Failler 20.qxp - Robin Edizioni

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Failler 20.qxp - Robin Edizioni
I
La casa si trovava a Rennes, in una piccola via dimenticata fra due viali, un po’ in disparte da una passeggiata
che fiancheggia le sponde della Vilaine, il fiume costiero
che attraversa il capoluogo della Bretagna prima di gettarsi nell’Atlantico, non molto lontano dalla Loira, la sorella
maggiore.
Era piovuto molto i giorni precedenti e mai come allora la Vilaine si era meritata il suo nome: i flutti trasportavano un’acqua limosa, come se tutti gli allevatori di maiali, da Vitré a Châteaubourg, quel giorno si fossero messi
d’accordo per spurgare le loro concimaie.
Perché i fiumi dell’Ille-et-Vilaine avevano nomi così
poco allettanti? La Rance, la Seiche, la Vilaine... non un
granché!
L’Aven, l’Ellé, la Laïta nel sud del Finistère suonavano decisamente più poetici.
Il quartiere un tempo doveva essere stato elegante; ora
sapeva di trascurato. Molte residenze avrebbero avuto bisogno, per ritrovare il lustro perduto, di una bella ripulitura delle facciate, e soprattutto di operai che non recalcitrano davanti alla fatica, né lesinano sull’intonaco.
A quelle case padronali, come alle vecchie civettuole,
rimaneva solo l’arroganza di essere state belle, un giorno.
Gli agenti immobiliari dovevano guardarle come un avvoltoio nei film western guarda un futuro cadavere, aspettando con pazienza che finissero nella loro scarsella per
cancellarle dalla carta geografica a beneficio di conigliere
di lusso per dirigenti facoltosi.
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JEAN FAILLER
Mary Lester fermò la Twingo nel bel mezzo di rue Liothaud ed esaminò con circospezione la casa in cui la stavano aspettando: due piani in un pretenzioso stile rococò,
con un tetto spiovente dove lucernari di zinco scolorito
dovevano dare luce a camere per la servitù, finestre ad arco a concio di pietra e ghiere di mattoni verniciati, una
porta d’ingresso a due battenti che si apriva su una specie
di piccolo portico con piastrelle bianche e nere.
Sopra il portico, un balcone cinto da un corrimano su
colonnini di cemento con l’intonaco scrostato. Un rosaio
rampicante dalle lunghe estremità artigliate disputava lo
spazio alle foglie verde scuro, fitte e lucide, di un’edera
rampante.
Le finestre del piano terra, velate da tendine grigiastre,
erano difese da persiane metalliche da cui colavano lacrime arrugginite. Nessuno doveva averle chiuse da un quarto di secolo e sarebbe stato inutile cercare di serrarle.
Sul muro, sotto la buca delle lettere, un cartello di sghimbescio annunciava: Camere per studenti.
Mary Lester si chiese che cosa ci fosse venuta a fare in
quell’inferno. Scese dall’auto, chiuse la portiera senza farla sbattere e si avvicinò con circospezione. Il caso, se di caso
si trattava, non la ispirava affatto.
Era venuta fin lì perché la voce della sua interlocutrice, al telefono, le era sembrata patetica.
Patetica... chi nel 2002 si preoccupava per una voce patetica? Chi, se non Mary Lester?
Tirò su un pomello di ferro arrugginito che pendeva da
una catenella e si udì un tintinnio di campanella provenire dall’interno della casa. Poi la porta si socchiuse e apparve un viso lunare; uno sguardo sospettoso si posò su
Mary.
L’esame durò qualche istante, poi la porta si aprì ancora un po’; Mary vide allora per intero la padrona di casa.
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FORZE OSCURE
Era una donna di età indefinibile, infagottata in un abito grigio. I capelli, di un biondo artificiale, avrebbero avuto bisogno dei trattamenti di un artista del capello.
Si era truccata in malo modo, come un Pierrot che si
sia infarinato il viso prima di incipriare guance e mento di
un rosa troppo acceso; quanto alle labbra sottili, sembravano enormi tanto lo scarlatto del rossetto, applicato alla
bell’e meglio, aveva sbavato, disegnandole una bocca da
clown. Le mancava solo un naso finto dello stesso colore
per far ridere i bambini.
Le sopracciglia, a forma di accento circonflesso, erano
state tracciate con la matita nera grassa...
Sì, la signora Florence de Trébédan, visto che di lei si
trattava, era patetica.
Ma aveva una voce, la signora de Trébédan, una voce
calda e grave, una voce adatta ad annunciare i voli a lunga
percorrenza in un terminal di aeroporto ed, eventualmente, far sciogliere il cuore di Mary Lester.
