Untitled - Castelvecchi Editore

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Untitled - Castelvecchi Editore
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ISBN: 978-88-7615-584-0
I edizione: giugno 2011
© 2011 Alberto Castelvecchi Editore Srl
Via Isonzo, 34
00198 Roma
Tel. 06.8412007 - fax 06.85865742
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Cover design: Sandokan Studio
Cover layout: Laura Oliva
Carlo Ruta
NARCOECONOMY
Business e mafie che non conoscono crisi
A Roberto Morrione,
maestro di giornalismo, che non è più con noi
Premessa
La recessione dell’ultimo decennio, che ha colto di sorpresa la
finanza internazionale, ha prodotto shock geopolitici profondi.
Diverse economie hanno perso punti di vantaggio. Alcuni Stati
dell’Unione europea sono finiti sull’orlo della bancarotta e altri
rischiano di arrivarci. È andato giù il paradiso di Dubai. Sulla
sponda Sud del Mediterraneo, travolti da popolazioni che rivendicano mezzi per sfamarsi e democrazia, sono crollati regimi
corrotti che apparivano invulnerabili mentre l’onda della rivolta
si è estesa fino in Medio Oriente. In tutti i continenti sono in aumento la disoccupazione e le povertà. Su questo sfondo di incertezze le uniche economie che reggono sono quelle legate alla
droga, che secondo diverse fonti di ricerca coprono quasi i due
terzi dell’intero business criminale. Si tratta di un giro d’affari
abnorme, stimato in circa 500 miliardi dollari, pari al fatturato
complessivo delle prime sette case automobilistiche mondiali o,
per rendere meglio l’idea, a quasi un terzo del Prodotto interno
lordo dell’intero continente africano. Come interagisce allora un
simile exploit con il deficit di liquidità e i conti in rosso delle
economie ufficiali? E queste ultime, nel relazionarsi con gli im-
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peri criminali, in che misura possono trarne guadagni in tempi
di crisi come quelli che stiamo attraversando?
I governi occidentali, fedeli perlopiù al paradigma proibizionista, hanno rassicurato per decenni le opinioni pubbliche sui
benefici che sarebbero derivati dalle loro politiche di contrasto.
E con queste garanzie di successo gli Stati Uniti, nei cui confini
si estende il primo mercato mondiale per consumi di cocaina,
hanno mantenuto la guida dell’azione repressiva. Un canovaccio
che tutte le amministrazioni di Washington che si sono succedute hanno confermato: dalle operazioni in Perù e in Bolivia degli anni Sessanta al Plan Colombia, dall’invasione militare di Panama alla ispirazione della War on Drugs in Messico, scatenata
da Felipe Calderón nel 2006 e ancora in corso. In tutti questi decenni non si è mai voluto mettere in discussione l’assioma proibizionista. Anche l’Onu, a partire da Kofi Annan, ha fatto la sua
parte con budget di miliardi di dollari versati ai governi dei Paesi produttori di oppio, cannabis e coca per sradicare le colture
disseminate nei vari territori. Tutto questo non è però servito a
disarticolare gli imperi della droga, né a ridurre le tossicodipendenze, che in numerose regioni hanno registrato invece un trend
in espansione. In definitiva, i fatti non hanno offerto alcun riscontro al paradigma e numerose sedi ufficiali sono costrette a
riconoscere oggi il fallimento. Quali sono allora le logiche che
impediscono un reale cambiamento?
Un Eldorado nella tempesta
La forza del contante e i nuovi paradisi
Gli sconvolgimenti geopolitici degli ultimi decenni hanno
messo le ali all’impresa criminale, avendo fornito opportunità e
nuove prospettive agli affari illegali. Alcuni scenari che si sono
aperti dopo il 1989 ne danno uno spaccato, a partire dalla Russia, dove la forbice delle ricchezze ha assunto dimensioni iperboliche, pure al cospetto di Paesi di tradizione liberale. Nei decenni dell’economia pianificata l’eroina, che dilagava in Occidente, era un fenomeno lontano. Dopo il crollo del sistema sovietico tante cose sono però cambiate: l’Organizatsya, la mafia
locale, ha scoperto il narcotraffico, lungo la rotta della Mezzaluna d’Oro, che congiunge l’Afghanistan e i Paesi circostanti all’Europa, passando per il Turkmenistan, l’Uzbekistan e il Kazakistan. Ha puntato inoltre sul traffico di armi, contando sulla
dissoluzione degli apparati militari, sulla posizione di cerniera
del Paese tra Oriente e Occidente, e, ancora, sulla domanda incessante giunta dai numerosi teatri di guerra: Congo, Eritrea,
Angola, Liberia, Somalia, e così via. Uomini di affari legati ai
clan hanno dettato regole, fatto accordi con parti di Stato, fino
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al capolinea del Cremlino. Hanno preso d’assalto le economie di
base, l’industria metallurgica, il petrolio, il gas, il grande mercato immobiliare, tutto da ridefinire dopo decenni di edilizia pianificata dalle burocrazie sovietiche. E non è tutto. Dalle loro sedi di Mosca e San Pietroburgo, questi avventurieri si sono riversati lungo i continenti, mettendo radici negli Stati Uniti, nell’Oriente asiatico, in Israele, nell’Europa occidentale. Hanno alimentato trame speculative, fatto incetta di territori, animato paradisi già esistenti o in ascesa tumultuosa, come quello di Dubai,
finendo per crearne di propri, come quello di Goa, in India, dove hanno tratto a sé, con guadagni d’oro, gran parte del territorio, combinando ad arte le suggestioni della mondanità e il cash,
la forza del contante.
