
I governatori del Nord si dividono sull’arrivo di nuovi immigrati previsto da una circolare del
ministro dell’Interno Angelino Alfano. Il leghista Roberto Maroni dalla Lombardia annuncia
una lettera di diffida ai prefetti e minaccia i sindaci lombardi: «Se dovessero accoglierli, gli
ridurremo i finanziamento regionali, come disincentivo, perché non devono farlo e chi lo
va, violando la legge, subirà questa conseguenza». Non contento lancia su Twitter un
sondaggio sul gradimento della sua proposta. Il diktat di Maroni segue quello del
governatore veneto del Carroccio Luca Zaia: «Smettiamola con l’illusione di poter
sopportare e gestire un esodo biblico». Al coro si aggiunge anche il neo presidente della
Liguria Giovanni Toti di Forza Italia. Pronta la reazione del premier Matteo Renzi, che dal
G7 in Germania replica: «Basta demagogia e scaricabarile. Qualcuno di loro era al
governo quando si sono scritte le regole che non stanno funzionando». Un riferimento
preciso a Maroni, che da ministro del Lavoro sottoscrisse la prima versione del
regolamento di Dublino. «L’Italia ha scelto una strategia — ha aggiunto il presidente del
Consiglio — Qualche governatore del nord dovrebbe saperlo ». Poi l’appello: «Mi
piacerebbe che tutti riconoscessero che il problema dell’immigrazione è una sfida di tutto il
paese e cercassero di aiutare a risolvere il problema invece di lucrare mezzo voto. Così,
invece, danneggiano l’Italia». Perché «è difficile parlare di immigrazione e chiudere un
coinvolgimento dell’Ue quando alcune regioni del tuo paese ti dicono che il problema non li
riguarda».
L’iniziativa di Maroni ha suscitato immediate reazioni nel mondo politico. Il presidente della
Conferenza delle Regioni e governatore del Piemonte Sergio Chiamparino definisce
«strumentale» la proposta del governatore lombardo. Aggiunge che «se Maroni volesse
continuare a procedere su questa linea, allora sarebbe più giusto che il governo togliesse
alla Lombardia, al Veneto e ad altre regioni che condividono queste posizioni i
finanziamento che vuole togliere ai comuni che ospitano i profughi».
Il ministro dell’Interno Angelino Alfano commenta con sarcasmo: «Vorrei tranquillizzare il
mio predecessore Roberto Maroni: farò ciò che fece lui al mio posto e chiederò ai sindaci
ciò che ha chiesto lui il 30 marzo del 2011 in piena emergenza immigrazione. Lui ha oggi
gli stessi poteri e gli stessi do- veri che avevano i presidenti delle regioni quando
parlavano con l’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni».
Per il sindaco di Torino e presidente dell’Anci Piero Fassino «non è nei poteri di un
presidente di regione decidere quale politica di accoglienza dei profughi persegue il nostro
paese. Tanto meno è accettabile che si minaccino in modo ritorsivo, e illegittimamente,
riduzioni di risorse ai comuni che ospitano i profughi». Anche il leader della Fiom Maurizio
Landini bolla come «barbaro » il modo con il quale si sta affrontando il tema
dell’immigrazione. «Non si può adottare una logica di condominio, chiudere la porta del
condominio e risolvere il problema ». Critiche a Maroni anche dalla Cgil. Ferma anche la
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presa di posizione dell’Ncd Fabrizio Cicchitto: «Non è che adesso Maroni possa fare una
sorta di contro-Stato con tre regioni che hanno presidenti di centrodestra: sarebbe
devastante dal punto di vista istituzionale». Mentre il vice segretario del Pd Debora
Serracchiani, governatore del Friuli Venezia Giulia, si domanda: «Con che faccia Maroni e
chi la pensa come lui vorrebbero protestare per l’assenza dell’Europa e chiedere aiuto
degli altri stati, quando intendono comportarsi esattamente allo stesso deprecabile
modo?».
del 08/06/15, pag. 2
Il Viminale all’ex ministro “Fu lui a inventare
le quote ora i prefetti in campo contro le
Regioni ribelli”
ALBERTO D’ARGENIO
VLADIMIRO POLCHI
ROMA . «Se Maroni proverà davvero a bloccare i migranti la reazione del governo sarà
durissima ». Tra Palazzo Chigi e il Viminale i giudizi che si sprecano sul presidente
lombardo sono tutt’altro che benevoli. Il sospetto di Matteo Renzi, ieri impegnato nel G7 in
Baviera, e di Angelino Alfano è che l’offensiva sui rifugiati dell’ex numero uno della Lega
miri a «reagire» allo scandalo giudiziario, legato ai viaggi e ai contratti di lavoro ottenuti
dalle amiche dei governatore, che negli ultimi giorni ha rumorosamente invaso il circuito
mediatico italiano.
Eppure l’esecutivo prende sul serio la minaccia di Maroni, dettata o meno da ragioni di
immagine, di tagliare i fondi ai sindaci che accoglieranno i migranti. Al punto che più di un
ministro nei contatti telefonici domenicali garantiva che di fronte ad una «ritorsione
istituzionale» dei governatori del Nord «si aprirebbe un contenzioso istituzionale di
massima gravità al quale reagiremmo con misure straordinarie ». Praticamente forzando
le regioni ribelli — oltre a Maroni sul piede di guerra ci sono anche il veneto Zaia e il ligure
Toti — a farsi carico degli stranieri in arrivo dalle coste del Mezzogiorno.
D’altra parte al ministero degli Interni si ricorda che la direttiva che impone la spartizione
dei migranti risale al 2011 e fu firmata proprio da Roberto Maroni, ai tempi ministro
dell’Interno di Berlusconi. «E come allora, nemmeno oggi possiamo lasciare da soli i
sindaci solidali, per nessuna ragione al mondo», era il ritornello che ieri Alfano andava
ripetendo ai collaboratori sbalordito per la sortita del suo predecessore al Viminale. Proprio
oggi il ministro parlerà con i presidenti dell’Anci e della Conferenza delle regioni, Fassino e
Chiamparino, per fare il punto della situazione, convinto che i governatori ribelli non
abbiano i poteri per bloccare l’accoglienza dei migranti.
La minaccia oltretutto — almeno questa è la convinzione del governo — danneggia
l’immagine dell’Italia proprio mentre Renzi è impegnato nella battaglia europea per
distribuire tra tutti i partner dell’Unione i migranti che sbarcano in Italia e in Grecia. Oggi
Alfano riceverà a Roma il commissario europeo all’Immigrazione Dimitris Avramopoulos, la
cui visita era già fissata da giorni. Ma il ministro ne approfitterà per rassicurarlo sulla
capacità italiana di gestire la situazione per poi rilanciare sul piano approvato da Bruxelles
proprio su spinta del responsabile greco e ora al vaglio dei governi.
