A cent`anni da Sykes-Picot - Società Italiana di Storia Internazionale

Transcript

A cent`anni da Sykes-Picot - Società Italiana di Storia Internazionale
A cent’anni da Sykes-Picot: i confini irrisolti
Cent’anni fa, nel 1916, Mark Sykes e François Georges Picot, contraddicendo gli impegni presi
verso altri soggetti politici, al termine di trattative segrete si accordarono sulla spartizione del
Vicino Oriente, prevedendo aree di diretto controllo inglese e francese, ponendone altre sotto
controllo internazionale o sotto l’influenza dell’una o dell’altra potenza. Dopo la prima guerra
mondiale, l’accordo, con alcuni aggiustamenti che tenevano conto del mutato rapporto tra nazioni
nella fase post-bellica, divenne effettivo, e la regione venne divisa in entità statuali i cui confini non
prendevano in considerazione comuni identità etniche e religiose. Oggi quel confine – mai accettato
dal nazionalismo arabo - è stato cancellato dall’IS, e il conflitto in corso in Siria e Iraq rischia di
creare nuove frammentazioni territoriali in tutta la regione. In un primo intervento si analizzeranno i
negoziati e le discussioni che portarono alla spartizione post-bellica del Vicino Oriente. Saranno
quindi analizzati altri confini imposti dalle potenze europee che sono all’origine di dispute bilaterali
e hanno tutt’ora importanti implicazioni regionali o che sono percepite dalle popolazioni locali
come una violazione nei confronti della loro storia e cultura; tra questi, la Durand line che divide
Pakistan e Afghanistan; il confine tra India e Pakistan nelle province del Punjab e del Bengala, il
Caprivi strip in Namibia, e la frontiera tra Ghana e Côte d’Ivoire. Questi casi studio, relativi
all’Asia e all’Africa, sono incentrati sul contesto in cui è emersa e si è sviluppata una “questione
confinaria” e sulle motivazioni e percezioni degli attori statuali e non statuali delle regioni studiate.
Gli interventi sollevano inoltre questioni metodologiche inerenti alla reperibilità e all’esegesi delle
fonti e mettono in luce la complessità della storiografia.
Chair: Elisa Giunchi (Università di Milano) e Diego Abenante (Università di Trieste)
Relatori: Pierluigi Valsecchi (Università di Pavia)
Giulia Caccamo (Università di Trieste)
Cristiana Fiamingo (Università di Milano)
Diego Abenante (Università di Trieste)
Elisa Giunchi (Università di Milano)
Discussant: Alessandro Vitale (Università di Milano)
Piero Valsecchi, La frontiera Ghana-Côte d’Ivoire. Storia e storiografia di un confine
L’intervento fa riferimento alle vicende della definizione coloniale del confine Ghana - Côte
d’Ivoire e quindi della sua messa in discussione nel 1959-1970 (secessionismo del Sanwi). Letta in
una prospettiva storica di lunga durata, oltre la dimensione contingente delle relazioni fra interessi
europei nel quadro della Spartizione dell’Africa, la frontiera concordata da Gran Bretagna e Francia
nel tardo Ottocento non è che una tappa in un processo plurisecolare di rapporti fra i poteri africani
della regione. L’iniziativa europea è influenzata da queste logiche preesistenti e dal protagonismo
delle entità politiche locali nel processo negoziale fra le due potenze.
Da un lato il caso sollecita una riconsiderazione critica del luogo comune dell’analisi politica
sull’Africa post-coloniale che postula un carattere di sostanziale artificiosità – e conseguente
debolezza – dei confini odierni ereditati dal colonialismo.
Per altro verso lo studio del contesto specifico evidenzia una complessità storiografica che viene
semplicemente elusa da approcci che si limitino all’indagine delle fonti politico-diplomatiche
europee. Di questa complessità e dei problemi di esegesi delle fonti danno del resto già conto
nell’Ottocento le osservazioni dei commissari nelle procedure di delimitazione a margine dei
processi verbali d’inchiesta condotti in area (copiosi quelli di parte britannica, specie in COColonial Office, FO-Foreign Office).
Giulia Caccamo, La spartizione del Medio oriente tra gli accordi di Sykes-Picot e i trattati di
Parigi
I cent’anni trascorsi dagli accordi con cui Londra e Parigi definirono la spartizione dei territori della
Mezzaluna fertile e dell’estremità meridionale dell’Anatolia offrono l’opportunità per alcuni spunti
di riflessione, tanto più necessari ora che la destabilizzazione totale di quei territori chiama in causa
le scelte politiche del passato. Stando alla lettera del trattato, Francia e Gran Bretagna si dicevano
pronte a riconoscere uno stato o una confederazione di stati arabi “indipendenti” all’interno delle
loro zone di influenza, provvedendo al contempo a rifornire in via esclusiva i futuri governi arabi di
consiglieri politici che ne guidassero i primi, incerti passi. E’ evidente come a tanta sollecitudine
corrispondesse l’intento di negare a venti milioni di semiti la base su cui costruire un ispirato
palazzo di sogni per il loro pensiero nazionale, come ebbe a scrivere un amareggiato Thomas
Edward Lawrence dopo il suo rientro in Europa.