È solo uno spaccato appunto, rappresentativo però di un periodo complesso ed euforico che ha visto ridisegnate in ogni
parte del globo le mappe delle fortune. Non è un caso che nella
lista stilata da Forbes, degli uomini più ricchi al mondo, insieme
a personaggi discussi come Oleg Vladimirovic Deripaska, accostato alla mafia moscovita dei fratelli Cernye, e Rinat Akhmetov,
accusato dal governo di Kiev di riciclaggio e scambi con la mafia ucraina, siano entrate persone come il messicano Joaquín
Guzmán Loera, che dopo la morte del colombiano Pablo Escobar, avvenuta nel dicembre 1993 nel corso di uno scontro con il
Search Bloc colombiano, ha conquistato il fiorente mercato della cocaina degli Stati Uniti1. In definitiva, affaristi senza passato
e perfino boss criminali, in vari continenti, hanno potuto partecipare a pieno titolo ai processi finanziari, li hanno in parte sospinti, hanno corroborato un metodo, imprimendo agli scambi
velocità inconsuete, con l’effetto di radicalizzare il senso dell’azzardo. Sostenuti da potenti cartelli, numerosi paradisi offshore,
divenuti meta necessaria dei traffici fuorilegge, hanno potuto
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operare quindi al massimo, fino a dare vita, in buona misura, al
nuovo catechismo della finanza internazionale.
L’assist dei paradisi a questi traffici è stato decisivo in tutte le
parti del globo, inclusa l’Europa. Per diverse ragioni, non ultima
la vicinanza ai luoghi di produzione della cocaina, nella regione
caraibica le sinergie hanno assunto però significati particolari. È
stato stimato che nelle sole Antille olandesi, situate ad appena 50
chilometri dal Venezuela, uno dei punti di snodo delle droghe in
partenza per l’Europa, negli anni Novanta veniva riciclato circa
il 30% degli utili complessivi dei business criminali, provenienti
pure da Russia, Italia, Cina e Giappone. Per questo, le isole di
Aruba, Bonaire e Curaçao, appena 60 chilometri quadrati di terra entro cui hanno preso posto oltre 100 casinò e diverse centinaia di sportelli bancari offshore, sono divenute, non solo di nome, l’ABC delle finanze mafiose. E lo stesso è successo per altri
paradisi della regione, come Trinadad, Tobago, le Barbados e
Grenada, che, legati anch’essi all’Europa, hanno continuato a
mettere a frutto le opportunità della posizione e i vantaggi della
sovranità territoriale. Percorsi paralleli hanno seguito ancora le
isole Cayman, da cui si sono dipanate storie complesse, come
quella, finita in una colossale bancarotta, della Bank of Credit
and Commerce International, capostipite del sistema bancario
islamico2. Uno studio del «Financial Times» documenta che in
questo paradiso delle Antille, che vanta origini secolari, solo nel
1997 si sono insediate 42mila società, mentre i depositi complessivi di denaro superavano i 500 miliardi di dollari.
Nelle Cayman come altrove, nel mar dei Caraibi come in altre
regioni del globo, oceaniche e continentali, le cose sono andate
però evolvendosi. Tra le scelte adottate dagli Stati Uniti all’indomani dell’11 settembre 2001 c’è stato il Patriot Act, teso a colpire le risorse finanziarie delle reti islamiche, impedendone il ri-
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paro nelle casseforti offshore. In linea con le risoluzioni militari
di quei frangenti, l’atto è stato presentato come una crociata. I
paradisi tradizionali hanno fatto però buon viso, accettando la
firma di accordi bilaterali con gli Usa e con altri Paesi. In via ufficiale la black list, compilata di anno in anno dall’Ocse a partire dal 2002, è quindi scomparsa. E negli ultimi due anni pure
quella grigia è andata svuotandosi. Ma quali sono gli esiti effettivi? La rete internazionale del Tax Justice Network, diretta da
John Christensen, argomenta oggi, cifre alla mano, che più della metà dell’intero commercio mondiale continua a passare dalla giurisdizione dei Paesi offshore e che almeno 70 di essi sono
in grado di garantire gli standard di segretezza, sui circa 200 che
restano attivi nel mondo. Elaborando dati ricavati in parte dalle
stesse rilevazioni Ocse, i ricercatori del Tjn hanno presentato
inoltre una top ten di questi Paesi, che vede al primo posto gli
Usa con lo Stato del Delaware; poi, a scendere, il Lussemburgo,
la Svizzera, le Cayman, il Regno Unito con la City londinese, l’Irlanda, le Bermude, Singapore, il Belgio e Hong Kong3.
