Brevi annotazioni sul tema del confine nell`opera di Ingeborg

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Brevi annotazioni sul tema del confine nell`opera di Ingeborg
Brevi annotazioni sul tema del confine
nell’opera di Ingeborg Bachmann
di Rita Svandrlik
Fin dall’inizio si può constatare un investimento fortemente simbolico del
tema del confine nell’opera di Ingeborg Bachmann, nata nel  a Klagenfurt, quando in Carinzia era ancora molto vicino e vivo il ricordo del conflitto confinario con la Jugoslavia all’indomani del crollo della sovranazionale monarchia austro-ungarica, e formatasi nel clima dell’esasperato nazionalismo propugnato prima e ancor di più dopo l’Anschluß dell’Austria alla
Germania hitleriana. Nella sua nota autobiografica Biographisches () l’autrice, che si è appena affacciata alla scena letteraria, imputa alla sua terra d’origine l’acquisizione di una coscienza del confine, che la porta a definire anche
la città della sua formazione culturale e artistica, Vienna, come un luogo di confine: «Fu di nuovo una casa di confine: tra Oriente e Occidente, tra un grande
passato e un futuro oscuro» (W IV, p.  ). Questo aspetto spaziale e temporale del confine rappresentato da Vienna è uno dei fili conduttori della poesia
Grande paesaggio nei dintorni di Vienna, che chiude la sua prima raccolta lirica, Die gestundete Zeit (Il tempo concesso a revoca, ). In questo testo non
compare la parola Grenze, ma una formulazione che rimanda a un preciso momento storico, quello del limes romano: l’espressione «il sentimento ebbro del
limes» («trunkenes Limesgefühl») sta per una nostalgia pericolosa del passato,
che va invece ricordato e registrato lucidamente, senza sublimazioni “ebbre”.
L’impegno alla memoria storica è il filo conduttore dell’opera bachmanniana e rimanda talvolta a una situazione attuale e concreta, come nella poesia Mezzogiorno precoce o in numerosi dei successivi testi in prosa, talvolta a
una situazione di filosofia della storia, sempre ambientata in topografie di confine, come per esempio la Carinzia del ciclo lirico Di un paese, un fiume e i laghi, la Venezia della poesia Valzer nero, la Roma del testo in prosa Quel che ho
visto e udito a Roma () o la Berlino del suo discorso di ringraziamento per
il conferimento del premio Büchner (Un luogo per casualità, ).
In particolare, nella quinta poesia del già menzionato ciclo Di un paese,
un fiume e i laghi, la parola Grenze, in sette strofe di quattro versi ciascuna,
compare sei volte: il confine politico-territoriale e i confini linguistici vengono rappresentati come qualcosa di innaturale (la natura vi si ribella) e di disumano, che può essere contrastato tramite un confronto e un fare propria la
separazione da parte di ogni singolo individuo:

RITA SVANDRLIK
Affinché niente ci separi, ognuno deve sentire la separazione
[...]
Noi però vogliamo parlare di confini,
e attraversiamo confini anche in ogni singola parola:
noi li passeremo per nostalgia
e poi saremo in armonia con ogni luogo (W I, p. ).
Nello sviluppo dell’opera bachmanniana il confine diventa sempre più un luogo e un tempo interiore da cui nasce un potente insieme di immagini e metafore. I confini, i limiti, le zone d’ombra e di passaggio devono essere resi visibili tramite una scrittura che «dice le cose oscure», come suona il titolo di una
poesia contenuta nella raccolta del .
Nella prosa della fase centrale della produzione bachmanniana il tema
della separazione e del conflitto che devono venir esperiti dal singolo nel processo di costruzione della soggettività trova la sua espressione letterariamente più completa nella breve prosa di Ondina se ne va, l’ultimo racconto del
Trentesimo anno (): l’elemento che caratterizza la figura della ninfa Ondina, l’acqua, non conosce al suo interno né limiti né confini; proprio per questo Ondina parla dell’acqua come del «confine umido tra me e me» (W II, p.