Roma è piuttosto ottimista sul fatto che alla fine, dopo qualche modifica al testo, Francia e
Spagna accetteranno la ripartizione dei richiedenti asilo sbloccando la partita europea,
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anche se portare a casa il risultato non sarà una passeggiata. Tanto che a Palazzo Chigi
si prevede che l’ac- cordo non arriverà al vertice dei ministri dell’Interno del 15 giugno, ma
sbarcherà sul tavolo dei leader al Consiglio europeo del 25. Con l’Italia non solo
determinata a far passare le quote, ma intenzionata a chiedere la riallocazione di un
numero superiore rispetto ai 24 mila migranti previsti dal piano di Bruxelles e a pressare
affinché a fine anno la Commissione presenti, come da calendario, il piano per rendere
permanente la redistribuzione (per ora programmata per soli due anni) cambiando alla
radice i regolamenti di Dublino. Non a caso ieri Renzi allo Schloss Elmau dopo avere
pubblicamente affermato che quanto fatto finora da Bruxelles è solo un primo passo,
confidava ai suoi: «Serve un ragionamento strategico in Europa e la partita ce la
giochiamo al summit di fine mese».
Ma aspettando l’Europa l’onda degli sbarchi continua a investire le coste italiane e i tecnici
dell’Interno si preparano allo scontro con i governatori ribelli. Al Viminale non accennano a
un passo indietro, ricordano che già all’indomani del voto amministrativo, lo scorso primo
giugno, il ministero ha scritto ai prefetti per chiedere l’attivazione urgente di almeno 7.500
posti in più. Destinatarie soprattutto le regioni del Nord come Veneto e Lombardia, che si
erano fino a quel momento sfilate dal piano di distribuzione dei profughi. Ora la rivolta di
quattro regioni (Lombardia, Veneto, Liguria e Val d’Aosta) riaccende lo scontro. «I
governatori non hanno alcuna competenza nelle politiche d’accoglienza — spiegano dal
ministero di Alfano — e per noi non cambia nulla: andremo avanti con i pullman per
distribuire chi arriva sulle coste del Sud in modo uniforme su tutto il territorio». Linea
confermata dal presidente dell’Anci, Piero Fassino: «Non è nei poteri di un governatore
decidere la politica di accoglienza del Paese».
Per il Viminale la road map resta quella fissata dal Piano nazionale d’accoglienza del 10
luglio 2014, concordato insieme alle Regioni: i rifugiati vengono distribuiti in maniera
equilibrata tenendo conto della popolazione, del Pil e del numero di migranti già ospitati. A
chi spetta il peso maggiore? Prima di tutto alla Lombardia. «Se le regioni si opporranno —
fanno sapere ora dal ministero — faremo partire una nuova circolare ai prefetti e
costringeremo ciascuno a fare il suo. Noi non ci fermiamo».
del 08/06/15, pag. 1/25
La pugnalata alle spalle
ANDREA BONANNI
BRUXELLES
LA PUGNALATA alle spalle che Roberto Maroni si è divertito a dare all’Italia forse gli
consentirà di competere con le ruspe di Matteo Salvini sul piano dell’infamia, ma avrà un
unico effetto pratico.
QUELLO di aumentare il numero di migranti che il Paese, e quindi anche la sua regione,
sarà potenzialmente chiamato ad ospitare. Da una parte infatti il presidente della
Lombardia vorrebbe che prefetti e Comuni disattendessero le regole che lui stesso,
quando era ministro dell’Interno del governo Berlusconi, ha approvato e fatto applicare.
Dall’altra la sua sortita, prontamente appoggiata dagli altri due tenori della destra
regionale, Toti e Zaia, ha come unico risultato certo quello di indebolire la battaglia che il
governo italiano e la Commissione europea stanno combattendo per convincere l’Europa
a condividere il peso di questa ondata migratoria.
Il 15 e 16 giugno, i ministri degli interni dell’Unione europea dovranno discutere e votare
una proposta della Commissione che potrebbe “alleggerire” l’Italia di 24 mila profughi da
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redistribuire tra gli altri Paesi europei sulla base di un sistema di quote obbligatorie. Non è
moltissimo, certo, e l’ha riconosciuto lo stesso Matteo Renzi, sottolineando che questa
Europa non fa abbastanza. Ma è pur sempre qualcosa. E comunque un voto favorevole
affermerebbe il principio rivoluzionario che, in una situazione di emergenza, tutti i partner
europei sono obbligati a dare prova di solidarietà non solo in campo economico, come è
avvenuto finora, ma anche in materia di immigrazione, diritti umani e ordine pubblico: temi
finora gelosamente custoditi nel perimetro delle sovranità nazionali. Proprio per questo
motivo, molti governi sono contrari alla proposta della Commissione e il voto si
preannuncia difficile. Ora la sortita di Maroni offre uno straordinario assist a quanti
vorrebbero lasciare sola l’Italia a fronteggiare l’emergenza.
Con quali credenziali, infatti, Matteo Renzi al G7 e Angelino Alfano alla riunione del 15
giugno possono pretendere dai partner europei una solidarietà che viene negata all’interno
stesso del Paese che rappresentano? Perché la Lituania o il Portogallo dovrebbero
prendersi dei rifugiati provenienti dalla Sicilia quando la Lombardia, o il Veneto, o la Liguria
rifiutano di farlo?
Quando era ministro dell’Interno del governo Berlusconi, Roberto Maroni condusse una
campagna, molto mediatizzata in Italia ma ben poco ascoltata all’estero, accusando
l’Europa di non volersi far carico del problema immigrazione. I suoi sforzi diplomatici,
ammesso che siano mai andati al di là di incendiarie dichiarazioni sui media italiani, non
cavarono un ragno dal buco. L’Europa rimase sorda alle richieste italiane, anche a causa
della scarsa credibilità del governo che le avanzava.
Ora, per la prima volta, il governo di Matteo Renzi è riuscito a smuovere le acque europee.
Grazie anche alla diversa sensibilità del presidente della Commissione Juncker rispetto al
suo predecessore Barroso (voluto da Berlusconi), Bruxelles si è schierata con Roma
nell’esigere che l’Italia e la Grecia non vengano lasciate sole. Ma ecco che, proprio nelle
settimane cruciali in cui si sta decidendo la sorte del voto del 15 giugno, Maroni torna alla
ribalta e, con due tweet ben piazzati e largamente ripresi dalle agenzie straniere, fa uno
sgambetto al proprio Paese che potrebbe rivelarsi disastroso.
