Il Marocchino di Gian Filippo Pizzo

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Il Marocchino di Gian Filippo Pizzo
IL MAROCCHINO
(O, L’APPARENZA INGANNA)
La prima cosa che si fa salendo su un autobus, di solito, è di lanciare uno sguardo panoramico per
vedere se ci siano posti liberi. O almeno, fa così chi deve fare un tragitto piuttosto lungo, oppure le
persone di una certa età. Come era proprio Mary Ann.
Per abitudine, lei, pur avendo la fermata praticamente sotto casa, andava indietro fino al capolinea,
così era sicura di trovare il posto a sedere. Ma quella mattina si era trovata il bus proprio lì davanti
e, quasi automaticamente, era salita.
E, appunto, aveva subito guardato in un rapido giro d’occhi se c’erano sedili non occupati: solo uno,
e per di più di quelli scomodi, contrari al senso di marcia e che lei detestava perché ti costringevano
a guardare in faccia l’occupante del sedile di fronte. Che quella mattina – evidentemente doveva
essere una di quelle giornate sfortunate – era addirittura un marocchino.
Rimase solo un attimo indecisa (in una autobus più affollato avrebbe perso il posto) poi andò a
sedersi, con un’espressione che si augurava fosse un’aria di aperta sfida nei confronti del
marocchino. Oh, sapeva bene che quell’espressione non si usava più, che adesso si diceva
“extracomunitario”, ma lei era una di quelle persone che non hanno paura delle parole. Non capiva
perché adesso si dovesse dire “nero” invece di “negro”. D’altra parte, non erano gli stessi nord
africani che si qualificavano “marocchini” quando ti suonavano il campanello di casa per venderti
qualche sciocchezza di cui nessuno ha bisogno? Magari erano libici o tunisini, venivano dall’Egitto,
dalla Somalia o dal Libano, ma invariabilmente al “Chi è” da dietro la porta rispondevano “Zono un
marogghino, zignora”.
Mentre rifletteva su queste manifestazioni di stupidità della società, osservava il suo dirimpettaio;
anzi, più che osservarlo si sarebbe detto che lo controllava, quasi temendo chissà quali nefande
azioni. Non era così giovane come la maggior parte dei venditori ambulanti, e soprattutto era ben
vestito.
“Non è un vu cumprà,” pensò, “non ne ha il portamento sciatto. Sembrerebbe quasi un uomo
d’affari, o magari semplicemente un impiegato, se non avesse la pelle così scura.” Naturalmente a
Mary Ann, americana di origine teutonica, sembravamo già piuttosto scuri gli italiani e gli altri
europei del Mediterraneo, figurarsi gli immigrati.
“Ma no, non è possibile, ” proseguì il suo ragionamento mentale: “chi darebbe mai un posto di
responsabilità ad uno così?” E poi, improvvisamente, l’illuminazione: doveva essere uno
spacciatore di droga, ma non un semplice pusher, addirittura un trafficante, anzi proprio uno dei
capi. O forse uno che faceva altri traffici, magari di esseri umani; uno che organizzava i barconi di
clandestini che poi entravano illegalmente nel Paese, ad incrementare la delinquenza. Oppure
(all’immaginazione non c’è limite) un trafficante di ragazze da avviare alla prostituzione…
Insomma, in ogni caso un malavitoso. “Son of a bitch,” pensò con odio, “scommetto che non ha
neanche fatto il biglietto.”
In quel momento al marocchino squillò il cellulare e lei si fece attentissima, magari avrebbe detto
qualcosa di compromettente, parlato in codice o pronunciato frasi ambigue… ammesso che non
parlasse in arabo. Ma lui si limitò a guardare il display e ripose il telefonino.
Delusa, Mary Ann si trovò a ricordare di quando era ragazzina e viveva ancora in Alabama, dove
(nonostante i tempi stessero cambiando con la politica integrazionista dei Democratici) i negri
avevano i loro autobus, le loro scuole, i loro centri commerciali, i loro quartieri residenziali e non si
mescolavano con i bianchi come avviene in Italia.
Si riscosse, era quasi arrivata alla sua fermata. Si alzò e andò a piazzarsi alla porta, notando con la
coda dell’occhio che si era alzato anche lui, come se la seguisse.
“Scusi signora, scende alla prossima?”
Restò allibita, incapace di fare un qualunque gesto. Come si permetteva quel tale di rivolgerle la
parola?
Visto che lei non rispondeva, l’uomo continuò: “In tal caso, signora, devo farle presente che non ha
timbrato il suo biglietto.”
Confusa, si rese conto che era vero, stringeva ancora in mano il biglietto che aveva dimenticato di
obliterare, persa nelle sue elucubrazioni razziali. “Oh, shit!” pensò, ma subito la rabbia prese il
sopravvento: “Come ti permetti di rivolgermi la parola, sporco negro clandestino?”
La vettura era ormai quasi vuota, il centro città era già passato, i pochi passeggeri rimasti volsero lo
sguardo verso chi aveva quasi urlato quelle parole. Entrambi avevano gli occhi addosso, cosa che le
diede molto imbarazzo. Lui invece restò imperturbabile e rispose: “Sono un agente di polizia,
signora,” calcò sull’ultima parola, sì da farle assumere un significato tutto contrario, “e controllo
chi non ha il biglietto.” Poi continuò, con l’infinita pazienza che ha acquisito chi deve sempre
spiegare: “E’ vero che sono nato all’Asmara, ma mio padre era italiano e ho sempre vissuto in
Italia. Infatti, come può vedere, parlo l’italiano molto meglio di lei, che è chiaramente straniera.”
Lasciò che lei si riprendesse dalla sbigottimento, che realizzasse di essere lei la vera
extracomunitaria – se pure una simile consapevolezza potesse raggiungerla – e concluse.
“Allora, la paga subito la multa?”
Gian Filippo Pizzo