Tuttavia, il prevalere del punto di vista americano ai negoziati di Parigi, e il conseguente
inserimento del Medio Oriente nel sistema dei mandati, fiore all’occhiello del wilsonismo, avrebbe
potuto vanificare tutti gli accordi precedenti, lasciando spazio a un’entità nazionale araba o, più
realisticamente, aprendo le porte ad una rinegoziazione completa dei precedenti accordi, non
necessariamente a detrimento degli interessi anglo-francesi. E’ dunque in questa fase, quando cioè si
apre la discussione sulle sorti dei possedimenti ottomani in seno al Consiglio dei Dieci, e ancor
prima, nell’imminenza della disfatta turca, quando è possibile definire l’entità della vittoria alleata,
che prende corpo un assetto funzionale agli interessi economici e strategici del duopolio anglofrancese. Il difficile processo di pace con la Turchia, le inevitabili divergenze tra Londra e Parigi, la
disillusione e i primi contrasti tra gli arabi costituiscono lo sfondo di una vicenda che oggi emerge
come nodo irrisolto nel quadro geopolitico globale.
Cristiana Fiamingo, Il destino del “Dito di Caprivi” (Namibia): ovvero, delle derive d’un confine
coloniale “imperfetto”
Sebbene oggi una parte della letteratura tenda a ravvisare più le opportunità dei disagi causati dai
confini coloniali in Africa, accolti dall’OUA, nel 1964, col principio dell’uti possidetis iuris, molti
studiosi sostengono che alcuni paesi abbiano pagato un prezzo notevole nel subire passivamente
quell’assetto geopolitico allogeno. Nel tentare di misurare la relazione tra arbitrarietà dei confini e
instabilità politica è emerso come, in diverse istanze politiche violente, giochino un ruolo rilevante
il senso di soffocamento e di smembramento indotto da quegli assetti. Uno dei casi più evidenti
della legittima rivendicazione d’un cambiamento confinario in Africa è rappresentato dal cosiddetto
“Dito di Caprivi” e non tanto per quella sua forma a memento del disegno del Cancelliere von
Caprivi di congiungere il protettorato prussiano dell’Africa del Sud Ovest (Namibia) ai
possedimenti in Tanganika, ma per la storia stessa delle popolazioni che, nel corso della successiva
guerra di destabilizzazione sudafricana, con gravi rischi avevano supportato il movimento di
liberazione (SWAPO), proprio grazie alla proiezione strategica di quella lingua di terra. Ottenuta
l’indipendenza, tuttavia, indifferenza e trascuratezza son state la moneta ottenuta in cambio dal
governo dello SWAPO party, che non ha inteso mettere in discussione né quell’assetto territoriale,
né il suo sviluppo, nemmeno dopo la “Caprivi Uprising” del 1998: un tentativo di secessione da
parte dello United Democratic Party (partito locale), cui è seguita una severissima repressione
governativa e tensioni col vicino Botswana che ha accolto i secessionisti fuggiaschi. Accanto
all’analisi della questione, si intende discutere l’estrema difficoltà di una ricerca nella fattispecie, al
vaglio della letteratura esistente e del clima politico vigente in Namibia e nei Paesi che si affacciano
su Caprivi.
Diego Abenante, Nuovi confini e “state-building” in Asia meridionale: per una rilettura storicointernazionale della Spartizione
A dispetto dell'enorme mole di ricerca prodotta, la Spartizione tra India e Pakistan ha influito
marginalmente sulla letteratura sui confini. La tendenza è stata generalmente a considerare gli
eventi dell'agosto 1947 come troppo “sui generis” per l'analisi comparativa (Talbot e Singh 2012).
L'effetto è stato un curioso scollamento tra la conoscenza specialistica sulla Spartizione e la
letteratura storiografica generale, che ha allontanato l'obiettivo di una narrazione condivisa. Il
dibattito sugli accordi Sykes-Picot offe l'occasione per un nuovo filone di ricerca che ricollochi la
Spartizione in un contesto storico ampio, indagando non solo le circostanze politiche locali che
hanno condotto alla definizione dei confini nel subcontinente – particolarmente nel caso della “subspartizione” del Punjab e del Bengala - ma anche i suoi condizionamenti internazionali. Oltre ad
offrire una panoramica sullo Stato dell'arte, il presente intervento intende analizzare in quale misura
le vicende politiche internazionali - in particolare la necessità da parte degli attori internazionali di
assicurare l’autosufficienza della difesa del subcontinente - abbiano condizionato le scelte degli
attori (Britannici in primis, ma anche Congresso e Lega Musulmana) sulla definizione dei confini. Il
contributo farà specifico riferimento ai lavori delle Boundary Commissions che definirono le
frontiere delle due province nel 1947.
Elisa Giunchi, Il contenzioso sulla Durand Line e il punto di vista pakistano
Il confine tra Pakistan e Afghanistan, la cosiddetta Durand Line, fissata da un accordo angloafghano a fine ‘800, è uno dei confini “imposti” che maggiormente hanno destabilizzato l’Asia. Sin
dal 1947, anno di nascita del Pakistan, la Durand Line è stata causa di dispute tra Pakistan e
Afghanistan che hanno avuto importanti implicazioni regionali ed extra-regionali durante la Guerra
Fredda e, oggi, nel contesto del fenomeno jihadista. Dispute, queste, che si sono intersecate con altri
dissidi territoriali, in primis quello indo-pakistano sul Kashmir. La porosità del confine, lungo la
quale vivono popolazioni che condividono l’identità pashtun, è stata funzionale alla politica
regionale dei due paesi e a traffici illegali di diversa natura, ma ha anche dato vita a uno spazio
autonomo in cui nazionalismo etnico e neo-tradizionalismo religioso si fondono, rafforzandosi a
vicenda. La relazione, oltre a riassumere gli snodi cruciali della disputa bilaterale, si soffermerà
sulla percezione della questione confinaria da parte pakistana tra gli anni 1947-1956, nel contesto
del processo di state-building successivo alla Partition, e sul problema delle fonti che possono
essere utilizzate a tal fine