Se il 15 e 16 giugno la proposta della Commissione non passerà, l’Italia si dovrà fare
carico di 24 mila migranti che sarebbero stati altrimenti smistati in Europa. E tutti noi
potremo ringraziare Roberto Maroni e i suoi colleghi. Se si abbassasse ad applicare la
stessa logica di ritorsione seguita dal presidente lombardo (e fortunatamente non lo farà),
il governo Renzi dovrebbe destinare tutti i 24 mila a Lombardia, Liguria e Veneto. Se li
sarebbero ampiamente guadagnati.
del 08/06/15, pag. 1/8
Il piano del Viminale: in 5 mila trasferiti al
Nord
I pullman partiranno nelle prossime ore. Il ministero è pronto a utilizzare
anche le caserme come centri profughi
ROMA Lo scontro è durissimo, la scelta già fatta. Le quote di distribuzione dei migranti
dovranno essere rispettate senza alcuna eccezione. E dunque la riunione convocata per
questa mattina al Viminale servirà a mettere a punto il piano operativo delineato in queste
ultime ore. Ci si muove su due fronti: il trasferimento dei profughi in quelle Regioni che non
hanno raggiunto la massima capienza e — se dovessero mancare altri posti — la
requisizione degli edifici pubblici, caserme comprese, dove ospitare gli stranieri. Ormai
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siamo su cifre record, con 52.671 approdati e oltre 80 mila da assistere. Per questo il
ministro Angelino Alfano risponde chiaro all’attacco del governatore della Lombardia
Roberto Maroni: «Vorrei tranquillizzarlo, farò ciò che fece lui al mio posto e chiederò ai
sindaci ciò che ha chiesto lui il 30 marzo del 2011 in piena emergenza immigrazione. Lui
ha oggi gli stessi poteri e gli stessi doveri che avevano i presidenti delle Regioni quando
parlavano con l’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni».
Regole e clandestini
Il riferimento è all’accordo siglato da Maroni con gli enti locali «per affrontare l’emergenza
profughi attraverso uno sforzo comune affinché fino a 50 mila profughi siano equamente
distribuiti nel territorio nazionale, in ciascuna Regione escluso l’Abruzzo (che aveva subito
il terremoto, ndr )». Non solo. L’intesa prevedeva che l’impegno del governo per
«assicurare un criterio di equa e sostenibile attribuzione degli immigrati che risultassero
clandestini, sentiti gli enti territoriali interessati». I testi dei due patti siglati da Maroni, resi
noti ieri dal Viminale, dimostrano dunque come l’unico modo per affrontare i momenti di
massima criticità sia quello di una collaborazione piena in modo da evitare che alcune
Regioni vadano in sofferenza, proprio come sta accadendo negli ultimi mesi in Sicilia, in
Puglia, in Calabria e in parte in Campania e nel Lazio. E invece, secondo gli ultimi conti, in
Lombardia sono stati negati almeno 2 mila posti, altri 1.500 in Veneto.
I trasferimenti
Proprio per cercare di riequilibrare la situazione già domani potrebbe cominciare il
trasferimento in pullman delle persone appena arrivate e sistemate nei centri del Sud
Italia. Si tratta complessivamente di oltre 5 mila migranti salvati nelle ultime 48 ore da
numerose navi italiane e straniere e portati tutti nel nostro Paese. Una sorta di
accompagnamento coatto e poi toccherà ai prefetti fare la distribuzione sul territorio di
propria competenza. Del resto la circolare partita dal Viminale la scorsa settimana
chiedeva la messa a disposizione di 7.500 posti ed evidenziava in maniera esplicita
l’obbligo per le Regioni del Nord di rispettare le quote previste. Dunque si procederà già
nelle prossime ore. Al termine della riunione con il ministro, che oggi incontrerà anche il
commissario per l’immigrazione dell’Unione Europea Dimitris Avramopoulos, toccherà al
prefetto Mario Morcone mettere a punto i dettagli operativi. Dopo lo «sfollamento» delle
strutture del Sud si esaminerà l’elenco degli edifici pubblici per decidere l’eventuale
requisizione.
I campi profughi
L’attenzione rimane puntata sugli edifici e sulle caserme del Nord, anche tenendo conto
che l’intesa con Comuni e Regioni prevedeva l’individuazione delle aree entro la fine del
mese dove poter allestire i campi in vista di un’estate che certamente sarà segnata da
migliaia di sbarchi. Veri e propri centri di raccolta dove ospitare fino a 400 persone che
dovranno essere — come le altre strutture — equamente distribuiti in tutta Italia. Nella lista
ci sono pure alcune caserme, anche se finora si è preferito evitare questo tipo di
sistemazione. «Mi confronterò con i rappresentanti degli enti locali, Piero Fassino e Sergio
Chiamparino, e certamente troveremo una soluzione», dichiara sicuro Alfano.
Fiorenza Sarzanini
del 08/06/15, pag. 4
“Libia, mezzo milione pronti a partire”
ROMA .
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Non rallenta la corsa degli arrivi via mare. Dopo i 3.500 migranti messi in sicurezza sabato
dal dispositivo navale di Frontex, anche ieri sono proseguite senza sosta le operazioni di
soccorso: quasi 2.400 (per la precisione 2.371) le persone salvate, mentre navigavano su
15 imbarcazioni a 50 miglia dalle coste libiche. E all’orizzonte si annuncia un’estate
bollente: stando al quotidiano Guardian, che cita il comandante della Hms Bulwark (la
nave della Royal Navy impegnata nel salvataggio in Mediterraneo), in Libia ci sarebbero
«tra 450.000 e 500.000 migranti» in attesa di partire.
Le rotte via mare si intensificano, dunque, e le modalità paiono ripetersi: le richieste di
aiuto arrivano attraverso telefonate satellitari alla sala operativa della Guardia costiera,
quando i barconi si trovano ancora vicini ai porti di partenza, spesso prima ancora che ci
sia una reale situazione di pericolo. La macchina dei soccorsi, coordinata dal comando
generale delle Capitanerie di Porto a Roma, si mette in moto e smista gli interventi. Così è
accaduto ieri: dalle prime ore della mattina, navi italiane e di altri Paesi europei hanno
risposto a 15 chiamate da parte di imbarcazioni (12 gommoni e tre barconi) cariche di
migranti.