Il paradosso è evidente e, soprattutto, non peregrino perché
riconosciuto pure in sedi ufficiali. Non è un caso che Jean-Claude Juncker, Presidente dell’Eurogruppo, il 31 marzo 2009 abbia
messo il dito sulla piaga, affermando che «il G-20 è un organismo senza alcuna credibilità se sulla cosiddetta lista nera dei paradisi fiscali non ci saranno anche il Delaware, il Wyoming e il
Nevada, oltre che le isole remote degli Stati Uniti»4. La guerra
contro i paradisi, rilanciata dopo l’avvento della crisi globale, è,
evidentemente, solo una dichiarazione di principio, che incontra resistenze di fondo nelle stesse amministrazioni che vantano
di combatterla, spiegabili con i grovigli, le interdipendenze e le
contaminazioni che, tanto più sotto l’egida del neoliberismo, caratterizzano i business, ufficiali e offshore. E di tale stato di co-
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se hanno beneficiato i paradisi «classici». L’Ocse impone appena 12 accordi bilaterali per superare il test di trasparenza, mentre elude gli escamotage, perfino scontati in un orizzonte tanto
opaco, con cui gli impegni possono essere disattesi. Il caso delle Cayman torna emblematico. Uscito dalla lista nera, il protettorato inglese è oggi disponibile a fornire, su richiesta, il numero di licenza dei cosiddetti fondi hedge e la data in cui sono stati creati. Di fatto, poco o nulla. Con oltre mezzo milione di ospiti e una quota straordinaria di fondi speculativi, esso resta quindi una meta attraente delle finanze in nero. Per la stessa ragione
le Antille olandesi e altre isole caraibiche restano una destinazione ambita dei narcos e delle mafie internazionali. Dopo l’introduzione del Patriot Act la situazione è divenuta comunque
più fluida, perché più varia e competitiva si è resa intanto l’offerta offshore dell’Europa.
Nella vicenda dei paradisi d’oltremare il vecchio continente ha
mantenuto una parte essenziale, costituendo in numerosi casi il
retroscena da cui si tirano le fila. Così è stato sin dalla scoperta
di queste «casseforti», negli anni reaganiani, quando la dottrina
neoliberista, sostenuta soprattutto da Milton Friedman, è divenuta prassi in tutto l’Occidente. Le Cayman, le Isole Vergini, il
Jersey e altre sedi, oggi come ieri, sarebbero poca cosa se non
avessero dietro i trust inglesi e la City di Londra, che rimane a
sua volta un santuario inviolato del continente, se non il maggiore. Si tratta di un dato percepibile, difficile da porre in discussione. Si è andati però oltre, perché sempre più l’offshore degli
europei viene praticato, con buoni argomenti, dentro le mura di
casa. La Svizzera, il Lussemburgo, San Marino, il Principato di
Monaco, l’Irlanda, il Belgio e il Liechtenstein non hanno mai temuto il confronto con i loro omologhi d’oltremare: per tradizioni, livello di segretezza, affidabilità. A lungo sono stati gelosi del
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loro stile di nicchia che li ha resi diversi ed esclusivi, se non addirittura «rinomati». Negli anni Duemila tutto però è cambiato.
Il Nord Europa, Germania inclusa, sempre più ha assunto le
sembianze di un megaparadiso, aperto pure ai business delle mafie. Se ne dirà meglio nei prossimi capitoli. Le realtà offshore, in
senso lato, non sono perciò in via di sparizione o arroccate sulla
difensiva, come farebbero credere le liste ufficiali semivuote. Finendo per essere scontate e riconoscibili, si sono bensì evolute e
moltiplicate, per sciogliersi in un sistema fluido, al passo con i
tempi, compatibile con gli stessi richiami dell’Ocse.
Le vie d’oro del Myanmar
La recessione in Asia si è espressa in modo eterogeneo. Le cadute della domanda, esaltate dai crolli di Borsa di tutti i continenti, hanno frustrato in Giappone economie dal passato fiorente. Nei Paesi del Sud-Est, dal Laos al Vietnam, riavutisi dal
tracollo del 1997 con un iter espansivo che aveva raggiunto cifre da miracolo, si sono contati a fine 2009 due milioni in più di
disoccupati. Perfino India e Cina, che hanno fatto argine al crollo, con un Pil saldamente in attivo, hanno avvertito la scossa,
con una riduzione dei ritmi di crescita nel biennio clou. Le economie dell’oppio, seguendo dinamiche proprie, sono rimaste
però integre. Neppure le campagne delle Nazioni Unite, avviate negli anni di Kofi Annan, sono riuscite peraltro a disarticolarle. L’Unodc, l’ufficio antidroga dell’Onu, per anni aveva vantato risultati incoraggianti, soprattutto in Laos e in Birmania,
dove solo nel 2008 erano state distrutte piantagioni per migliaia
di ettari5. Ma lo stesso organismo ha dovuto riconoscere che nel
2009 la coltivazione di papavero da oppio ha registrato un
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boom, con un incremento del 20% delle aree coltivate e addirittura del 76% del raccolto, per il maggiore rendimento delle
piantagioni, da 10 a 15 chilogrammi di oppio per ettaro6. In
realtà, tanto nel Sud-Est continentale, sede del Triangolo d’Oro,
quanto nell’Asia Centrale, sede della Mezzaluna d’Oro, sono gli
stessi Stati firmatari degli accordi a garantire l’esistente, per i
profitti che ricavano dal business, dal traffico in senso stretto come dal riciclaggio di denaro.
Il Myanmar, che si è assunto impegni con l’Onu nella lotta al
narcotraffico in cambio di aiuti, offre una vicenda esemplare. In
questo Paese, fulcro del Triangolo d’Oro e secondo produttore
mondiale di oppio dopo l’Afghanistan, la legislazione contro le
droghe è tra le più severe del continente, mentre la prassi di Polizia lascia trapelare delitti e abusi di ogni genere. Persone appena sospettate di reati di droga possono essere arrestate, tenute in carcere senza processo, torturate dagli organi di sicurezza,
perfino uccise. È quanto denunciano da anni Amnesty International e altre agenzie per i diritti umani. Il Myanmar, sotto il regime di Than Shwe, rimane però uno dei più potenti narcostati
al mondo, perché ad essere colpiti sono di norma i traffici che
non contano e, soprattutto, quelli dei gruppi etnici antigovernativi. Per i signori dell’oppio e della guerra vicini al regime vigono invece trattamenti di riguardo. Come documentano numerosi report internazionali, è in ultima istanza la giunta militare di
Than Shwe a garantire i business della droga, e a trarne i maggiori profitti, attraverso gli apparati militari.