– È per una camera? – le chiese.
– Ehm, no – disse Mary – mi ha telefonato lei, sono Mary
Lester.
– Ah! – disse la signora de Trébédan mettendosi la mano sul petto. – È lei...
Mary ebbe l’impressione che fosse sorpresa, eppure era
stata proprio la signora a supplicarla di venire.
La signora de Trébédan ruotò su se stessa, invitando
Mary a entrare.
– Si accomodi pure!
Mary la seguì in un’anticamera buia, con le pareti rivestite a metà da boiserie lavorate che sapevano di cera.
– Non la aspettavo così presto, come ha fatto a venire
così in fretta?
– Ci sono solo duecento chilometri da Quimper a Rennes – disse Mary – e il traffico era molto scorrevole. Giusto qualche camion sulla superstrada...
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La signora de Trébédan disse premurosa:
– Da questa parte, prego. Desidera una tazza di tè? Mi
alzo presto e, di solito, ne bevo un po’ a quest’ora.
Per di più, si atteggiava a duchessa! Del resto, forse lo
era...
Un’ampia scala di un legno scuro quanto quello che
decorava le pareti portava al piano superiore. Una porta si
apriva sotto la scala. La signora de Trébédan la tirò.
– Entri, la prego.
Poi spiegò con una certa enfasi:
– È il mio salotto privato. Lo metto a disposizione degli affittuari che vogliono ricevere.
Non precisava chi poteva essere ricevuto né quale fosse la natura di tali ricevimenti. Si sentiva che in bocca a lei
la parola evocava un certo fasto. Maggiordomi? Champagne? Pasticcini? Valzer viennesi? No! Semplicemente un
locale dove potevano starci tre o quattro persone, cosa che
non doveva essere possibile nelle camere.
– Ha molti pensionanti? – chiese Mary.
La signora de Trébédan fece boccuccia per rettificare:
– Affittuari... mi limito ad alloggiare.
– Mi scusi – disse Mary.
Si stava soppesando ogni parola. Ne tenne conto.
– Al momento non siamo al completo – disse l’affittacamere, visto che di affittacamere si trattava. – La ripresa
dell’anno accademico non è ancora completata – precisò.
– Ho solamente due studenti africani e una ragazza che sta
preparando il diploma di infermiera. Fa uno stage all’ospedale di Pontchaillou.
E in tono confidenziale aggiunse:
– Vuole diventare infermiera per bambini. È una brava
ragazza, sa!
Sospirò:
– Se solamente Jacky...
Non finì la frase ma Mary sapeva che Jacky era il figlio della signora de Trébédan, che era scomparso, e lei
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FORZE OSCURE
l’aveva fatta venire lì per ritrovarlo. Non era lungi dal
pensare che la signora considerasse l’apprendista infermiera la nuora che le ci voleva, colei che avrebbe saputo allontanare il suo Jacky dalle cattive compagnie
e, nel caso, assistere la mamma di lui in vecchiaia.
La signora de Trébédan prese una sedia attaccata al tavolo, invitando con un gesto Mary a sedersi e sparì:
– Vado a prendere il tè...
Mary si guardò intorno. La stanza, che voleva essere
un piccolo boudoir elegante, faceva pensare più al ripostiglio di un robivecchi d’un quartiere povero che a un salotto borghese.
C’erano mobili di ogni stile, di ogni epoca, accumulati senza minimamente preoccuparsi del risultato finale e
per di più impolverati.
L’unica forma di ricercatezza era stata quella di lasciare un varco in mezzo a quel caos.
Le pareti, tappezzate con una carta color blu cielo su
cui pastorelle dai lunghi abiti e con ventagli stile MariaAntonietta al petit Trianon posavano sguardi languidi su
damerini incipriati che si pavoneggiavano in mezzo a povere pecore infiocchettate, erano coperte di fotografie incorniciate vecchie di un secolo. Vi erano immortalati borghesi dall’aspetto severo, il naso appuntito e le labbra sottili, che squadravano l’obiettivo con aria di sufficienza,
vecchie dame tanto eleganti quanto seriose, bambini vestiti alla marinara in posa con il cerchio.
Tutta un’epoca!
Mary si sedette sul bordo della sedia che le era stata offerta. La signora de Trébédan ritornò, portando come il
Santissimo Sacramento un vassoio su cui una teiera d’argento stava in mezzo a due tazze e ai piattini, tutto in porcellana inglese in uno stile di fine Ottocento che si abbinava particolarmente bene alla tappezzeria.
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