Sono state impegnate la nave della Marina britannica “Bulwark”, la nave di Medici senza
frontiere “Bourbon Argos” e alcuni mezzi di Frontex, in particolare una nave inglese, una
svedese, una spagnola, la nave della Marina italiana “Fasan”, la nave “Dattilo” della
Guardia costiera, un pattugliatore maltese e un mercantile.
Nessuna vittima, anche grazie alle buone condizioni del mare. Oggi oltre mille migranti
verranno sbarcati in Calabria: la nave “Driade” arriverà a Corigliano Calabro con 475
profughi, mentre la nave “Vega” porterà a Crotone altri 610 migranti.
Intanto la conta non si ferma: dall’inizio dell’anno, il totale degli arrivi via mare avrebbe
ormai superato quota 50mila, registrando un’impennata di oltre il 12% rispetto allo stesso
periodo del 2014.
( vla. po.)
del 08/06/15, pag. 5
Renzi alla Ue: sui migranti così non va
Il premier: demagogia da chi polemizza sull’accoglienza per qualche
voto in più facendo male all’Italia Bocciata la proposta europea
«largamente insufficiente». Sulla Grecia: indispensabile che faccia le
riforme
DAL NOSTRO INVIATO GARMISCH Matteo Renzi è in Germania accanto alla Merkel e
ad Hollande, dice che l’Europa non sta facendo la sua parte, che i «prossimi 20 giorni
saranno decisivi» per verificare se davvero Bruxelles è in grado di definire una politica
comune dell’immigrazione, ma nel frattempo in Italia a fare notizia è Roberto Maroni, che a
sorpresa «diffida» i Comuni lombardi dall’accogliere altri migranti e addirittura minaccia di
tagliare i trasferimenti regionali a quegli enti che non dovessero adeguarsi alle sue
decisioni.
L’iniziativa del governatore della Lombardia ovviamente ha un'eco anche al G7, Matteo
Renzi vi dedica gran parte del suo incontro con i giornalisti. In sintesi, è la risposta del
premier, quella di Maroni «demagogia che fa male all’Italia, demagogia che cerca di
lucrare mezzo voto in più», e invece «mi piacerebbe che tutti riconoscessero che il
problema dell’immigrazione è una sfida di tutto il Paese e tutti cercassero di aiutare a
risolvere il problema».
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Renzi non è tenero con Maroni, ma nemmeno con l’Unione Europea. A pranzo ne ha
discusso con i vertici della Ue, presenti al vertice, nel pomeriggio di fronte alle telecamere
per la prima volta giudica del tutto insufficienti gli sforzi attuali della Commissione europea:
«Le proposte che ha fatto sulla suddivisione dei migranti al momento sono largamente
insufficienti. È un primo passo ma ancora non ci siamo. Sui migranti servono regole per
non lasciare l’Italia da sola» e su questo «stiamo cercando di coinvolgere i nostri partner
europei».
Insomma l’Italia si prepara a giocare le sue carte in vista del Consiglio europeo di fine
mese, Renzi cerca di rilanciare gli auspici di un accordo, sottolineando però che le bozze e
le trattive attuali sono largamente «insufficienti, così come l’accoglienza di appena 24 mila
persone fra siriani ed eritrei», ipotesi non convergente con gli interessi nazionali. Insomma
se il piano europeo traballa, se a fine mese l’Europa potrebbe spaccarsi, intanto Roma
rilancia, dicendosi largamente insoddisfatta delle proposte sul tavolo.
Ovviamene la polemica interna non aiuta e Renzi lo dice chiaramente: basta con la
«filosofia dello scaricabarile e giocare con la demagogia. Non basta fare comunicati
stampa e slogan per risolvere il problema dell’immigrazione», anche perché «alcuni di quei
governatori che si lamentano erano al governo quando è stata decisa la politica che ha
condotto alle attuali regole, è difficile parlare di immigrazione e chiedere un coinvolgimento
dell’Ue quando alcune Regioni del tuo Paese dicono che il problema non li riguarda».
«L’Italia ha scelto — continua Renzi — e qualche governatore dovrebbe saperlo perché
faceva il ministro, una strategia di politica sull’immigrazione che ha portato agli accordi di
Dublino. Secondo me queste regole non ci aiutano ad affrontare il problema perché
lasciano l’Italia da sola. Ma sono regole che qualcuno in passato ha voluto. Così come
alcuni di quei governatori che oggi si lamentano sono stati membri di un governo che ha
fatto tutte le scelte di politica estera come la scelta in Libia. La verità ha la memoria lunga
e i fatti parlano da soli», ha detto il presidente del Consiglio.
Poco prima Renzi aveva espresso anche il suo giudizio sulla situazione greca,
augurandosi che si faccia di tutto per evitare l’uscita di Atene. «Però serve buon senso
anche da parte del governo greco. È impensabile che gli italiani accettino il taglio delle
baby pensioni e che gli europei le paghino ai greci».
Marco Galluzzo
dell’08/06/15, pag. 6
Mafia Capitale, un sindaco anti–immigrati
accusato di prendere tangenti sui rifugiati
E Odevaine aveva inventato un Consorzio tra Comuni per aprire il
centro di Mineo e avere fondi
Francesco Grignetti
Sull’assistenza ai profughi, secondo quanto sta scoprendo l’inchiesta Mafia Capitale, non
c’è soltanto l’avidità di chi ci specula, corrompe per accaparrarsi gli appalti, pretende una
tangente pro-capite. C’è anche molta doppiezza. Ci sono sindaci, vedi quello Fabio Stefoni
di Castelnuovo di Porto, vicino Roma, che da una parte strepita contro un centro di
accoglienza, dall’altra però si fa convincere con la promessa di una tangente da 50
centesimi a profugo. Buzzi stesso, intercettato, ne prova ribrezzo: «Allora io stamattina ho
chiamato il sindaco, e gli ho detto “guarda, c’è 950 persone senza onori, perché
praticamente... se apriamo noi c’è una serie di garanzie... qui stanno tutti ammucchiati...
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c’hai soltanto (inc.) e nient’altro”. “Ah, io ora scrivo al Ministero, li caccio via tutti”. Piripin...
le solite cazzate che dice Stefoni che magari va giù e se mette co’ na tanica de benzina...
e c’ha questi atteggiamenti suoi che praticamente preoccupano la Prefettura».