Lo scenario si presenta complesso. Il Myanmar, ex-Birmania,
riunisce sette divisioni amministrative e sette Stati, entro cui vivono otto etnie che reclamano a vario titolo l’indipendenza. Da
molti decenni è attraversato quindi da scontri e tentativi insurrezionali, da cui sono scaturite almeno venti milizie. Il maggiore
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focolaio di rivolta è andato manifestandosi nella regione orientale, dove si concentrano le maggiori estensioni di terra coltivate a papavero, e soprattutto nello Shan, dove la guerriglia indipendentista condotta dallo Shan State Army-South, guidato dal
colonnello Yawd Serk, ha sempre rifiutato il cessate il fuoco. Per
contenere l’urto di questo esercito di circa 10mila uomini bene
armati, il regime di Than Shwe ha adottato misure particolari.
Oltre che i propri apparati, ha deciso di porre in campo un’altra milizia etnica, l’United Wa State Army, ala militare del United Wa State Party, formatosi dopo il crollo del Partito comunista nel 1989 nei territori orientali di etnia Wa. Da quando ha firmato il cessate il fuoco, questa formazione coopera alle operazioni militari del regime birmano nello Shan, con compiti di
contro-guerriglia. In cambio di cosa? L’Uwsa, forte di 30mila
uomini, è divenuto, con il placet del regime e la cooperazione
dei servizi di sicurezza, il maggiore produttore di oppio ed
esportatore di eroina della regione e uno dei maggiori dell’intero Sud-Est asiatico, in sintonia con le Triadi di Hong Kong, Macao e Taiwan, che provvedono alla distribuzione internazionale
del prodotto.
Nello Shan, dove si concentra secondo gli ultimi rapporti Unodc
oltre il 90% della produzione di oppio nel Myanmar, una parte
consistente del business è in mano allo Shan State Army-South.
Dislocato nelle montagne della regione, questo esercito si serve
dell’oppio anzitutto per rifornirsi di armi, che riceve regolarmente dalla Cina e dagli Stati Uniti, per sostenersi e sostenere le
attività insurrezionali. Le cifre crescenti della produzione, in
qualche misura potrebbero dipendere quindi da necessità legate
agli approvvigionamenti. Un alto funzionario dell’Onu spiega
che «le minoranze si sentono sempre più minacciate dal governo
e usano il narcotraffico per sostenersi e mantenere il controllo
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dei loro territori»7. Sulle ragioni politiche si innestano comunque
finalità affaristiche, che nell’indipendentismo dello Shan e nell’album di famiglia dello stesso SSA-S non mancano di una tradizione, arrivata all’apogeo con Khun Sa, signore della guerra
che per decenni ha fatto le regole del Triangolo d’Oro.
Dopo aver aderito al Kuomintang, il Partito nazionalista cinese, Khun Sa, principe dello Shan, se ne allontana poco dopo per
formare una propria milizia, il Mong Tai Army, e nel 1963, su
ispirazione del governo birmano, il Ka Kwe Ye, che aveva il compito di contrastare le ribellioni dello Shan. Scoperto poi il narcotraffico, in poco tempo pone sotto il proprio controllo ampi territori della regione orientale, Shan e Wa, ed estende la sua influenza a gran parte del Triangolo d’Oro. Per questo diviene in
Oriente e in Occidente il «Re dell’Oppio». Nel 1983, passato dalla parte dell’indipendentismo, si pone a capo dell’Esercito Unito
dello Shan. Ogni anno, di concerto con le Triadi, riesce a immettere sul mercato globale fino a tremila tonnellate di oppio. Per
questo la Dea statunitense gli dà a lungo la caccia, ma senza successo. Nel 1985 Khun Sa fonde il proprio esercito con un’altra
milizia, il Consiglio rivoluzionario della terra Tai guidato da Moh
Heng. Nel 1989 viene accusato dagli Usa di aver cercato di introdurre negli States mille tonnellate di eroina. Ma non si perde
d’animo. Propone al governo americano l’acquisto dell’intera
produzione per impedire che finisca sul mercato dei narcotici.
Ancora una volta riesce a evitare la cattura. Nel 1996 il signore
della guerra si arrende al governo, per averne la protezione.
Muore nel 2007, vecchio e ancora potente. Non ha lasciato tuttavia il vuoto e viene ricordato come un mito orientale.