). Allo stesso tempo, il testo cerca di superare anche strutturalmente i confini comunemente posti a una narrazione, per esempio il confine della linearità, del prima e del dopo, della causalità: il testo realizza nella sua dinamica
interna il movimento oscillatorio dell’onda, con le ultime parole si ritorna all’inizio del testo, all’andarsene annunciato nel titolo risponde alla fine l’appello a venire, a tornare .
Anche gli altri racconti del Trentesimo anno sono costruiti attorno al motivo del superamento dei limiti comunemente accettati nei vari ambiti, il linguaggio, l’amore, la ricerca della verità; in una sua dichiarazione poetologica 
fatta nel periodo in cui più intenso è il lavoro a questi racconti (), Ingeborg Bachmann sottolinea l’intensa carica utopica del tema dei casi-limite
(viene usato il termine Grenzfälle), per allargare i confini del proprio mondo,
in un’interpretazione pragmatica dell’assunto di Wittgenstein «I confini del
mio linguaggio significano i confini del mio mondo» .
Perché in ogni cosa che facciamo, pensiamo o proviamo talvolta vorremmo arrivare al limite estremo. Si risveglia in noi il desiderio di oltrepassare i confini che ci sono posti.
[...] Da questa parte del confine, però, manteniamo lo sguardo rivolto a ciò che è
perfetto, impossibile, irraggiungibile, sia che si tratti dell’amore, della libertà o di ogni
pura grandezza. Nel rapporto dialettico tra impossibile e possibile ampliamo le nostre
possibilità. Conta che noi creiamo questo rapporto di tensione, grazie al quale possiamo crescere; conta che ci orientiamo verso una meta la quale, certo, quando ci avviciniamo si allontana un’altra volta (W IV, p. ).

BREVI ANNOTAZIONI SUL TEMA DEL CONFINE
Nelle sue lezioni di poetica note come Lezioni di Francoforte (-), in particolare nella lezione intitolata Letteratura come utopia, l’autrice parla della
letteratura come di un territorio che deve avere confini aperti verso il futuro,
in modo da poter rappresentare «ciò per cui il tempo non è ancora venuto».
D’altra parte, nell’opera della Bachmann si precisa la consapevolezza della necessità di rendere visibili le lacerazioni, gli strappi, le crepe, le separazioni, per esempio il Muro di Berlino (Un luogo per casualità, ); nel testo concepito per la rivista internazionale “Gulliver” () si legge:
Pensare, certo, pensare storicizzando e soprattutto pensare in modo utopico, in modo che le crepe un giorno veramente erompano, là dove devono erompere e dove si
deve manifestare il tracciato dei confini, come crepe ideologiche, se si vuole, come crepe nell’uso del linguaggio, che non riguardano solo colui che scrive, ma che riguardano lui per primo (W IV, ).
Sembra di sentire qui l’annuncio del tema del romanzo Malina (), in cui,
tra l’altro, la protagonista afferma a vari livelli la propria insofferenza per i
confini tracciati dopo il crollo della monarchia asburgica. Malina è ambientato a Vienna, nella Ungargaße; vi è inserito un testo, I segreti della Principessa
di Kagran, ambientato in un tempo in cui «non esistevano ancora i confini»,
la protagonista deve affrontare una situazione-limite, «al confine del mondo
umano», in una vera e propria discesa agli inferi.
L’assunzione del confine come dimensione interiore, che era già stato anche di Ondina (che ha molti tratti in comune con la Principessa di Kagran),
ritorna nella protagonista dell’ultimo dei testi pubblicati in vita, il racconto
Tre sentieri per il lago (); anche qui, come in Malina, viene immaginato un
territorio privo di confini: la protagonista Elisabeth Matrei e suo padre ricordano spesso il passato dello Stato asburgico; Elisabeth, una fotografa di successo che vive a Parigi e che è ritornata a Klagenfurt a trovare suo padre, fa
delle lunghe passeggiate intorno al Wörthersee e spesso rivolge lo sguardo
verso sud e verso la zona tra Carinzia, Italia e Slovenia («Dreiländereck»):
fissò lo sguardo verso il Dreiländereck, laggiù avrebbe voluto vivere, in un luogo isolato sul confine, dove c’erano ancora contadini e cacciatori e pensò inconsapevolmente
che anche lei avrebbe incominciato così: Ai miei popoli! Ma non li avrebbe mandati a
morire, provocando tutte quelle separazioni, poiché erano vissuti bene insieme, naturalmente sempre nell’incomprensione, nell’odio e nella ribellione, ma non si poteva
davvero esigere dagli uomini di farsi governare dalla ragione (W II, pp. -).