Il Cara di Mineo
È da scrivere ancora la vera storia del centro di assistenza ai rifugiati di Mineo, in provincia
di Catania. Un’intercettazione di Luca Odevaine ha messo nei guai il sottosegretario
Giuseppe Castiglione. Il quale accenna nelle sue interviste alle garanzie che aveva avuto
dal ministero dell’Interno, quanto a Odevaine. In effetti l’uomo ha contatti di altissimo
livello. Nella medesima intercettazione parla anche di quanto accadde nel 2012, ai tempi
del governo Monti. «Il Ministero lo voleva chiude...per cui io mi incontrai con il
Ministro...allora era la Cancellieri, che venne a Mineo...perché poi alla fine il referente per
Mineo ero io... perchè Castiglione...cioè lui era il soggetto attuatore... però poi lui a sua
volta... mi ha subdelegato a me ... a gestire tutta quella...(inc)...quindi io ho incontrato poi
la Cancellieri». Odevaine presumibilmente incontra il ministro a Mineo in una visita ufficiale
a metà luglio 2012. Quel centro è da sempre una spina nel fianco del ministero
dell’Interno. Sono polemiche continue sulla bassa qualità dell’accoglienza, ma anche sui
costi. Ed ecco come Odevaine, parlando a ruota libera con il suo sodale Stefano Bravo,
ricostruisce i diversi passaggi: «Costava 42-43 euro allora, per cui abbia..abbiamo portato
a 35 euro che è l’importo nazionale...però lei mi disse (n.d.r. fa riferimento al Ministro
Cancellieri): “dottore però lei... va bene se lei mi trova un soggetto... pubblico... che faccia
da interfaccia tra il Ministero ed i privati che lo gestiscono, perchè noi non vogliamo
direttamente fare una gara (si accavallano le voci)...ed avere a che fare con i privati... per
cui in questo momento c’è la Provincia in quanto soggetto attuatore”. La Provincia
scompariva...perchè comunque commissariata...Castiglione se ne è andato perchè è
andato a fare altro... ed io mi sono inventato questo Consorzio dei Comuni».
Consorzio inventato
Odevaine inventa dunque un consorzio di Comuni che si mettono assieme, diventano
soggetto attuatore, e gestiscono un appalto da 100 milioni di euro. Quello stesso appalto
che il commissario anticorruzione, Raffaele Cantone, considera illegittimo e sospetto e che
soltanto due giorni fa, finalmente, è stato rimesso in discussione da un paio di sindaci della
zona. Sì, perché i rifugiati sono impopolari, ma sono un bel business. Morale di Odevaine:
«All’inizio non volevano il Centro... adesso se provi a levarglielo... te ammazzano». Bravo:
«Embè so’ soldi per loro... immagino». Odevaine: «Trecentocinquanta persone ci
lavorano».
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WELFARE E SOCIETA’
dell’08/06/15, pag. 12
Il lavoro in carcere antidoto alla recidiva
Se due filosofi come Kant e Hegel sentissero parlare di depenalizzazione e di abolizione
del carcere, avrebbero di che discutere: la pena, per i due grandi pensatori tedeschi,
ristabiliva l’equilibrio sociale violato, quindi ne era necessaria la sua piena esecuzione.
Chi è stato capace di spostare l’attenzione sulla concezione della pena che è alla base
degli ordinamenti giuridici più civili e avanzati è stato il nostro Cesare Beccaria.
All’illuminato giurista milanese interessava più del reo e del suo recupero che
dell’equilibrio sociale violato: è nata così la concezione rieducativa della pena, che ispira la
nostra stessa Costituzione e, in particolare, il suo articolo 27.
Tornando ai giorni nostri e riflettendo sul nostro sistema penitenziario, negli ultimi anni ne
abbiamo scoperto – anche per via dei richiami della Ue – molti malfunzionamenti: dal
problema del sovraffollamento, alla fatiscenza di molte strutture di esecuzione penale, alla
poca capacità che il settore dell’amministrazione penitenziaria ha di sviluppare misure
alternative alla pena, in particolare il lavoro; si consideri però che ciò forse necessita di
competenze che non fanno propriamente capo alla Giustizia e che possono essere
integrate con il Welfare e il Lavoro.
L’ultima rilevazione al 31 marzo 2015 ci dice che nelle nostre carceri sono presenti 54.122
detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 49.494. Siamo quasi allineati agli
standard, le sanzioni minacciate dalla Ue hanno sortito il loro effetto circa i problemi del
sovraffollamento, riportando i tassi di detenzione in linea con gli altri Paesi europei
(Germania, Francia e Inghilterra).
Per quanto riguarda la poca capacità di sviluppare misure alternative alla pena – il lavoro
in particolare – è chiaro che a chi amministra la giustizia può essere molto utile un
supporto integrato: il coinvolgimento di imprese e la gestione del matching tra domanda e
offerta di lavoro sono specialità un po’ più familiari a chi si occupa di politiche del lavoro e
di welfare.
Al di là del problema del sovraffollamento, è chiaro che se non si fa nulla per rendere il
luogo di esecuzione della pena meno fatiscente e si resiste a coinvolgere chi è abituato a
fare con successo interventi di politica attiva del lavoro difficilmente il carcere potrà
diventare un luogo più efficace nella rieducazione.
Il carcere non riabilita di per sé, non esclude di per sé, non riproduce delitti di per sé. È
l’assenza di un percorso rieducativo che genera esclusione e riproduce delitto. Stupiscono
quindi le proposte, più o meno velate, che ricadono sotto lo slogan di abolire il carcere: per
la serie, buttiamo il bambino con l’acqua sporca.
In realtà modelli ed esperienze non mancano, sia in Italia che all’estero. A dire il vero,
Germania, Francia e Inghilterra fanno più ricorso di noi alla detenzione: sono così meno
esposti a fenomeni di corruzione e di criminalità organizzata.
Nel dicembre 2011 il Parlamento europeo ha approvato la Risoluzione sulle condizioni
detentive nell’Unione europea. Nel testo approvato si sottolinea la necessità che, anche
nell’ambito di limitazioni alla libertà personale imposte dal diritto nazionale, devono essere
rispettate, secondo le modalità specificatamente previste a livello territoriale nel rispetto
delle indicazioni del Consiglio, le attività di rieducazione, istruzione, riabilitazione e
reinserimento sociale e professionale, anche con riferimento al lavoro in generale. La
risoluzione, inoltre, prevede una particolare attenzione alle attività di tipo informativo,
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rivolte ai detenuti al fine di esplicitare i mezzi esistenti per preparare il loro reinserimento
(orientamento e accompagnamento alla ricerca attiva di lavoro).
Come si evince, il lavoro è ritenuto la via della rieducazione. Considerando che, nel 98%
dei casi, chi esce dal carcere inserito nel lavoro in carcere non torna più (dato Italia
Lavoro), è facile comprendere come un detenuto che non torni più a delinquere sia un
successo anche per i conti dello stato.