In definitiva, gli attori principali del narcotraffico birmano,
cuore nevralgico del Triangolo d’Oro, sono tre: lo Shan State
Army-South di Yawd Serk, l’United Wa State Army e, dietro
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questa milizia, i generali e i servizi segreti di Than Shwe. Ma non
sono soli. Una quota non indifferente dell’eroina prodotta e raffinata negli Stati Shan, Wa e in altri a Nord, come Lahu e Kacin,
passa per una mafia chiamata White Chinese Criminal Gangs,
che di concerto con trafficanti thailandesi e con la Triade 14K,
creata da nazionalisti cinesi negli anni Quaranta, esporta il prodotto soprattutto negli Stati Uniti. Tanto l’esercito di Serk quanto l’Uwsa non possono prescindere poi dalle Triadi di Hong
Kong, di Macao e di Taiwan, che, assunta la leadership dei traffici dal Triangolo d’Oro, sono oggi una delle mafie più potenti
al mondo. Si tratta di una galassia criminale complessa, di tipo
federativo, che si irradia soprattutto da Hong Kong, dove operano 57 clan. Ma si sono portati ben oltre. Dominatori delle rotte del Pacifico e dell’Oceano Indiano, controllano il fiorente
mercato di eroina degli Stati Uniti e, in misura considerevole,
pure quello australiano. Sono presenti inoltre nel Sud Africa e
di recente si sono consolidati in Europa, dove riciclano denaro
e controllano intere filiere del contrabbando, dai tabacchi lavorati ai prodotti griffati.
Mezzaluna & narcoaffari
Tra il Myanmar e l’Afghanistan, sede strategica della Mezzaluna d’Oro, è stata una partita travagliata. Negli anni SettantaOttanta il Paese governato da Than Shwe era il primo produttore di oppio al mondo. Diversamente, per tutti gli anni Novanta è stato un alternarsi di sorpassi, fino ad arrivare a un pareggio. Il 2001 ha fatto poi storia a sé perché il divieto di coltivazione sancito dai vertici dei talebani ha segnato la quasi scomparsa dell’oppio afghano, con una riduzione del 94% del pro-
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dotto. A partire dal 2002 la competizione non ha avuto però storia. In Afghanistan, dopo un repentino scatto in avanti, è stata
una crescita costante, con un picco di oltre 8mila tonnellate di
oppio prodotto nel 2007, mentre il Myanmar ha dovuto rassegnarsi a un lento crepuscolo. Come si è detto, negli ultimi anni
i numeri del Sud-Est asiatico sono tornati a crescere, ma il divario rimane forte. Secondo i dati dell’Unodc, il Paese della Mezzaluna ha prodotto regolarmente circa il 90% dell’oppio mondiale. E pure sul terreno, in termini assoluti, il futuro non promette bene. A causa del prezzo alto di questa droga, aumentato
nel 2010 di oltre il 300%, gli esperti dell’Onu prevedono infatti un cospicuo aumento delle superfici coltivate, nelle province
di Baghlan, Faryab, Herat e altre ancora.
Anche in Afghanistan il narcotraffico è un groviglio di storie.
Lo sfondo, comune ad altri narcostati, è quello del sottosviluppo. In basso alla piramide si trovano i contadini poveri che sopravvivono con la coltivazione del papavero da oppio. Nelle fasce intermedie c’è la criminalità rurale e di provincia, che provvede alla concentrazione del prodotto. In alto stanno i key traffickers, come li chiama la Banca Mondiale: poche decine di persone in tutto che provvedono allo stoccaggio, fissano i prezzi,
controllano le fasi di raffinazione, trattano con i clan criminali
turchi, pakistani, iraniani, russi e di altri Paesi. Sono i boss autentici, che vivono nel lusso nonostante la guerra, investono all’estero, coltivano relazioni con i poteri territoriali, politici e militari. Sullo sfondo dell’occupazione statunitense, la scena del
potere si presenta divisa. Sotto la copertura del comando americano, si muove l’autorità pubblica propriamente detta, fatta
dal governo di Hamid Karzai, dai magistrati, dai governatori e
dagli organi di sicurezza. Restano influenti gli ex-signori della
guerra che, dopo aver sostenuto un lungo conflitto contro i so-
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vietici e dopo essere stati duramente colpiti dal governo islamico, dal 2002 hanno trovato posto in Parlamento. Sono infine un
potere reale le milizie dei talebani, che dopo aver perso il controllo di Kabul e di gran parte dell’Afghanistan, si sono asserragliate in varie province meridionali, in particolare nel Kandahar,
a Helmand e nel Farah. Queste milizie, che incarnano l’Islam
più acceso, negli anni del potere hanno adottato leggi molto limitative sull’oppio, per vietarne del tutto la produzione, con l’esito dell’azzeramento del 2001 di cui si è detto. Ma la vicenda,
ancora oggi, si presenta oscura.
Il traffico d’oppio è stato e rimane in realtà la principale fonte di finanziamento dei guerriglieri talebani. Già nel 2001 i giornalisti François Margolin e Olivier Weber, recatisi per cinque
settimane nel Sud dell’Afghanistan, hanno ripreso per la televisione francese tutto quel che avveniva alla luce del sole: la produzione, la raffinazione, il trasporto dell’oppio. Margolin concludeva che «la lotta contro la droga dei talebani è fatta solo di
parole»8. I traffici dell’oppio non sono evidentemente una storia
recente. Viene segnalata però una forte evoluzione. Antonio
Maria Costa in un report sull’oppio del 2009 annota: «È ormai
evidente che i gruppi antigovernativi si stanno trasformando in
cartelli del narcotraffico. I ribelli sono sempre più coinvolti nella coltivazione, nello stoccaggio, nella raffinazione e nell’esportazione»9. In alcuni cablogrammi riservati della Nato lo stesso
direttore dell’Unodc spiega inoltre che «gli insorti trattengono
volontariamente i quantitativi non immettendoli nel mercato
trattandoli come conti di risparmio»10. I riscontri degli ultimi anni sono poi decisivi. Nelle province in cui la guerriglia è più radicata la produzione di oppio è al boom. Nell’Helmand, dove i
talebani controllano ancora parti del territorio, le piantagioni
occupano 70mila ettari sui 123mila dell’intero Paese. E tutto
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questo ha avuto forti ricadute sugli Stati confinanti, in particolare sull’Iran dove si contano circa 4 milioni di tossicodipendenti. Il governo di Teheran, che dentro i confini ha scatenato
una guerra vera contro i trafficanti, ha reagito in modo pesante.