Il confronto con il passato storico viene ulteriormente approfondito grazie all’introduzione nel racconto bachmanniano dei personaggi ripresi dalla Cripta
dei Cappuccini di Joseph Roth, in particolare di Franz Joseph Eugen Trotta,
«un extraterritoriale» che non riesce più a trovare un radicamento in nessun

RITA SVANDRLIK
luogo, fino ad arrivare al suicidio; ma la protagonista Elisabeth Matrei, a differenza di Trotta, riesce ad assumere la propria estraneità, la propria Fremdheit, come destino.
In quella che Bachmann ha considerato la sua ultima poesia, La Boemia si
trova sul mare, il superamento anche dei propri confini interiori  era stato proiettato su un territorio che ha un nome e una realtà ben determinati, ma che
una lunga tradizione letteraria, iniziata con Shakespeare, ha reso un luogo dell’immaginario letterario e utopico. Pubblicata nel , La Boemia si trova sul
mare è per Ingeborg Bachmann il testo a cui più si sente legata e dal quale tuttavia potrebbe anche immaginare di togliere il proprio nome quale autrice,
perché si tratta di un regalo a tutta l’umanità :
Io confino con un parola e con un’altra terra,
confino, anche se poco, sempre più con tutto,
boemo, chierico vagante, che niente ha, che niente trattiene
dotato soltanto dal mare, che è dubbio, di occhi per la mia terra d’elezione .
Note
. Le citazioni sono tratte dall’edizione Werke (d’ora in avanti W, seguito dal numero del
volume e della pagina), hrsg. von Ch. Koschel, I. von Weidenbaum, C. Münster,  voll., Piper,
München .
. Per il superamento, da parte della frontaliera Ondina, di altri tipi di confini, come quello tra soggetto e oggetto, in particolare all’interno del discorso artistico, cfr. R. Svandrlik, Ingeborg Bachmann: i sentieri della scrittura, Carocci, Roma .
. Si tratta del testo La verità è esigibile dagli uomini, discorso di ringraziamento per il premio dell’Associazione ciechi di guerra, ottenuto per il radiodramma Il Buon Dio di Manhattan.
. Cfr. i due saggi dedicati dall’autrice a Wittgenstein, nel quarto volume dell’edizione
Werke; cfr. anche il saggio di M. M. Schäffer Ungetrennt und Nichtvereint. Grenzverläufe im
Werk Ingeborg Bachmanns, in “text+kritik”, XI, , pp. -.
. La connotazione attiva e dinamica di tale superamento è indicata dal fatto che in tutta
la poesia non viene usato il sostantivo Grenze, bensì il verbo grenzen, cfr. anche Ch. Ivanovic’,
Böhmen als Heterotopie, in Werke von Ingeborg Bachmann: Interpretationen, hrsg. von M. Mayer,
Reclam, Stuttgart , pp. -.
. Cfr. le annotazioni trovate nel lascito, citate nel volume di S. Weigel, Ingeborg Bachmann.
Hinterlassenschaften unter Wahrung des Briefgeheimnisses, Paul Zsolnay-Verlag, Wien , pp.
 e .
. Traduzione di A. Raja, in L. D’Eramo, G. Sobrino (a cura di), Europa in versi. La poesia
femminile del ’, Ventaglio, Roma , modificata per poter mantenere “confinare” quale traduzione di grenzen; la traduttrice aveva invece scelto “accostarsi”.