Diamoci da fare per rendere il carcere sempre più rieducativo. Beccaria ne gioirebbe, ma
anche Kant e Hegel non ne sarebbero poi così dispiaciuti.
Giuseppe Sabella
del 08/06/15, pag. 26
L’impiegato di medio livello è in crisi: travolto sul piano professionale
ed esistenziale Incalzato dalla crescita delle donne: più colte più
studiose e sempre più proiettate verso il futuro È così che i maschi
stanno diventando il vero sesso debole?
Gli inadeguati
MARIA NOVELLA DE LUCA
IMASCHI sono diventati il sesso debole? Non ancora, ma quasi. E questa volta la guerra
dei generi non c’entra, né qualche altra confusa teoria sull’evanescenza dei ruoli e dei
sentimenti. A scrivere infatti l’ultimo epitaffio sulla “fine dell’uomo”, suffragato da una griglia
di dati e cifre, è stato a sorpresa qualche giorno fa il settimanale inglese Economist,
piazzando in copertina un lugubre omino che sembra schiacciato dalla forza degli eventi.
Un uomo medio, impiegato di medio livello, più travet che quadro, il cosiddetto “blue-collar”
che oggi appare travolto dalla propria inadeguatezza, sia professionale che esistenziale.
Incalzato dalla crescita impetuosa e inarrestabile delle donne: più colte, più preparate, più
studiose, più tenaci, ma soprattutto dotate di quell’intelligenza multipla e plastica che le
renderà sempre più competitive nelle professioni del futuro prossimo. E dunque, profetizza
l’ Economist, visto che nel giro di non più di 10 anni molte professioni maschili, basate più
sulla forza che sull’abilità, verranno spazzate via, senza pietà, da una rivoluzione
tecnologica di impatto pari a quella della rivoluzione industriale, il povero uomo sembra
destinato al viale del tramonto.
Magari è una provocazione futuribile. Certo però sepolte le catene del Novecento, il
“secondo sesso” di Simone De Beauvoir, cioè il mondo femminile, potrebbe in breve
compiere un sorpasso storico. Così almeno affermano alcuni saggi cult della sociologia
attuale, a cominciare da “La fine degli uomini” bestseller della femminista americana
Hanna Rosin, che annuncia appunto l’irresistibile ascesa delle donne. E non importa se le
apparenze dicono esattamente il contrario, e cioè che lui, il maschio Alfa, continua a
detenere tutto il potere del mondo: il 97% dei miliardari, nella statistica di Forbes sono
maschi, così come il 95,2% degli amministratori delegati e il 92,8% dei capi di stato.
Quello è il mondo dei pochi eletti. Basta invece scendere un po’ di livello, entrare in una
scuola o in una università pubblica, per accorgersi di quanto le cose stiano cambiando. In
Italia ad esempio le laureate sono oggi il 60% contro il 40% dei laureati, i loro voti finali
sono di due punti maggiori rispetto a quelli dei colleghi maschi (103 contro 101),
frequentano più tirocini e stage, e conquistano, ad esempio, molte più borse di studio.
I maschi arrancano invece. Fin dalle scuole primarie. Pessimi voti e curriculum universitari
mediocri. Ma non è soltanto questo. Il sesso forte diventerà “The weaker sex”, cioè il
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sesso debole (questo il titolo del settimanale inglese), perché le ragazze, meglio istruite,
già abituate (o costrette) a pensare in modo multitasking, non solo sanno già affrontare la
complessità, ma pretendono parità nella coppia e nella famiglia. Milena Santerini insegna
Pedagogia all’università La Sapienza” di Roma. «È vero, le ragazze studiano di più, hanno
voti più alti, e stanno recuperando, a fatica, il ritardo nelle materie logico matematiche, che
colpevolmente la scuola continua a considerare più adatte ai ragazzi che a loro. Non mi
piace parlare di guerra dei sessi, ma vista la velocità con cui le donne bruciano le tappe, è
probabile che almeno nel nostro mondo occidentale i maschi potrebbero ritrovarsi a
rincorrerle... ». Bisogna infatti distinguere tra le generazioni. Gaia Belletti ha 20 anni,
studia Scienze Politiche, e insieme ad un gruppo di amiche e coetanee ha fondato
“Ipazia”, uno dei tanti micro collettivi universitari dove le ragazze hanno ricominciato a
discutere di se stesse e di un femminismo riveduto e corretto. «Sesso debole, sesso forte?
Questo linguaggio appartiene al secolo di mia madre, noi non ragioniamo così. Tra i
giovani non ci sono differenze o discriminazioni nell’accesso alle professioni, negli studi, o
nelle relazioni. Non ho mai pensato che un maschio possa essere superiore o inferiore a
me in qualcosa... Siamo semplicemente diversi. I problemi arrivano dopo. Quando con gli
stessi titoli una di noi viene pagata meno di un uomo. O ti viene chiesto chiaramente di
non restare incinta se vuoi continuare a lavorare...».
La simmetria nelle relazioni si infrange dunque contro la disparità economica. Ambito nel
quale il sesso debole era e resta quello femminile. In Italia a parità di incarichi un uomo
(dati Eurostat) viene ancora pagato il 7,3% in più di una donna, nonostante ormai nel
nostro paese ci siano 2 milioni e 400mila donne-capofamiglia, ossia uniche portatrici di
reddito, breadwinner secondo l’espressione anglosassone, “cercatrici di pane”.
Contraddizioni attuali che dovrebbero (speriamo) affievolirsi negli anni a venire. Non tanto
però, suggerisce laconico l’ Economist per la conquista reale di un equilibrio tra i generi,
ma semplicemente perché i maschi resteranno indietro, «incapaci di allinearsi al mondo
che cambia». In particolare nelle classi meno abbienti e più povere. Inadeguati, appunto.
«Sono stato messo in mobilità a 45 anni e la mia vita è andata in pezzi — scrive Maurizio
su uno dei blog di padri separati — Ero un amministrativo, con un buon inquadramento,
uscito dall’azienda nessuno mi ha più voluto. E la mia disoccupazione ha travolto anche la
mia famiglia».
Claudia Parzani, avvocato, unica partner italiana del prestigiosissimo studio internazionale
“Linklaters”, mamma di tre bambine, è presidente di “Valore D”, associazione nata per
sostenere la leadership femminile nel nostro paese. «Noi paghiamo uno storico ritardo.
Spesso dico alle mie figlie che sono nata nel 1971, anno in cui finalmente alle donne
venne data la possibilità di fare i vigili urbani... Ma il tempo si è messo a correre, basta
guardare le ragazze all’università, o il numero crescente di donne ai vertici delle aziende.