L’ambasciatore iraniano presso le Nazioni Unite, Mohammad
Khazaee, in un intervento presso l’Assemblea Generale ha denunciato i miliziani della regione e ha chiesto aiuto internazionale, sostenendo che nessuno Stato può affrontare un flagello simile da solo. Il narcotraffico in Afghanistan non sta tuttavia da
una sola parte, perché se ne servono anche altri poteri reali.
In tutto il Paese, alimentata dallo stato di guerra, dilaga la corruzione, e Kabul ne è l’epicentro. Hamid Karzai sin dagli esordi
ha ostentato di voler chiudere i conti con l’oppio. Il 17 gennaio
del 2002 ha emanato addirittura un decreto per vietarne la coltivazione, come i talebani avevano fatto un anno prima con una
fatwa del Mullah Omar. Ma se i tradizionalisti islamici, negli ultimi mesi del loro potere, avevano potuto esibire al mondo delle
cifre, il boom si è raggiunto proprio nel 2002 sotto l’egida delle
truppe statunitensi, con una produzione di oltre tremila tonnellate di oppio. Forse già allora si poteva dubitare sulla linearità
della famiglia Karzai. Sono bastati comunque pochi anni perché
venissero fuori fatti compromettenti, che hanno gettato discredito sul governo di Kabul. La vicenda di Ahmed Wali Karzai, fratello del Presidente e governatore della provincia di Kandahar ha
fatto il giro del mondo. Pare che questo notabile, secondo alcune fonti ispiratore della Kandahar Strike Force, una formazione
paramilitare sostenuta dall’Intelligence statunitense, sia uno dei
capi del narcotraffico della provincia che amministra e che abbia
interessi di questo tipo pure in quella di Helmand. A rendere la
vicenda ancora più fosca è poi una curiosa coincidenza. I vertici
della Polizia delle due province, soggette appunto al potere di
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Wali Karzai, sono stati accusati di aver coperto il passaggio dell’oppio verso l’Iran ed il Pakistan, per un giro d’affari di circa 3
miliardi di dollari l’anno. Si sospetta allora che si tratti di un unico affare. Ma se in questo caso lo scandalo ha colpito il Presidente solo di riflesso, negli ultimi due anni sono emerse storie
che lo hanno investito di persona.
Già da tempo, pure in sede diplomatica, circolavano voci di
contatti di Hamid Karzai con il narcotraffico11. E sul passato del
Presidente persisteva l’ombra di rapporti imbarazzanti, come
quello con Mohammad Qasim Fahim, nominato Ministro della
Difesa nel 2002, dopo essere stato il capo militare dell’Alleanza
del Nord. Si trattava di un signore della droga che, come segnalava la Central Investigations Agency, ancora da Ministro usava
un proprio aereo di fabbricazione sovietica per trasportare eroina. Ma nel 2010 un rapporto top secret della diplomazia americana, reso pubblico da Wikileaks, ha chiamato in causa Karzai di
persona e per fatti circostanziati. In questo report, stilato il 6 agosto 2009 da Francis Ricciardone, vice ambasciatore statunitense
in Afghanistan, si legge: «In numerose occasioni, abbiamo sottolineato con il Ministro della Giustizia afgano la necessità di mettere fine ai suoi interventi e a quelli del Presidente Karzai che autorizzavano il rilascio di detenuti prima del processo e permettevano a individui pericolosi di girare liberi o di tornare alle loro attività senza mai finire davanti a una Corte afgana». Di cosa si tratta? Dal 2007 il Presidente, in accordo con il procuratore generale afgano Mohammed Ishaq Alko, avrebbe autorizzato il rilascio
di ben 150 narcotrafficanti, detenuti nel carcere nazionale, non
ancora processati. Non solo. Nell’aprile 2009 avrebbe «perdonato» cinque poliziotti di frontiera sorpresi con 124 chili di eroina
su un automezzo statunitense e condannati a pene da 16 a 18 anni di carcere. Già in difficoltà per l’affare del fratello, Karzai si sta
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difendendo come può. E nel governo in carica non è il solo a doverlo fare perché anche il vicepresidente, Zia Masood, è stato
chiamato in causa da report riservati per aver trasportato da Dubai all’Afghanistan denaro liquido per centinaia di milioni di dollari. Cose da narcostati, evidentemente, nel pieno di una guerra.
Panorama africano
Sullo sfondo dell’economia globale, che ha aperto a impetuose colonizzazioni, i narcotrafficanti si sono mossi con accortezza, puntando alla creazione di nuovi mercati, con ogni incentivo. L’ultimo decennio ne offre una rappresentazione scenografica con la conquista dell’Africa, che nel business degli stupefacenti era rimasta a lungo marginale. In tutte le regioni del continente, in massima parte povere, si registra da oltre un decennio una domanda crescente di cannabis, che secondo il rapporto Unodc 2009 copre il 63% dei consumi continentali di droghe, e di cocaina, che ne totalizza il 20%. È una evoluzione paradossale, che spiega quanto il narcotraffico possa discostarsi
dalla «normalità» economica, riuscendo a trarre profitti pure da
situazioni al limite. I narcos latinoamericani non si sono limitati
tuttavia a fare di questo continente un mercato in crescita. Hanno fatto di più, aprendo in Africa un corridoio relativamente comodo per l’introduzione della coca in Europa. Secondo un funzionario della Drug Enforcement Administration, la Dea statunitense, dal 2007 sono stati identificati almeno nove gruppi di
narcos operanti nel continente nero, provenienti dalla Colombia
dal Venezuela, dal Messico e dall’Ecuador12. Ma come viaggia la
droga nelle nuove rotte?
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La polvere bianca proveniente in larga parte dalla Colombia,
dal Venezuela e dal Brasile, viene fatta arrivare nell’Africa occidentale soprattutto per mare. In genere vengono utilizzate navi
portacontainer e grosse barche, tipo yacht e motoscafi. Una parte minore, intorno al 20%, viaggia invece in piccoli aerei privati. I punti di approdo si estendono dalla Mauritania alla Nigeria,
da qui la coca viene fatta risalire lungo rotte marittime e terrestri fino alle coste del Marocco e di altri Paesi del Maghreb, dove viene imbarcata per la Spagna, oltre che, in misura più contenuta, per il Portogallo, l’Italia e la Francia, di solito su navi di
piccolo cabotaggio e pescherecci. E uno dei punti nevralgici di
questo traffico, che secondo l’Unodc ammonta a oltre un quarto dei quantitativi di droga destinati in Europa dal Sud America, è la Guinea Bissau, dove ogni anno arrivano dall’Atlantico e
partono per il vecchio continente decine di tonnellate di cocaina. Non si tratta di un caso. Di fronte a Bissau è situato l’arcipelago delle Bijagos, formato da 80 isole in gran parte disabitate e fuori da ogni controllo: per i narcos, i luoghi ideali per lo
sbarco della coca.
La Guinea è uno dei tanti Paesi africani in cui dilaga la corruzione, alimentata pure da una forte instabilità politica. In un rapporto redatto nel 2009 dall’U.S. Army Combined Arms Center si
legge che sono gli stessi militari, al governo, a facilitare il trasferimento dei carichi di droga nei principali mercati europei. Prima tutto avveniva in modo plateale. Ma da alcuni anni, da quando la Dea americana e altre agenzie si sono mosse, si opera con
più circospezione. Per il resto, nel piccolo narcostato africano,
che secondo alcune fonti trae dal traffico di droga il 20% del
Prodotto interno lordo, tutto continua come prima. Jean Ping,
Presidente della Commissione dell’Unione africana, ha quindi
ragione di dire che «la Guinea-Bissau, che non è più Stato, è in-
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cancrenita dalle mafie del narcotraffico»13. Nella regione il canovaccio non cambia, da Capo Verde al Ghana, dalla Liberia alla
Costa d’Avorio. Nell’intera area occidentale sbarca coca per oltre 100 tonnellate l’anno, mentre le tossicodipendenze sono al
boom14. E tutto questo preoccupa Washington, soprattutto perché il vantaggio che i narcos hanno acquisito in questi luoghi permette loro di reggere meglio le strategie antidroga adottate in
America Latina. L’emergenza è riconosciuta comunque a tutti i
livelli. «L’Africa», afferma il capo dell’Ua, «è vittima del narcotraffico. Vorremmo fermarlo, ma non abbiamo i mezzi. Gli altri
continenti devono aiutarci, perché un problema mondiale va risolto mondialmente. Ma non vogliamo che sia risolto senza di
noi, come troppo spesso si ha l’abitudine di fare. Chiediamo di
partecipare alla ricerca di una soluzione».
L’Africa non è però solo un mercato di consumo in sviluppo e
un territorio di transito. Produce infatti il 25% circa della cannabis mondiale. Questa droga viene coltivata nel Benin, in Costa
d’Avorio, nel Congo, nel Ghana e in altri Paesi. Ma il Marocco
ne è uno dei primi produttori al mondo, con l’Afghanistan e il
Messico. La regione montuosa del Rif, a Nord, a partire dal
1956, quando è stata conquistata l’indipendenza, è divenuta una
grande distesa di canapa indiana, sostenuta soprattutto dalla richiesta europea. E come i luoghi dell’oppio e della cocaina, coniuga endemicamente povertà e ricchezze. A sorreggere questa
economia sono le popolazioni contadine che traggono dalle coltivazioni solo il minimo per sopravvivere. Secondo le stime ufficiali si tratta di 96.600 famiglie, con un reddito pro capite di circa 3.600 dirham, a fronte di un Pil medio complessivo di 14.106
dirham a persona. I profitti, generati da un giro d’affari di 13 miliardi di dollari l’anno, convergono invece in poche mani. Negli
ultimi anni le leggi del governo di Mohammed VI, dettate dal-
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l’Onu, sono divenute più severe. I rapporti dell’Unodc assicurano, in particolare, che le superfici coltivate si sono ridotte del
50%. Le autorità del Paese hanno annunciato inoltre che nei primi 10 mesi del 2010 sono stati distrutti 9.400 ettari di coltivazioni, a fronte dei 50mila esistenti, e sequestrate oltre 118 tonnellate di cannabis15. La droga del Marocco rimane però tra le più diffuse in Europa, mentre viene sempre più richiesta localmente.