Ed è la creatività femminile che oggi viene richiesta, la nostra duttilità nell’affrontare
problemi complessi».
«Il punto però — aggiunge Parzani — è che tutto questo non è ancora abbastanza
riconosciuto in termini di stipendi e carriere». Nonostante le profezie dell’ Economist il
mondo del lavoro, anche a livello medio, è ancora saldamente in mano maschile. «Parlare
di “fine dell’uomo” mi sembra francamente eccessivo. Quello che vedo, invece, è la
richiesta da parte delle giovani donne di politiche che le sostengano sia sul fronte del
lavoro che su quello privato. Non a caso le aziende più innovative puntano proprio sui
servizi di welfare».
Carmen Leccardi concorda in parte con la tesi dell’ Economist.
«Fine dell’uomo medio? Se parliamo di professioni elementari, di lavoro fisico, sì, non c’è
dubbio, i maschi sono destinati a subire forti penalizzazioni. E le donne invece, abituate a
vivere e risolvere mille cose insieme, sapranno impossessarsi, speriamo, delle professioni
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future. Purché però queste eccellenze femminili vengano valorizzate». Un traguardo,
ammette Leccardi, che sembra francamente lontano. «Se pensiamo a quello che è
successo alla Sapienza di Roma, quello scandaloso concorso di bellezza con il Rettore
che dava i premi, ci rendiamo conto di quanta strada ci sia da fare. Ma è sul fronte
esistenziale che già oggi si vede la differenza. Negli anni della crisi i maschi sono entrati in
depressione e le donne invece hanno assunto il ruolo di capofamiglia...». Il sesso debole è
diventato forte. E viceversa.
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CULTURA E SPETTACOLO
del 08/06/15, pag. 20
Caserta, Reggia chiusa e migliaia fuori in
coda interviene la polizia
Assemblea contro i venditori abusivi nel giorno dei musei aperti
“Vergogna, ci hanno lasciati tre ore sotto il sole senza avvisarci”
ANTONIO FERRARA
CASERTA .
Un gruppo di pensionati dell’esercito si ripara all’ombra degli alberi che fiancheggiano
l’emiciclo davanti alla Reggia di Caserta. Sono accaldati, qualcuno compra una bottiglietta
d’acqua da un ambulante. Più in là, mamme con bambini cercano riparo all’afa dal lato
della Flora, mentre i papà si mettono in fila sotto il sole per conquistare il biglietto
d’ingresso. Gratuito, perché ieri, come in tutti i monumenti statali d’Italia, l’entrata era
libera grazie alla “Domenica al museo” voluta da ministro dei Beni culturali Dario
Franceschini. Ma di entrare non se ne parla. I cancelli principali della Reggia e l’ingresso
secondario di via Giannone sono rimasti chiusi fino alle 11 per un’assemblea sindacale
convocata dalla Uil Pubblica amministrazione e dall’Ugl per «richiamare l’attenzione sul
fenomeno dei venditori abusivi». Gli stessi che fanno affari con ombrelli e cappellini tra i
turisti in fila.
Assemblea sindacale — ripetono dagli uffici della Reggia — annunciata da tempo, ma
evidentemente poco pubblicizzata se migliaia di persone si ritrovano in fila alle 8.30 del
mattino davanti al palazzo chiuso. C’è chi è rimasto in coda sotto il sole, qualcun altro ha
preferito fare un giro in città, molti sono andati via indignati. «Avevamo comprato già il
biglietto — si lamenta Luciano di Arezzo, arrivato con un gruppo di persone — ma ce ne
andiamo perché siamo stanchi di attendere, è uno scandalo, non siamo stati avvisati di
nulla ».
Rita di Napoli è arrabbiatissima: «Dovevo fare da guida a un gruppo di 15 persone, ma
loro alle 10.30 se ne dono andate per altri impegni». «Qui, alla Reggia, doveva esserci il
ministro per vedere questa situazione — denuncia Antonio che viene da Avellino — e
pensare che i parcheggiatori abusivi mi hanno anche chiesto 10 euro per lasciare l’auto».
Disagi e lunghe file, anche se non si è ripetuto il record di 17.059 ingressi dello scorso 3
maggio. Ieri i visitatori sono stati 7.998, divisi tra parco (2.007, con biglietto a 5 euro) e
apparta- menti reali (5.991, ingresso gratuito).
La tensione è rientrata quando gli agenti della polizia di Stato sono riusciti a far anticipare
alle 11 l’orario di apertura dei cancelli (l’assemblea sindacale sarebbe dovuta terminare
alle 11.30) e hanno assistito i turisti durante l’afflusso nel monumento. I sindacati di polizia
tuttavia lanciano l’allarme sicurezza e denunciano la mancanza di un presidio fisso
all’interno del monumento patrimonio Unesco. Per Giuseppe Raimondi, segretario
campano del sindacato di polizia Coisp, «non è possibile che i dipendenti della Reggia, cui
va la nostra solidarietà, debbano quotidianamente combattere contro i venditori abusivi,
mettendo a repentaglio la loro incolumità senza alcuna tutela». Di qui la richiesta al
questore di Caserta Francesco Messina di «incrementare l’organico e aprire un presidio
fisso di polizia con nuovi agenti provenienti da altre sedi a tutela dei visitatori che
quotidianamente affollano la Reggia». Il sindacato di polizia spiega che basterebbe
«anche un camper per il momento, come si fa a Roma e in altre grandi città d’arte » e
ripete la richiesta di «rafforzare il personale in Terra di lavoro». Per la Questura «così
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come avviene tutti i giorni, davanti alla Reggia era in servizio personale della polizia di
Stato che ha provveduto a rassicurare i tanti turisti in attesa dell’apertura dei cancelli ». La
sesta “Domenica al museo” del 2015 ha fatto registrare 19.614 visitatori agli scavi di
Pompei, dove ha retto il sistema di ingresso a fasce orarie: cancelli chiusi alle 12.15 per la
prima parte della giornata, con i primi 14mila ingressi, e riapertura poco prima delle 14.30.