Il presente dell’Africa è poi la mafia nigeriana, divenuta la più
coesa su scala continentale. Particolarmente attive dagli anni
Ottanta, quando il Paese fu scosso dalla crisi del petrolio, queste gang hanno goduto nell’ultimo decennio di una rendita strategica, ritrovandosi al crocevia del narcotraffico globale. Il motivo è in qualche misura geopolitico. La Nigeria, che conta su un
territorio tra i maggiori della regione, sovrasta gli Stati del Golfo
dove sbarca la coca, mentre occupa lo stesso parallelo del Corno d’Africa, dove transitano gli oppiacei dall’Afghanistan e dal
Pakistan. E questo ha contribuito a fare la fortuna dei gruppi
criminali. Dapprima questi si sono adattati a lavori di manovalanza. Poi si sono meglio organizzati. Oggi, dietro accordi con i
cartelli latinoamericani, controllano il traffico di coca continentale, e una parte discreta di quello europeo. Controllano inoltre
una parte cospicua del traffico di eroina, che in Africa non è un
fenomeno nuovissimo. Già negli anni Ottanta le gang nigeriane
erano presenti in questo business, con compiti di intermediazione. Oggi fanno molto di più. Hanno esteso la loro influenza
nei Paesi orientali dove approdano i carichi provenienti dall’Asia, particolarmente da Afghanistan e Pakistan. Sono presenti
quindi nella distribuzione, dallo stoccaggio in Etiopia e in Kenya
alla spedizione in Europa e in altri continenti. Da report del Dipartimento di Stato americano risulta che gang nigeriane, e in
misura minore ghanesi, sono coinvolte nei traffici di eroina in
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Ohio e nelle aree di New York. L’Unodc documenta inoltre che
almeno 600 nigeriani sono stati arrestati in Pakistan dal Duemila in possesso di oppio16.
Il presente del continente è poi il disastro del Corno d’Africa,
dove la droga più consumata è il khat. Si tratta di una sostanza
stimolante, di natura anfetaminica, tratta da una pianta della regione. Riduce, come la coca, la stanchezza e lo stress. Se ne fa un
uso largo in Somalia, in Kenia, in Etiopia. La coltivazione del
khat, che costituisce per gran parte delle famiglie contadine l’unica risorsa per sopravvivere, come del resto in Kenia, in Etiopia e altrove, continua a diffondersi con ritmi ascendenti. Prova
ne è che nella sola Somalia questa droga muove un giro d’affari
annuale di circa 70 milioni di dollari, più di quanto ne registrano in bilancio gli Stati più poveri della regione. Insieme con l’eroina dell’Afghanistan, il khat continua ad alimentare quindi i
conflitti territoriali. Le ripercussioni pratiche sono devastanti,
con saldature tattiche tra clan militari, narcotrafficanti dell’oppio, reti terroristiche islamiche, mentre lo stato di indigenza e i
disagi della guerra sempre più vanno traducendosi in diffusione
dell’Aids e in violenza. Un effetto clamoroso di un simile impasto fra guerra, povertà e droghe è la pirateria del Golfo di Aden
che, dopo decenni di relativa sordina, si trova in piena recrudescenza. L’esercito dei nuovi bucanieri, cresciuto di anno in anno, con picchi recenti del 200%, conta oggi su circa duemila
unità. Ha rinnovato strategie e metodi operativi, traendo quanto gli occorre dai sequestri, ma pure dall’eroina e dal khat. È andato dotandosi inoltre di armi sofisticate, tecnologie, mezzi logistici, mettendo a frutto gli accordi che è riuscito a cucire, lungo gli anni, con i mujaheddin e i signori della guerra di Mogadiscio. Si tratta solo di uno scorcio, sullo sfondo dei conflitti dimenticati e del narcotraffico. Quanto accade nel Golfo esempli-
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fica tuttavia i caratteri di un’emergenza fuori controllo, che, come la cocaina della regione occidentale, rischia di far saltare gli
equilibri residui dell’intero continente.
La crisi in Africa ha avuto ripercussioni sociali pesanti. Il 2009
si è chiuso, come avevano previsto l’Unesco e l’Unione africana,
con milioni di nuovi disoccupati17, e il 2010, che aveva acceso delle tiepide speranze, non ha migliorato le cose. I prezzi dei beni
primari sono aumentati, con effetti che le popolazioni, già provate da piaghe ataviche, non sono in grado di fronteggiare, tanto
più nei Paesi sub-sahariani. Si è quindi intensificato il flusso dei
migranti verso l’Europa e vanno acutizzandosi le tensioni tra etnie, che si traducono in una maggiore instabilità politica. Si è entrati insomma in una emergenza che, come denuncia Amnesty International negli ultimi report, fa dell’intero continente una polveriera. Intanto è scoppiato il Maghreb, dove il sogno di un possibile miracolo economico si è interrotto bruscamente. La crisi è
arrivata con impeto, causando rincari che hanno portato i ceti popolari oltre la soglia della povertà. Di qui la rivolta sociale, a lungo latente, esplosa contro i regimi dell’area. Ben Ali e Mubarak
sono stati rovesciati. In Libia è in atto una guerra. La situazione
in tutta la regione rimane convulsa. Le economie criminali sono
quindi in movimento. Dal febbraio 2011 è tornata nevralgica la
tratta di esseri umani dalla sponda Sud verso l’Europa, e pure per
i signori della droga potrebbero aprirsi nuove prospettive.