Nessun grande assembramento, flussi piuttosto regolari, perché in tanti si sono organizzati
per tempo. Per il soprintendente di Pompei Massimo Osanna «la situazione è tutto
sommato sotto controllo». Buona la presenza a Ercolano, con 3.352 ingressi, al Museo
archeologico nazionale di Napoli (3.500) e a Paestum, con circa 2.000 biglietti staccati.
del 08/06/15, pag. 22
Gran finale con Ben Jelloun, Sepúlveda e Ivano Fossati tra primavere
arabe, Podemos e la nuove sfide dell’Europa
Decine di migliaia di persone nella quattro giorni del festival del nostro
giornale Per ripensare il mondo e vedere un futuro oltre la crisi
Tutto esaurito
L’abbraccio di Genova alla Repubblica delle
Idee
MASSIMO CALANDRI
GENOVA
UNA corrente di idee e di emozioni che si sono riprodotte come per contagio. Un fiume di
pensieri e di persone che anche ieri ha percorso fino a sera le antiche sale del Ducale, il
Palazzo della Borsa, il teatro Carlo Felice e piazza Matteotti. I luoghi che per quattro giorni
hanno ospitato la Repubblica delle Idee e i suoi ottanta eventi, radunando decine di
migliaia di spettatori e amici del nostro giornale.
Il festival, giunto alla sua quarta edizione, si è chiuso con un gran finale cominciato dal
mattino — alle 10 nella sala Minor Consiglio non si riusciva più a trovar posto per ascoltare
l’intervento di Vito Mancuso — e continuato fino all’ultima battuta sul palco di Ivano
Fossati, intervistato da Ernesto Assante. “Ripensare il mondo” è possibile. E allora si
riparte da Genova e da un affetto, da una voglia di ascoltare e comunicare. Con tutti i
protagonisti della cultura, dell’arte, dell’imprenditoria e della politica che si sono alternati
sul nostro palco.
Ieri l’applauso più forte è stato tributato ad Eugenio Scalfari. Ma grande attenzione ha
suscitato anche Luis Sepúlveda, collegato via Skype: «Pode- mos è diverso dal
Movimento 5 stelle», ha spiegato alla platea. O il confronto tra il premio Nobel per la pace,
Tawakkul Karman, con Bernardo Valli — che ha fatto una precisa lettura della crisi araba
dopo l’invasione Usa dell’Iraq — e Francesca Caferri. «Le donne devono presentarsi come
leader e non come vittime. Alla fine le primavere arabe vinceranno », ha detto l’attivista e
politica yemenita.
Sempre ieri, le imperdibili vignette di Altan scorrevano una dopo l’altra sul grande schermo
del Minor Consiglio, commentate dal disegnatore e da Adriano Sofri. Niente copione, tutto
improvvisato: «Altan è la persona più laconica che io conosca: quindi questo dialogo corre
il serio rischio di trasformarsi in un monologo», ha avvertito l’altro. Invece no. I due hanno
dialogato, il pubblico non voleva più lasciarli andare via.
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Sono state quattro giornate solari, per la città e Repubblica. Sotto la gigantesca “R” in
piazza Ferrari, il cuore del capoluogo ligure. Con l’entusiasmo dei tanti studenti che hanno
visitato la “Casa” allestita all’interno del Ducale per scoprire come nasce il giornale, le
affollatissime riunioni di redazione e i collegamenti con la sede di Roma. I concerti fino a
tarda notte, quello di Paolo Conte e quello di Marco Mengoni, con la gente che riempiva
tutta la piazza e via San Lorenzo fino al porto. Tra le immagini che saranno ricordate di
questa edizione genovese, la risate con Claudio Bisio e Michele Serra che parlano di padri
e figli, l’emozione per l’orazione civile di Roberto Saviano, l’appello appassionato di
Alessandro Baricco per una scuola davvero a misura di studente, le narrazioni del futuro
spiegate da Christian Salmon, i sentimenti umanistici del nuovo secolo raccontati da
Amélie Nothomb, l’India vista da Niccolò Ammaniti, l’attenzione e la curiosità per gli
innovatori di Nwex presentati da Riccardo Luna. Quattro giorni di riflessioni, ironia,
passione, giornalismo e spettacolo. Sì, si può ripensare il mondo. E ripartire da Genova.
del 08/06/15, pag. 22
IL DIALOGO / GUSTAVO ZAGREBELSKY E MARCO REVELLI
“Il vero nemico? La rassegnazione”
GENOVA
«È UN mondo fuori misura, e non possiamo continuare a starci dentro». Non in questo
modo. «Perché la finanza ha fagocitato la politica, trasformandola in un semplice
strumento esecutivo». Gustavo Zagrebelsky e Marco Revelli hanno dialogato per un’ora e
mezza, molto più del previsto, ma il pubblico che affollava la sala del Maggior Consiglio
avrebbe voluto ascoltarli ancora. Tra il giurista e lo storico, incalzati da Marco Damilano, è
stato un emozionante inseguirsi di riflessioni. Secondo Zagrebelsky, «il dominio della
tecnica associata all’economia ha cancellato l’epoca dei limiti, dei confini, e consacrato il
potere». Il Dio finanziario. E la rassegnazione: «Il venir meno dei confini diventa
corruzione, dà insignificanza al valore delle cose: la Terra non è più Madre ma un campo
di battaglia, continuamente stuprato; gli interessi di pochi prevalgono sul bene comune; la
sensibilità che ci portava a scandalizzarci di situazioni subumane e sovrumane, si è persa:
viviamo tranquillamente consapevoli che milioni di persone muoiono di fame per colpa di
interessi particolari, siamo assuefatti a che un centinaio di “famiglie” monopolizzi tre
miliardi di persone».
Revelli ha denunciato lo «spaventoso capitalismo finanziario odierno » figlio della terza
rivoluzione industriale: quella informatica. «Si è persa l’orizzontalità di destra-sinistra a
scapito della verticalità tra chi sta nell’empireo dei cieli finanziari e chi nell’inferno della
terra. Il potere gestionale e decisionale della politica è scomparso». Così si assiste al
paradosso di Atene, dove «l’oligarchia europea (non elettiva) decide della Grecia a
prescindere da quello che la Grecia ha deciso: e ordina al governo greco di fare male al
proprio popolo». E in Italia? “Siamo un caso da studio degli effetti della globalizzazione
sulla politica. Il nostro capo del governo è campione di riduzione dei tempi del potere
legislativo e di esasperazione dei poteri dell’esecutivo», risponde lo storico. Per Gustavo
Zagrebelsky, «le vere dimensioni politiche dell’ordine globale sono nell’empireo: i governi
le eseguono e fanno polizia interna, dove per buon governo si intende quello fedele». È un
mondo destinato ad implodere, come tutti i grandi imperi: «Perché ha la pretese di imporre
l’uniformità», spiega il giurista. «Quando si comincia a dire che degli Stati possono fallire,
si è molto lontani dall’idea originale: si pensa agli Stati come a della spa. Viviamo in un
tempo in cui le alternative non esistono più, o sono bollate come impossibili». ( m. cal.)
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